di Daniele Ventre
1.
Liberaci, signore, dalle astuzie
di tecnici grifagni e sofi idioti
lesti a insegnare fra genie d’iloti
che in principio era solo la balbuzie.
di Daniele Ventre
1.
Liberaci, signore, dalle astuzie
di tecnici grifagni e sofi idioti
lesti a insegnare fra genie d’iloti
che in principio era solo la balbuzie.
di Domenico Talia
Se ci si aspetta di leggere un libro di viaggio che racconti le bellezze del Bel Paese è meglio non aprire “Un viaggio in Italia” di Guido Ceronetti. Il libro contiene il corrosivo resoconto del viaggio in Italia che lo scrittore fece circa trent’anni fa, dal maggio 1981 all’aprile 1983. Ceronetti partì per il suo tour italiano su invito di Giulio Einaudi, l’editore torinese che conosceva il suo stile di scrittura indignato e satirico. Einaudi di certo non si attendeva di leggere descrizioni edulcorate delle bellezze italiche ma resoconti taglienti dei disastri che l’era del consumismo aveva fatto sull’Italia e Ceronetti, credo senza far una gran fatica, lo accontentò con un reportage antiretorico, fazioso ma pieno di passione, quasi un’inchiesta, non necessariamente obiettiva ma intelligente e unica.
Com’era facile attendersi, nel suo libro Ceronetti non racconta un’Italia da cartolina, ma un paese e un paesaggio in cui la modernizzazione ha creato disastri anche se per esso la speranza non è del tutto perduta. Ceronetti scelse come titolo per il libro l’apparentemente scontato “Un viaggio in Italia”. Ma paradossalmente aggiunse l’articolo indeterminativo per determinare meglio e distinguere la sua opera dai tanti resoconti di viaggio in Italia che fino ad allora erano stati scritti, a partire dal famosissimo “Viaggio in Italia” di Johann Wolfgang Goethe.
Guido Ceronetti, torinese del 1927, è un artista la cui innata creatività e la voglia di provocazione gli hanno fornito mille interessi e mille facce: scrittore, giornalista, drammaturgo, traduttore dal latino e dall’ebraico antico, filosofo e giornalista. Nonostante la sua notevole produzione letteraria, oggi Ceronetti vive con il sussidio previsto dalla «legge Bacchelli» che aiuta le personalità di chiara fama che si trovano in precarie condizioni economiche. In questo diario di viaggio Ceronetti non si fa prendere da sentimentalismi o da visioni romantiche da viaggiatore del Grand Tour. Racconta un’Italia in cui convivono bruttezze paesaggistiche ed esperienze poetiche al tempo stesso. Lo fa per tutte le regioni che visita e dunque anche, in fondo allo stivale, per la Calabria. Lo scrittore visita i monumenti ma anche i cimiteri. Lo fa a Lamezia ricopiando pure le iscrizioni delle lapidi e facendone l’analisi logica. Riporta le tantissime scritte sui muri che vede nelle città, e si esercita nei tirassegni ambulanti o con le corna del toro di plastica – come accade a Reggio Calabria in un piccolo lunapark in piazza – come farebbe un ragazzo che deve trovare un passatempo con il quale trascorrere il sabato sera.
Durante il suo viaggio italiano, Ceronetti passa due volte dalla Calabria. La prima volta si ferma a Reggio Calabria, mentre nel secondo viaggio visita Lamezia Terme. In ambedue i casi, le caratteristiche della scrittura di Ceronetti e i suoi occhi descrivono i paesaggi reggini e lametini con la stessa passione, la stessa faziosità e lo stesso sdegno implacabile con cui descrive anche le altre sue mete italiane visitate durante i due anni di viaggi.
A Reggio, Ceronetti in un “lunaparkino” fa la prova della forza con le corna di un toro di plastica e quando il marchingegno lo dichiara mezzo uomo, parola che a Reggio assume un significato ancora più grave di quello normale, Ceronetti ne approfitta per dichiararsi anche peggio: un quarto d’uomo perché, dice lui, non riesce ad abituarsi alle bruttezze del paesaggio. Reggio non gli piace, non gli piacciono il suo corso che lui chiama “via americana” che non arriva in nessun posto, non gli piace Reggio di notte, i suoi rumori feroci. Ma mentre Ceronetti ha parole di fuoco per il paesaggio reggino – tranquilli, lo stesso accade in quasi tutte le città d’Italia che lui visita – riesce a spendere parole di miele per il contenuto del Museo di Reggio, per i resti di infinita, anche se mutilata, bellezza. La Kore, i Pinakes del tesoro della Mannella di Locri, e i tanti reperti che gli fanno dire: “Con una di queste testine sul mio tavolo, gli occhi nei suoi occhi fissi, l’annuncio che sta già fischiando il colpo di balestra nucleare destinato alla mia casa mi lascerebbe indifferente.” Lo scrittore ammira e si sublima con i resti scavati a Medma e naturalmente visita anche i Bronzi di Riace. Il suo racconto delle orde di corpi di carne che girano attorno a quei due corpi di bronzo perfetti e ideali è un capolavoro di estetica e antropologia. Per Ceronetti è l’occasione per esaminare la differenza tra forma ideale (i Bronzi belli e perfetti) e la forma reale (i visitatori affannati e sudati), distanti inesorabilmente tra loro. Il cinismo distruttivo di Ceronetti si diverte a confrontare i glutei dei Bronzi con le “nostre chiappe malaticce” per concludere che non ci rimane altro da sperare che “Non dalla scimmia di Darwin discendiamo, ma dai Bronzi di Riace!”, i quali in una terra greca come la Calabria possono rappresentare gli dei di un culto pagano che potrebbe guadagnare terreno sul cristianesimo.
I giudizi taglienti e settari, Ceronetti non li risparmia neanche quando ritorna in Calabria e si ferma a Lamezia che lui descrive come un “luogo texano, italianamente inesistente.” A Nicastro Ceronetti descrive “un funebre vagare di giovani nei bar, raggruppati intorno al Niente…”. Sono frasi quasi offensive se prese alla lettera ed isolate dalla sua narrazione italica. Ma basta ricordarsi di cosa scrive Ceronetti di Firenze (“Gli è rimasto solo il centro storico, ridotto una spugna di demenze, bene imbevuta.”) per relativizzare e comprendere il senso di quelle frasi che non hanno nulla di antimeridionale o di razzista ma sono frasi dolorose di una persona che cerca le tracce della bellezza e si arrende scrivendo: “Di bellezza restano poche, assurde tracce: beato chi le ritrova e le segue, fuori di questo mondo.”
Un’ulteriore dimostrazione di quanto Ceronetti sia un viaggiatore singolare è data dalla sua visita al cimitero di Lamezia. Nel suo resoconto della passeggiata nel camposanto lametino sono riportate anche alcune iscrizioni tombali che lui si diverte ad analizzare con interpretazioni filologiche che generano un certo divertimento nel lettore. Oltre ad osservare e denigrare il paesaggio, Ceronetti osserva anche le persone e scrive: “Facce concentrate hanno tutti i calabresi. Sembrano, anche non pensando, una nazione di filosofi.”
Le note sulle giornate lametine di Ceronetti si concludono con il breve racconto di un barbiere che fa la barba ad un vecchio che secondo l’autore dovrebbe avere almeno duecento anni e con alcune taglienti considerazioni sul Sud possibile rovina del resto d’Italia per legittima vendetta dopo aver patito troppo delle scelte governative che lo hanno snaturato, inquinato e depauperato di risorse e uomini.
Il libro, dopo la prima edizione del 1983, è stato ripubblicato nel 2004 arricchito da una nuova introduzione e da un nuovo capitolo. Giovanni Raboni, lo incluse nei “Cento romanzi italiani del Novecento”, perché secondo lui è basato su “una scrittura che combina feroci artigliate satiriche con le meditanti osservazioni di un implacabile scrutatore delle rovine e del nulla sottesi ai nostri giorni”. Le visioni magnogreche di Ceronetti sono ciniche e appassionate allo stesso modo di quelle raccontate negli altri luoghi da lui visitati lungo la penisola. Si può giudicarle nel merito ed essere d’accordo o dissentire profondamente. Tuttavia, se le leggiamo con la stessa passione con cui Guido Ceronetti le ha scritte potremo trovarci il significato vero di quelle impressioni di viaggio così inconsuete e insieme così faziose e sagaci: la ricerca della bellezza in luoghi in cui gli uomini l’hanno maltrattata e ciò nonostante in quegli stessi luoghi essa talvolta riappare lasciandoci ancora una qualche speranza.
[La fotografia ritrae l’opera I Bronzi di Riace, di Sasha Sosno, collocata in piazza XI Settembre, a Cosenza, appartenente al MAB, Museo all’aperto Carlo Bilotti]

(Oggi sono cento anni dalla nascita di Michelangelo Antonioni. Questo lungo saggio di A.G. Cassani, docente all’Accademia di Venezia e caro amico, è un modo per ricordarlo. G.B.)
di Alberto Giorgio Cassani
«GIULIANA. Ma cosa vogliono che faccia coi miei occhi?… Cosa devo guardare?»
Deserto rosso
Il Vocabolario Etimologico della lingua italiana di Ottorino Pianigiani, del 1907,1 uno dei più longevi ed autorevoli nel suo campo, alla voce «visione», recita: «Funzione sensoria per la quale gli occhi pongono gli uomini e gli animali in rapporto col mondo esteriore, coll’intermedio della luce; Vista o apparizione di cose soprannaturali in sogno o in momento di grande astrazione di mente». Sottolineerei tre punti chiave: «luce», «mondo esteriore» e «astrazione». Penso che queste quattro parole si adattino perfettamente anche al mondo poetico di Michelangelo Antonioni. Del grande regista ferrarese, di cui il 29 settembre di quest’anno ricorrerà il centenario della nascita, si sono sempre citati i temi dell’alienazione, della malattia dei sentimenti, dell’ambiguità del reale. Altrettanto fondamentale, nel suo cinema, è la presenza delle visioni. In particolare la visione del vuoto. Su questo punto, vorrei brevemente soffermarmi in questo testo.
