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A gamba tesa: Albert Camus

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da Albert Camus, Actuelles II. Chroniques 1948-1953. (Éditions Gallimard,1953)
(Testo in lingua originale)

Creazione e libertà
La Spagna e la cultura
(30 novembre 1952)
di
Albert Camus
Intervento pronunciato alla Salle Wagram, 30 novembre 1952
traduzione di effeffe

Va celebrata quest’oggi una nuova e confortante vittoria per la democrazia. Ma è una vittoria che ha riportato su se stessa e sui suoi stessi principi. La Spagna di Franco è stata introdotta di nascosto nel tempio ben riscaldato della cultura e dell’educazione mentre la Spagna di Cervantes e Unamuno veniva gettata ancora una volta in mezzo a una strada. Quando sappiamo che a Madrid l’attuale Ministro dell’Informazione, ormai collaboratore diretto dell’ UNESCO, è lo stesso che fece propaganda nazista durante il regno di Hitler, che il governo che ha appena insignito con un’ onorificenza il poeta cattolico Christian Claudel è il medesimo che decorò con la medaglia dell’Ordine Imperiale delle Frecce Rosse Himmler, organizzatore dei forni crematori, è legittimo dire, in fin dei conti, che qui non sono Calderon né tanto meno Lope de Vega a essere accolti dalle democrazie nella loro società di educatori, ma Joseph Goebbels.

A sette anni dalla fine della guerra, questa magnifica ritrattazione dovrebbe valere le nostre congratulazioni al governo di Pinay. Non è tanto a lui, in effetti, che si potrà rimproverare di sentirsi in imbarazzo, di farsi degli scrupoli visto che qui è questione di alta politica. Tutti fin qui pensavano che le sorti della storia dipendessero un pochino dalla lotta degli educatori contro i carnefici. Però non si era pensato, tutto sommato, che bastasse nominare ufficialmente educatori i carnefici. Ebbene il governo Pinay ci ha pensato.

Ovviamente, l’operazione è un po’ fastidiosa e andava fatta in quattro e quattr’otto. Ma diamine, la scuola è una cosa, il mercato è un altro! Questa storia, a dire il vero, fa un po’ mercato di schiavi. Si scambiano le vittime della Falange con i sudditi delle Colonie. Per quanto riguarda la cultura, si vedrà poi.

Del resto non sono affari dei governi. Gli artisti fanno cultura, i governi la controllano a seguire e quando si presenti l’occasione fanno fuori gli artisti per controllarla meglio. Finalmente arriva il giorno in cui una manciata di militari e industriali può dire “noi” parlando di Molière e Voltaire o stampare stravolgendole le opere del poeta salvo averlo dapprima fucilato. Quel giorno, che è lo stesso in cui ci troviamo ora, dovrebbe ispirarci almeno un pensiero di compassione per il povero Hitler. Invece di uccidersi per eccesso di romanticismo, gli sarebbe stato sufficiente imitare il suo amico Franco e aspettare pazientemente. Oggi sarebbe delegato all’ UNESCO all’ educazione della Nigeria, e Mussolini in persona avrebbe contribuito ad elevare il livello culturale di quei piccoli etiopi i cui padri aveva massacrato non molto tempo fa. Così, riconciliati in Europa finalmente, assisteremmo al trionfo definitivo della cultura, in occasione di un’ enorme tavolata composta da generali e marescialli serviti e riveriti da una squadra di ministri, democratici sì, ma decisamente realisti.

La parola disgusto a questo punto è sin troppo debole. Ma mi sembra inutile esprimere ancora una volta la nostra indignazione. Dal momento che i nostri governanti sono abbastanza intelligenti e realisti per fare a meno dell’ onore e della cultura, non cediamo al sentimentalismo e sforziamoci di essere realisti. Dal momento che questa è la considerazione oggettiva della situazione storica che porta Franco all’UNESCO, otto anni dopo il crollo del potere delle dittature tra le macerie di Berlino , cerchiamo di essere obiettivi e ragioniamo con freddezza sugli argomenti che sono stati presentati per giustificare il mantenimento di Franco.

Il primo argomento si rifà al principio fondamentale della non-ingerenza. Lo si può riassumere come segue: gli affari interni di un paese riguardano esclusivamente quel paese. In altre parole, un buon democratico se ne sta a casa sua. Questo principio è inattaccabile. Indubbiamente ha degli inconvenienti. La salita al potere di Hitler riguardava solo la Germania e i primi ad essere rinchiusi nei campi di concentramento, ebrei o comunisti erano tedeschi, in effetti. Ma otto anni dopo Buchenwald, la capitale del dolore era una città europea. Tuttavia, il principio è il principio, il vicino è padrone in casa sua. Diciamoci la verità, e ammettiamo allora che il nostro vicino di pianerottolo potrà picchiare sua moglie e far bere del Calvados ai propri pargoli. C’è nella nostra società un piccolo emendamento. Se il vicino di casa esagera, gli verranno tolti i figli e lo si affida a un lavoro di pubblica utilità. Franco, quanto a lui, può esagerare. Supponiamo allora che il vicino di casa possa permetterselo senza alcun limite . Non potete farci nulla, si è capito. La punizione che merita l’ avete a portata di mano, ma vi mettete le mani in tasca perché tanto non sono affari vostri.

Però, se il vicino è allo stesso tempo un commerciante, non siete certo costretti a comprare da lui. Nulla vi costringe a dargli dei viveri, a prestargli del denaro, nè tanto meno a cenare con lui. Potete insomma, senza intervenire negli affari suoi, voltargli le spalle. E se pure abbastanza persone nel quartiere lo trattano allo stesso modo, quello avrà l’occasione di riflettere, di vedere dove sono i suoi interessi, e una possibilità almeno di cambiare la concezione che ha dell’amore familiare, senza contare il fatto che quella messa in quarantena potrà offrire alla moglie un “buon argomento”.. Sarebbe in questo, non ne dubitiamo, la vera non ingerenza. Ma a partire dal momento in cui con lui ci cenate, a lui prestate dei soldi, allora gli darete i mezzi, e la buona coscienza, necessari per continuare, e praticherete stavolta voi una vera ingerenza, ma a svantaggio delle vittime. E quando in conclusione incollerete surretiziamente l’etichetta “vitamine” sulla bottiglia di Calvados con cui riconforta i suoi pargoli, quando soprattutto deciderete sotto gli occhi di tutti di affidargli l’educazione dei vostri, allora, eccovi più criminali di lui, in conclusione, e due volte criminali visto che incoraggiate il crimine chiamandolo virtù.

Eccoci al secondo argomento che consiste nel dire che si aiuta Franco, nonostante gli inconvenienti della cosa, perchè si oppone al comunismo. Vi si oppone innanzitutto in casa sua. Vi si oppone successivamente fornendo le basi necessarie per la strategia della prossima guerra. Qui, nuovamente, non poniamoci la domanda se si tratti di un ragionamento animato dalla gloria e chiediamoci piuttosto quanto esso sia intelligente.

