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Su “Il contro in testa. Gente di marmo e d’anarchia”

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di Daniele Giglioli

Si resta sempre sorpresi dalla quantità di voci che si affollano nei libri di Marco Rovelli (Lager Italiani, Lavorare uccide, Servi, e ora questo ultimo Il contro in testa. Gente di marmo e d’anarchia, reportage e rivisitazione poetica della sua terra, la selvaggia dorsale apuana che sovrasta Massa e Carrara). Voci di chi di solito non parla ma è parlato dal discorso di coloro che detengono il potere, il sapere ed eventualmente la pietà: i dannati della terra (clandestini, migranti, morti sul lavoro), e chi si è schierato irreversibilmente dalla loro parte, come gli anarchici del Novecento. A differenza di Saviano, che in Gomorra avoca per intero a sé prerogative e privilegi della voce narrante, Rovelli pratica una narrativa dell’ascolto, pensa con le orecchie, diffida del primato razionale della vista, non si arroga il diritto della parola decisiva, si riserva le domande e lascia agli altri le risposte. Nelle scene decisive lui non c’era, e lo sa. L’aggettivo “corale”, per una volta, non è speso invano.

Io, Rugo e la vecchia

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di Gianni Agostinelli

Io e Rugo siamo in magazzino che apriamo gli scatoloni col taglierino. Li impiliamo per benino uno sull’altro finchè possiamo manovrare il transpallet senza che sia troppo faticoso o che caschi anche la troia di sua sorella che poi tocca raccogliere i chili di cartone con le guance rosse per la vergogna che sicuro dietro spunta preciso Bragianti o la Marini e dicono no con la capoccia e finisce che ci fanno la festa se non stiamo attenti. Poi facciamo trentadue passi, di norma, e dalla luce accecante venti metri sopra le nostre teste, che ci lasciamo alle spalle e che viene dal corridoio bevande, trentadue passi dopo, dicevo, c’è la porta automatica sul retro del supermercato. E sul retro del supermercato ci sono i diversi contenitori dell’immondizia. il parcheggio coi lampioni, la recinzione, e i secchi. E vicino a quelli generici, o dell’umido c’è sempre una coppia di ex sovietici, marito e moglie penso, anche se Rugo dice che sappiamo soltanto che sono uomo e donna, oppure un vecchietto che parla a scatti rapidi e solo quando litiga coi due tizi ex sovietici per contendersi qualcosa da mangiare che noi di genere buttiamo via. Anche se una volta buttavamo via più roba. Tu devi sapere che quindici anni fa buttavamo via un mare di verdura che adesso no, dice Rugo. E il vecchio contro i due ex sovietici litigano quando si pestano i piedi. Comunque è cronaca, per dire, non è questo che è strano, che infatti domani alle tre quando ripartiamo col transpallet loro saranno lì fuori e io e Rugo invece avanti e indietro. È invece che oggi che avevamo aperto un mare di scatoloni, oggi è lunedì, anzi era ormai, sono arrivati un casino di colli e con Rugo ci siamo fatti un culo come un capannone. Insomma lavoravamo muti, che infatti che cazzo vuoi dire, muti eravamo, e dalla luce della corsia bevande entra nella nostra luce più timida del magazzino una signora vecchia. Una settantina d’anni dico io, approssimando come sempre. Bastone, mollette tra i pochi capelli, gambe storte, puzza. La solita vecchia. E non riusciamo a dire un cazzo, io e Rugo perché lei va diretta in avanti, lentissima ma imperturbabile e muta come noi. Mi affaccio alla luce della corsia bevande ma non c’è nessuno. Sembra sia sola. Lei cammina e sta andando verso un pianale di lamiera appuntita che aspetta lì come una pianta carnivora e si lecca i baffi che adesso mangia la vecchia. E la vecchia cammina piano ma intanto si avvicina. Rugo mi guarda e dice Chiama qualcuno. E io mi affaccio nuovamente e vedo una ragazza e una signora, che sarà la mamma della ragazzina e la figlia di questa vecchia che sta per finire sopra un quintale di ferro. Loro cercano la vecchia con lo sguardo, io non dicono niente e gli indico la direzione quando incrocio i loro sguardi. La signora aggrotta le sopracciglia e nel massimo silenzio segue con lo sguardo il mio dito indice e vede la vecchia che adesso ha oltrepassato il pianale del ferro e corre spedita, si fa per dire, verso la luce della sera e l’aria fresca del tramonto invernale. Nonna dice la ragazzina e quella dice Che vuoi continuando a camminare. Io mi scanso e le faccio passare sorridendo ma senza guardarle e così recuperano la vecchia e se la riportano a casa che tanto né io né Rugo sapevamo che farci. Che situazione dico quando siamo nuovamente soli, io e Rugo. Mi ricorda quando ho scritto un racconto. Una volta volevo scrivere un racconto su mia nonna che ai tempi aveva l’Alzheimer. E il corpo era a posto invece la testa no. E lei ripeteva la solita cantilena tutto il giorno, non mi ricordo le parole esatte ma era una frase breve in cui lei andava alla porta di casa e vedeva arrivare qualcuno. E cercava di avvertirmi sul fatto che era arrivata gente all’uscio, pensando così che io potessi farci qualcosa. Invece io l’ascoltavo, trenta, quaranta, o sessanta anni dopo quello che lei stava cantilenando e non sapevo veramente che cazzo fare se non ascoltarla, aprire le braccia e controllare che il laccio che legava la sua vita alla poltrona non fosse troppo stretto. E questo lo dico appunto per far capire che la legavamo, che era indispensabile ma non disumano, era per farlo passare come indizio a fine di frase in modo calcolato e scivolare al periodo successivo. Che eccolo che arriva.
Di che racconto parlavi fa Rugo. Parlavo rispondo io alzando il tono di voce a quello di una normale conversazione tra due amici, parlavo, dico, di quella volta che partecipai ad un concorso per racconti horror. Era il periodo che leggevo tutti i libri di Stephen King, che mi piacevano tutte quelle cose irreali che lui vedeva e immaginava e che poi scriveva e c’era un gran minestrone di misteri sangue e america. E insomma c’era il concorso su internet per racconti noir e gialli e horror e io partecipai scrivendo di mia nonna che in pratica aveva l’Alzheimer come era la verità e però il protagonista del racconto era un ragazzo che aveva questa nonna malata ma aveva anche un nemico. Uno che ci provava con la sua ragazza in modo sfacciato. Per punirlo decise di ucciderlo e poi lo spezzò in diverse parti, lo nascose nel surgelatore e piano piano fece sparire il corpo dandolo da mangiare alla nonna malata di Alzheimer che ripeteva una cantilena tipo quella che ti dicevo prima e però aveva uno stomaco d’acciaio che nel giro di un paio di mesi si era mangiato tutto lo spasimante della ragazza. Questo era il racconto, però non ho vinto il concorso. Non mi hanno neanche menzionato. I risultati sono usciti l’estate seguente e a vincere è stata una tizia di Bergamo alta che aveva fatto un racconto sulle sue prime mestruazioni e sul forum del sito è scoppiata una caciara perché tutti quanti, anche io, abbiamo detto Che cazzo c’entrano le mestruazioni con l’horror, sangue a parte. E abbiamo fatto del fine umorismo, ma gli organizzatori, come si suole dire non hanno sentito cazzi e lei ha vinto il primo premio. E la vecchia mi ha ricordato il racconto e mia nonna.
La vecchiaia è brutta, terribile, dice Rugo. Lo so dico io. Tu non sei vecchio dice lui. Però non sto benissimo. Ma non sei vecchio. Non sono vecchio ma non sto bene. È diverso dice Rugo. Ma tu mica sei vecchio, hai l’età mia circa, no? Quanti anni hai?
Moscardè, interviene il macellaio che si era affacciato alla porta del magazzino e guardava verso di noi, hai ripreso a parlare da solo? Chiamo Brini? Lo chiamo? Vuoi che chiami Brini? Ah, ecco. Bravo. Svuota quel cazzo di transpallet e vieni di là con lo scaleo che sennò chiamo Brini e con lui vedrai che trovi da discutere. Intesi?