Antonio Costa ha parlato per Antonioni di sguardo del flâneur. Se «lo spazio di Antonioni è uno spazio urbano»2 e se, di più, lo stesso «paesaggio extraurbano, “naturale”, è visto, indagato, interrogato dallo stesso sguardo che vede e interroga lo spazio urbano»,3 lo «sguardo di Antonioni è lo sguardo del flâneur», perché «la flânerie è la forma che organizza la visione dello spazio urbano».4 È lo stesso regista a confermarlo: «Ecco un’occupazione che non mi stanca mai: guardare. Mi piacciono quasi tutti gli scenari che vedo: paesaggi, personaggi, situazioni».5
Rifacendosi sempre ad un dizionario etimologico, questa volta il Larousse, Costa cita la definizione del verbo flâner: «errare senza meta fermandosi spesso a guardare»6 e ne conclude che il «reporter, figura emblematica del cinema di Antonioni, può essere considerato l’ultima incarnazione del flâneur ottocentesco».7
Il flâneur antonioniano, dunque, non fa differenza tra metropoli, parchi urbani – «i parchi-giardini sono un luogo fondamentale della mappa urbana di Antonioni»8 – deserti o giungle9 e non si limita al mondo che lo circonda, bensì immagina anche luoghi “altri”: in Deserto rosso Corrado pensa di trasferirsi in Patagonia; nella baracca di Ugo è presente un manifesto con una radura tropicale e delle zebre;10 Giuliana – se possiamo definirla una flâneur – immagina isole misteriose (nell’episodio della favola raccontata al figlio) o luoghi di un’impossibile felicità («Chissà se c’è nel mondo un posto dove si va per stare meglio. Forse no»).11 In conclusione, per Costa, la città si presenta come «crittogramma», per il flâneur come per Antonioni: «L’immagine come enigma e come «malìa» sembra essere l’ossessione attorno a cui si organizza il cinema» del maestro ferrarese.12
Il flâneur, dunque, è continuamente colpito da “visioni”. Ma quali visioni? Pascal Bonitzer,13 che è daccordo con l’idea della flânerie – «si cammina molto nei film di Antonioni»14 – parla di «una insistente fascinazione per l’informe, l’informale, la figura che si nasconde, che si cancella, che scivola verso l’indifferenziato».15 In un caso, nella celeberrima sequenza dell’esplosione della villa in Zabriskie Point, la “sparizione” delle cose avviene attraverso questa deflagrazione, creando delle immagini, dei veri e propri quadri, che si avvicinano alla pittura informale. Contrariamente a quanto ancor oggi una certa “vulgata” di Antonioni ama sostenere, «ciò che caratterizza il suo cinema è un positivo interesse per quei deserti di un genere nuovo, quegli spazi amorfi, sconnessi, vuoti, per quel tessuto de-differenziato del mutamento urbano».16 E in questi “deserti urbani” i «personaggi di Antonioni sono attirati fino all’estremo limite dal vuoto, dal freddo, dagli spazi astratti che assorbono e inghiottono la figura umana, il viso amato, le forme del simile. L’avventura che essi vivono è una scomparsa».17 È quella tecnica di Antonioni che i francesi chiamano del temps mort e che
consiste […] nello svuotamento dello spazio rappresentato, contenuto o tagliato dall’inquadratura, un luogo abitato fino a un attimo prima che acquista presenza formale – pienezza astratta, quasi pittorica, in virtù di un’assenza narrativa che si rivela allo sguardo dello spettatore.18
Basterà ricordare il dileguamento di Anna ne L’avventura – Roberto Chiesi ha parlato di «autocancellazione»19 –, dell’aereo nelle nuvole20 e di Vittoria e Piero nel finale de L’eclisse,21 della fabbrica nella nuvola di vapore,22 della nave “contaminata”23 e del gruppo di amici nella nebbia in Deserto rosso24 (ma la stessa Giuliana e il figlio scompaiono25 dall’inquadratura finale del film), del cadavere e di Thomas, nella famosissima sequenza finale, in Blow up; Niccolò, per un attimo, nella nebbia, in Identificazione di una donna, con Mavi che lo supplica: «Non sparire, ti prego». È significativo che sia spesso la nebbia a cancellare le cose e le persone – «è stata la nebbia a confondermi…»,26 si giustificherà Giuliana per aver sbagliato la direzione del molo – quella nebbia che Antonioni, nato a Ferrara, ben conosceva, e che gli fece scrivere che «poteva pensare d’essere altrove».27 Come la nebbia, anche il fuori fuoco: come in una sequenza di Zabriskie Point, in cui la cinepresa segue per un po’ Mark e Daria e poi«li lascia fuori campo per guardare le montagne azzurre, e poi la vista si annebbia, tutto il paesaggio va lentamente fuori fuoco».28 Sull’“azzurra lontananza” si leggerà più avanti. Ma, per tornare all’interpretazione di Bonitzer, vi è un elemento positivo in Antonioni, secondo l’attore-sceneggiatore-regista francese, che va di là di qualunque malattia dell’anima o disperazione esistenziale: il fatto di tendere ad
un universo non umano e non figurativo, una apoteosi astratta. L’universo si dilata, si dissemina, si raffredda, ma in questa entropia vi è una felicità segreta, la felicità informale delle macchie. Vi è un altro punto di vista, oltre a quello, semplicemente umano, incarnato dai protagonisti, vi è quello che esprime in modo non umano la macchina da presa, quel punto di vista astratto sui movimenti qualsiasi – esplosioni, nuvole, moti browniani, macchie – sullo spazio neutro riempito di movimenti qualunque, nel quale finisce il movimento dei film di Antonioni.29
Per Bonitzer si può parlare di una vera e propria ricerca della “bellezza” del vuoto, che non è il nulla,30 ma forse si avvicina al «Poco» di cui parla Walter Benjamin in Esperienza e povertà,31 un vuoto che è allo stesso tempo un pieno, come il Tao:
Niente è più bello (e ogni film sembra non essere costruito che per questa sola fine), in un film di Antonioni, del momento in cui i personaggi, gli esseri umani si cancellano per non lasciare sussistere, sembra, che uno spazio senza qualità, lo spazio puro, “lo spazio uguale a se stesso che si accresce o si nega”. Il campo vuoto non è vuoto: pieno di nebbia, di visi fugaci, di presenze evanescenti o di movimenti qualsiasi, rappresenta quel punto ultimo dell’essere alla fine liberato dalla negatività dei progetti, delle passioni, dell’esistenza umana.32
L’“estinzione” – il nirvana – non è uno dei concetti chiave della religiosità orientale? Non è un caso che Antonioni amasse così l’Oriente e che a quel mondo fosse così vicino, come Roland Barthes aveva così ben compreso.33
Semplificando forse troppo, non è forse questo il percorso che “insegnano” i film di Antonioni?: l’uscire dal proprio egoismo, l’imparare a guardare al di fuori di sé (fin da Le amiche), il saper riconoscere l’esistenza degli altri, il riuscire a guardare con gli occhi degli altri; infine, lo svanire nel nulla. L’essere capaci di “guardare il vuoto”. Sandro Bernardi, in un suo bellissimo libro che parla anche del cinema di Antonioni, ha fatto un confronto illuminante tra due scene di Professione reporter. Nella prima, Locke e Robertson guardano il deserto: «robertson È bello, non trova? – locke Bello… non so…»;34 nella seconda, Locke e Maria sono in auto nel deserto vicino a Osuna: «locke C’è un buco nella coppa dell’olio. – maria (seduta tranquillamente sullo schienale) Che bello qui, vero? – locke Sì, molto bello…».35
Bernardi commenta:
A dire il vero, non c’è alcun paesaggio da ammirare: solo polvere, vento e sole che confondono il cielo la terra e le piante. Le parole, visibilmente, sono le stesse del dialogo con Robertson; il luogo è molto simile, e anche lo stato d’impasse è completo. Tuttavia l’atteggiamento di Locke è maturato. Ha imparato a guardare il vuoto, e questo vuoto gli appare ormai pieno di cose. Giunto allo stadio etico [da quello estetico, da cui era partito, NdA], Locke capisce che questo non consiste nel guardare gli altri per trovare una conferma della propria identità […] ma, al contrario, nella rinuncia alla propria identità, per poter guardare il mondo.36
L’occhio di Antonioni ci insegna «a contemplare l’invisibile e con esso a riconoscere, anzi ad amare i [nostri] limiti, limiti del soggetto, della conoscenza e dello sguardo».37
Mentre la protagonista di La signora senza camelie, Clara Manni, nella laguna veneziana trova solo desolazione e disperazione, Niccolò, in Identificazione di una donna, «va in laguna per guardare il vuoto, per ascoltare il silenzio».38
«Ascoltare il silenzio», perché quest’ultimo, cifra quasi scontata della poetica di Antonioni, è in realtà pieno di suoni e di rumori: riferendosi al parco della villa del padre, l’ingegner Gherardini, una villa progettata dal celebre architetto verbanese Luigi Vietti – «il Vietti. Le piace?»,39 esclama l’ingegnere rivolgendosi a Giovanni – la figlia Valentina (Monica Vitti) lo definisce «pieno di silenzio fatto di rumori».40 Anche il cielo, è pieno dei “rumori” delle stelle e lo strumento per ascoltarli è il radiotelescopio di Medicina (Deserto rosso): «giuliana Di chi sono questi cosi qua? – tecnico Questi? Dell’università di Bologna […] – giuliana Ma a cosa servono? – tecnico Servono a formare un’antenna per ascoltare i rumori delle stelle. – giuliana Me li fa sentire?».41
E poi le “visioni”, appunto. A partire da L’avventura: «Claudia si avvicina a una panchina dalla vernice tutta sgretolata, ma non siede. Tiene gli occhi fissi, quasi sbarrati sul mare, sulle onde del mare che sono un mistero anche loro».42 Deserto rosso, poi, ne è pieno: dalle sequenze iniziali dei titoli di testa con la visione delle fabbriche inquadrate col teleobiettivo, che sembrano miraggi nel deserto, dalla nave che sembra attraversare lentamente la pineta (in realtà gli alberi nascondono il canale retrostante),43 a quando Giuliana si ferma a guardare il territorio intorno alle fabbriche: «Giuliana non si è mossa. È ferma sul bordo della strada, un po’ in disparte, e guarda verso la palude, in quel punto coperta di un’erba rossiccia: un paesaggio desolato. Corrado si avvicina a Giuliana. – corrado Cosa guardi?»,44 a quando, infine, dall’interno della baracca di Max, guarda incantata il mare: «giuliana Non sta mai fermo, mai, mai, mai, mai…»,45 fino a esclamare: «Io non riesco a guardare a lungo il mare, se no tutto quello che succede a terra non mi interessa più».46 Inoltre, in tutto il film compaiono visioni di macchie di colori astratte, frutto della “malattia” di Giuliana: «corrado Cosa guardi? Giuliana indica la parete e dice: – giuliana Lì. Si lascia andare sul letto. Il suo sguardo va al soffitto sul quale appare una macchia di vario colore. Allora si copre con la coperta per non vedere»;47 o ancora: «Attorno a lei tutto è viola»48 e infine: «Qualche tempo dopo Giuliana e Corrado sono nel letto completamente nudi, immobili in una luce rosa, irreale. Tutta la stanza è rosa, gli oggetti, i mobili, i vestiti, il pavimento».49
È ancora Giuliana a raccontare al piccolo Valerio la favola in cui viene descritta la visione più misteriosa di tutte, quella del veliero:
Una mattina dal mare spuntò un veliero. Le barche che passavano di lì erano diverse, generalmente. Ma questo era un vero veliero: di quelli che hanno attraversato i mari e le tempeste di tutto il mondo e anche, chissà, fuori del mondo. Visto da lontano faceva uno splendido effetto.
Da vicino invece diventava misterioso. A bordo non si vedeva nessuno.
Restò fermo pochi minuti, poi cominciò a virare e si allontanò, silenziosamente com’era venuto.
La bambina era abituata alle stranezze degli uomini e non si stupì. Ma appena tornata a riva, ecco che…
Una voce femminile incomincia a cantare una musica molto dolce.
voce di giuliana Un mistero va bene, due sono troppi. Chi cantava? La spiaggia era deserta come sempre, eppure la voce era lì, ora vicina ora lontana. A un certo momento le parve che venisse proprio dal mare… …era una caletta tra le rocce… tante rocce che… non se n’era mai accorta… erano come di carne… e la voce in quel punto era molto dolce…
bambino [Valerio] Ma chi era che cantava?
giuliana Tutti cantavano… tutti…50
Infine, una grande visione (allucinazione?) è anche la scena del love-in fra le montagne della Death Valley in Zabriskie Point.