Notiamo innanzitutto che contraddice assolutamente il ragionamento precedente. Non si può essere per la non-ingerenza e voler impedire a un partito, quale esso sia, di trionfare in un paese che non sia il vostro. Eppure questa contraddizione non spaventa nessuno. Il fatto è che nessuno abbia mai creduto veramente, eccezion fatta forse per Ponzio Pilato, alla non ingerenza in politica estera. Siamo seri allora, sacrosanta che si possa immaginare anche soltanto per un secondo la ragione di allearsi con Franco per conservare le nostre libertà chiediamoci in cosa potrà aiutare gli strateghi atlantici nella loro lotta contro gli strateghi orientali. Si tratta innanzitutto di un’esperienza costante nell’Europa contemporanea l’idea che il mantenimento di un regime totalitario significhi a una più o meno breve scadenza rinforzare il comunismo. Nei paesi in cui la libertà è una pratica nazionale, oltre ad essere una dottrina, il comunismo non vi prospera.

Nulla gli è più facile al contrario, e l’esempio dei paesi dell’Europa orientale ce lo sta a provare, che mettere i propri passi sulle orme del fascismo. Certamente è in Spagna che il comunismo ha minori possibilità dal momento che ha davanti a sè una vera sinistra popolare e libertaria per non parlare dello stesso carattere spagnolo in tutta la sua peculiarità . Alle ultime elezioni libere in Spagna nel 1936, i comunisti ottennero soltanto 15 seggi su 443 alle Cortès. Ed è senz’altro vero che ci voglia ben altro dalla cospirazione internazionale della stupidità per fare di uno spagnolo un marxista. Ma se pure ipotizzassimo, il che è assurdo, che il regime di Franco sia l’unico baluardo contro il comunismo, e visto che siamo al realismo, che dire di una politica, che volendo indebolire il comunismo su un certo punto, lo rafforzerebbe in altri dieci? Perché nulla potrà mai impedire a milioni di persone in Europa, di pensare che il caso Spagna, come l’antisemitismo, i campi di concentramento o i processi farsa basati su confessioni estorte, sia un test per giudicare la veridicità di un sistema politico democratico.

E il mantenimento sistematico di Franco impedirà ogni volta a questi uomini di credere nella sincerità dei governi democratici quando pretendono di rappresentare la libertà e la giustizia. Questi uomini non acconsentiranno mai a difendere la libertà con al proprio fianco assassini della libertà. Una politica che metta in un tale vicolo cieco così tanti uomini liberi si può chiamare una politica realista? E solo una politica criminale, che consolida il crimine, portando alla disperazione tutti, spagnoli o altri che rifiutino il crimine, da qualunque parte esso provenga.

Per quanto riguarda l’importanza puramente strategica della Spagna, non sono tra i più qualificati a parlarne, da eterno principiante quale sono nelle arti militari. Ma credo che l’altopiano iberico non varrà molto il giorno in cui i parlamenti francesi e italiani conteranno centinaia di nuovi deputati comunisti. Per cercare di fermare il comunismo in Spagna con mezzi indegni, si darà una seria possibilità alla comunistizzazione dell’Europa, e se dovesse compiersi, la Spagna sarà comunistizzata a prescindere dai patti e allora, da quell’altipiano strategico, verranno fuori argomenti che convinceranno finalmente i pensatori di Washington. “Faremo dunque la guerra”, diranno questi ultimi. Senza alcun dubbio, e può darsi pure che la vinceranno. Ma penso a Goya e ai suoi cadaveri mutilati. Sapete cosa dice? « Grande hazana, con muertos », “Grande prodezza, in cambio di morti.”

Eppure questi sono i miserabili argomenti che giustificano lo scandalo che ci ha fatti incontrare quest’oggi. Non ho voluto far finta di credere, in effetti, che si trattasse di considerazioni culturali. Si tratta soltanto di una contrattazione dietro al paravento della cultura. Ma anche in tanto che affare, non può essere giustificata. Forse arricchirà qualche venditore di frutta e verdura, ma non servirà nessun paese e nessuna causa, se non alcune di quelle ragioni che gli uomini dell’Europa possono ancora avere da combattere. Ecco perché non sapranno esserci per un intellettuale due posizioni quando Franco sarà ricevuto all’U.N.E.S.C.O. E non basta dire che rifiuteremo ogni collaborazione con una organizzazione che ha accettato di coprire una simile operazione. Tutti, ognuno al suo posto, da ora in poi, la combatteremo a viso aperto, e con fermezza, affinchè si riveli quanto prima come il non essere quella che pretende di essere, ovvero un luogo d’incontro di intellettuali dedicati alla cultura, ma un’associazione di governi al servizio di qualsiasi politica.

Sì, nel momento in cui Franco è entrato all’UNESCO, l’UNESCO è uscita dalla cultura universale, ed è questo che noi abbiamo da dire. Ci è stato obiettato che l’ U. N.E.S.C.O. è utile. Ci sarebbe molto da dire circa i rapporti tra uffici e cultura, ma di una cosa almeno possiamo essere sicuri ed è che nulla può essere utile quando perpetua la menzogna in cui viviamo. Se l’ U. N.E.S.C.O. non è stata in grado di mantenere la propria indipendenza tanto vale che sparisca. Dopo tutto, le società della cultura passano e la cultura rimane. Di una cosa almeno possiamo esserne certi ed è che essa non scomparirà perché un’alta organizzazione politica sarà mostrata per quella che è. La vera cultura vive di verità e muore di menzogna. Vive sempre, del resto, lontano dai palazzi e dagli ascensori dell’UNESCO, lontano dalle prigioni di Madrid, sulle strade dell’esilio. Ha sempre la sua società, l’unica che io riconosca, quella dei creatori e degli uomini liberi che, contro la crudeltà dei totalitarismi e la codardia delle democrazie borghesi, contro i processi di Praga e le esecuzioni di Barcellona riconosce tutte le patrie servendone una sola: la libertà. Ed è in questa società che riceveremo, noi, la Spagna della libertà. Non facendola entrare dal retrobottega evitando così il dibattito, ma apertamente, solennemente, con il rispetto e l’affetto che gli dobbiamo, l’ammirazione che proviamo per le sue opere e per la sua anima, e in conclusione con il sentimento di gratitudine che nutriamo per il grande paese che ci ha offerto e ancora ci offre le nostre più alte lezioni.