Trains de vie

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di

Francesco Forlani

al mio amico Alessandro Zannoni

(Salerno- Caserta)

August 3, 2012 at 8:18pm

Ci sono dei treni che nascono a Sud per raggiungere l’estremo Nord. E allora sono già settentrionali dalle prime battute. Questo treno va a Bolzano. Ecco perchè a differenza della tratta, di schiavi delle percorrenze uniche Campania, qui gli scompartimenti sono quasi vuoti, la temperatura sfiora i dieci gradi e il personale porta sul viso la stessa solarità di un animatore club MED, di un maestro di sci delle Dolomiti. Poteva allora sorprendermi il fatto che da Salerno a Napoli si percorresse un unico tunnel? come se stessimo valicando qualcosa, come se il Frejus, la sua galleria si fosse teletrasportata a sud. Da Salerno a Napoli abbiamo scavato una montagna e l’uscita dal tunnel è stata salutata da un’esplosione di luci, di azzurri, di mare, e a guardia del mare, feroce e silenzioso, il Vesuvio. Ci fermiamo per un buon quarto d’ora a Napoli. Tempo per una sigaretta, chiedo. E mi rispondono, anche per due. Bene. Fumo con lentezza. Risalgo. Mi attira l’attenzione di una signora decisamente bella, vestita di verde, che sulla banchina guarda qualcuno all’interno del treno. Sarà il figlio? Sarà l’amante? Il fidanzato? Un’amica? Dipenderà, mi dico da come saluterà alla partenza del treno. Si chiudono le porte, fischia il capotreno, mi volto a osservarla e la vedo che porta le dita alla bocca per appoggiare il bacio che s’involerà. Mi colpisce la discrezione e penso allora che sia il figlio o un amante. Sento che solo la birra ghiacciata che appoggerò alle labbra appena arriverò a destinazione, potrà ravvivarmi il ricordo del viaggio. E da mangiare Fasoi ‘n bronzon, Anatra alla Tirolese

(Agropoli- Salerno)

August 3, 2012 at 6:27pm ·

Come nel Processo di Kafka o in un terribile racconto di Buzzati, alla stazione non trovi nessuno che vesta, parli, si comporti come un funzionario. Le cose funzionano comunque, ci mancherebbe, perfino con la supplenza di una edicolante che ha modi gentili e due tipi di biglietti,o per Napoli o per Salerno, come in altri tempi una contrabbandiera ti vendeva le Marlboro sul rettifilo: morbide o dure? Così anche se il treno è annunciato su di un binario, è sull’altro che arriva e allora chiedi a chi è dentro se è quello giusto e lui ti risponde di sì anche se non ne è convinto. Un vagone su due ha l’aria condizionata, uno su due anzi uno su quattro e tra i passeggeri c’è chi giura di averne visto uno così, che si stava freschi e non accalcati, accaldati, ammassati come carne da macello sulle spiagge di Ferragosto. E mentre lo dice guardi la faccia che fanno gli altri che è come di chi non ci crede alla favola. O almeno. Non crede che sia possibile che lui, proprio lui, pendolare litoraneo non abbia quel posto. Eppure il paesaggio ristora l’anima come il sorriso delle due bimbe, le figlie di Carmine e Francesca, appena lasciate a casa. Un percorso che è dal mare poco distante, andante adelante, e il vento che viene da fuori conforta, rinfresca insieme ai ventagli delle signore, accelerati come turbine, mulini a vento. Non ho fatto la doccia dopo il bagno per conservare sulla pianta dei piedi qualche granello di sabbia. La sabbia è di una spiaggia su cui camminavano insieme alle promesse i sogni di due amanti. Et la mer efface sur le sable, Les pas des amants désunis, cantava Prévert e così è. Intanto i binari che accecano gli occhi e sembrano argento, accolgono il convoglio, gli fanno strada e allora mi preparo a cadere. Lasciarmi scivolare dai gradini per prendere una coincidenza che mi porti da lei.

(Taranto- Salerno)

August 2, 2012 at 5:22pm ·

Sono i nomi dei paesi lungo la strada ferrata che s’inerpica come un mulo da Metaponto in poi, a farti ricordare le pagine scritte del confino, le righe della cattività sul male, di Carlo Levi. Abbiamo da un po’ passato Grassano e a tratti su un solo binario il convoglio sembra un funambolo sospeso tra cime boscose, dirupi che lasciano intravedere le valli. Le regioni qui hanno nomi dolci, e la ragazza che mi siede accanto indossa la pelle e gli occhi di questa terra. Ci vorrebbe della musica House, un dj set per colpire nel segno la traccia che forma il nostro immaginario, fisso, terribilmente moderno e realista da guerra e dopoguerra, della Basilicata. Un crocevia di dialetti, di lingue, parlate, perfino paesaggi diversi e mentre si abbandona un mare, ad est già quello che è a ovest, il Tirreno prova a farsi sentire. Eboli. Un treno diagonale è questo proprio come la regione che percorre. I treni così è come se avessero una grazia speciale, una forma di estraneità all’abitudine e corrono silenziosi, cosa rara per un treno del sud, da una costa all’altra. Alla stazione di partenza ho lasciato un amico e un amico mi aspetta alla destinazione finale.

(Aversa- Minturno)

July 24, 2012 at 9:37pm ·

Ci sono dei treni che fanno allusione al passato e il viaggio è un illusione perché sai da dove parti ma nemmeno un poco dove mai si fermerà la traccia che lascia il convoglio. Al di là di dove scenderai, che già intravedi l’arco delle braccia delle tue sorelle, insieme al mare d’antan, di ragazzo infelice e felice di esserlo, ci sono delle esperienze che accadono con la stessa chiarezza di un colpo di fulmine, con una verità che non fai fatica a riconoscere. Al binario che non dice da nessuna parte dove va il treno, hai chiesto a lei con la burzatella leggera, gli occhi e i capelli chiari, se quello fosse il punto giusto, se da lì passava quello per Roma. Ti risponde in italiano, poi ti chiede in inglese che fai e ti dice che è olandese. Aveva la faccia pulita come l’anima e le mani sporche di chi reca con sè il segno di una disavventura. Mi dice che va a Milano, procedendo a singhiozzo, perchè non ha più nulla. La guardo e le dico che ho ancora qualcosa. Il qualcosa non lo do allo zingaro che distribuisce bigliettini sui ripiani che un tempo furno portaceneri. Vorrei darli a lei e infatti le chiedo di sedersi accanto a me, il tempo di capire come e fino a dove riuscire ad aiutarla. Lei si siede con una dignità che se Spinoza fosse stato donna così l’avrei immaginata, e per nulla intransigente con la propria sofferenza è rimasta pochi minuti. Perchè il tempo di seminare i bagagli, i trentamila pacchi che mi porto appresso per lo spettacolo di domani lei si alza dicendo che deve andare. Io le dico di aspettare che magari posso aiutarla e lei non vuole sentire ragione. Mi dice che le puzzano i piedi – capisco che da giorni dorme all’addiaccio e la doccia non le ha levato di dosso lo sporco di una disavventura- e non vuole disturbare nessuno. Mi alzo la inseguo lasciando tutto sui sedili ma l’ho perduta. Così sopra a un treno che recita come un rosario ognuno dei nomi delle piccole stazioni di non più Campania e non ancora lazio mi sento perduto. In totale soggezione le parole rimanevano mute ma nel mio treno, ora, qui nessuno parla.

(Bologna-Aversa)

July 20, 2012 at 10:59pm ·

Ogni volta che parti da quella stazione passi a vedere la breccia nella sala d’attesa. Non basta passarci con il treno, con un qualunque treno che da Milano a Reggio Calabria stabilisce una linea Gotica del viaggiatore, una linea verticale però che segui come un filo di piombo cade. Ci devi camminare intorno alla faglia, alla fessura e non certo per sbirciarci dentro quanto piuttosto per misurare la profondità del taglio nella pelle del tuo paese. L’assoluta divisione dello spazio della lingua accade nella hall centrale: da una parte gli italiani e dall’altra il resto del mondo, e la dicotomia si precisa, si fa particolare, quando ancor prima di salire a bordo, magari già nel sottopassaggio, senti l’accento e la faccia del meridione in un punto e poco oltre quella di chi è poco sopra e le fa da contro canto. Non ci sono monopoli nella stazione di Bologna, di una classe sull’altra e gli schermi che annunciano i binari sono ad altezza uomo e così non obbligano a tenere le facce quasi devote rivolte all’al di là, come a Milano o a Roma. La bellezza ti accoglie all’uscita sulla banchina di viaggio, e fanno capannello i fumatori che decidono che è meglio tentare da subito l’assalto alla sigaretta senza aspettare Firenze. Su e giù per lo scompartimento si vendono panini e birre come allo stadio e tra le gallerie che bucano l’Appennino lieve ma ben riconoscibile ti appare il profumo di lei. Passiamo oltre cortina con il mare di Formia e poco oltre l’orlo sbeccato delle montagne del Redentore.

(La Spezia-Genova)

July 10, 2012 at 8:46pm ·

Intercity è un nome che mi piace perchè fa antico, non vecchio e poi il fatto che sia una razza in via d’estinzione me li fa amare come se adesso che scrivo fossi a bordo di un tirannosauro, o più semplicemente di un Espresso, un Rapido.

Intercity non ti dice nulla della velocità con cui ti trasporterà a differenza di quelli, superati dall’alta rapidità del progresso, feriti a morte dalle frecce rosse, bianche, argento. Nel nome si indica semplicemente il destino, l’attraversamento, l’andare di città in città, electricity per come si diffonde, o sembra suggerire geocity, per la terra su cui affondano i binari e che vedi, calpesti con gli occhi se ti sporgi dal finestrino. Eppure questa tratta per prima cosa ti regala in sequenza, una dopo l’altra, Riomaggiore, Manarola, Corniglia, Vernazza, Monterosso, cinque terre di mare, cinque lingue di pietra e sabbia che solo un inverno fa sembravano incespicare sulla parola inondazione e il treno sembra un idrovolante. Lo vedi il mare tra una galleria e l’altra e ti permane dentro, anche nel buio, l’azzurro del crepuscolo che quasi confondi con l’alba quando con un tonfo, un rumore sordo, il locomotore sferza l’aria all’uscita dal tunnel. C’è un silenzio da esame di maturità, da fine giornata al mare e cerchi di interrogare il silenzio senza la severità di un presidente di commissione d’altri tempi, ma con la grazia di un compagno di scuola che ti porga, senza farsi vedere, un appunto, una nota, un pettine in grado di sciogliere i nodi che ti cingono la testa e ti tengono le mani incollate sopra. I nomi delle stazioni delle città del nord sono di una dolcezza tale che le ripeti a voce alta, anzi le sussurri ogni volta che ci passi accanto, Levanto, Zoagli, Rapallo, Santa Margherita, Camogli. E mentre ti avvicini a Genova, dove si cambia treno per Pavia, dove sei diretto, scendendo insieme al bagaglio di due notti appena, ricordi della domanda che t’eri serbato dentro, il quesito da porre ad un viaggio inaspettato, e lasci che la risposta ti raggiunga ovunque ci sia un capostazione, una bandiera da tenere dritta contro il cielo.