Anche in un altro senso si può forse parlare di visioni in Antonioni. Quando si è messo a dipingere, Antonioni ha raffigurato spesso delle montagne.51 E montagne compaiono spesso anche nei suoi film: le isole Eolie e l’Etna innevato, nella scena finale, de L’avventura, le montagne della Death Valley, in Zabriskie Point. Come non pensare al racconto di Hermann Hesse, L’azzurra lontananza?
Negli anni della mia prima giovinezza ho sostato spesso, solo, sulle alte montagne, e il mio occhio indugiava a lungo nella lontananza, nella vaporosa foschia trasfigurante delle ultime delicate alture, dietro alle quali il mondo affondava in un’infinita azzurra bellezza. Tutto l’amore della mia fresca anima bramosa confluiva in una grande nostalgia e si mutava in lacrime, mentre l’occhio beveva con sguardo ammaliato la soavità del lontano azzurro. La vicinanza delle cose patrie mi pareva fredda, dura e chiara, senza alito e mistero; al di là, invece, tutto era accordato su toni soavi, traboccante di melodia, di enigma e di seduzione.52
La «vaporosa foschia trasfigurante» non ha forse qualche affinità con la nebbia di Antonioni? E al dubbio di Giuliana che esista nel mondo un posto dove si possa essere felici – l’azzurra lontananza di Hesse –, Corrado non risponde forse: «È probabile che tu abbia ragione. Uno gira e rigira e poi finisce per ritrovarsi com’era»,53 confermando, in qualche modo, il finale del racconto di Hesse.54
Bernardi ha scritto che il sole, metafora del «mistero stesso della luce», è l’«immagine con la quale [gli] piacerebbe pensare che termini il cinema di Antonioni».55 La visione del sole compare nel fotogramma finale de L’eclisse, sotto forma della luce abbagliante del lampione nella notte incipiente – un paradossale sole “notturno” – in Identificazione di una donna, inquadrato dopo la visione dello strano oggetto, sasso o astronave, posato sul ramo di un albero e metaforizzato nel “giallo” lampeggiante del semaforo che fora la nebbia) e nei due tramonti su cui terminano Zabriskie Point e Professione reporter (una delle più belle scene finali di Antonioni).56
Dicevo che sarei ritornato sul tema della sparizione. Un altro grande artista del Novecento ha fatto della dissolvimento delle figure umane il tema centrale della sua ultima, grande fase pittorica: Mark Rothko. Come sappiamo, Rothko e Antonioni si conoscevano e si stimavano.57 Uno dei maggiori studiosi del pittore lettone, ma statunitense d’adozione, Riccardo Venturi, ha scritto che, ad indirizzare le sue ricerche sono stati
due autori lontani dalla galassia degli storici dell’arte: il poeta Emilio Villa e il regista Michelangelo Antonioni. In un periodo in cui si disquisiva sulle squisitezze degli accostamenti cromatici delle sue tele, Antonioni scriveva una lettera all’artista in cui parlava, singolarmente, dell’acciaio di New York, di panico e di angoscia, di “quadri fatti di niente” o di “quadri sul niente”.58
Molti studiosi di Rothko – e non poteva che essere così visto che da artista che indaga sulla figura umana passa nella fase finale della sua vita a dipingere rettangoli di colore (qualcuno ha parlato di “tombe”) – hanno sottolineato il tema della “sparizione” come cifra della poetica del grande pittore statunitense: da James Elkins, secondo cui l’artista «ci mostra, nel senso più profondo e generale, che cosa sia la perdita. O, per dirla con le sue parole, i dipinti contengono “presagi di mortalità”. Sono insistentemente vuoti […]»,59 a Georges Roque, secondo cui Rotkho, “sacrifica” la figura, non la nega, la fa sparire,60 a Mario Dal Bello, che definisce l’artista americano «un cieco che si sforza di vedere ciò che è oltre, il non-visibile. La realtà “altra”».61 Ma è inutile continuare. Ci interessa di più sapere cosa vedeva Antonioni nei quadri di Rothko. E allora bisogna tornare alla lettera62 che il regista scrisse all’artista da Roma il 27 maggio 1962,63 l’ultimo giorno di chiusura della mostra, visitata ben quattro volte da Antonioni, allestita alla Galleria d’Arte Moderna. Ecco il passaggio chiave della lettera:
[…] in questi quadri che sembrano fatti di niente, ossia di solo colore, scopro qualcosa di nuovo, si scopre tutto quello che c’è dietro il colore, a dargli senso, drammaticità, insomma poesia. Sono stupendi, questi quadri, signor Rothko, e del resto è ormai pacifico che questo è il limite massimo a cui può arrivare la pittura oggi.64
Antonioni riesce addirittura a cogliere uno dei temi sottesi all’opera di Rothko: che il rapporto non è tra Rothko e l’osservatore, ma tra il quadro e quest’ultimo: «Ho dovuto cercare di isolarmi e di isolare i quadri, di considerarli non tanto in rapporto gli uni con gli altri quanto in rapporto a me».65
Avendo saputo, come scrive all’inizio della lettera, che Rothko aveva acconsentito a dargli uno dei suoi quadri, Antonioni prova ad indicarne alcuni. Due, in particolare, in ordine di preferenza: il N. 7 del 1960 (catalogo Anfam 673) e il N. 9, del 1958 (Anfam 632). Del primo, Antonioni scrive:
C’è un equilibrio portentoso in questo quadro, e tutto il quadro appare come fatto di luce, come se la luce venisse da sotto il colore. È assolutamente miracoloso, per me. È veramente quello che vorrei avere davanti agli occhi tutti i giorni.66
Un quadro fatto di luce, come il fotogramma di un film.
Del secondo:
Quest’opera è di una purezza e di una forza fenomenali. C’è tutto l’acciaio di New York nel colore del quadrato superiore, così isolato dal fondo scuro: ti dà il panico, un panico cosmico.67 Questa è l’angoscia dipinta. Straordinario. Anche questo è un quadro che vorrei avere vicino.68
Ma è nel finale della lettera che Antonioni “azzarda” un legame, una profonda affinità elettiva tra la sua opera e quella di Rothko:
Ebbi già occasione di dirle quanto io senta – forse presuntuosamente – la sua pittura vicina al mio lavoro, come esperienza fantastica se non altro. Ma dietro al nostro fantasticare, sappiamo tutti che c’è il mondo intero, come oggi lo vediamo: com’è nei suoi superbi dipinti.69
Su questa frase può forse terminare, provvisoriamente, vista la complessità e inesauribilità del tema, questa mia breve riflessione sulla “visione” in Antonioni. Che è al tempo stesso sì «fantastica», ma profondamente legata alla realtà, a questo mondo. Bernardi conclude il suo saggio su Antonioni proprio con questa rivendicazione di realtà:
La realtà, suggerisce il cinema di Antonioni, è uno di questi concetti-limite, che segnano i confini della conoscenza. Non sapremo mai che cos’è, ma guai se non ci fosse, saremmo perduti anche noi. Non potremo mai raggiungerla né toccarla, è sempre altrove rispetto a dove la cerchiamo. Come il sole, come la giungla o come la natura, essa si chiude in se stessa e si allontana nel suo stesso darsi, ma ignorarla sarebbe una grave sconfitta, una terribile mancanza. Solo conoscendo i nostri limiti possiamo ancora sapere chi siamo. Sostenere che la realtà non esiste o che qualunque cosa può prendere il suo posto significa perdere appunto la coscienza dei limiti, cadere dentro la vertigine di onnipotenza cui l’illusione del cinema postmoderno si avvicina.70
E cita una frase dello stesso Antonioni:
Il momento è drammatico, ma il personaggio può anche non guardare l’altro, conosce la sua faccia, sa perfettamente cosa pensa e perché, deve guardare altrove per capire, nel vuoto.71
«Guardare altrove per capire, nel vuoto». Come nei quadri di Rothko. Come Al di là delle nuvole. Non può essere un caso che le parole finali di questo film, co-diretto con Wim Wenders, citino nella sequenza finale – in cui la telecamera scorre tra le finestre di una vecchia casa di Aix-en-Provence, osservando per un attimo le vite delle persone che ci abitano – una delle riflessioni che Antonioni aveva inserito nella Premessa all’edizione einaudiana delle sceneggiature dei suoi Sei film:
Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà.
Il cinema astratto avrebbe dunque una sua ragione di essere.72
È quell’“astrazione” che Antonioni ha inserito, quasi subliminalmente, nei suoi film, come “scatti” di pittura informale, per farci forse intravedere, per la sequenza di un attimo, quella «realtà, assolta, misteriosa, che nessuno vedrà mai».
Note
1 Roma, Albrighi & Segati, cui fa seguito un volume di Aggiunte, correzioni e variazioni (Firenze, E. Ariani, 1926); è ripubblicato più volte in versioni praticamente identiche: Milano, Sonzogno, 1937, Genova, Dioscuri, 1998, La Spezia, Fratelli Melita, 1990, Vicchio di Mugello (FI), Polaris, 1993; attualmente è disponibile in rete all’indirizzo www.etimo.it (fonte it.wikipedia.org).
2 Antonio Costa, Lo sguardo del «flâneur» e il magazzino culturale, in Michelangelo Antonioni: Identificazione di un autore: Forma e racconto nel cinema di Antonioni, A cura di Giorgio Tinazzi, Saggi di Chatman et alii, Parma, Pratiche Editrice, 1985, pp. 67-76: 68. «Paesaggio “naturale” e paesaggio urbano sono intercambiabili: il primo non è altro rispetto al secondo; la sua alterità è puramente fantasmatica e illusoria; esso non rappresenta nessuna alternativa, ma riconduce sempre e comunque al medesimo luogo da cui prende avvio la quête dei personaggi», ibid., pp. 68-69.
3 Ibid.
4 Ibid., p. 69.
5 Michelangelo Antonioni, Prefazione, in Id., Sei film: Le amiche, Il grido, L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso, Torino, Einaudi, 1964, p. xiii.
6 A. Costa, Lo sguardo del «flâneur» e il magazzino culturale, cit., p. 71.
7 Ibid.
8 Ibid., p. 70. Basterà ricordare il parco de La notte, il parco di Blow up e il Parc Güell a Barcellona, dove avviene l’incontro tra Locke e la ragazza.
9 Ci riferiamo al non realizzato Tecnicamente dolce (dal 1966).
10 «Una parete [della baracca di Ugo] è ancora coperta quasi interamente da un manifesto turistico raffigurante una radura tropicale con delle zebre: dà l’impressione di essere in un altro luogo, in un altro clima. Corrado si appoggia allo stipite della porta e guarda il manifesto», M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 456. L’Africa è uno dei luoghi “altri” che ritornano nel cinema di Antonioni, da Cronaca di un amore (vedi, sotto, la nota 34) a Professione Reporter. Ma compare anche il Venezuela e il Cile, citati da Gualtiero ne Il grido: cfr. ibid., p. 180.
11 Ibid., p. 491. Una delle rarissime volte in cui ci si trova “a casa” in un luogo è all’aeroporto di Verona ne L’eclisse, dove Vittoria sospira: «Si sta così bene qui…», ibid., p. 386. Paradossalmente, un posto dove si parte e si arriva, dunque, non si sta. Il senso di mancanza di radicamento emerge perfettamente dalle parole di Corrado in Deserto rosso: «Delle volte mi sembra di non avere alcun diritto di trovarmi dove sono. Sarà per questo che ho sempre voglia di andarmene», ibid., p. 456.