Quello che siamo… Quello che vogliamo…

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di Evelina Santangelo

Quello che siamo…Quello che vogliamo…Quello che siamo…Quello che vogliamo…Quello che siamo…Quello che vogliamo…Quello che siamo…Quello che vogliamo…Quello che siamo…Quello che vogliamo…Quello che siamo…Quello che vogliamo…

Games with frontiers : Saamiya Yusuf Omar

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Mo e Saamiya, le due facce della Somalia »
di
Igiaba Scego
articolo pubblicato qui

Mo Farah, arrivato da rifugiato in Uk, ora è l’eroe nazionale: dopo aver vinto 10′ooo e 5’000 metri è stato ricevuto anche da Cameron. Saamiya, invece, che aveva corso i 200 metri alle Olimpiadi

Franco Buffoni: poesie 1975-2012

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Di Andrea Inglese

L’Oscar Mondadori dedicato a Franco Buffoni antologizza 37 anni di attività poetica. Lo cura e introduce Massimo Gezzi, che nelle prime righe del suo saggio ricorda l’esordio relativamente tardo di Buffoni rispetto ad altri poeti della stessa generazione, come De Angelis e Magrelli. Io completerei l’osservazione di Gezzi, aggiungendo che Buffoni non solo ha esordito tardi, ma il suo stesso lavoro poetico giunge a maturazione dopo un lungo itinerario. Destino per certi versi opposto a quello di De Angelis e Magrelli, che esordiscono giovani e con libri importanti, di riconosciuto talento.

God listens all sprayers – Grecia per immagini

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di Giuseppe Zucco

[Le immagini sono tratte dai siti ekosystem e fatcap – i graffiti sono rispettivamente di Anastasakos Kretsis Crew (1), Absent (2,3,13), Bleeps (4,5,6,7,8), Achilles (9), Snrs (10), Blu (11,12)]

Dittico di Ferragosto (Bill Viola & George Lucas)

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[Se soffrite il caldo, pensate a chi sta peggio. hj]

Trains de vie : Anna Giuba

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La stazione

di

Anna Giuba

– Questa mattina ho litigato con Carlo, a colazione. Mi dispiace. Avevo torto marcio, e non me ne rendevo conto. Chissà quanto c’è stato male, lui. Sono uscita di casa senza neanche dargli un bacio…

Attraverso la strada. Tengo in braccio Angiolina. Ha un vestito verdino come il mio. Dio, che caldo. Logico, la nonna ci ha fatto due vestiti uguali, della stessa stoffa. Madreefiglia. Il cielo si direbbe di stoppa, e non sono ancora le dieci. Quasi quasi, cerco una cabina. Giusto così, per dirgli ciao. Ciao amore, mi dispiace tanto. E poi gli dirò un sacco di parole, e anche che lo amo, ti amo, Carlo. Lui non saprà resistere, magari si arrabbierà un po’, farà il maschietto ferito nell’orgoglio, ma poi tutto si aggiusta. Già, tra di noi è sempre andata così, tutto si è sempre aggiustato. Stringo Angiolina e le tengo una mano sulla nuca per proteggerle la testa dal mio passo spedito.
– Perché piangi, Angela? Non è niente!

La bambina singhiozza e con le mani a pugno si copre la faccia. Per un attimo mi sembra più piccola dei suoi tre anni. Piange un pianto cantilenante, un salmodiare in sordina. Va e viene. Va e viene. Va e viene. Attraverso l’atrio con la bambina che piange in braccio. Le cabine della stazione sono tutte occupate. Accidenti. Allora è meglio se ci sediamo un attimo, non sento più le caviglie. Laggiù ci sono due posti, tanto manca mezz’ora alla partenza, abbiamo tutto il tempo per comprare il giornale e cercare un telefono. Sbuffo e sistemo Angiolina nella poltroncina accanto alla mia.
– E magari compriamo una bambolina dal tabaccaio, eh, Angela?
– Bamboa. Angela mi guarda e interrompe improvvisamente il pianto. I bambini.
Getto uno sguardo rapido al’orologio, sono appena le dieci meno cinque.

il rapido delle nove e cinquantacinque proveniente da Roma e diretto

Anche se di solito viaggio poco, le stazioni mi sono sempre piaciute, e questa folla che mi passa accanto di fretta, che sembra sospesa in un altro tempo e in un altro spazio. Questo odore di catrame e linoleum. Anche se stamattina, non so, deve essere stato il litigio che mi ha lasciata con l’amaro in bocca. Va a finire che si dicono parole che uno non vorrebbe mai dire. È così che succede, quando uno non ce la fa più dice un sacco di cattiverie. Che magari non sente. L’amore si eclissa come un sole e viene a galla il rancore cattivo. Si vede soltanto più quello.
Tra tutte queste facce, ne sto cercando una sola. So che non può esserci. Ma quanto vorrei averlo qui, di fronte a me, per dirgli tutto quello che sento. Stringo la mano di Angiolina e la guardo e le aggiusto i capelli che sono fini e che fanno una nuvola. È così paffuta che non si vede il naso, di profilo.
Scusate, siete in partenza?

La voce viene dalla bocca di un vecchio, dev’essere un barbone che vive qui di notte e di giorno. Ha due sacchetti di plastica pieni di stracci scuri nelle mani ed emette barbagli di un odore forte e sgradevole. I piedi nei sandali sono neri di sporco che sembra fuliggine. Come sono sempre indifesi, i piedi. Guardo quelli di Angiolina che sono così piccoli e quelli storpiati del vecchio che ha le unghie nerenere e un alluce valgo.

Una moneta!

Il barbone tende la mano e ride con la dentatura irregolare. Le finestrelle sono molte. Uno più, uno meno, c’avrà sì e no due denti. Brutta storia. Per me, che sono dentista, è quasi naturale guardare la bocca delle persone. Per un attimo rabbrividisco pensando di mettere la mano nella bocca sdentata del vecchio, ecco, preferirei quella di questa signora bionda che sta facendo le parole crociate nella poltroncina accanto alla mia. Sicuramente lei ha un bel sorriso. Tasto nelle tasche, trovo una moneta da cinquecento lire. Angiolina guarda il vecchio serissima. Ha un dito in bocca e lo guarda seria, con occhi profondi e giudicanti come sanno essere giudicanti solo gli occhi dei bambini.
È una buona mancia, per uno che fa soltanto la fatica di augurarti buon viaggio, penso tra me e me.
Il vecchio prende la moneta e la tasta. È buona! dico ridendo.
Allora si mette a ridere anche lui, di quel suo riso che è una lisca di pesce.
Anche Angiolina ride, quando vede la mamma ridere ride anche lei, poi si arriccia una
ciocca di capelli intorno ad un dito e poi lo punta verso la tabaccheria.
– Bamboa.
– Sì, è vero, la bambola. Spicciati, Angela, vieni, sennò non facciamo in tempo. Mi guardo intorno, ma i telefoni continuano ad essere occupati. Accidenti.