(Roma- Minturno/Scauri)

July 3, 2012 at 7:57am ·

La tratta Brindisi- Pescara, che sembra una partita di serie B, è un omaggio all’Oriente. Il mare , risalendo la penisola, è sulla destra. Anche a sinistra c’è, ma non si vede. Da Pescara a Roma ci arrivi con una corriera che viene su davvero veloce e come un aliscafo valica il dorso, il monte, il crine che separa i due mari. A Roma ci resto poco ma è un poco talmente denso che le parole rimangono dentro, risuona ancora la frase del Don Giovanni di PP, evocata al momento di lasciarci sulla soglia del giardino di una casa in cui vorrei abitare. “Non penso quindi tu sei questo mi conquista.”.

A Termini ti immagini sempre che qualcosa finisca. Il nome fa pensare al capolinea, all’ultima fermata, e invece è qui che si comincia e cerchi di capire in quali termini il viaggio accadrà facendo ricorso all’oracolo delle macchinette che tu ci metti la mano sopra e quella ti dice a che ora si staccheranno i piedi da terra, e quanto costa ma non se vale davvero.

Sulle frecce rosse è un florilegio playmobil di uniformi e personale. Ora una coppia di poliziotti, un controllore, addetti alla pulizia vestiti di arancione, e perfino ai passeggeri sembra abbiano dato una divisa, assai uniforme in verità. Sul regionale Roma Napoli la prima cosa che ti colpisce in una giornata torrida d’estate è la danza gitana dei drappi appesi ai finestrini che si distendono, smarrendo la loro funzione originaria, fino a diventare lembo di gonna impazzita, Carmen popolare che si lascia frustare emettendo dei gemiti di vento così selvaggiamente in tono con lo stridere delle rotaie sui binari e delle porte tra un vagaone e un altro, quando ci sono, quando funzionano.

Accanto a me c’è un ragazzo che è elegante perfino con la barba non fatta e di fronte, un’amica, la fidanzata, la sorella più giovane, che ha un volto così rinascimentale che quasi ti metti a cercare il titolo dell’opera, l’attrbuzione all’artista. Piange. In realtà accenna a farlo e le pupille si tengono a galla a malapena in un fiume che senti le sta per sgorgare dal petto. E non sai da quale fonte, falda sotterranea, monte, si stia riversando. Sembrerebbe una studentessa e allora immagini che il suo dolore sia in un mancato segno sul libretto, la nota stonata di un esame finito male. Oppure è un dolore nobile, un dolore non per sé, ma per qualcun altro, la sorte di una persona cara mortificata da un acciacco, da un referto medico, un’analisi impietosa. Ma nobile potrebbe essere la ragione di un distacco. Lui le prende le mani per incoraggiarla come fa chi vorrebbe dopo avere arrecato un dolore insormontabile, portare sollievo, servire prima il veleno e quasi subito dopo somministrare l’antidoto.

All’altezza di Fondi, perchè c’è un fondo in ogni superficie, accade una cosa. Chiudo lo sguardo per proteggere gli occhi e le cose che si dicono sono queste.

– Chiure sta cazz’e porte!

– Aggia scennere mo, strunz nu vire che è scassate

– Strunz, hai ritte strunze e ie te scasse ecccorne

– Mocca a mammete m’ea fa nu bucchine

– Vien, vien che te rong nu caucie in miezz’e ppalle

– Scinne e te scassa a cape strunze

– Vuie napulitane site na razz’emmerde

– Scinne mo ca t’arape a cape.

Riapro gli occhi quando senti che sta per esplodere il nulla. I due, uno con i baffi tarchiato, tracagnotto avrà una sessantina d’anni e l’altro pure, seppure di corporatura agile e imponente.

Scendo. Alla fermata che dice prima Minturno e poi Scauri. Scendo da un paese immobile in cui perfino le gonne alle finestre sembrano avere perduto la voglia di ballare.

Supplique feroviaria

June 17, 2012 at 6:29pm ·

Sto tran tran qui me strabuza li oci à luce à luce a noce à noce que la voz que te pare d’artri te sumiglia, t’encanta et s’alimente lo coeur par rollement de la vetura l’echange des regards figa quela figo quelo no pennient et se simula d’assonnarse pour un desìo de cullarse comme un bebè, un enfant, nu caruso, comme ça devant à tout le monde appustato A-B colli numeri de uno a centumila et alors que l’une apres l’autre se seguentan staziune de villes fameuses ou pennient piccerelle staziuncelle cum flores et faunas de barbun de sigarete accese sur le quais, se sbinaria lu tran tran et frina lorsque nu sibilo parait nu fisculo d’arbitro in miezz’o campe de ioco alors que financo lo controlor cambia d’acento de tono selon la region la ville lu village nu poco de stangheza te guadagna l’anema pe sta botta de vita de nomade genereuse ah la Boheme Boheme et puis el tran tran tout de subbète t’arridona el surriso la bocata d’oxygene comme si killo c’avive lassiat l’esta à nouveau de t’aspetarte à l’autre cap du monde du voyage et te strabuza li oci alors sta vida te fa sentrte vivo sta vida à luce à noce à noce que la voz que te pare d’artri te sumiglia, un peu

Il rosso e il nero d’America #1

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di Giuseppe Zucco

Il rosso: Into the wild – Nelle terre selvagge (Sean Penn, USA, 2008)

È un film on the road, quello di Sean Penn, e viene da lontano. Non affonda le radici nella storia del cinema, ma nella letteratura, nei libri che hanno raccontato e dispiegato la potenza di un mito: quello del viaggio verso l’ignoto, della scoperta di un mondo sconosciuto e selvaggio.

Ovviamente, sfogliando il catalogo della letteratura mondiale, non si trova dappertutto un mito del genere. Questo modo di raccontare il destino di un uomo, di metterlo alla prova, di fargli saggiare le asprezze della vita e la diramata estensione dell’esistenza, abita dentro i confini di una visione del mondo senza eguali: quella angloamericana. Nella letteratura esplosa tra le mani e la mente degli scrittori angloamericani – anche di Conrad, uno scrittore polacco che aderì alla sintassi e alla sonorità della lingua inglese – il viaggio, soprattutto la fuga, sono temi portanti. C’è prova di questo perfino in un romanzo come Furore, di Steinbeck, che vede muoversi un popolo intero da una parte all’altra dello smisurato paesaggio americano.

Del resto, la fuga non ha nulla di negativo. È un modo per mettere alle strette il presente, una mossa astuta per spingere il destino verso i propri desideri, un movimento risoluto dentro la possibilità e le occasioni che il mondo concede. In definitiva, la fuga è un atto di creazione. “Fuggire non significa affatto rinunciare alle azioni” – scrisse Gilles Deleuze – “non c’è niente di più attivo di una fuga”. E subito dopo, continuando il suo ragionamento, Deleuze aggiunse: “Fuggire significa tracciare una linea, delle linee, tutta una cartografia. Si scoprono dei mondi solo in una lunga fuga spezzata. La letteratura angloamericana mostra in continuazione queste rotture, questi personaggi che creano la loro linea di fuga, che creano attraverso linee di fuga. Thomas Hardy, Melville, Stevenson, Virginia Woolf, Thomas Wolfe, Lawrence, Fitzgerald, Miller, Kerouac. Qui tutto è partenza, divenire, passaggio, salto, demonio, rapporto con il fuori.“

Sean Penn è l’erede di tutto questo. Kerouac si sarebbe commosso per Into the wild. Per la storia di questo ragazzo, auto-ribattezzatosi Alex Supertramp, il Super Camminatore, che molla tutto, slaccia i legami familiari, e parte. Destinazione: Alaska. Per molti versi, tutto sembra già sentito. Ma Penn ha la capacità di rinnovare e riformulare un archetipo narrativo. In fondo, molte utopie che avevano nutrito quella letteratura si sono dissolte, e negli anni ‘90 – gli anni in cui avvenne davvero la storia di Christopher McCandless – non si viaggia più per il piacere di viaggiare, ma per raggiungere un obiettivo, sia pure il nord selvaggio e ghiacciato dell’Alaska.

A guardare bene, è un viaggio di iniziazione senza ritorno. Alex assaggia il mondo, senza intuirne le leggi che lo governano. Si spinge in avanti, discostandosi da ogni legame. Una coppia di hippies lo guarda come un figlio, una ragazzina scopre in lui l’amore che incendia, un vecchio alla Cormac McCarthy – un altro grande scrittore americano di fughe e confini superati – lo accoglie come un nipote. Ma Alex rifiuta tutto per l’avventura. Solo in mezzo al nord selvaggio e solitario, poco prima di lasciarci la pelle, capisce che niente è la felicità se non è condivisa.