12 A. Costa, Lo sguardo del «flâneur» e il magazzino culturale, cit., p. 72.
13 Pascal Bonitzer, Il concetto di scomparsa, in Michelangelo Antonioni: Identificazione di un autore…, cit., pp. 147-150.
14 Ibid., p. 149.
15 Ibid.
16 Ibid., p. 148.
17 Ibid.
18 Jeffrey Weiss, Temps mort: Rothko e Antonioni, in Rothko, Catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 6 ottobre 2007-6 gennaio 2008), a cura di Oliver Wick, Milano, Skira, 2007, pp. 44-55: 52.
19 Roberto Chiesi, Michelangelo Antonioni, i paesaggi del silenzio, in Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia-Romagna dall’Ottocento al Contemporaneo, vol. III: Gli anni Cinquanta-Sessanta, a cura di Piero Pieri e Luigi Weber, Bologna, C.L.U.E.B., 2010, pp. 129-146: 136.
20 «L’aereo vira in quella direzione e penetra gradatamente nella nuvola. Per alcuni istanti è come inghiottito dalla nebbia e solo a tratti ne scorgiamo le ali», M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 385. È emblematico che la richiesta di dirigersi dentro le nuvole venga da Vittoria: «Ecco. Andiamo dentro quella nuvola là!», ibid.
21 Ne L’eclisse, scrive Chiesi, «è come se il film si fosse svuotato dei protagonisti», ibid., p. 138.
22 «Annunciato da lievi sbuffi di fumo, e poi di colpo trasformandosi in una violenta nuvola sibilante, un violentissimo getto di vapore scaturisce dal muro laterale della fabbrica coprendo la luce grigia del cielo, i silos, le baracche», M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 441.
23 «La nebbia corre sul molo e sul canale a banchi bassi, velando la massa scura della nave», ibid., p. 475. La stessa baracca di Max è «immersa nella nebbia», ibid., p. 467.
24 «Giuliana osserva i quattro che stanno davanti a lei. Dietro a loro il paesaggio è quasi completamente cancellato dalla nebbia portata dal vento. E a poco a poco anche le persone cominciano a perdere i loro contorni, a confondersi, e anche quel po’ di colore che è rimasto sparisce», ibid., p. 476.
25 «Scompare» è proprio il verbo che si legge nella sceneggiatura: «Resta la fabbrica, con le ciminiere, il fumo bianco, il fumo giallo, il vapore, i bidoni», ibid., p. 497.
26 Ibid., p. 477.
27 Quel bowling sul Tevere, Torino, Einaudi, 1983, p. 85, citato in Saverio Zumbo, Al di là delle immagini: Michelangelo Antonioni, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2002, p. 6.
28 Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2002, p. 202.
29 P. Bonitzer, Il concetto di scomparsa, cit., p. 149.
30 Com’è invece il paese fantasma nei pressi di Noto de L’avventura: «claudia Oooh… Oooh!… Senti l’eco?… Come mai è vuoto? – sandro Chi lo sa! Io mi domando perché l’hanno costruito», M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 275; o il quartiere romano attorno alla casa dei genitori di Piero ne L’eclisse: «Davanti alla casa la strada si allarga per far posto ad una chiesa stupenda. Tutt’intorno, case ammucchiate le une sulle altre, con tante finestre vuote. Tutto un mondo fermo e stanco, come in attesa di morire. Anche il barocco della chiesa, anche il gruppo di persone che stanno uscendo dalla messa pomeridiana. Anche il soldato che mangia un gelato appoggiato al muro», ibid., p. 426.
31 Cfr. Erfahrung un Urteil, 1933, in Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, herausgegeben von Rudolf Tiedermann und Hans Schweppenäuser, IV, 1: Kleine Prosa, Baudelaire-Übertragungen, herausgegeben von Tillman Rexroth, Frankfurt am Main, 1972, trad. it. di Fabrizio Desideri: Esperienza e povertà, in Franco Rella, Critica e storia: Materiali su Benjamin, Venezia, Cluva, 1980, pp. 203-208.
32 P. Bonitzer, Il concetto di scomparsa, cit., p. 150.
33 Cfr. Cher Antonioni, in «Cahiers du Cinéma», n° 311, mai 1980, pp. 9-11, testo letto in occasione dell’assegnazione ad Antonioni del premio Archiginnasio d’Oro il 28 gennaio 1980 a Bologna, ed anche I quadri di Michelangelo Antonioni, in «La Repubblica», 27 agosto 2006.
34 S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, cit., p. 206.
35 Ibid., p. 208.
36 Ibid.
37 Ibid., p. 212.
38 Ibid., p. 211.
39 M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 331.
40 Ibid., p. 350. Per il padre, è semplicemente un parco «magnifico», ibid., p. 331.
41 Ibid., pp. 453-454. Guido, nel Planetario, in Cronaca di un amore, si limita ancora a “guardarle”: «Sembra di essere in Africa. Guardavo sempre le stelle quando ero lì», brano citato, in un altro contesto, da Antonio Costa, in Lo sguardo del «flâneur» e il magazzino culturale, cit., p. 71.
42 M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 298.
43 Cfr. ibid., pp. 458-459.
44 Ibid., p. 459.
45 Ibid., p. 471.
46 Ibid., p. 472.
47 Ibid., p. 492.
48 Ibid., p. 493.
49 Ibid.
50 Ibid., p. 487.
51 Una volta Antonioni ha scritto, con tono quasi “evangelico”: «Come seconda cosa devi imparare a guardare. Quando le cose più piccole t’appariranno grandi come montagne, torna a me», A volte si fissa un punto, Valverde (CT), Il Girasole, 1992, p. 33, citato in S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, cit., p. 212.
52 Die blaue Ferne, 1904, trad. it. di Luisa Coeta: L’azzurra lontananza: Il viaggio e il nirvana, Milano, SugarCo Edizioni, 1980, pp. 19-21: 19.
53 M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 491].
54 H. Hesse, L’azzurra lontananza…, cit., p. 21: «Così […] la vecchia patria è divenuta per te cara e lontana, forestiera la nuova e troppo vicina. Lo stesso accade per ogni possesso e per tutte le assuefazioni della nostra povera vita inquieta». Non c’è nemmeno bisogno di ricordare, a proposito di Oriente, che Hesse è l’autore di Siddharta.
55 Il paesaggio nel cinema italiano, cit., p. 211. Ad Antonioni è dedicata la seconda parte del libro, dal titolo: «Antonioni: la perdita del centro»; per il nostro discorso, è centrale l’ultimo capitolo: «Guardare il vuoto».
56 Ma un piccolo sole rosso compare anche in Deserto rosso: è la lampadina del robot giocattolo che spicca nel buio – ancora una volta un sole nella notte – della camera di Valerio, il figlio di Giuliana. Cfr. M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 442.
57 In un manoscritto di Rothko dedicato all’incarico per i Seagram Murals – per il ristorante del Seagram Building di Mies van der Rohe e Philip Johnson – si legge: «Quando il progetto fu ultimato mi resi conto di non aver mai dimenticato la stanza di M. A.». Si tratta naturalmente di Michelangelo Buonarroti; ma le iniziali, sembrano prefigurare il futuro incontro col regista. Il testo si trova in Rothko, Catalogo della mostra, cit., pp. 169-170. Nel catalogo compare il già citato e fondamentale saggio di Jeffrey Weiss sui rapporti tra il cinema di Antonioni, in particolare Deserto rosso, e la pittura di Rothko: Temps mort: Rothko e Antonioni (vedi, sopra, la nota 18).
58 Dalla scheda di presentazione del volume Mark Rothko: Lo spazio e la sua disciplina, Milano, Electa, 2007, in http://www.electaweb.it/catalogo/focus-on/978883705501/it [24 aprile 2012].
59 Pictures & Tears: A History of People Who Have Cried in Front of Paintings, New York & London, Routledge, 2001, trad. it. di Francesco Saba Sardi, Dipinti e lacrime: Storie di gente che ha pianto davanti a un quadro, Milano, Bruno Mondadori, 2007, p. 15.
60 Qu’est-ce que l’art abstrait?: Une histoire de l’abstraction en peinture (1860-1960), Paris, Éditions Gallimard, 2003, trad. it. di Lucia Schettino: Che cos’è l’arte astratta? Una storia dell’astrazione in pittura (1860-1960), Roma, Donzelli, 2004, p. 167.
61 Ritratti d’autore: Figure della pittura europea da Duccio a Rothko, Roma, Città Nuova, 2009, p. 106.
62 Pubblicata per la prima volta in Rothko, Catalogo della mostra, cit., p. 55.
63 Dal 27 aprile al 20 maggio 1962.
64 Lettera di Antonioni a Rothko, Roma, 27 maggio 1962, cit. p. 55.
65 Ibid.
66 Ibid.
67 Come non pensare al “panico” – nel suo senso etimologico: che rimanda al dio Pan – del canto delle rocce dell’isola misteriosa in Deserto rosso?
68 Ibid.
69 Ibid. Alla fine di dicembre dello stesso anno, Antonioni riuscirà ad incontrare Rothko nel suo studio, presenti Monica Vitti e un traduttore d’eccezione, Furio Colombo, in occasione della proiezione newyorkese de L’eclisse, avvenuta il giorno 20. Peter Selz, curatore al Museum of Modern Art, che forse era presente all’incontro, riferì che Antonioni avrebbe affermato: «I suoi quadri sono come i miei film, parlano del niente [nothing]… con esattezza», cfr. Seymour Chatman, Antonioni, or the Surface of the World, Berkeley, University of California Press, 1985, pp. pp. 54 e 249 n. 2, citato da J. Weiss, Temps mort: Rothko e Antonioni, cit., p. 45. “Niente”, scrive Weiss, non è “nulla”. E cita Richard Gilman (About Nothing – with Precision, in «Theatre Arts», July 1962, p. 11): «“In effetti, i film di Antonioni riguardano il niente, che non è la stessa cosa del nulla” […]. I suoi film, continuava “senza essere astratti, senza una storia particolare, hanno invece, come la pittura più recente, un’esistenza autonoma e assoluta, sono azioni, non descrizioni di azioni”», J. Weiss, Temps mort: Rothko e Antonioni, cit., p. 45.
70 S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, cit., p. 212.
71 A volte si fissa un punto, cit., p. 26, citato ibid.
72 M. Antonioni, Prefazione, cit. p. xiv.
(pubblicato su: Ravenna Festival 1012: Nobilissima Visione, Catalogo della Manifestazione, Fusignano, Grafiche Morandi, 2012, pp. 85-91)

C’è una strada che si dirama a spina di pesce, proprio sotto l’Acropoli di Atene. Una lingua d’asfalto sul dorso di un colle, un’arteria che si irradia in altri vicoli, altri vasi sanguigni. Le vie si otturano contro le pareti marce dei palazzi che squilibrati presidiano lo spazio e gli angoli dei balconi si sbriciolano atrofizzati nell’immobilità del sole bollente di luglio.
di Andrea Raos
L’8 maggio 2012 ho pubblicato sul blog collettivo “Nazione Indiana” la mia traduzione di una poesia dello statunitense Bob Perelman, dal titolo La marginalizzazione della poesia [The Marginalization of Poetry]. Intendo qui brevemente spiegare cosa ho fatto con quel testo e perché.

Oggi pomeriggio, al cimitero di Lambrate, si sono svolti i funerali di Carlo Oliva. Uomo di rara e acuminata intelligenza. Chi l’ha conosciuto – e io mi fregio della fortuna – sa di cosa parlo. Per ricordarlo “rubo” dal suo sito un pezzo che qui ripropongo. Ciau Carlett, te voeri bén. G.B.