Regionale delle dieci e tredici proveniente da Milano

Non ce la farò a salutare Carlo, non ce la farò. Eppure lui continua a riempirmi i pensieri. Un viaggio è sempre un viaggio, significa aprire una distanza tra sé e la persona amata, non voglio partire senza sentirlo. Lo amo. Lo amo quanto e forse più di me stessa. Quanto sono stata stupida. Voglio dirgli Carlo non è vero non lo pensavo sono tutte sciocchezze, so che ti ho ferito.
Tutte le donne sono stupide, in fatto d’amore. Forse sogniamo troppo. Forse. Poi, fare i conti con la vita di tutti i giorni non è facile. La routine, l’amore che separa e uccide, questa benedetta realtà. I pensieri si accavallano come ondine su una battigia.
Bamboa. ripete Angiolina.
– Massì, che te la compro, questa bambola! Adesso però lasciami telefonare a papà…
– Bamboa! e Angela ricomincia a piangere in uno strillo acutissimo e insopportabile.
– Va bene, a papà telefoniamo quando arriviamo, eh? Così lo saluti anche tu. Hai ragione, Angiolina, ti avevo promesso una bambola. E lo sai, che mamma mantiene sempre le sue promesse, no? Dài, che perdiamo il treno… Ci avviciniamo alla tabaccheria, vendono anche souvenir. Ci sono anche due Barbie vestite di bianco e rosa in vetrina, nella vetrinetta vicina al binario.
– Babbi… mormora Angiolina con il dito puntato verso la diva di plastica.
– Sì, è Barbie, è quella, che vuoi? Dài, Angiolina, su, dimmelo ché perdiamo il treno.
– Sì… Entro, compro e pago. La tabaccaia ha un aspetto liquido e sudaticcio, in questo calore. Prendo Angiolina in braccio e cammino veloce verso il binario. Sono sicura che il binario sia questo? Proprio questo?

Maria, vittima della strage di Bologna, 2 agosto 1980

La lingua mi si annodò e non seppi dirgli altro – Quando un giovane Saverio Strati conobbe Corrado Alvaro

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di Domenico Talia

Oggi, 16 agosto, Saverio Strati compie ottantotto anni. La sua opera letteraria pubblicata finora è stata vasta e importante, ma ancora tanti suoi lavori attendono di essere pubblicati. La ricorrenza del suo compleanno è un’utile occasione per riflettere sulla letteratura di Strati e sul suo percorso di uomo e di scrittore che non è stato facile negli anni dei suoi inizi e, purtroppo, ha incontrato difficoltà anche nei più recenti anni dell’età matura, nonostante le storie forti e di grande impegno civile che la sua penna ha saputo narrare. Romanzi e racconti pubblicati in Italia e all’estero e premi importanti che hanno riconosciuto il suo talento letterario e la sua continua testimonianza a favore degli umili e della sua terra. Solo tre anni fa “Il Quotidiano” si è fatto promotore della campagna per far riconoscere allo scrittore di Sant’Agata del Bianco i benefici della legge Bacchelli. Benefici concessi nel dicembre 2009 per meriti letterari.

Un breve scritto di Strati pubblicato nel 1960 su “Comunità”, il mensile culturale fondato da Adriano Olivetti, è un ottimo spunto per riflettere sul suo percorso di vita e di scrittore. In quel contributo, Saverio Strati racconta un momento molto particolare dei suoi inizi di scrittore: l’incontro con Corrado Alvaro avvenuto nell’estate del 1953 a Caraffa del Bianco dove lo scrittore di San Luca era andato per far visita alla madre che viveva con suo fratello Massimo, prete del paese aspromontano.

Due scrittori nati a pochi chilometri di distanza, figli della stessa terra ed eredi di un mondo che si andava trasformando irrimediabilmente, si incontravano in un momento in cui uno di loro, Strati, era molto giovane – 29 anni – e si avviava con molte speranze verso una lunga carriera, allora neanche iniziata, di romanziere. Corrado Alvaro, aveva esattamente il doppio degli anni di Strati – 58 anni – ed era ormai un affermato scrittore e un famoso giornalista che aveva lavorato nei maggiori giornali italiani e aveva conosciuto il mondo nei suoi continui viaggi.

Il racconto che Strati fa del suo incontro con Alvaro a Caraffa è pieno di sensazioni, di atmosfere e di timidezze personali. Tuttavia, assieme a questi aspetti umani molto rilevanti, il loro colloquio è anche pieno di riflessioni letterarie, di scambi di opinioni su autori, su stili di scrittura e visioni della vita che Alvaro e Strati hanno condiviso con diretta sincerità e altrettanto rispetto e attenzione che, se era naturale attendersi nel giovane Strati, vanno ancor più apprezzati in Alvaro scrittore maturo, affermato e stimato in Italia e all’estero.

Strati allora era studente universitario a Messina e racconta: «Sapevo che Alvaro era a Caraffa, che è un paese attaccato al mio. Desideravo molto conoscere il famoso scrittore. …  Partii e andai al paese per presentarmi allo scrittore.» Egli non aveva ancora pubblicato nulla ma certamente aveva grandi speranze: «Avevo già scritto molti racconti, a quel tempo, ma ancora non avevo pubblicato nemmeno una parola.»

Il loro primo incontro avvenne per strada mentre Corrado Alvaro insieme al fratello Massimo faceva una passeggiata in una serata estiva: «… si andò lungo la rotabile polverosa e piena di breccia fino alla Torre…». Il carattere riservato e timido di Strati si accentuò davanti ad Alvaro che lo invitò ad unirsi a loro nella passeggiata e che subito si offrì di leggere i suoi racconti, quelli che avrebbero fatto parte della raccolta “La marchesina”. «La lingua mi si annodò e non seppi dirgli altro, al primo momento, che: molte grazie! … Non ero abituato a vivere tra famosi scrittori e non sapevo che titolo bisognava dare ad un uomo celebre.»

Strati descrive l’ambiente intorno a loro: «Ci sedemmo sui sedili di pietra. Il sole stava tramontando e il paesaggio era veramente incantevole, … lo Jonio era di un azzurro-rosso laggiù … Alvaro osservava tutto in silenzio». La vista che avevano di fronte andava da Capo Bruzzano fino al Castello di Roccella, oltre quaranta chilometri di costa jonica. «È proprio bello questo paesaggio, disse Alvaro. Si girò subito verso il fratello e gli disse: Verso lì dovrebbe essere San Luca.» In questo passaggio il fratello dello scrittore spiega ad Alvaro che da una collina vicina si vede il loro paese e Alvaro gli chiede di salire su quella collina prima che lui parta per Roma. Il colloquio che ne seguì spiega bene perché Corrado Alvaro aveva scelto di non visitare più San Luca dopo la morte del padre: «Ho un bel ricordo di quel paese, e non mi piace sciuparlo. Lì sono stato felice durante la mia fanciullezza, e desidero conservare per sempre questo ricordo.» Questa frase è l’occasione per Strati di riflettere sul rapporto che lui stesso ha con il paese in cui è nato: «Io ho sempre sofferto al mio paese… eppure ci torno sempre con piacere.» Un rapporto che appare diverso da quello di Alvaro e che comunque esprime uno scarto tra il desiderio e l’esperienza reale che nel tempo non si è mai risolto.