E il viaggio di iniziazione poco per volta diventa per noi spettatori qualcosa di più potente ancora: un’allegoria, una storia-totem, un’immagine-guida. Ricostruisce l’utopia della comunità ed il mito della condivisione, quando ormai la storia recente li dava per morti e sepolti. Riaggancia l’uomo alla natura, con tutti i rischi che ciò comporta, poiché la natura – rispetto ai libri che Alex legge – è molto più complessa e variegata. Sfonda la morale, che inchioda gli uomini sul posto (i genitori di Alex), creando barriere tra di loro, e fonda un’etica, una visione dell’esistenza in cui la relazione tra gli uomini è basata sulla condivisione ed è annodata indissolubilmente al territorio che gli esseri viventi esplorano, percorrono, abitano. Se Alex Supertramp fosse sopravvissuto al viaggio, avrebbe sperimentato tutto questo. Ma non ci è riuscito. E tocca a noi, allora. Tocca a noi fare di questa pellicola il testamento di Christopher McCandless. Morendo nella sua personalissima avventura, ci ha nominato suoi legittimi eredi.

[Pubblicata, a suo tempo, su SentireAscoltare]

(Vero) dialogo (rubato) tra un imprenditore (impr) e l’addetta di un’agenzia interinale (int)

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Un'opera di Joseph Beuys

di Esmeralda Rizzi

INT:  “Ciao, come stai. Già andato in vacanza?”

IMPR:  “Be’, ho fatto una settimana fuori, all’estero, con la famiglia nella prima metà di luglio. Sai com’è, poi c’è troppo casino. Ora loro sono alla casa al mare, io viaggio nel weekend, se posso, poi chiudiamo due settimane ad agosto.”

INT: “Volevo chiederti di Piero, il ragazzo che vi abbiamo mandato per il settore commerciale. Come vi trovate? Ho visto che ha fatto parecchie assenze.”

IMPR: “Piero? Mah, mi sembra bene, nessun problema.”

INT: “Ma sei proprio sicuro? Ho visto che è mancato diversi giorni. Che facciamo, te lo cambio? Lo mandiamo via e ne prendiamo uno nuovo?”

IMPR: “Mah, non saprei. Ti ripeto, a me non ha creato problemi, mi sembra vada bene, che si sia integrato bene col resto del gruppo. Però, dai, mi faccio una chiacchierata col responsabile del suo reparto e chiedo a lui. Eventualmente ti faccio sapere.”

INT: “Ma sì, sono sicura che ci deve essere qualche problema perché è mancato troppo spesso negli ultimi mesi. Ascolta un consiglio, meglio se lo cambi. Oppure, se non vuoi mandarlo via, al prossimo rinnovo gli accorciamo la durata del contratto. Quando gli scade?

IMPR: “Ora, per le ferie. Rientra il 1° di settembre.”

INT: ”Facciamo così: il contratto glielo facciamo ripartire dal 20 e poi glielo accorciamo a 4 mesi, così lo teniamo un po’ sotto pressione. Piuttosto, hai già trovato il rimpiazzo per la Sabrina?”

IMPR: “No, però vorrei evitare di spendere troppo o di trovarmi con le mani legate. Chessò,  un tirocinio, uno stage… E comunque deve usare a meraviglia il computer e parlare bene inglese e spagnolo, e avere un po’ di esperienza.”

INT: “Guarda, partiamo con uno stage gratuito. Poi, se è il caso,  facciamo un contratto di apprendistato, che risparmi bei soldini. E se non ci piace, se vediamo che alza troppo la testa, la mandiamo  via e ne cerchiamo un’altra. Sai che fame di lavoro c’è ora? Farebbero qualunque cosa per un posto.”

da http://inthestreet.blog.rassegna.it/

L’immagine ritrae un’opera di Joseph Beuys conservata presso l’Hamburger Bahnhof “Museum für Gegenwart” di Berlino.

quello pane orzato del quale si satolleranno migliaia

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di Antonio Sparzani

Il dantesco Convivio vuol essere, nelle sue intenzioni iniziali, una piccola enciclopedia dello scibile dell’epoca, Dante vuole farsi perdonare della, almeno apparente, leggerezza della Vita Nova («fervida e passionata, questa temperata e virile» ci avverte, contrapponendo a quella la presente opera), e delle Rime scritte in vita e in morte di Beatrice (e probabilmente di altre donne più o meno celate al pubblico sguardo) e intende anche mostrare a tutti quanto egli sia bravo e sapiente, e quanto sia dunque stato ingiusto l’esilio comminatogli nel 1302. L’opera però si ferma dopo il quarto trattato, malgrado Dante ne avesse previsti quattordici oltre al primo. Tranne questo, appunto, introduttivo, tutti sono scritti come commento a una canzone. Sarà, come dicono i commentatori, che già gli urgeva dentro la Commedia e non voleva perdere altro tempo.

Ma quello che io trovo davvero di grande lungimiranza, oltre che di notevole bellezza, è proprio il trattato introduttivo (integralmente leggibile ad esempio qui), nel quale Dante si sofferma a spiegare come e perché abbia deciso di scrivere tutta l’opera servendosi del volgare italiano, invece che del latino tipico di tutte le opere dotte dell’epoca, e che peraltro anch’egli usò per il De monarchia, per il De vulgari eloquentia e le altre cosiddette minori.

E il primo motivo che Dante adduce per la scelta linguistica è proprio quello di arrivare a far giungere la vera scienza a quante più persone possibile.

«E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata.»,

dove «li veri poveri» sono, s’intende, quelli che non sanno. Così che Dante si risolve a dar loro aiuto:

«Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata.»

Della metafora del pane e delle vivande è intriso tutto il Convivio ed è questa la caratteristica che lo rende così vivo e palpabilmente vicino a chi si dispone a partecipare al banchetto. E appunto di tale metafora si serve anche per parlare della lingua:

«Poi che purgato è questo pane da le macule accidentali, rimane ad escusare lui da una sustanziale, cioè da l’essere vulgare e non latino; che per similitudine dire si può di biado e non di frumento. E da ciò brievemente lo scusano tre ragioni, che mossero me ad eleggere innanzi questo che l’altro: l’una si muove da cautela di disconvenevole ordinazione; l’altra da prontezza di liberalitade; la terza da lo naturale amore a propria loquela.»

Dante è ben cosciente delle forti differenze tra le due scelte: «lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile», ma, argomenta, questo è proprio quello che lo rende più adatto alla scopo che egli si prefigge: illustrare e commentare delle canzoni, scritte in volgare e beninteso trarre da ciò insegnamenti generali.
Inoltre Dante è ben cosciente del mutamento linguistico cui è soggetto il volgare al tempo suo, come del resto in qualsiasi altro tempo da allora ad oggi, tanto che scrive:

«perché lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile. Onde vedemo ne le scritture antiche de le comedie e tragedie latine, che non si possono transmutare, quello medesimo che oggi avemo; che non avviene del volgare, lo quale a piacimento artificiato si transmuta. Onde vedemo ne le cittadi d’Italia, se bene volemo agguardare, da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati e variati; onde se ’l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore. Sì ch’io dico, che se coloro che partiron d’esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante.»

Ed è in questa mischia che Dante si vuole buttare: dopo qualche altra considerazione, insiste:

«mostrare intendo come ancora pronta liberalitate mi fece questo eleggere e l’altro lasciare. Puotesi adunque la pronta liberalitate in tre cose notare, le quali seguitano questo volgare, e lo latino non averebbero seguitato. La prima è dare a molti; la seconda è dare utili cose; la terza è, sanza essere domandato lo dono, dare quello.»

E questa terza modalità Dante la spiega proprio bene, in termini che non si possono che condividere:

«La terza cosa, ne la quale si può notare la pronta liberalitade, si è dare non domandato: acciò che ’l domandato è da una parte non vertù ma mercatantia, però che lo ricevitore compera, tutto che ’l datore non venda. Per che dice Seneca che “nulla cosa più cara si compera che quella dove i prieghi si spendono”. Onde acciò che nel dono sia pronta liberalitade e che essa si possa in esso notare, allora, s[e] conviene esser netto d’ogni atto di mercatantia, conviene esser lo dono non domandato.»

Già da queste poche citazioni avrete notato come l’argomentare di Dante sia serrato e proceda per terzetti di clausole: per giustificare un comportamento egli produce sistematicamente tre ragioni, e ognuna di queste si articola a sua volta in tre sottoclausole, e così via. Io ovviamente qui salto la maggior parte del testo, sperando comunque di riuscire anche così a convincervi della sua bellezza, e voglio solo aggiungere la spiegazione che Dante dà di quel «naturale amore a propria loquela», eccolo:

«l’ordine de la intera scusa [cioè di tutta l’argomentazione portata a giustificare la scelta del volgare] vuole ch’io mostri come a ciò mi mossi per lo naturale amore de la propria loquela; che è la terza e l’ultima ragione che a ciò mi mosse. Dico che lo naturale amore principalmente muove l’amatore a tre cose: l’una si è a magnificare l’amato; l’altra è ad esser geloso di quello; l’altra è a difendere lui, sì come ciascuno può vedere continuamente avvenire.» «E queste tre cose ― prosegue Dante ― mi fecero prendere lui, cioè lo nostro volgare, lo qual naturalmente e accidentalmente amo e ho amato.»