Appello ai nuovi scrittori italiani di giallo e di noir
(sperando che smettano di essere tali)
Amici carissimi, so che la stagione vi è propizia e che, probabilmente, vi par d’essere nel paese della cuccagna. Gli editori vi aprono le braccia, prendono qualsiasi cosa gli proponiate e la riversano senza pietà sugli scaffali delle librerie e sulle scrivanie dei critici, che ormai gemono sotto il peso. Probabilmente non vi pagano molto, ma c’è sempre la prospettiva di giungere, presto o tardi, in televisione, con una miniserie, una fiction, una rubrica, o semplicemente una bella comparsata in uno spazio che conti, e allora sì che ci sarà da mietere. I gialli, come si sa, “tirano” e ormai si sono messi a scriverne anche autori che fino a dieci anni fa non li avrebbero toccati neanche con un palo lungo dieci metri. Perché non dovreste farlo voi, che di questo peccato originale siete ovviamente immuni e godete dei vantaggi generazionali e culturali di chi è cresciuto in questa triste Italia slabbrata e casinara e sa, se non altro perché l’ho scritto io, che non è più la tragedia, come ai tempi di Eschilo e di Shakespeare, ma appunto il giallo lo strumento per rendere conto del dissesto dei tempi? Se non ci si deve più vergognare di trafficare in thriller e mystery e non è più obbligatorio celarsi dietro qualche pseudonimo anglosassone, ma si viene, anzi, considerati da tutti come autori impegnati e meritevoli di ascolto sui principali problemi del paese (uno, anche se, credo, non dei più giovani, è persino finito in Parlamento), perché non cogliere l’occasione? E allora dagli a pestare sui tasti del computer e speriamo che duri.
Ecco. Non vorrei fare, proprio in questa fase della mia vita, la parte del menagramo, ma io non sono affatto sicuro che duri. Siete troppi, ragazzi miei, e scrivete troppo. Per di più gli editori, dimentichi dei saggi principi cui si attenevano, un tempo alla Mondadori, alla Garzanti e alla Longanesi i nostri padri spirituali (gente del livello di Alberto Tedeschi, Mario Monti e Oreste Del Buono) di tascabili, paperback e fascicoli da edicola non ne vogliono più sapere: pubblicano i vostri capolavori in edizioni rilegate, delle specie di in folio di dimensioni tali da determinare la più clamorosa impennata dei costi e del prezzo sul mercato (e per di più pesano, occupano spazio e non si possono leggere in tram o nella vasca da bagno). Presto o tardi, la gente comincerà a comprarne di meno, anche perché tenersi in pari con il flusso incessante delle novità è sempre più difficile e cresce di continuo la pila degli arretrati da smaltire. E se gli acquirenti comprano meno, gli editori, si sa, meno pubblicano e se si innesta l’effetto valanga si fa presto, ahimè, a tornare alla situazione in cui di gialli non ne vuole sapere nessuno. Meglio fareste a prendere esempio dagli sceicchi arabi e simili potentati esotici, che sanno quanto giovi, anche al fine del mantenimento del prezzo, ridurre la produzione (del petrolio, nel loro caso, ma lo farebbero – ne sono certo – anche con i gialli). Tutti i lettori, occasionali e professionali, ve ne sarebbero grati.
Fosse tutto qui, poco male. Ma c’è di più. C’è il fatto, ragazzi miei, che exceptis (i pochi) excipiendis, voi non siete poi bravi come pensate di essere. Lo sa chi, come me, è tenuto a tener d’occhio le novità e per fortuna che l’Einaudi Stile Libero non mi manda mai niente, per cui la galera ne risulta un poco ridotta. Scrivete tutti le stesse cose. Avete rinunciato, lo ammetto, alle storie del classico maresciallo dei carabinieri che gioca a bocce e, sotto sotto, ha simpatia per il ragazzaccio scapestrato (non ne scrivono più neanche le professoresse che partecipano al premio Tedeschi), ma questo, francamente, non basta. Di thriller metropolitani (che rappresentano poi l’espressione moderna del genere) ne tirate fuori davvero pochini: sono più difficili da scrivere di quanto non sembri e poi, che volete che vi dica, questo tipo di romanzi ambientato nelle prospere cittadine della Toscana e dell’Emilia, per quanto vi sforziate di dipingerle come sentine di nequizia, suona un po’ farlocco. Al contrario, di esangui mistery di provincia, tutti con il loro bravo commissario dal volto umano, sempre di mezza età, magari con l’ulcera o la psoriasi, o qualsiasi altro fastidio di livello medio alto, meglio se afflitto da qualche casino in famiglia e uso a scazzi ripetuti con i superiori, ne scrivete davvero troppi. Al massimo, visto che gli investigatori privati hanno libero corso – a quanto sembra – solo nel Canton Ticino, fate lo sforzo di trasformare il commissario in un magistrato o qualcosa di simile. Sì, d’accordo, Simenon, Mankell, la Elizabeth George, Camilleri, Markaris e tanti altri ci hanno fatto dei bei soldi, ma appunto per questo potrebbe valere la pena di cambiare. E non è detto, naturalmente, che i vostri eroi si conquistino tutti la loro serie televisiva, con il conseguente incremento delle vostre finanze. Il sottogenere è saturo, bei giovani, lasciatelo agli specialisti, finché ce la fanno anche loro.
Che c’è d’altro? Pochissimo, in verità. In Italia, per fortuna, si scrivono meno gialli storici che altrove e meno romanzi con la setta misteriosa che tramanda un antico segreto, spargendo peraltro per ogni dove gli indizi necessari a scoprirlo, ma quelli che ci sono restano sempre troppi. C’è, in compenso, tanta, troppa Letteratura. Non nel senso della letteratura italiana, che è una cosa seria, ed è ovvio che la narrativa di genere ne faccia parte, non siamo fermi a quelle polemiche lì. No, io dico la Letteratura con la maiuscola e, magari, le virgolette: quella di cui il vecchio De Sanctis deprecava con tanta energia la presenza nella produzione nazionale dal XVI secolo in poi. Dico l’insopprimibile pulsione verso la bella pagina, la passione per i valori formali, per il gioco di parole, per il mix linguistico dialettale, per la citazione dotta abilmente nascosta, per la descrizione a catalogo dei tratti boschivi, per il gusto dei termini tecnici e rari e quello della variazione raffinata su temi già noti, insomma, tutto quell’apparato da poetae novi che con la narrativa – e voi siete narratori, no? – stride sempre un poco. E non mi dite che queste cose sono anche loro al servizio della trama (il plot, o il mythos, come lo chiama Aristotele), che rafforzano, evidenziano nei suoi svolgimenti e arricchiscono di dimensioni ulteriori . Questa dovrebbe essere, in effetti, la loro funzione, ma perché funzioni (scusate il bisticcio) una trama, una vicenda ben congegnata, deve ben esserci. Invece no: voi, cari amici, ricorrete alla Letteratura come fine a se stesso, come esibizione di qualità e autoproposta di promozione, come mezzo per dra di gomito al lettore ogni due pagine e dirghli “Ahò, hai visto come so scrivere bene?” E di questo, alla fine, potrei perdonarvi, perché un po’ di narcisismo vive in noi tutti, ma il peggio è che ve servite soprattutto a fini cosmetici. Non so se l’avete notato ma il giallista che fa soprattutto della Letteratura è quello che dispone, al massimo, di una mezza idea di trama, di solito ripetitiva o sussunta chissà da dove, con una storia che parte per caso, si impantana dopo due coincidenze e si estingue senza motivo (magari con un bel massacro finale), coinvolgendo dei personaggi dei cui casi non potrebbe importare di meno a nessuno: tutta roba che se, raccontata pulita pulita, susciterebbe orde di lettori a marciare verso le librerie imbracciando picche e agitando fiaccole accese. E allora, via con il Letterario, inteso come un velo che abilmente ombreggi i difetti di quanto sta sotto, la fragilità dei personaggi, la banalità delle situazioni, la povertà dell’ideologia di fondo. Pastiches linguistici, dilatazione del vocabolario, incursioni in ambiti semantici diversi, contrapposizione di registri espressivi discordanti, estraniamento polisemico? Ma sì, grazie. Sfasamenti della sincronia narrativa, montaggio alternato di piani temporali diversi, deviazioni dall’asse narrativo, compresenza non dichiarata di più punti di vista, messa in crisi dell’io narrante, uso non sistematico e sussultorio della terza persona… D’accordo, d’accordo. Tutto fa brodo e fa, soprattutto, impressione. Il risultato narrativo sarà forse un po’ misero, ma tanto si spera che non se ne accorga nessuno.
Di tutto questo, tuttavia, il pubblico finirà presto o tardi con lo stancarsi. Ed ecco la necessità di prendere qualche opportuno provvedimento. Il primo dei quali, appunto, è che smettiate di scrivere. Il sacrificio, me ne rendo conto, sarà doloroso, ma è indispensabile. Qui c’è il rischio che vada in malora tutta la baracca, travolgendo quei pochi che ancora onestamente vi agiscono. È per il bene del giallo italiano, credetemi, che ve lo chiedo.
Oppure, in seconda, assai più deprecabile, istanza, potete provare a cambiare. Potete prendere esempio, tanto per dire, dai vostri colleghi del genere avventuroso di azione, quello contaminato dalla spy story, che infatti è stato confinato per anni dalle parte di “Segretissimo”, dove, non a caso, capita ancora a parecchi di dover inalberare improbabili pseudonimi anglosassoni, francesi e catalani (e non tutti dirigono una casa editrice in cui ripubblicare a nome proprio). Non sono, credetemi, cattivi scrittori, anche se si servono, di solito, di una sorta di basic italian essenziale, con ben pochi abbellimenti e lenocini di quelli che piacciono a voi (magari un certo abuso di termini tecnici, soprattutto in tema di armamenti e arti marziali, ma è un peccato veniale). Hanno persino imparato, con gli anni, a maneggiare il congiuntivo e il trapassato, che pure continuano a trattare con una certa, eccessiva cautela. Eppure, vi assicuro, sanno raccontare una storia e le loro storie, per quanto trucide, improbabili, tirate, eccessive (ma si potrebbe anche considerarle “stilizzate”) riescono più spesso che no a dire qualcosa sul mondo in cui viviamo.
Certo, la loro non è Letteratura, nel senso in cui dicevamo prima. Ma, in fondo, se la Letteratura via piace tanto, nulla vi impedisce di coltivarla liberamente. Soltanto vi prego, per favore, di non metterla nei gialli. Non è obbligatorio. Saltate il fosso e passate direttamente al Parnaso.
Potreste, per esempio, mettervi a scrivere sonetti. Non è difficile, ve lo assicuro: mi ci sono provato, ogni tanto, persino io. Quattordici endecasillabi, nella forma tipo: due quartine a rime alterne o incrociate e due terzine a rime parimenti alterne, o – per chi proprio vuole complicarsi la vita – a tre rime ripetute. Nulla vi vieterà, naturalmente, di introdurre tutte le varianti del caso, creando, con soddisfazione sempre crescente, sonetti caudati, rinterzati, doppi, continui, minori e minimi (troverete le relative definizioni su qualsiasi buon manuale a uso dei bienni delle medie superiori, o, naturalmente, in Internet), ma vi assicuro che lo schema base dà già abbastanza da fare e già garantisce, in caso di successo, sufficienti soddisfazioni. È faticoso, certo, ma non più di ammucchiare mattoni, bacchiare le olive, lavorare in miniera o scrivere un giallo quando non si hanno idee in testa, come certamente saprete. Per cui, procuratevi un buon rimario e buon lavoro. Seguirò i vostri progressi con la più partecipata attenzione.