Alcuni contadini che ritornando dalla campagna passano davanti a loro sono lo spunto per discutere del rapporto tra antica e nuova civiltà. Alvaro fa notare a Strati la gentilezza e la bontà della “nostra” gente e allo stesso tempo esprime la necessità del superamento della vecchia civiltà per far attecchire nella metà del novecento anche nella terra calabrese la civiltà europea che Alvaro conosceva bene: «Sono i residui di una vecchia civiltà. … quella vecchia civiltà della Magna Grecia ancora dura a morire… Ed è bene che muoia.» All’invocazione di Alvaro di una necessaria trasformazione culturale, Strati che aveva letto le opere di Alvaro, aggiunge con le stesse parole dello scrittore: «È bene che muoia, ma bisogna trarre il maggior numero di memorie da essa, come lei dice in “Gente in Aspromonte”.» E in questo compito il giovane e il maturo scrittore, uno di fronte all’altro seduti di fronte al mare Jonio, sembrano condividere non soltanto un’opinione ma anche un destino letterario che, anche se si è realizzato con stili e forme narrative differenti, ha sempre mirato alla rappresentazione e alla elaborazione delle memorie di un popolo di cui loro sono stati parte consapevole.

Nel ricordo di Strati di quell’incontro e del colloquio con Alvaro, ci sono alcuni passi in cui il giovane scrittore confessa le difficoltà della sua vita da ragazzo, come quando racconta del suo unico paio di scarpe: «Desideravo che arrivasse la primavera per potermi togliere le scarpe … lo facevo anche per risparmiare l’unico paio di scarpe per il prossimo inverno … Infatti provavo un grande piacere quando le rimettevo alle prime acque.» Oppure, quando rispondendo ad Alvaro che gli chiede: «Lei conosce bene i nostri lavoratori?», racconta della sua vita di giovane muratore: «Sono stato e sono ancora uno di loro … mi sento più operaio che studente universitario … Sino a vent’anni ho lavorato: ho fatto il muratore.»

In altri momenti di quell’incontro raccontati da Strati, diventa esplicito il lirismo di Alvaro, che evidentemente in lui non era soltanto letterario, ma costituiva anche una visione del mondo. Strati descrive come lo scrittore di San Luca si era fermato ad osservare una giovane donna, figlia di un pastore, seduta davanti alla casa dove abitava don Massimo: «Alvaro si fermò e la guardò con ammirazione. La ragazza divenne porpora in viso, per qualche istante si lasciò osservare, ma presto si alzò e rientrò. Ha visto? – mi disse Alvaro – Ha visto che segni di nobiltà ci sono nel volto di quella giovane? … Altro che miss Italia  … si è lasciata guardare come un bel quadro e come se si fosse detta: guarda, ma non troppo.»

Un altro esempio di visione lirica della vita e del mondo si ha quando, nel giorno successivo al loro primo incontro, Strati, invitato da Alvaro, ritorna a casa di don Massimo. Insieme ad Alvaro osservano dall’alto di un balcone una contadina che con una piccola cesta in testa porta nei campi il mangiare agli uomini impegnati nella mietitura. Alvaro osservava tutto con molto interesse: «Con quale cura aggiustano quella roba nella cesta … Tutto, se guarda bene, ha un’aria di rito … E faranno due ore di strada con questo caldo, per raggiungere i loro uomini … Ricordo d’averle viste, queste donne, già quando ero ragazzo, a San Luca … impastare il pane, infornarlo, al forno pubblico, e tutto veniva eseguito con una religiosità inesprimibile.»

Per Strati, quella fu anche l’occasione per conoscere Antonia Giampaolo, l’anziana madre dello scrittore che viveva con don Massimo. Brevemente la descrive: «Era una donna avanzata negli anni i cui tratti del viso erano totalmente uguali a quelli del figlio: il labbro superiore largo e forte, gli occhi acuti … Mi ricordai, guardandola, della madre di “Cata Dorme”, la bellissima novella di “Gente in Aspromonte”, della madre dell’ ”Età Breve”.»

Il racconto che Strati fa dell’incontro è anche pieno di riferimenti letterari. Nella loro discussione entrano i paralleli con i racconti sui contadini di Tolstoj, il frammentismo di Cechov, la Calabria di Cesare Pavese, il meridione raccontato da Verga, lo stile di Boccaccio e quello di Manzoni. Strati vuole far sapere ad Alvaro che ha letto le sue opere «con la speranza che lui si mettesse a parlarmi del suo lavoro.» Di “Gente di Aspromonte” lo scrittore di S.Agata dice che è come l’opera che « … mi parla più direttamente e mi tocca molto», ed in risposta Alvaro fa quasi una confidenza: «Doveva essere un romanzo, ma ho dovuto tagliare.» Nel seguito della discussione precisa anche le motivazioni dei tagli sulla sua opera più nota pubblicata nel 1930: «Se lei rileggerà “Gente in Aspromonte” si accorgerà che come quello è un romanzo interrotto. Mentre lo scrivevo, mi accorsi che mi venivano molti problemi fuori, dei problemi forti, scottanti della nostra terra. Erano anni difficili e certamente non mi avrebbero stampato il libro. Tagliai. Comunque molte cose sono lì dentro… È molto triste vivere e soprattutto scrivere sotto le dittature.»

Oltre a discutere delle sue opere, Alvaro è curioso di sapere cosa ha scritto il giovane Strati e quando gli chiede: «Ha scritto molti racconti?» lui risponde quasi con entusiasmo: «Tutto un libro di racconti.» Si trattava della raccolta di dodici racconti che sarebbe stata pubblicata qualche anno dopo da Mondadori con il titolo “La marchesina”. Racconti che contengono tutti gli elementi nodali della narrazione e del mondo di Strati.

La discussione che seguì questo scambio di battute, a leggerla oggi, assume un incredibile significato profetico, soprattutto alla luce del cammino di scrittore di Saverio Strati che, dopo decine di testi tradotti in tante lingue e premi letterari importanti, ha vissuto momenti di difficoltà, abbandonato dal suo storico editore, e in pratica senza possibilità di pubblicare le sue opere.

Sentendo che Strati aveva completato un volume di racconti, Alvaro gli fa i complimenti, ma allo stesso tempo lo ammonisce: «Ha lavorato! … Però le dico che è un brutto mestiere quello dello scrittore. Non si vive scrivendo racconti o romanzi, sa … Specialmente in un paese come il nostro dove nessuno legge…» Le sagge parole di Alvaro colpirono Strati che sulla soglia dei trent’anni non poteva certo immaginare che quella premonizione sarebbe valsa anche per lui in tarda età! Strati impressionato da quelle considerazioni commenta: «Mi assalì, ricordo, molta tristezza a sentire questo discorso. Fino a quel momento avevo ritenuto che colui che può pubblicare i suoi scritti e diventa, per giunta, famoso, fosse molto felice. Invece da quel discorso capivo che non si è per niente felici e che i problemi dello scrittore diventano sempre più pesanti e duri, a mano a mano che egli va avanti nel suo lavoro.» Pensieri che sono tuttora attuali e che, nel caso specifico di Strati, si sarebbero dimostrati di estrema verità molti anni dopo.