Dante prosegue a descrivere sia la malvagità di coloro che disprezzano il volgare loro (italiano) e tengono invece in pregio altri volgari, sia il suo particolare rapporto di amore e di amistade col volgare che avrebbe poi usato per la sua opera maggiore. Concludo semplicemente copiandovi qui la conclusione del primo trattato, conclusione che mi pare nulla abbia da invidiare ai passi più alti della Commedia:

«Così rivolgendo li occhi a dietro, e raccogliendo le ragioni prenotate, puotesi vedere questo pane, col quale si deono mangiare le infrascritte canzoni, essere sufficientemente purgato da le macule e da l’essere di biado; per che tempo è d’intendere a ministrare le vivande. Questo sarà quello pane orzato del quale si satolleranno migliaia, e a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce.»

[In latino l’orzo era hordeum, da una radice indoeuropea connessa al “macinare”, greco krithḗ, e sembra proprio sia stato il primo cereale a essere coltivato in area europea. La metafora dell’orzo si piega nella scrittura di Dante a rappresentare un che di prezioso e fondamentale, un succo della vita che di questa è sostegno e meraviglioso alimento.]

Chris Marker è morto, ricordate?

3

di Andrea Inglese

Chi era Chris Marker, morto a 91 anni, lo scorso 29 luglio? Una prima risposta, molto approssimativa, potrebbe essere: era qualcuno che combatteva, attraverso le immagini, il potere che, per lo più, le immagini stesse hanno di produrre oblio in chi le consuma.

Il Peso del Ciao a Mesagne

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Stasera alle ore 21 alla libreria di Domenico Pinto e Andrea Calavita, Lettera 22 Piazza 4 Novembre, Mesagne, ci sarà un reading di Poesie d’amore tratte da “Il peso del Ciao”. Chi verrà potrà farsi fotografare su un Ciao Rosso messo a disposizione dai librai. effeffe

Poâme du Sarrà chi sa
(ispirata a mio Zio Renato autore con Roberto Murolo di questa fantastica canzone )
di
Francesco Forlani

Sitte sitte facimme, sitte sitte
Que personne ne puisse entendre nos lèvres
A lingua emmocca e’ vase a’ schiocche a’ schiocche
On dirait une fièvre une maladie, un attrape-bouches

Facimme allore sitte sitte allore faie
Ton corps vêtu se déshabille d’une lumière rose
Sta luna chiena chiena, sta curona e spine
Tu me chouchoute: meurs ! tu me murmure: vis !

Sitte te staie e chiù sitte ie nun me saccie
La profondeur des yeux dépend de la posture des jambes
Tu me fai suspirà ie te voje bbene
Ton vague à l’âme enjambe, mon respire claque

Cu sti vase facimme sitte sitte, mo mo mo
Je suis Tristan, mais tu t’appelles Juliette
Tu m’adduvine a vocca ie m’annammore
Tu me caresse, je brûle, je deviens chandelle

Sti vase sitte sitte , sàrra sàrra
Ta peau s’enflamme à l’eau de ma salive
St’addore è rose e ciure ‘mbuttunate
Une fière créature, une musique lointaine

Sitte facite sitte, vuie facite sitte?
Tu étais mon songe, mon demain, mon hier
Che all’intrasatte mo cull’ate staie
Tu te souviens de moi ? Dis- moi, j’existe ?

Sitte facite sitte mo chiù sitte maie
Là j’aimerais siffler- divine- ta bouteille
à faccia toie m’embriaca, e sò curtielle e mmane
Je dégueulerais ton âme, comme une chose vive

Sitte sitte facite, facite sitte sitte
Aux larmes citoyens jettate ‘e mmane
Il n’y aura plus personne et chiù nisciune sape,
Saura celui qui sait, sarrà sta luna chiena

Scrittori per scrittori (Eugenides, Krauss, Lahiri)

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di Davide Orecchio
Mesi fa (settembre 2011), al festival del New Yorker, tre scrittori pop molto quotati e famosi (Jeffrey Eugenides, Jhumpa Lahiri e Nicole Krauss) parlarono di scrittori per scrittori, o di scrittori amati da scrittori, o anche di superscrittori. Ciascuno dei tre presentò la sua lista di autori preferiti (quasi tutti del secolo scorso) e lesse un passo del più importante.

Eugenides (The Virgin Suicides, Middlesex, The Marriage Plot), iniziò con Denis Johnson (e poi Vladimir Nabokov, e Saul Bellow).

Lahiri (Interpreter of Maladies, Unaccustomed Earth, The Namesake) scelse Mavis Gallant, Andre Dubus, Gina Berriault.

Nicole Krauss (Great House, The History Of Love, Man Walks Into a Room), virò verso la Mitteleuropa: Thomas Bernhard, Bruno Schulz, W.G. Sebald e Danilo Kiš.

Nessuno dei tre si trovò d’accordo sui nomi. Ma neppure sui modelli. Nel senso che, ad ascoltarli, si scopriva che uno scrittore per scrittori può essere di tanti tipi. Un autore d’insuccesso, troppo sofisticato per il grande pubblico (secondo Lahiri). Uno straniero non tradotto o che magari mostra nuovi percorsi stilistici ad autori che leggendolo decideranno di emularlo (secondo Krauss). Oppure, anche, un maestro riconosciuto che, al pari di un jazzista, comunica su più livelli e con interlocutori diversi (Eugenides).

Forse la definizione più acuta la diede Lahiri: un “writer’s writer” è uno scrittore che non perde la furia, l’idiosincrasia e la purezza dell’esordio. Non le baratta per sentieri facili. Vive uno stato creativo da opera prima perenne.

Lahiri era intelligente, bella, non sorrideva mai. Serissima. Forse scocciata. Neppure le battute di Eugenides (dei tre, l’oratore faceto) le strappavano un sorriso. Krauss era la secchiona del gruppo, molto Oxbridge e coltivata, più imbarazzata degli altri dalle domande del pubblico.

I tre vendono milioni di copie in tutto il mondo. Così che potremmo definirli autori WWW: worldwide writers.

“A writer’s writer maintains an integrity, a certain purity of vision”: “Uno scrittore per scrittori conserva in sé un’integrità, una sorta di purezza”, sentenziò Lahiri.

Ma volendo se ne può ascoltare la voce.

QUESTO E’ IL PODCAST

Il primo a parlare è Eugenides, la seconda Krauss, la terza Lahiri. Poi le voci si mescolano un po’. Quella che pone domande è la moderatrice, la redattrice del New Yorker Deborah Treisman, che in un passaggio si lamenta di Denis Johnson: “Non risponde mai al telefono quando lo cerco. Risponde sempre la moglie che m’informa: ‘E’ fuori a pescare’”. Dal che si deduce che Mr. Johnson sarà anche uno scrittore per scrittori, ma non è uno scrittore per giornalisti.

Il giorno del miracolo

2

di Manuela De Quarto

-Immagina cosa potrebbe succedere se per un giorno, uno solo, nessuno sulla Terra morisse. Proprio nessuno.
-In che senso?
-Un giorno in cui ciascuno di noi ha la possibilità di vivere ancora. Anche i condannati a morte, anche i malati terminali, tutti insomma. Se per un giorno intero nessuno morisse.
-Forse potrebbe succedere il caos, la fine del mondo.
-Forse…

Il treno fischiava mentre la stazione di Torino salutava un nuovo giorno. Anna era sul treno, ancora sulla porta del vagone numero 8. Lorenzo era giù, il suo volto verso l’alto a guardarla, come si guardano le persone che hai paura di non rivedere mai più. Lei gli accarezzava il viso e lui le teneva stretto un fianco con la mano destra. Anna sapeva che non sarebbe stato facile spiegare a Lorenzo che il loro non era un addio. Così non provò neanche a farlo.
Il capostazione fischiò di nuovo guardando Anna.
– Vado, Lorenzo…
– Anna.
– Mi raccomando, stai vicino alla mamma, ora che non ci sono io. D’accordo?
Lorenzo annuì, staccando la mano grande e forte dall’esile fianco di Anna. Indietreggiò di qualche passo e iniziò a guardarsi intorno. C’era una donna alla sua sinistra. Una donna robusta con lunghi capelli grigi che le scivolavano sulla schiena. Mentre Anna scompariva all’interno del vagone, Lorenzo allungò un braccio verso la donna. Lei era intenta a scrutare uno dei finestrini opachi. C’era un uomo lì, con un berretto di lana, che le diceva chissà quali parole con il labiale. Lei sorrideva, aveva gli occhi lucidi e sorrideva.
Lorenzo continuava a guardare il treno, ma non riusciva a trovare il finestrino da cui sperava di vedere Anna.
La mano di Lorenzo arrivò a un centimetro dai capelli della donna e con le dita prese a sfiorarle una ciocca. Sentire quei capelli soffici sotto le mani gli ricordava di quando Anna e lui erano stati a quello spettacolo circense. Dove un clown si innamorava di una trapezista, che però non riusciva a raggiungere mai. Così si limitava a sfiorarle i capelli non appena il suo agile corpo, sospeso al contrario, si avvicinava a terra. Un secondo e poi tornava su veloce. Il treno partì a fatica, la donna fece un respiro profondo, Lorenzo si bloccò. Poi la donna iniziò a salutare l’uomo con la mano, e lui ricambiò mandandole un bacio. Lorenzo allora ricominciò a sfiorarle i capelli. Ricordava che Anna aveva gli occhi lucidi alla fine dello spettacolo, ma lui non aveva capito mai il perché. Ora, però, anche i suoi occhi erano lucidi. A quella signora davanti al treno forse sembrava fosse il vento che l’accarezzava e a Lorenzo piacque quel pensiero. Di Anna, su quel lato del treno, non c’era traccia. Il treno si allontanò e la donna, girandosi veloce, guardò Lorenzo. Lui con uno scatto aveva fatto finta di allungare le braccia per stirarle un po’. La donna lo guardò seria un secondo e poi con un sorriso lo riprese,
– Non si fa giovanotto, non si fa.