Milano, 3 maggio 2008
Cordialmente vostro
Carlo Oliva
di Giuseppe Zucco
Se del nuovo film di Kim Ki-duk, vincitore del Leone d’oro al 69° Festival di Venezia, sparissero di colpo tutte le copie, non so quanti ne sentirebbero la mancanza.
I protagonisti di Pietà risultano sempre catatonici o sopra le righe. La storia, una parabola sui rapporti umani tirata alle estreme conseguenze, non concede mai il lenimento di una qualche immedesimazione. I dialoghi sono irrimediabilmente programmatici: rivelano senza misura, svelano i nodi della trama, ostentano in modo grossolano i temi portanti. La colonna sonora, di una tristezza abissale, si avvera solo nei momenti più cupi, caricando senza freni lo strazio degli eventi. La regia è sporca, sciatta: le inquadrature, eccezioni a parte, sono tirate vie, e i piccoli o più evidenti oscillamenti da macchina a spalla legati alla cadenza a scatti di alcune zoomate assegnano all’intero film un’aura amatoriale. Il montaggio è nervoso, brusco, sconsideratamente veloce, ellittico anche quando il fluire naturale del tempo permetterebbe una migliore esposizione dei personaggi e delle loro intenzioni. La fotografia, come se il resto non bastasse, con le predominanti del rosso e del blu, appare troppo leccata, quindi tanto più stridente rispetto alla regia.
A conti fatti, è come se Kim Ki-duk, al suo diciottesimo film, avesse contratto una qualche miopia, una menomazione tale di cui non si è fatta carico neanche l’illustre parata dei giurati del festival, miopi anche loro, ma con una aggravante: perché se un regista può fallire un film, una giuria, soprattutto se composta da nomi tanto scintillanti, non può consegnare un regista al ridicolo, adagiando un film così poco riuscito sulla cima bene in vista di un premio internazionale. Proprio dove serviva tatto, una decorosa quanto defilata uscita di scena, qualche pacca sulle spalle, a Kim Ki-duk è stata prospettata, suo malgrado, la più nera delle soluzioni: una scarica di flash con il sorriso in posa.
Ma è impossibile liquidare con questa invisibile pugnalata uno dei migliori creatori di immagini in circolazione, il regista che in un pugno di anni, tra il 2000 e il 2004, ha inanellato, a tutto vantaggio degli spettatori, tre capolavori – L’isola, La samaritana, Ferro 3 – La casa vuota – film che a loro modo, sotto la superficie rovente di melodrammi a tratti insostenibili, illuminano l’idea piccola ma esplosiva che gli affetti, le passioni sentimentali, prima ancora che qualche sistema ideologico ci ricami su, diventando essi stessi ideologia, possano scardinare e ricomporre il mondo, ridisegnandolo al di là del bene e del male.
Così, in un film che sulla carta, con qualche miglioria, e un uso parco dei dialoghi, sarebbe stato geniale – una donna che vendica il figlio facendo credere al mandante morale del suo suicidio, uno strozzino solitario, violento, senza passato, di essere sua madre, di amarlo alla follia, di proteggerlo fino alla fine dei tempi, irretendolo poco per volta nelle spire della dolcezza materna, prima di abbandonarlo, suicidandosi, alla più catastrofica delle solitudini – bisognerebbe rintracciare con cura i motivi di una tale disfatta.
Una prima risposta è di carattere biografico. Secondo le interviste che Kim Ki-duk ha rilasciato, lo slum di Seul dove si inscrive questa storia, un alveare di officine microscopiche in cui moltitudini di operai si affaticano su minute manifatture di metallo, sarebbe stata casa del regista per cinque anni. Lui stesso dichiara di essere stato un operaio, prima di evadere da lì, stabilirsi a Parigi, e coltivare il sogno di diventare un pittore. E infatti, la descrizione di questo set a cielo aperto è quanto di più avvincente del film: officina per officina, il capitalismo avanzato dei paesi asiatici dimostra di essere più plumbeo e tagliente della lamiera che ricopre tutto. Ma alla spietata ricognizione del paesaggio, non segue un identico vaglio degli esseri umani che lo abitano: gli operai, ritratti sempre all’interno delle officine, sono buoni, dolci, proni, pronti a sacrificarsi per il bene del prossimo. Tranne alcune scene, più che nobili, appaiono stucchevoli – come se il loro ricordo fosse glassato, questo sì, di una pietà eccessiva. In fondo, più che la vendetta, sembrerebbe questo il reale soggetto del film. E nel trattamento di questi personaggi si insinua ancora più evidente l’idea che il regista avesse voluto trattenere, attraverso la memoria addolcita di questi operai, tutte comparse intorno alla sua età più verde, qualcosa della sua gioventù: la speranza, la fiducia, la fede nel destino.
Però, se il dato biografico è l’acido che corrode dall’interno la sceneggiatura e i suoi caratteri, altro affiora sulla superficie delle immagini. In un film dove il suicidio è continuamente esibito, e gli operai si uccidono per sfuggire alle richieste dello strozzino, anche Kim Ki-duk sembra perversamente attratto da una morte esemplare da infliggersi davanti agli occhi degli spettatori. Rispetto al passato, alla pellicola sceglie il digitale, alla calligrafica esattezza delle inquadrature preferisce il rollio incidentale della camera a spalla, alla confezione di immagini memorabili privilegia quelle di servizio narrativo (la Pietà raffigurata nella locandina è parte di una scena tagliata), al silenzio o alla laconicità dei dialoghi opta per il chiacchiericcio, alla sintesi fulminante di una parabola sentimentale sostituisce una narrazione più dispersiva. Cinematograficamente parlando, un suicidio. Come se avesse deciso dopo diciotto film di dismettere non solo ciò che lo ha da sempre contraddistinto, ma le sue doti, la sua forza.
Soprattutto per questo alle pacche sulle spalle andrebbero sostituiti degli abbracci. Perché con il coraggio estremo che ogni harakiri comporta, Kim Ki-duk sembra avere ripudiato davanti a migliaia di testimoni seduti in sala tutto ciò che rischia di farlo diventare un’involontaria parodia di se stesso. Da qui in poi gli spetta il compito difficilissimo di trovare una nuova via degna dei suoi migliori trascorsi. Sempre che la maledizione del premio ricevuto non ostacoli la strada in salita su cui sembra essersi avventurato.

di Davide Orecchio
Fai un backup delle chiavi di casa. Salva una copia delle chiavi di casa sulla nuvola. Fai un backup di te stessa; usa la nuvola: Google Drive (5 giga gratis) per le parti ingombranti (testa, torso, membra) Dropbox (2 giga gratuiti) per il resto (pelle, unghie, software).
Di fede e speranza non c’è backup: hanno bisogno della memoria RAM.
Attenzione #1: la fede tende a bruciare processore e scheda madre. Se si ha fede, scegliere un ambiente climatizzato.
Attenzione #2: se la tua fede opera su piattaforme Flash e Java, non è compatibile con iPad e iPhone (scegli una fede compatibile).
Attenzione #3: puoi disinstallare la tua fede con Faith Uninstall©, ma solo se vivi sotto un regime non teocratico; Faith Uninstall© è incompatibile con: Teocrazia (in genere), Città del Vaticano, Medio Oriente.
Attenzione #4: l’upgrade della fede è tecnicamente possibile ma spiritualmente sconsigliato.
Puoi salvare la tua anima su iCloud, ma devi acquistare spazio: 10, 20, 50 giga. Sai quanto pesa la tua anima? Tieni conto che in certi individui col passare del tempo diventa più leggera, mentre al contrario in altri s’aggrava. Tu che tipo di individuo sei? Leggi bene le istruzioni nella tua anima prima di caricarla su iCloud, così da non subire perdite di dati. Proteggi la tua anima con una password alfanumerica, cripta la tua anima. Se qualcuno s’introduce nella tua anima per rubarla, Apple declina ogni responsabilità.
Un pensiero fulmineo è un tweet. Un pensiero più lungo di 140 caratteri è uno status. Un pensiero più lungo di uno status è un post. Se non si hanno pensieri, svuotare la cache. I sogni sono SEMPRE trojans o virus. Spybot e Tea Timer neutralizzano i sogni.
Un pisolino è stand by, il sonno è log out, la morte è switch off, per la resurrezione bisogna attendere il nuovo sistema operativo.
Il volto che intravedi riflesso nello schermo non è tuo, è il tuo avatar.
Usa sempre firewall e antivirus, altrimenti è sesso non protetto (vedi anche MORTE, ANIMA, BACKUP, ICLOUD).
Impostazioni di privacy consigliate per l’accesso della app cervello a Facebook: Super io, pubblico; Io, solo amici; Es, nessuno (neanche tu).
Connettere lo sguardo all’account Flickr. Connettere lo sguardo all’account Instagram. Condividere lo sguardo. Se lei ti piace, mettile un like. Se lui ti piace, mettigli un like. L’inverso è implicito nell’assenza di like.
“Che disordine la mia testa! Forse dovrei deframmentarla, che dici?”
Non si viaggia, si naviga. Il web non è affatto inestricabile.
Se hai perso le chiavi di casa e non hai fatto il backup, cercale su Google. Altre cose che puoi cercare e trovare su Google: il caro estinto, te stessa, quello che resta. Chi cerca su Google, trova.
di Franco Buffoni
In Italia in questi mesi stiamo assistendo ad uno strano, risibile e ipocrita dibattito su ciò che dice effettivamente la nostra Costituzione, promulgata il 1 gennaio 1948, sul matrimonio civile.
Da una parte c’è chi sostiene, Costituzione alla mano, che – essendo tutti i cittadini uguali dinanzi alla legge – e poiché la Repubblica promuove l’uguaglianza e le pari opportunità, anche i cittadini omosessuali devono poter stipulare tra loro il contratto denominato matrimonio civile.
Dall’altra parte si risponde che l’articolo 7 della Costituzione parla di “famiglia naturale” basata sul matrimonio.
In linguistica, si sa, non esiste il “verbo”, non esiste l’ipse dixit. E la linguistica applicata al diritto è una scienza empirica, relativistica. Perché le lingue, come le società, sono in costante trasformazione. I termini, dunque, non posseggono un significato letterale determinato. I significati letterali non sono che i significati stabiliti da una pratica interpretativa. Qualcuno potrebbe replicare che i significati coincidono con le intenzioni degli autori dei testi: in questo caso si parla di teoria intenzionalistica dell’interpretazione, contrapposta alla teoria letteralistica.
Dall’altra parte, dicevo, si risponde che l’articolo 7 della Costituzione parla di “famiglia naturale” basata sul matrimonio. A questa risposta i primi replicano che la Costituzione non parla mai di matrimonio esclusivamente tra un uomo e una donna. E a questa replica i secondi rispondono che la Costituzione lo dà per sottinteso.
Eccoci nel cuore dello scontro tra teoria intenzionalistica e teoria letteralistica dell’interpretazione. Nel caso dell’articolo 7 la lettura intenzionale è dei giuristi di area cattolica, quella letterale è dei giuristi – come Stefano Rodotà – di area laica. Ma le posizioni potrebbero scambiarsi su un altro articolo, trasformando i cattolici in letteralisti e i laici in intenzionalisti, secondo le rispettive convinzioni ed esigenze.