Il loro primo incontro finì con l’invito di Alvaro a Strati di passare a trovarlo a Roma nella sua casa in Piazza di Spagna: «Mi fa sempre piacere conversare con un calabrese che vuol farsi avanti, che ama studiare … mi venga a trovare.»

Quell’invito fu raccolto da Strati negli anni successivi. I due, infatti, si incontrarono altre due volte proprio nella casa davanti alla fontana della Barcaccia. La prima volta un anno dopo, nel 1954, e l’incontro lo racconta Walter Pedullà che, amico e compagno di università di Strati, insieme a lui viaggiava alla scoperta dell’Italia. «Alvaro fu molto cordiale. Provò a metterci a nostro agio, ma nessuno di noi era particolarmente facondo. Strati era taciturno, mentre io ero ammutolito dall’emozione di parlare con Alvaro.» In quell’incontro Strati ed Alvaro parlarono ancora della Calabria («Sempre più piccola in un mondo sempre più grande.»), e dei racconti di Strati che ormai stavano per essere pubblicati.

L’ultimo incontro è del 1955 e Strati racconta: «Fu più cordiale e più alla mano di prima. Mi parlò a lungo dei problemi della Calabria.» Alvaro era molto interessato alla situazione calabrese ed era intenzionato a fondare un mensile scritto da calabresi che parlasse dei problemi della Calabria: «Il titolo doveva essere, se ricordo bene: “La Tribuna dei Calabresi”. Fece con me, quel giorno stesso, un preventivo delle copie che si sarebbero potute vendere. … Mi chiese chi avrebbe potuto, secondo me, collaborare di calabresi che conoscessero e sapessero parlare dei nostri problemi, della nostra terra con buoni articoli. Laggiù la dovrebbero smettere di scrivere certe rivistine piene di poesie d’amore. Questo petrarchismo fuori luogo … dà molta noia …»

Alvaro chiese a Strati di collaborare a quella sua iniziativa: «Se mi riuscirà d’incominciare lei naturalmente potrà mandarmi qualche articolo … Ho letto il suo racconto su “Nuovi Argomenti” … Lavori, lavori!». Strati salutò Alvaro sulla porta di casa con l’intenzione di rincontrarsi presto e di iniziare con lui una collaborazione. Purtroppo la malattia che colpì Alvaro soltanto un anno dopo il loro ultimo incontro, gli impedì di proseguire la sua avventura editoriale e non permise a Saverio Strati di stabilire un rapporto con Alvaro che certamente sarebbe stato molto importante per lui.

Nel ’56 Alvaro morì e nello stesso anno, Mondadori pubblicò “La marchesina”. L’opera dell’esordio letterario di Saverio Strati va in stampa nello stesso anno in cui viene a mancare Corrado Alvaro. Un’inimmaginabile coincidenza per due scrittori che soltanto tre anni prima si erano conosciuti passeggiando per una strada sterrata della loro terra, con l’Aspromonte alle spalle e il mare Jonio davanti. Una coincidenza che realizzò un simbolico passaggio di testimone tra due scrittori che hanno saputo narrare la gente di cui si sono sentiti parte e la terra che li ha visti crescere ed andare via. Un mondo che trova memoria viva nelle pagine della narrativa di Strati e di Alvaro. Nella loro scrittura, diversa per forma espressiva ma uguale nel saper rappresentare in maniera magistrale la carne e l’anima, i destini e i desideri degli uomini e delle donne calabresi. Una narrazione fatta con gli occhi di chi ha conosciuto il mondo e che con quegli stessi occhi ha saputo guardare alle vite, ai problemi e alle speranze della propria gente.

[Questo articolo è stato pubblicato, con una leggera variazione, su Il Quotidiano di Calabria il 12/8/2012]

Svetozar Gligorić (2.2.1923-14.08.2012)

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1. d4 Cf6 2. c4 c5 3. d5 e6 4. Cc3 exd5 5. cxd5 d6 6. e4 g6 7. Cf3 Ag7 8. Ae2 O-O 9. O-O Te8 10. Cd2 Ca6 11. f3 Cc7 12. a4 Cd7 13. Rh1 f5 14. exf5 gxf5 15. Cc4 Ce5 16. Cxe5 Axe5 17. f4 Ag7 18. Ah5 Tf8 19. Tf3 Ce8 20. Axe8 Dxe8 21. Tg3 Ad7 22. Ad2 Tf6 23. Db3 Tg6 24. Te1 Dd8 25. Cb5 Ae8 26. Tge3 Af7 27. Te7 a6 28. Cc7 Tb8 29. Dh3 Tg4 30. Dd3 Af6 31. Dxf5 Tg6 32. Td7

Vedi la partita qui.

La foto è presa da questo sito.

Dopo il miracolo

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di Gianni Biondillo

Alessandro Zaccuri, Dopo il miracolo, 259 pag., Mondadori, 2012

Il seminario della Vrezza si trova in un’immaginaria valle appenninica del piacentino, simbolo perfetto di una metaforica, immutabile, provincia italiana. Siamo negli anni del riflusso, con un nuovo papa sopravvissuto (miracolosamente?) ad un attentato. Il contado viene travolto da una successione di avvenimenti che distruggono l’apparente pacifica immobilità del luogo. Dapprima il suicidio di Beniamino, il più giovane rampollo di una devotissima famiglia che ha in Attilio Defanti – mezzadro arricchito – un patriarca giusto e paziente, infine l’irrompere di un chiassoso pellegrinaggio di fedeli fanatici che, quasi mettendo in assedio il seminario, chiedono a gran voce l’intercessione di un santo guaritore.

Il problema che il santo, Don Alberto, santo non si sente affatto. È un teologo raffinato, inquieto, razionale, un prete scettico che non crede ai miracoli. Ma anni addietro, per una concomitanza di eventi, sicuramente tutti spiegabili dalla scienza, un suo gesto di pietà ha fatto “risorgere” da morte certa una bambina. E ora la madre, Maria Sole, ex sessantottina irrisolta, professa una fede cieca nei confronti dei poteri taumaturgici del sacerdote.

Zaccuri, come già dimostrano le sue prove precedenti, ha il dono della narrazione corale: Dopo il miracolo è un romanzo affastellato di personaggi, alcuni appena tratteggiati, altri sbalzati al cesello. Si permette di parlare di temi profondi, entrare nel cuore del mistero, con coraggio: il dubbio della ragione, l’oscurità della fede, la meraviglia dell’esistenza, l’incomprensibilità la morte. Ma lo fa con metafore mai grevi, spesso attraverso le parole dei suoi personaggi, più che con le sue. Zaccuri ha una scrittura elegante che sa manipolare impercettibilmente di capitolo in capitolo. Fa il verso a stili, suggestioni letterarie, autori. Una tonalità personale e autentica, però, per quanto camuffata, ammanta l’intero romanzo: l’ironia affettuosa, mai crudele. Comica. Di chi ha fede per davvero, senza mai prendersi sul serio.