Durante la settimana, Lorenzo stava la maggior parte del tempo seduto in poltrona ad aspettare che Anna tornasse a casa. La madre cercava di farlo uscire, ma Lorenzo non le rispondeva nemmeno, non si muoveva. Neanche quando lei andava da lui decisa e si attaccava disperata al suo braccio. Tirava, tirava con tutta la sua forza, ma lui non batteva ciglio, non si spostava, non le parlava. Aveva la bocca cucita e ogni espressione del volto era vuota. Mangiava solo quando capiva di non poterne proprio fare a meno. Quando, però, Anna ricompariva dalle lezioni, dai suoi viaggi e dalle tournée, Lorenzo tornava quello di prima.
Un giorno di quelli, mentre sua madre stirava alle sue spalle, la televisione mandò in onda delle immagini che nessuno aveva mai visto. Lei posò il ferro sull’asse, non curandosi del vestito a fiori che sarebbe bruciato, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime, Lorenzo invece iniziò a ridere. Rideva senza potersi fermare, rideva di gusto. Capì prima degli altri che c’è un punto in cui tutto diventa ridicolo. Rideva come si trattasse di un film di ‘Stanlio e Ollio’, uno di quelli che gli facevano vedere sua madre o Anna, prima di andare a dormire. Così, mentre la madre di Lorenzo si portava una mano alla bocca e piangeva come poche volte aveva fatto nella sua vita, gridando per essere ascoltata anche da chi non era in quella stanza, lui rideva sulla poltrona piegandosi sugli addominali contratti. Non si sarebbe capito, entrando in quell’istante a casa loro, chi stesse piangendo e chi invece rideva.

– Hai mai ascoltato il rumore del vento, Lorenzo?
– No.
– Ci proviamo ora, okay?
– Anche tu?
– Sì, ora ti spiego come devi fare.
Anna portò le mani all’orecchio destro e inclinò un po’ il capo. Chiuse le mani come fossero un cerchio intorno all’orecchio. Poi guardò Lorenzo e, sorridendo, gli disse di fare lo stesso.
Lorenzo la imitò e a un tratto lo sentì: il vento iniziò a parlargli.
– Che ti dice a te?
– Prima tu.
– A me dice che non devi partire, che devi stare con la mamma e con Lorenzo.
Lei sorrise, si piegò in avanti e si portò le mani al petto. Aveva le gambe incrociate. In quella zona del parco la luce era così strana che faceva diventare tutto color porpora, anche Anna e Lorenzo erano color porpora. Lorenzo le prese una mano, lei divenne seria e lo guardò mentre lui portava quella mano sulle sua labbra. Iniziò a parlare senza emettere suono; Anna schiuse le labbra e si guardò intorno, come se la terrorizzasse il pensiero che qualcun altro potesse prender parte a quel momento della loro vita.
Lorenzo era un enigma, lo era sempre stato per tutti. I medici dicevano che sarebbe rimasto per sempre un ragazzo di tredici anni, ma alle volte per Anna era più grande. Solo a volte, quando nessuno lo vedeva tranne lei, Lorenzo diventava l’uomo di trent’anni che era. E solo Anna conosceva quell’uomo. Solo Anna sapeva che, in quei brevi istanti, poteva permettersi di essere se stessa con lui.
– Ti ha detto questo?
Lorenzo annuì e Anna veloce gli afferrò il mento con una mano e lo guardò con gli occhi sbarrati e arrabbiati, gli occhi di chi sta sfidando il suo avversario in duello.
– Perché lo fai?
– Che cosa?
Anna non continuò. Si alzò sulle ginocchia, lasciando cadere il proprio corpo su quello di Lorenzo. Poi lo baciò sulle labbra. Lo baciava come si bacia chi ami, o almeno Lorenzo la pensava così. Muoveva la lingua dentro la bocca di Lorenzo come per cercare quella verità che era convinta lui nascondesse a tutti da sempre. Lui teneva gli occhi aperti e d’istinto le afferrò i fianchi. Li stringeva così forte che Anna non riconosceva in quella stretta un ragazzino di tredici anni. E poi la spinse con forza contro di lui. Solo in quel momento, solo nel momento in cui Anna sentì che Lorenzo sarebbe stato capace di amarla proprio come un uomo, aprì gli occhi e si staccò da lui. Ci mise un po’, perché Lorenzo non voleva lasciarla, lo picchiò sulle mani e sulla faccia, finché lui non lasciò la presa.
La luna aveva compiuto mezzo giro e l’aria era fresca. Camminavano fianco a fianco e lui reggeva la bici di lei. La bici li divideva a metà.
– Non devi raccontare niente alla mamma.
– Cosa?
– Di oggi, non devi raccontarle niente!
– Che cosa è successo oggi?
I vuoti di memoria non facevano parte del suo ritardo mentale, erano parte di quel lato della mente di Lorenzo che nessuno conosceva veramente. Di quel buon senso che sua madre pensava che Lorenzo non avesse con sé, sua madre come tutti in fondo. Eppure quell’uomo bambino aveva capito che il silenzio è l’unica arma per non far cambiare le cose. Arrivati a casa, la madre gli fece fare la doccia, aspettandolo come sempre seduta sul gabinetto, con l’asciugamano aperto sulle gambe molli.
– Lorenzo, non giocare col bagnoschiuma. Forza sciacquati!
Era quello che gli ripeteva ogni sera e Lorenzo sembrava aspettare quella frase per sciacquarsi. A volte non aveva voglia di giocare con le bottiglie dei bagnoschiuma, ma lo faceva lo stesso, così sua madre avrebbe potuto dire quella frase.
Non ami veramente finché non ci stai dentro, pensava Anna, mentre il suo insegnante le mostrava la nuova coreografia. Lo pensava mentre con lui ripassava quel movimento che non le veniva bene. Lo pensava mentre, con un gesto che lei non poteva prevedere, lui l’afferrava e la spingeva contro lo specchio. Lo pensava mentre lui le levava la tuta di dosso e mentre le entrava dentro con la prepotenza di chi sa di essere desiderato.

La danza era tutto per Anna, ma sapeva anche che lei era tutto per Lorenzo. Quel giorno, rientrando, non poté guardarlo negli occhi. Era seduto sulla poltrona davanti al televisore e dietro sua madre stirava il vestito a fiori, il più bello che avesse. L’indomani avrebbero accompagnato Anna alla stazione, per spedirla verso la capitale. Verso il futuro, diceva lei.
Anna andò a fare una doccia e, scivolando sotto l’acqua calda, ebbe quasi un momento di sollievo. Durò troppo poco per poter trarne piacere. Subito le risate di Lorenzo la fecero tornare in quel box doccia coi vetri appannati. Si concentrò meglio per sentire le voci che arrivavano dal salotto.
– La terza guerra mondiale, mio Dio! Questa è la terza guerra mondiale.
Anna uscì veloce dalla doccia. I segni di quell’uomo sul suo collo erano evidenti, color porpora. Non se ne curò. Prese un asciugamano e lo avvolse, agganciandolo sul bordo.
Bagnata e preoccupata, camminava scalza per il corridoio. Con una mano reggeva l’asciugamano sul petto, mentre i capelli zuppi lasciavano cadere sulla moquette gocce di una rotondità perfetta. Arrivata davanti alla porta del salotto, si affacciò solamente, senza entrare del tutto. Vide Lorenzo ridere piegato sulle ginocchia per terra. Rideva e piangeva per lo sforzo, come non gli aveva mai visto fare. E sua madre stava lì accovacciata sul divano a guardare la televisione, tenendo stretto un cuscino come fosse un figlio appena nato.
Anna capì che doveva essere successo qualcosa di più grande di Lorenzo e quindi di tutto. Per la prima volta dopo trent’anni, sua madre non badava al figlio ritardato. Anna aveva il cuore che le esplodeva nel petto. Si avvicinò piano al divano, a pochi centimetri da Lorenzo e ancora più avanti. Le arrivavano chiare e concitate le voci della televisione.
“Quello che sta succedendo non può essere raccontato dalle parole. Per la prima volta, in vent’anni di carriera, io non so cosa dire…”
Quella notte nessuno riuscì a prendere sonno. La madre di Lorenzo stava seduta in salotto a guardare la televisione: gli ultimi aggiornamenti dagli Stati Uniti. Non avrebbe più accompagnato sua figlia alla stazione, convinta com’era che quello che succedeva nel mondo fosse un buon motivo per distogliere Anna dall’andare via. Anna era seduta sul letto, davanti a sé aveva due enormi valigie marroni e anche lei pensava che forse quello non era un buon momento per partire. Lorenzo stava seduto sul davanzale della finestra di camera sua, come faceva sempre, guardava la luna e pensava che quella era una buona serata per guardarla ancora più intensamente.
– Lorenzo..
– Ciao.
– Hai capito cos’è successo oggi?
Lorenzo non si girò a guardarla, continuò a dondolare nel vuoto i piedi nudi e a guardare il cielo.
– Sì, certo!
– Cos’è successo?
– Sono morte un sacco di persone.
– Hai capito perché?
Lorenzo smise di dondolare i piedi e si girò per tre quarti verso la stanza, in modo da poterla vedere. Lei era avvolta quasi del tutto dall’ombra della camera.
– Perché, tu l’hai capito?
Anna fece una smorfia e abbassò lo sguardo.
– Tu non sei un bambino. E devi essere ancora più grande ora che io me ne vado. Questo è un periodo strano.
– Io non lo scordo quello che abbiamo fatto.
– Cosa abbiamo fatto, Lorenzo?
Sorrise. Allora Lorenzo con uno scatto saltò in camera e la raggiunse nell’ombra, afferrandole un braccio.
– Abbiamo fatto quello che fanno le persone quando si vogliono troppo bene, è vero?
Anna aveva la bocca aperta.
– Lorenzo, lasciami andare, ti prego!
Poi iniziò a piangere. Non aveva paura di Lorenzo, ma aveva paura che Lorenzo capisse che non era stato un gioco, che quelle notti passate nel letto di sua sorella non erano state solo coccole. Aveva paura che quel mostro che aveva nascosto bene sotto le coperte dell’infanzia riemergesse per divorare tutti.
– Sì… sì, è vero.
Lorenzo l’abbracciò così stretta che a lei mancò per un attimo il respiro. Quel corpo, che così tante volte l’aveva abbracciata allo stesso modo, ora la spaventava.
– Immagina cosa potrebbe succedere se un giorno, uno solo, nessuno sulla Terra morisse. Proprio nessuno.
– In che senso?