E’ in questi casi che occorrono sensibilità, intelligenza e capacità di guardare lontano. Perché altrimenti non se ne esce, come è evidente ripercorrendo gli estremi del dibattito.
Dapprima, da parte cattolica, si sostenne che gli animali, che sono “naturali”, non praticano l’omosessualità. Da parte laica si è allora dimostrato scientificamente che la natura non disdegna affatto l’omosessualità; che in molte specie l’accoppiamento omosessuale è un dato di consuetudine anche in presenza di individui del sesso opposto, e non solo in cattività; e che in altre specie vicine all’homo sapiens il sesso è slegato dal ciclo riproduttivo: e che questo punto è fondamentale per i diritti degli omosessuali: la separazione tra sessualità e procreazione.
Da parte clericale si è allora replicato che, se gli animali praticano dei comportamenti “bestiali”, questo non giustifica l’uomo che li imiti.
E da parte laica: come si può negare che la pulsione omosessuale sia “naturale”? E’ forse stata creata in laboratorio?
Significativa al riguardo la mostra Against Nature?, proveniente da Oslo e ospitata dal Museo di Storia Naturale di Genova, che presentava in modo rigorosamente scientifico gli studi sui comportamenti omosessuali di oltre millecinquecento specie animali, dagli invertebrati ai mammiferi. La mostra era partita in sordina, ma venne alla ribalta quando le organizzazioni cattoliche protestarono perché il progetto era stato inserito nel catalogo didattico per le scolaresche. (Interessatissime, per altro, alle storie delle balene maschio che si comportano vistosamente da femmina per evitare i combattimenti; dei trichechi che si coinvolgono in giochi erotici omosessuali; dei pinguini reali tra i quali un maschio su cinque preferisce un partner dello stesso sesso. E dei fenicotteri, che si organizzano in coppie di maschi per allevare il doppio dei cuccioli, o dei cigni che creano coppie fedeli nel tempo sia etero che omo.) Magnus Enquist, etologo dell’Università di Oslo, per nulla turbato dalle polemiche, osservò: “Ci sono cose che vanno contro natura molto più dell’omosessualità, cose che soltanto gli umani riescono a fare, come avere una religione o dormire in pigiama”.
Come inquadrare la questione nell’ottica della sensibilità, dell’intelligenza e della capacità di guardare lontano? Per esempio, impostandola in questo modo:
I. Parlare di “omosessualità” tra gli animali è scorretto, significa antropomorfizzarli, attribuendo loro intenzioni decisamente umane.
II. Le persone omosessuali devono acquisire rispetto sociale e diritti non perché si dimostra scientificamente che i loro comportamenti esistono in natura, ma perché amano e si amano come persone.
III. Quindi, sia il ricorso da parte clericale al concetto di omosessualità contro-natura, sia la replica che si tratta di comportamenti largamente diffusi in natura, non sono argomentazioni convincenti perché il problema è interamente umano, cioè etico.
IV. E’ inutile appellarsi al non umano per giustificare l’umano. Solo la cultura ha il compito di compiere scelte etiche, cariche – per l’appunto – di una forza culturale.
V. E’ la parte più avanzata della filosofia del Novecento che considera obsoleto come categoria di pensiero il diritto naturale. Siamo ormai una specie troppo poco “naturale” per parlare di che cosa è naturale. La Sapiens-sapiens è diventata tale proprio perché si è distanziata dalla natura, dalla animalità. Per gli appartenenti alla Sapiens-sapiens, oggi, “naturale” dovrebbe essere l’accentuazione di educazione, gentilezza, civiltà: umanizzare il mondo, diceva Rilke. E che cosa è più gentile, umano, civile, di una promessa d’amore, di un patto di solidarietà, di un “contratto” stipulato solennemente tra due persone? E sottolineo persone.
Nei giorni scorsi Gianrico Carofiglio ha citato in giudizio Vincenzo Ostuni, poeta ed editor della casa editrice Ponte alle Grazie, per aver affermato sulla propria pagina facebook all’indomani del Premio Strega dello scorso luglio che il suo ultimo romanzo, Il silenzio dell’onda, sarebbe «un libro letterariamente inesistente, scritto con i piedi da uno scribacchino mestierante, senza un’idea, senza un’ombra di ‘responsabilità dello stile’, per dirla con Barthes».
Da: Melanie Gilligan, Crisis in the Credit System, 2008 (su youtube, anche gli episodi successivi).
testi e foto di Marilena Renda
(E’ uscito Ruggine, di Marilena Renda. Qui la postfazione dell’autrice al libro, che puo’ essere ordinato scrivendo a questo indirizzo. a.r.).
L’urna vuota del giorno che dicemmo:
è così per sempre, è un’ambra propulsiva
di ore meridiane, un castello di lucertole
che trascinano tra le zampe, tra le ombre,
i gridi, il guano delle rondini, particole
di
Francesco Forlani

Questo libro sarà tra tre giorni in libreria. E’ un romanzo che vale per almeno tre ragioni. La prima è perché in Italia pochi scrittori affidano la propria arte del romanzo ai dialoghi e Silvia Longo lo fa e in modo eccellente. La seconda è perché raramente mi è capitato di trovare in un libro quello che nella vita mi è successo di cogliere in molti destini di uomini e donne, ovvero una incommensurabile fragilità in grado di orientare il senso delle cose oltre ad averne colto il significato più profondo di esse. La terza è perchè me lo sento che vale, e le righe che seguono spero possano rendere a questo sentire la capacità di farsi ascoltare.
La storia.
Viola, che ha una quarantina d’anni, ha da poco perduto il marito, acclamato direttore d’orchestra, brillante al punto di riuscire perfino nella propria morte, d’infarto nell’atto di dirigere la sua orchestra. Viola, si è lasciata condurre tutta l’esistenza senza avere veramente deciso nè la partitura né il tempo di una vita familiare tutto sommato ordinaria, scandita dalla propria totale dedizione al marito e alla figlia. Durante una manifestazione organizzata in memoria del marito, incontra un musicista. Per andarsene, mettere fine all’esperienza di profondo disagio che sta vivendo, chiede al misterioso ospite di portarla via. In questa fuga, resa rocambolesca dal maltempo, il racconto delle rispettive vite ma soprattutto l’ascolto delle loro voci, li guida versa una nuova e creatrice forma di consapevolezza.
Ricercare in origine era il nome della forma musicale che oggi chiamiamo fuga.
Così si apre il romanzo di Silvia Longo e non poteva essere altrimenti non solo perché la storia che vi si narra si svolge in un ambiente di musicisti, compositori, direttori d’orchestra, ma soprattutto per la composizione, il tempo, variabile da capitolo a capitolo con continui rimandi dal significato di durata, esistenziale e storica, a quello apparentemente più innocente della meteo.
Ecco perchè ogni capitolo riporta perentorie le scansioni climatiche dal secondo capitolo che si apre con Cielo sereno e temperature al di sopra della media stagionale. al penultimo, il diciannovesimo che recita: Nonostante il persistere di piovaschi diffusi, si prevedono schiarite nel corso della notte. Per poi risolversi, il tempo, in quel tempo interiore da cui eravamo partiti.
“”Ma, sai, il mio unico problema quando, da ragazzo, mangiavo un gelato era: How long is it going to last?”, quanto a lungo durerà – scriveva Cesare Pavese a Constance Dowling, l’amore di tutta la vita, ovvero colei che aveva suscitato in lui insieme la più profonda esperienza dell’amore e della sua fine. Senza fine non c’è durata ma che cosa ci indica l’intensità di quel tempo? I due personaggi devono elaborare un lutto, quello del padre lui, e lei dell’uomo che ha amato o pensato di amare per tutta la vita. Solo in uno spazio esterno, in un fuori-tempo è possibile osservare meglio quello che è accaduto veramente. Nessuna affabulazione, menzogna è tale tra sconosciuti, le cose che si dicono sono quelle che sono, e solo in questo autentico dialogo, il cordoglio del lutto può trasformarsi nelle doglie di una nascita. Come è possibile far perdurare l’amore?
Non ci sono durate se non c’è ascolto. C’è una parola-concetto, mot-valise, usata dal filosofo Peter Szendy che secondo me descrive meglio di chiunque altra il risuonare in una storia attraverso un’esperienza in grado di contenere insieme il sentire che poi equivale a un esperire con tutto il proprio corpo e l’ascoltare: « inthymnité » ovvero “una specie di Marsigliese della psiche, intima,” come ci dice il suo autore in questa intervista.
Milan Kundera aveva scritto nel romanzo Il valzer degli addii “un amore eccessivo è un amore colpevole”, ed è proprio attraverso quella fenditura, in francese coupable si può assimilare a coupe, coupure, ferita, taglio, che i due personaggi si appartengono, come se fossero entrambi sull’orlo dello stesso precipizio. Lo stile, la scrittura, la delicatezza con cui l’autrice ha accompagnato, qui nel senso proprio musicale, ogni frase del fitto dialogo che si instaura tra di loro, è realista senza però rinunciare a dei passaggi lirici mai ridondanti.
Il flusso di ricordi che anticipa le reazioni dell’uno o dell’altra, in contrappunto, fa “sentire” al lettore, uno dopo l’altro tutti i toni della ballata, di un movimento a due in cui potrebbe realizzarsi la loro intimità.
C’è un momento, verso la fine, in cui questa esperienza di inthymnité pare compiersi ed è quando i due protagonisti si ritrovano a raccontare il passaggio da un tempo a un altro: « Il mare e` ancora molto mosso. C’e` vento. » Socchiude un’anta. « Lo senti? » chiede lui a lei. Lei ascolta, sente, e perché il mare risuoni in loro, produca in loro Un suono di onnipotenza. poco dopo intonano Moonlight in Vermont di Ella Fitzgerald.
As they travel each bend in the road, ci verrebbe, da lettori, di cantare, a questo punto.
8 fratelli, all blood brothers, tutti figli di ⇨ Phil Cohran, trombettista nella leggendaria ⇨ SUN RA ARKESTRA, tirati su a cibo vegan e musica, suonano insieme dalla culla. Da buskers nella subway di Chicago a protagonisti della scena musicale internazionale.
[ mescolanza trasversale di stili – una punta di hip-hop – sincopi di be-bop – qualche sassolino di rock – il ritmo dello swing – la linea melodica del Rhythm & Blues – tendente – nella formazione classica della Fanfara di New Orleans – alla gioia pura delle “buone” vibrazioni degli ottoni – per una domenica di fine settembre verso l’autunno ]
⇨ da arte LIVE web TV
di Antonio Sparzani
Ci sono state, e ci sono, nella mia vita, come probabilmente in quella di molti altri, occasioni nelle quali ho sentito l’urgenza di richiamarmi a qualche puntello di base, di ripetere il riferimento a qualche testo fondamentale, di ritrovare una bandiera sotto la quale riconoscermi; urgenza squisitamente soggettiva, frutto solitamente di un accumulo di sdegno, di una rabbia montata a poco a poco e fatta traboccare da qualche ultima goccia, di una contingente, ma forte, forse eccessiva, valutazione pessimistica della umana natura. Non sarà così diversa, fatte le debite differenze di intensità e di importanza, dall’urgenza e dalla rabbia che portò i milanesi a fare le barricate delle cinque giornate contro l’intollerabile oppressione austriaca, o i francesi a prendere la Bastiglia contro lo strapotere dei nobili e dell’ultimo Capeto, e di tutte le occasioni nelle quali i tanti oppressi hanno provato e talvolta efficacemente saputo ribellarsi contro i pochi oppressori.