(pubblicato su Cooperazione n. 21 del 22 maggio 2012)

video [sull’]arte #7 – andy warhol

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Andy Warhol su Jasper Johns, anni ’60.

Su alcuni fotogrammi di Chris Marker. A partire da Lo sguardo e l’evento di Marco Dinoi

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pubblicato il 31 luglio 2012 in ⇨ www.lavoroculturale.org

Come riprendere le donne di Bissau? Apparentemente, la funzione magica dell’occhio laggiù era contro di me.

Le convergenze parallele

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di Giuseppe Zucco

Il Console le prese la mano. Si stavano abbracciando, o così quasi sembrava, appassionatamente: chi sa dove, dall’alto del cielo, un cigno, trafitto, piombò sulla terra. Malcolm Lowry, Sotto il vulcano.

 

Guardava la Jacuzzi schiumare bolle intorno alla gamba. E come dal nulla un uccello era improvvisamente caduto nella Jacuzzi. Con un piatto, prosaico, plop. Dal nulla. Dal grande cielo vuoto. Non c’era niente sopra la Jacuzzi se non il cielo. L’uccello sembrava avere appena avuto un infarto in volo o qualcosa del genere ed era morto e caduto dal cielo vuoto e ammarato morto stecchito nella Jacuzzi, proprio vicino alla gamba. Orin abbassò gli occhiali sul naso e lo guardò.David Foster Wallace, Infinite Jest.

 

[ Il graffito è di Losdelaefe, Mexico: http://www.ekosystem.org/tag/losdelaefe ]

 

Hrabal in maschera

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Il manuale di un apprendista sbruffone (1970)
di
Bohumil Hrabal
Traduzione di Annalisa Cosentino
Testo pubblicato in rete qui

Sono un estimatore del sole nei ristoranti all’aperto, un bevitore della luna che si specchia nel selciato bagnato, cammino eretto e diritto, mentre mia moglie, a casa, benché sobria, fa atti mancati e barcolla, una descrizione piena di humour dell’eraclitiano panta rei mi scorre alla gola e tutti i ristori del mondo sono come un gruppo di cervi agganciati per le corna dei discordi, la grande scritta Memento mori che alita dalle cose e dai destini umani è un motivo per bere sub specie aeternitatis, il cimitero di Olšny, la prigione di Pankrác e via Bartoloméjská altrettanto, sono perciò un dogmatico dell’allergia allo stato fluido, la teoria del giunco e della quercia per me è una forza motrice, sono un urlo umano atterrito, che si dissolve in un fiocco di neve, vado continuamente in fretta, per poter sognare due o tre ore al giorno inattivamente attivo, perché so bene che la vita umana è breve e passa mentre si mescolano le carte, che forse sarebbe meglio se fossi lavato via, buttato via dentro un fazzolettino, talvolta mi atteggio come se stessi fiutando un milione, anche se so bene che alla fine vincerò una merda che ride, che la festa è cominciata con una stilla di seme e finirà nel crepitio del fuoco, da inizi così belli così belle conclusioni, dietro un visetto grazioso si può amare l’allegra madrina Morte, annaffio le piante quando piove, nel luglio afoso mi tiro dietro lo slittino di dicembre, nei caldi giorni estivi, per rinfrescarmi, mi bevo i soldi destinati al carbone per scaldarti d’inverno, tremo continuamente di paura perché la gente non trema di paura per quanto la vita è breve, è così poco il tempo, finché ce n’è abbastanza, per le follie e l’ubriachezza, vivo i mattutini postumi di sbronze come campioni nient’affatto privi di valore, anzi, come valore assoluto di un trauma poetico con un accenno di insania, che va assaporata come una santa colica epatica, sono un albero frondoso pieno di occhi attenti e sorridenti, occhi sempre in stato di grazia e come assi appaiati di accidenti e incidenti, che gioia, su un vecchio fusto giovani ramoscelli, che godimento il riso delle foglie appena nate sui giovani rami, il mio clima è il tempo variabile di aprile, una tovaglia sbrodolata è la mia bandiera, nella cui ombra ondulata provo non solo allegra euforia, ma anche slittamento e resurrezione, quel dolore sordo alla nuca, quell’orribile tremito della mano, con i denti mi tiro via dalle zampe piccole schegge di vetro e i residui dell’esuberante notte precedente, ogni mattina mi stupisco di non essere ancora morto, sono sempre in una condizione di morosità, potrei crepare prima di aver fatto follie a mio piacimento, non mi considero un rosario, ma un anello della catena spezzata del riso, il più fragile grano determina la forza della mia immaginazione dissipatrice, è qualcosa in me di castrato, qualcosa che è e allo stesso tempo indietreggia verso il passato, per essere catapultato nel futuro compiendo un arco, nel futuro che poi mi distoglie completamente da labbra ed occhi bramosi, tanto che divento strabico, vedo doppio come attraverso la calcite islandese, oggi è ieri e l’altroieri è dopodomani, perciò sono un produttore di affrettati giudizi sintetici, assaggiatore e sommelier di uno spazio adulterato, considero la sclerosi e la demenza e il balbettio infantile come l’inizio di possibili scoperte, con la giocosità e il gioco trasformo la valle di lacrime in riso, scongiuro la realtà e lei non sempre mi dà un segno, sono un timido capriolo nella radura di un’aspettativa sfacciata, sono la solida campana dell’imbecillità incrinata dal fulmine della conoscenza, l’oggettività in me assurge alla soggettività estrema, che considero un’aggiunta alla natura e anche alle scienze sociali, sono un genio negativo, un bracconiere nelle riserve della lingua, sono il guardaboschi dell’ispirazione piena di humour, una guardia giurata sui campi delle barzellette anonime, l’assassino delle buone idee, il guardiano dei dubbi vivai della spontaneità, eterno amatore e dilettante dell’idiozia e della pornografia, eroe dell’insensatezza pensante, precipitoso crocifero di parallele anticipate, che vuol mangiare una fetta di pane spalmata sul burro dell’infinito, che vuol bere da un boccale la panna dell’eternità subito, ora, e ora e mai più, quindi mai, reputo la spiegazione sbagliata delle parole di Cristo il fascino dei testi apostolici, una trina di Bruxelles inzuppata nelle bave di un epilettico, frantumi di ghiaccio sulle sponde di un torrente invernale sono il mio ornamento, contro il quale ci si può ferire, io sono depressione e spleen e prostrazione, i preparativi al salto di testa contro il muro sono la prova, continuamente rimandata, che si può vivere diversamente da come ho vissuto finora, sono un nevrotico che gode di ottima salute, un insonne che si addormenta profondamente solo sui tram e si lascia così portare fino al capolinea, sono una grande presenza di piccole aspettative e di attesi grandi crack e fiaschi, su un orizzonte grottesco vedo altri orizzonti di minuscole provocazioni e di scandali in miniatura, perciò sono un clown, un animatore, un narratore e un istitutore, proprio come un grande detrattore e delatore di me stesso, redattore di lettere minatorie senza firma, considero le notizie prive di valore un possibile preambolo alla mia costituzione, che cambio di continuo, che non posso mai aver finito, nel progetto di un ombra tracciata lievemente scorgo una costruzione gigantesca, anche se è una piccola tomba di bambino sprofondata da tempo, sono un signore incinto di giovinezza che invecchia già, la mimica e la lingua sono la grammatica in movimento di un gergo interiore, una fetta di polpettone caldo e un bicchiere di birra fredda in mezz’ora riescono a transustanziarmi la materia in buon umore, che metamorfosi a buon mercato, e il primo miracolo è venuto al mondo, una mano posata su una spalla amica è per me la maniglia che apre la porta della beatitudine, dove ogni oggetto amato è il centro del paradiso terrestre, il cuore della natura è lo stato accessibile del bodhi, in cui nel pensiero si può amare una vagina riluttante e ostinata, avvolta per di più nelle più belle curve di carne, verbum caro factum est, il cannibalismo raggiunto a secco, senza prete e senza diploma di maturità, tristi occhi di mucca che si sollevano curiosi sopra le sponde dei camion, sono i miei occhi, una giovenca minorenne attesa da macellai con coltelli luccicanti, sono io, una cinciallegra con le ali rovesciate svuotata in una sera gelata in un secchio d’acqua fredda, sono io, la fiamma a cui ritornano vespe fedeli, per morire bruciate insieme alle altre nel nido che arde, questo è l’abbozzo di un’idea abbastanza precisa di favi che bruciano pieni di un miele preparato solo e soltanto per me, sono dunque un membro corrispondente dell’Accademia della sbruffoneria, un allievo della cattedra di euforia, il mio dio è Dioniso, un leggiadro giovane ubriaco, l’allegria che si è fatta uomo, il mio padre della chiesa è l’ironico Socrate, che con pazienza attacca discorso con chiunque, per portarlo con la lingua e per la lingua fino alla soglia stessa del non sapere, il figlio primogenito è Jaroslav Hašek, inventore da storielle da osteria e geniale viveur e scrivano, che con l’afrore dell’uomo ha reso umani i cieli prosaici e ha lasciato la scrittura agli altri, con gli occhi sbarrati fisso le pupille blu di questa Santa Trinità, senza aver raggiunto il culmine del vuoto, l’ebbrezza senza alcol, l’istruzione senza il sapere, inter urinas etfaeces nascimur ed è come se le nostre madri ci avessero partorito a cavalcioni direttamente nei forni crematori, o in tombe ricoperte di erbetta, sono un toro dissanguato dal riso, al quale qualcuno con un cucchiaino mangia il cervello come un gelato.
Cameriere, ci sarebbe un’altra porzioncina di gulasch?