All’alba la luce salì radente, accarezzando ogni cosa. Anna aprì gli occhi, seduta per terra, la testa appoggiata al letto di Lorenzo. La luce entrava dalla finestra aperta e un leggero vento rinfrescava la stanza bianca. Anna stava lì, vicino a Lorenzo che rimaneva disteso in mezzo a quella luce, nudo. Anna non era più niente o almeno a lei sembrò di non essere più niente. Alzò lo sguardo verso Lorenzo. Ora le sembrava un vecchio; si accorse di quei capelli bianchi e anche della barba incolta.
La tournée l’avrebbe allontanata per sempre da lui e questo la sollevava e insieme la uccideva.
– Anna…
– Lorenzo, ciao.
– Stavo pensando una cosa.
Lo disse mentre Anna si stendeva vicino a lui, pronta ad amarlo ancora, una droga da cui non poteva disintossicarsi.
– Immagina questo: se ieri, anziché morire tutta quella gente, ci fosse stata una seconda occasione per tutti. Se tutto il mondo l’avesse avuta. Se nessuno ieri fosse morto.
– Me l’hai già detto. Sarebbe stato bellissimo.
Anna salì sopra il corpo di Lorenzo. Era solido come la pietra e quelle mani che le presero i fianchi la fecero sentire vittima e carnefice.
– Come l’avresti chiamato quel giorno, Anna… come?
La sua voce divenne sottile e il suo respiro accelerò. Anna strinse forte il volto di Lorenzo tra le mani. Si allungò leggera sopra di lui e con le labbra gli si avvicinò all’orecchio.
– Io lo chiamerei… il giorno del miracolo.
Lorenzo sorrise guardando il soffitto, iniziò a sfiorarle la punta dei capelli, immaginando di essere un clown innamorato della sua acrobata.
Non era un ragazzino di tredici anni, quello che vedeva Anna, era un uomo. Non era suo fratello, era Lorenzo.

– Le cose accadono.
– Perché, Anna?
– E che ne so, accadono e basta. Perché ridevi in quel modo poco fa? La mamma si è preoccupata per la tua reazione.
– Io, io ridevo perché la mamma piangeva, ma non stava piangendo per me.
Anna lo guardò stupita, schiuse le labbra e si fece vincere da quella stretta.
– Non devi raccontare nulla alla mamma.
– Raccontare cosa?

Olimpiadi, vecchia storia

4

di Antonio Sparzani
A Olimpia sorgeva uno straordinario tempio di Zeus, contenente una statua in oro e avorio del padre degli dèi, opera di Fidia, una delle sette meraviglie del mondo antico.
A Olimpia per la prima volta si svolsero delle gare – forse potremmo dire tranquillamente delle feste – in quello che noi ora indichiamo come l’anno 776 prima di Cristo. Da allora le gare e i festeggiamenti crebbero sempre più, fino a diventare l’avvenimento periodico più importante di tutta l’Ellade, tanto da essere detti semplicemente Olimpiadi e da costituire da allora in poi il metodo di datazione degli avvenimenti del mondo antico sotto influenza greco-romana.

Lo stabilirsi del rito delle Olimpiadi fu un processo lungo, dapprima con valore solo locale; poi, un po’ alla volta, perfino i Greci, litigiosi com’erano, riuscirono a trovare un accordo: le Olimpiadi divennero un patrimonio di vita e di cultura comuni; in quei giorni si conveniva di sospendere qualsiasi eventuale attività bellica, soprattutto per salvaguardare e proteggere quegli atleti che dovevano recarsi a Olimpia, attraversando eventualmente regioni nemiche, per altri dettagli, ed “eccezioni alla regola”, guardate qui.

E così, a partire circa dalla metà del VI secolo a.C., si instaurarono scadenze abbastanza stabili: ogni quattro anni – al plenilunio di agosto – si svolgevano a Olimpia i giochi più importanti, in onore di Zeus.
A partire da quella prima volta si conservò traccia scritta degli elenchi dei vincitori nelle varie gare, e gli anni si designarono indicando il numero dell’Olimpiade immediatamente precedente e indicando poi “in che anno si era di quell’Olimpiade”, intendendo così, dato che nell’aritmetica greca il numero zero non trovava posto, che, ad esempio, “l’anno 1 dell’Olimpiade II” era il 772, cioè l’anno stesso in cui si era svolta appunto l’Olimpiade seconda e invece “l’anno 4 dell’Olimpiade II” era il 769 – che noi indicheremmo con “tre anni dopo”: ci potrà anche sembrare strano, ma è del tutto coerente con il loro modo di contare come 1, e non come 0, l’anno stesso dell’Olimpiade. Per questo motivo i Greci dicevano che ogni Olimpiade si svolgeva nell’anno 5 della precedente e alludevano a questa periodicità con la parola pentaetērikói che vale il latino quinquennales.

Le altre feste si svolgevano con questo schema (per notizie più dettagliate si veda qui): ogni quattro anni, ma spostati di due anni rispetto ai giochi di Olimpia (ovvero nell’anno 3 di ogni Olimpiade) si svolgevano a Delfi, in onore di Apollo i giochi Pitici; ogni due anni, nell’anno 2 e nell’anno 4 di ogni Olimpiade, si tenevano poi, in mesi diversi, a Corinto in onore di Poseidone i giochi Istmici, e a Nemea, in Argolide, in onore di Zeus i giochi Nemei. In qualche modo, ogni anno c’erano gare e feste.

I Giochi persero gradualmente importanza con l’aumentare del potere romano in Grecia: all’inizio furono mantenuti e aperti anche a Romani, Fenici, Galli e altri popoli sottomessi (Nerone, ad esempio, aprì un’enorme edizione dei giochi a Roma in cui tutti gli atleti dell’Impero Romano poterono partecipare, lui compreso). Ma ecco il colpo di grazia: il Cristianesimo divenne religione di stato, con l’immediata conseguenza che i Giochi olimpici vennero visti come una festa “pagana”, così che nel 393 d.C., l’imperatore Teodosio I, assieme al Vescovo di Milano Ambrogio, li vietò, ponendo fine a una storia durata oltre mille anni. Per gli appassionati di calcoli storici, dirò che, visto che il numero 776 è divisibile per 4 (e dà 194) la 194-esima olimpiade si svolse nell’anno 4 a.C. e la successiva ― siccome l’anno zero non è mai esistito nei conteggi degli storici, ma solo in quelli degli astronomi ― si è svolta nell’anno 1 d.C., così che l’anno 393 era un anno olimpico dato che 393-1=392 che, diviso per 4 fornisce 98. Così che nel 393 si sarebbe dovuta celebrare la 293-esima olimpiade (195+98=293).
Le Olimpiadi moderne sono ricominciate nel 1896 ad Atene, per iniziativa di Pierre De Coubertin.

Pindaro (518 – 438 a.C.) visse nel grande periodo di ascesa dello splendore di Atene, vide e cantò le vittorie sui Persiani, assistette alle più gloriose Olimpiadi e morì dieci anni prima dell’infausta morte di Pericle, che segnò l’inizio dei guai per la democrazia ateniese. Della sua immensa produzione ci rimangono quasi soltanto gli epinici, cioè appunto i canti per celebrare la vittoria di un atleta. I suoi epinici si dividono quindi in Olimpiche, Pitiche, Istmiche e Nemee. Vi incollo qui la prima pagina col testo a fronte della I Olimpica, scritta per celebrare la vittoria, nell’Olimpiade LXXVI (dunque nel 476 a.C.), di Hieron di Siracusa con il corsiero.
Allora le Olimpiadi andavano così. Onore e gloria grandi ai vincitori, Pindaro cantava per loro, tutta la Grecia era in festa e, quasi sempre, si smetteva di combattere. Allora.