L’esca che mi ha fatto scattare qualcosa nella testa stavolta ― si parva licet, naturalmente ― è quella costituita dall’ultimo episodio di malaffare e ruberia scoperto nel bel paese, quello della regione Lazio, nel cui fiorito merito non intendo minimamente entrare, visto poi che è ormai strombazzato ai quattro venti per le orecchie di ognuno; e che certo non sarà né il più grave, né l’ultimo di una nutrita serie, recente e non recente.
Il testo di riferimento che proprio istintivamente mi è saltato davanti agli occhi è forse il più famoso testo della letteratura inglese, il celebre monologo che Shakespeare fa pronunciare ad Amleto nella prima scena del terzo atto della tragedia omonima: Amleto ha appena finito, nell’ultima parte del secondo atto, di istruire una compagnia di attori appena arrivata ad Elsinore affinché recitino un testo che faccia arrossire di vergogna lo zio Claudio, regnante e novello sposo della madre di Amleto, ma anche recente assassino del proprio fratello, legittimo re di Danimarca, Amleto padre di Amleto. Nella scena prima del terzo atto il re e la sua novella sposa, ed ex cognata, Gertrude, vogliono far incontrare Amleto con Ofelia, per saggiare le vere intenzioni del principe, che nel frattempo si fingeva pazzo per ingannare appunto il re usurpatore ed avere una mano più libera per la sua vendetta.
Amleto passeggia nella reggia e così comincia (una traduzione italiana possibile ad esempio qui)
To be, or not to be: that is the question:
Whether ‘tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune,
Or to take arms against a sea of troubles,
And by opposing end them?
L’essere e il non essere qui non hanno il sapore Parmenideo astratto e universale, ma entrano immediatamente nelle stanze dell’uomo e sono sinonimi della lotta contro l’ingiustizia o invece dell’assuefazione rassegnata al potere e all’ingiusto volere dei potenti. Cosa è più nobile, sopportare nella propria mente oltraggi e sofferenze o davvero ribellarsi e dunque far cessare quel mare di angoscia e di dolore: preziosa ambiguità quella di arms che in tutta la tragedia conserva il doppio senso di “braccia” e di “armi”.
Insomma essere significa insorgere, realizzare la propria natura di uomo tra gli uomini, con pari diritti e pari opportunità e significa quindi non tollerare che altri si arroghino diritti e poteri illegittimamente conquistati.
Amleto prosegue:
To die: to sleep;
No more; and by a sleep to say we end
The heart-ache and the thousand natural shocks
That flesh is heir to, ‘tis a consummation
Devoutly to be wish’d. To die, to sleep;
To sleep: perchance to dream: ay, there’s the rub;
ecco la soluzione che sembra più facile ― da «desiderarsi devotamente» ― la soluzione del sottrarsi, dello sfuggire alla vita intera, per far finire quel heart-ache, quel dolore al cuore e del cuore e quei «mille naturali turbamenti» che costituiscono la nostra terribile eredità di uomini. Ma qui, si obietta Amleto, qui nell’incertezza che avvolge ciò che avviene dopo la morte «Morire, dormire, forse sognare» sta la difficoltà, the rub è tipicamente nel gioco delle bocce qualsiasi ostacolo che impedisca alla boccia di percorrere il cammino stabilito. Ed è questo l’ostacolo che fa esitare il sofferente dal togliersi di mezzo definitivamente, l’incertezza del dopo, interrompere il cammino della boccia non si sa dove porti.
For in that sleep of death what dreams may come
When we have shuffled off this mortal coil,
Must give us pause: there’s the respect
That makes calamity of so long life;
For who would bear the whips and scorns of time,
The oppressor’s wrong, the proud man’s contumely,
The pangs of despised love, the law’s delay,
The insolence of office and the spurns
That patient merit of the unworthy takes,
When he himself might his quietus make
With a bare bodkin? who would fardels bear,
To grunt and sweat under a weary life,
But that the dread of something after death,
The undiscover’d country from whose bourn
No traveller returns, puzzles the will
And makes us rather bear those ills we have
Than fly to others that we know not of?
Non perde l’occasione Shakespeare per un piccolo elenco di mali che opprimono l’uomo del suo tempo, dalle male azioni degli oppressori all’insolenza delle cariche ufficiali ― come non sentire una carica di acuta modernità ― ; ma la coscienza dell’incertezza ci rende tutti codardi:
Thus conscience does make cowards of us all;
And thus the native hue of resolution
Is sicklied o’er with the pale cast of thought,
And enterprises of great pith and moment
With this regard their currents turn awry,
And lose the name of action.
E nessuno più osa, né togliersi di mezzo, né prendere le arms e ribellarsi contro il mare dell’ingiustizia dilagante.
C’è però un momento, questo è il messaggio che ho sentito forte e chiaro, in cui occorre smettere di leggere Shakespeare e dare coerente seguito al proprio coraggio e alla propria più autentica natura di uomini.
[ho usato, come ormai tutti fanno, il testo con ortografia modernizzata; chi volesse vedere l’originale vada qui a vedere i quartos e il first folio]
di Mario Schiavone
Qualche giorno fa sono andato a trovare mia zia Silvana.
Ho preso l’autobus T51 e sono sceso alla fine di via Aversa, quasi al confine fra Casal di Principe e Villa Literno. La piccola casa appartenuta ai miei nonni è stata data a mia zia, solo perché lei sta poco bene in salute. Avevano fatto un patto mio padre, primo fra i figli, e i suoi fratelli minori.
di Christian Raimo
C’è un brano del discorso di ringraziamento che pronunciò nel 1957 Camus quando vinse il Nobel per la letteratura che dice questo: «Ogni generazione, senza dubbio, si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga».
Se dovessi fare una dichiarazione d’intenti su cosa vorrei che facesse il piccolo inserto culturale (che uscirà da domani ogni sabato con il giornale, si chiamerà Orwell, avrà otto pagine per cominciare e poi quattro per continuare, si troverà nel cuore del quotidiano, avrà fra i suoi collaboratori scrittori, critici letterari, illustratori, fotografi, sceneggiatori, fumettisti, reporter, fisici teorici, filosofi politici, studiosi di letteratura di genere…), ricalcherei questa citazione e la finirei qui.
Nessuna retorica del “nuovo”, nessun enfatico proclama alla “ne vedrete delle belle” e “spaccheremo tutto”, nessuno slogan alla moda sull’innovazione… Ho imparato nel tempo che diffidare dei facili entusiasmi porta a migliorarsi un pezzetto ogni giorno, e che realizzare cose semplici è una missione tremendamente impegnativa; così un inserto culturale fatto per i lettori e non per ammiccare a qualche presunta schiera di intellettuali engagé, richiede alcune regole evidenti. Chiarezza, competenza, creatività nella scrittura, apertura mentale, laicità, interdisciplinarietà, autocritica, ironia… Ma, ancora più precisamente, ce ne sono un paio di principi che per me sono imprescindibili – tali che se usati bene possono rivelarsi delle armi politiche. Uno è la sincerità, l’altro è l’accuratezza.
Se non troverete traccia né dell’una né dell’altra nei nostri pezzi d’informazione culturale, nei nostri ritratti di scrittori e di artisti, nelle nostre inchieste sull’editoria, nei nostri racconti, nei nostri reportage, nei nostri pezzi di satira, nelle nostre recensioni cinematografiche, nelle nostre poesie, e anche nelle immagini che i fotografi e gli illustratori ci daranno, allora farete benissimo a lamentarvi. Altrimenti, lo vedrete anche voi, la fiducia che ci concederete finirà per farvi sembrare che un po’ di questo “Orwell” è anche vostro. Un grazie anticipato da parte mia e di tutti i collaboratori.
(P.s. Abbiamo già una pagina Facebook e un account twitter @orwellp)
di Malcolm Lowry
I sedili erano disposti longitudinalmente sui due lati della corriera e Hugh guardò l’uomo dall’abito blu che, seduto di fronte a lui, aveva parlato fino a quel momento tra sé con voce rauca e ora, ubriaco, drogato, o tutt’e due le cose, sembrava sprofondato nel torpore. Non c’era bigliettaio sulla corriera: forse sarebbe salito uno più avanti oppure il biglietto lo si pagava all’autista al momento dello scendere: nessuno venne a disturbarlo. Certo, le sue fattezze, il naso alto, prominente, il mento fermo erano di netta origine spagnola. Le mani – in una egli stringeva ancora il melone sbocconcellato – erano enormi, capaci, rapaci. Mani da conquistador, pensò a un tratto Hugh. Ma l’aspetto complessivo dell’uomo faceva pensare non al conquistador, fu l’idea forse troppo netta di Hugh, ma alla confusione che alla fine tende a sopraffare i conquistadores. Il suo abito blu era di taglio decisamente costoso, la giubba aperta, pareva, ben modellata al busto. Hugh aveva notato i pantaloni dagli ampi risvolti che cadevano ben a piombo su un paio di scarpe di lusso. Ma quelle scarpe – che erano state lucidate la mattina, sebbene fossero ora coperte di segatura d’osteria – erano piene di buchi. L’uomo non portava la cravatta. La sua bella camicia rosa, aperta sul collo, metteva in mostra un crocifisso d’oro; era stracciata e in più punti pendeva fuor dei calzoni. Inoltre, chissà perché, l’uomo aveva due cappelli, una lobbia di ferro a buon mercato calzata bene a modo sulla cupola del suo sombrero.
“Come sarebbe a dire spagnolo?” domandò Hugh.
“Sono arrivati qui dopo la guerra marocchina,” disse il Console. “Un pelado,” aggiunse con un sorriso.
Il sorriso si riferiva a una discussione su questa parola con Hugh, secondo cui il termine definiva il povero analfabeta che va in giro senza scarpe. Secondo il Console, questo era soltanto uno dei molti significati; pelados erano, sì, gli strapelati, i morti di fame, ma anche quelli che non avevano bisogno di essere ricchi per spogliare i veri poveri. Per esempio, quegli oscuri politicanti meticci disposti a far qualunque cosa, dal lustrascarpe a recitar la parte di chi non è un “piccione viaggiatore”, pur di restare in carica, un anno, un anno solo, ma in quell’anno, sperano di mettere da parte abbastanza per non dover più lavorare in vita loro. E alla fine Hugh s’era convinto trattarsi d’un termine quanto mai ambiguo. Lo spagnolo poteva intenderlo come riferentesi all’indio, l’indio che egli disprezzava, sfruttava, ubriacava. Ma l’indio poteva servirsene per alludere allo spagnolo. E tanto l’uno quanto l’altro potevano intendere con pelado chiunque facesse esibizione di se stesso. Era forse una di quelle parole che la Conquista aveva distillato sottilmente, potendo intendere, come intendeva, da una parte il ladro, dall’altro lo sfruttatore. Sono sempre intercambiabili i termini offensivi con i quali l’aggressore scredita coloro che sta per ridurre in schiavitù!
[da Sotto il vulcano, di Malcolm Lowry, Feltrinelli, pp. 257-258. Il graffito di Hernán Cortés è di El Mac]
di Lorenzo Esposito
A ragione
La cosa
È nel nome
*
Non una frase
Da cui cominciare
Non una ragione per
Cominciare