[edizione Garzanti, Milano 1981, traduzione e lettura critica di Luigi Lehnus; una traduzione italiana del testo di tutte le odi olimpiche è disponibile in rete qui.]

video arte #6 – sam taylor-wood

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Sam Taylor-Wood, Still life, 2001.

Altre forme di Aventino – Silvia Avallone rinuncia alla scuola

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di Giuseppe Zucco

La scuola, il mondo scolastico, per me, è aria di famiglia. In un recentissimo passato, così come ho appreso la disposizione delle botole segrete di Prince of Persia, o lo struggimento pomeridiano di certe divisioni decimali, ho anche collezionato inconsciamente vizi e virtù della pubblica istruzione. Parole come graduatoria, punteggio, assegnazioni, supplenze, ruolo, corpo docenti, collegio insegnanti, sortiscono su di me lo stesso incantesimo della madeleine su Marcel Proust.

Proprio da piccolo, sei anni al massimo, capelli castano chiari, un’innata inclinazione al sarcasmo, quando la mia sola presenza innescava tutta una serie di smancerie da parte della dirigente di turno, piccoli buffetti e l’intramontabile domanda ti piace la scuola?, ho infilato al seguito di mia madre alcuni uffici del provveditorato di Reggio Calabria, un labirinto di stanze sature di fascicoli e faldoni posizionato un paio di piani più su di una gelateria buonissima.

Mio padre lavora nella segreteria di un liceo. Mia madre è stata prima insegnante elementare, quindi direttrice didattica. Due tra le mie zie, ora in pensione, hanno insegnato a scuola. A suo tempo, una cugina su otto ha rinverdito questa tradizione familiare.

Il mondo della scuola mi appartiene non solo come luogo del sapere che ho pazientemente scalato dalla valle primitiva dell’asilo fino alla vetta molto sofisticata della tesi di laurea, ma anche come una singolare provincia dell’esperienza umana le cui regole plasmano e irreggimentano in un modo del tutto particolare la vita, la malattia, l’ascesa sociale, le abitudini, la stasi, la rassegnazione, il furore, la delicatezza delle relazioni. Non finirò mai di pensare che per esempio direttrici, professoresse, insegnanti, siano accumunate senza volerlo dallo stesso vaporoso taglio di capelli, una rivisitazione meno barocca e più contemporanea delle parrucche di Luigi XIV. Così come non finirò di ricordare quanta dedizione ci voglia per fare questo mestiere (cosa a cui non tutti sono predisposti, evidentemente), e l’altissima soglia di sopportazione del dolore che il corpo docente ha sviluppato nel corso degli anni mentre la scuola veniva infestata dalla malaria della burocrazia, dalla sciagura dei tagli lineari, dal cataclisma della precarietà che paralizza e continua a paralizzare la forza vitale delle nuove generazioni di insegnanti. Una certa estetica è da sempre affiancata a un determinato saper fare: ed è solo in virtù di questa forza inerziale – l’inerzia della volontà, verrebbe da dire, se la formula non risultasse drammatica – che l’agonia e la gioia dell’insegnamento continuano nonostante la successione ciclica e burrascosa dei ministri.

È più o meno con questi fantasmi davanti agli occhi che ieri mattina, sul treno, sfogliando il Corriere della Sera, mi imbatto nell’articolo di Silvia Avallone. Trattando di scuola, lo leggo da cima a fondo. Il focus dell’articolo è il modo in cui viene selezionata la nuova classe di insegnati. Il tono e le constatazioni, più che a Kafka, un nome ricorrente nell’articolo, rimandano a Goya e alle sue pitture nere. Non c’è verso di raggiungere quello che oggi, nel nostro Paese, è diventato uno dei mestieri più ardui. Non basta la laurea. Non bastava neppure la famigerata Sis, scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario, che hanno allestito e dismesso nel giro di un decennio. Ostaggi del tempo e dei punti, dei master online a pagamento che devi collezionare per scalare una o due posizioni. Sfruttati, ricattati, in balia di un ingranaggio perverso che ti richiede esami su esami, tasse su tasse, precarietà su precarietà. In sostanza, dice Silvia Avallone, non solo è più probabile fare un incontro del terzo tipo con una qualche entità aliena che entrare di ruolo in maniera stabile e vantaggiosa sia per gli insegnati che per gli studenti, ma la disgrazia capitale sarebbe farcela, centrare l’obiettivo di una vita, cioè diventare insegnanti, una delle categorie più depresse, malridotte e sminuite su tutte le terre emerse.

La neanche così piccola apocalisse che Silvia Avallone disegna – la completa dismissione di uno tra i più raffinati e variabili e umani processi di condivisione del sapere – ha fondamenta più che solide. L’invenzione del Tfa, ovvero di un tirocinio formativo attivo che richiede al tirocinante 2500 euro nel caso di esito positivo alla prova di ammissione, tirocinio lungo un anno che alla fine abilita all’insegnamento, ma non assicura l’assunzione, la dice lunga.

Silvia Avallone, però, fa un passo in più. In chiusura, annuncia il suo ritiro dall’ambizione di diventare insegnante. Il passo è legittimo, ovviamente. Niente da obiettare di fronte a una scelta di vita venata dal colore dell’incredulità e della sofferenza. Resta tuttavia l’evidenza che il tutto sia confezionato in forma di articolo su uno dei quotidiani nazionali a maggiore tiratura, irradiando quindi un certo valore simbolico – valore che si dispiega sul capo inclinato dei suoi lettori proprio nel giorno in cui alla prova di ammissione del Tfa per ventimila posti disponibili si presentano centosettantaseimila possibili candidati.

Confrontando i due eventi, allora, la pubblicazione di un articolo di denuncia e abbandono e la pressione mattutina di una rilevante preparatissima massa umana sui fatidici banchi di un esame ministeriale – esame, tra l’altro, iniziato male e finito peggio: I test impossibili per aspiranti prof, titola sempre il Corriere  –  si spalanca un abisso. Perché, diciamolo fuori dai denti, Silvia Avallone sembra parlare dall’alto di una posizione, di una rendita di posizione, sciogliendo in forma di articolo il privilegio di una scelta – del resto, ha scritto un romanzo di successo, Rizzoli pubblicherà il secondo, il Corriere della Sera ospita i suoi articoli, al Festival di Venezia sarà presentato il film tratto dal suo primo libro – mentre la maggioranza deve, per vocazione o costanza, fatalità o assenza di alternative, proseguire ostinatamente sulla stessa strada, una strada lunghissima lastricata di esami, corsi di preparazione, corsi di aggiornamento, studio matto e disperato, sveglia la mattina presto per correre, sempre correre, ai ripari.

Ma, aldilà di questo, c’è un ulteriore passaggio nell’articolo che continua ad inquietarmi: Ho visto la scuola pubblica smantellata pezzo per pezzo, la ricerca agonizzare, l’università annichilirsi anno dopo anno. E, in parallelo, questo Paese perdere grinta, ambizione, ridursi a una cartolina del passato, in cui la cultura viene messa da parte in favore di non si sa bene quale scorciatoia, quale vicolo cieco. Perché se il salto logico di Silvia Avallone è stato “la scuola è un disastro, io ci rinuncio”, non vorrei passasse nel grande ventre dell’opinione pubblica l’idea che appena su qualsiasi cosa indispensabile per la pluralità dei cittadini si distenda il colorito cianotico della mancanza di ossigeno, questa venisse accantonata e lasciata agonizzare senza neanche il tentativo di infondergli nei polmoni il soffio provvidenziale di una respirazione bocca a bocca.

Il verbo che non possiamo più permetterci oggi è abdicare. Altrimenti, a furia di rinunciare, spegnendo poco per volta quanto riteniamo prezioso e duraturo, un giorno neanche tanto lontano finiremo per abdicare a noi stessi, quando già da un po’ eravamo cianotici e nella solitudine dei nostri appartamenti non ci sentivamo neanche troppo bene.

[qui si può leggere l’articolo di Silvia Avallone pubblicato sul Corriere della Sera il 25/7/2012]

Le lezioni americane di Borges (audio)

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di Davide Orecchio
Nel 1967-68 Jorge Louis Borges tenne un ciclo di sei lezioni sulla letteratura all’Università di Harvard. Siamo nell’ambito delle Norton Lectures, che hanno ospitato dal 1925 a oggi letture prestigiose (le Lezioni americane di Italo Calvino nascono lì). Quanto espose lo scrittore argentino (quasi del tutto cieco, senza ricorrere a note scritte) è diventato anche un libro, pubblicato in Italia da Mondadori (L’invenzione della poesia).

Aurora

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Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses?
Quam ferus et uere ferreus ille fuit!

[“Chi fu il primo ad inventare le terribili spade? quanto davvero ferino e ferreo egli fu!”, Tibullo, Elegie 1.10, intorno al 25 a.C.], a.s.