P.S. Quando analizzo questo testo, che dovrebbe fare da postfazione a questo libro, un testo che ho scritto in cinque ore in pause irregolari mentre spaccavo la legna e tagliavo l’erba, un testo che ha il battito rallentato della scure verticale e la melodia della linea orizzontale di una falce austriaca, devo distinguere tra le frasi defluite come somma di esperienza interiore e quella che ho ricavato dalla lettura. Devo elencare le frasi di autori che, dal momento in cui le lessi, mi affascinano al punto che mi dispiace non averle inventate io stesso. “Non mi considero un rosario, ma l’anello di una catena spezzata” è una variazione rovesciata del nietzschiano “non sono l’anello di una catena, ma la catena stessa”. “Ogni oggetto amato è il centro del paradiso terrestre” è esattamente Novalis. “Verbum carofactum est” è S. Giovanni, “la Parola fu fatta carne”. “Dioniso, l’allegria che si è fatta uomo” è Herder. “Inter urinas et faeces nascimur” dovrebbe essere S. Agostino, “nasciamo tra feci e urine”. E malgrado ciò siamo bellissimi. “Le nostre madri ci partoriscono a cavalcioni in tombe aperte” è uno scolastico spagnolo, di cui ho dimenticato il nome. Eppure siamo magnifici e, dunque, qui. Questo è tutto.


Traduzione di Annalisa Cosentino, MicroMega n. 3/95, pp. 95-98

Il rosso e il nero d’America #2

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di Giuseppe Zucco

Il nero: Il petroliere – There will be blood (Paul Thomas Anderson, Usa, 2007)

Viene fuori dalla terra, il film di Paul Thomas Anderson. Viene fuori fluido e denso come il petrolio, e allaga il nostro immaginario con la figura di Daniel Plainview. Il petroliere è la storia di un uomo che buca la terra, trova il petrolio, fa fortuna, e inesorabilmente si distanzia dagli uomini. Non ci sono affetti decisivi nella sua vita, né donne, niente che porti il nodo di un legame. Rifiuta qualsiasi cosa che si avvicini all’umano: la famiglia, il figlio, il fratello. Nelle sue mani tutto diventa strumento per bucare ed estrarre. Conta solo il piacere della competizione e l’annientamento totale dell’avversario. È la storia di un uomo felice di vivere nel deserto, dopo che il deserto l’ha sistemato lui intorno, radendo al suolo tutti e ogni cosa.

Il petroliere è un film profondamente diverso da quelli a cui ci aveva abituati Anderson. Alle storie corali e multidimensionali, con infiniti intrecci e mille personaggi – un cinema alla Altman, uno dei suoi grandi ispiratori e maestri – P.T. Anderson sostituisce il racconto di un personaggio, seguendo la sua evoluzione, senza staccare mai la macchina da presa dal suo volto, dal suo corpo. Non finisce mai di essere circondato dallo schermo Daniel Plainview, come se una lente d’ingrandimento si fosse posata sulla sua vita e lo tenesse costantemente a fuoco. Così che tutto diventa la triplice storia di un’ossessione: quella di Plainview per il successo, quella del regista per la potenza mimetica di Daniel Day-Lewis, quella dello spettatore per il volto, gli sguardi, i gesti di un predatore che sbuca fuori dalla viscere della terra poco prima che il Novecento crepitasse.

Ed è un film che sgorga piano sullo schermo: sale da profondità mai raggiunte, s’impenna e monta, cresce e allaga, scaturisce come un geyser e si distende in molteplici direzioni. Un film raro: perché hai la certezza, mentre sei immerso nello schermo, che non siano solo immagini quelle che vedi, ma pensieri, idee diventate forma e colore, teoria che evade dal perimetro di una storia e imprime nella memoria le orme di un ragionamento.

L’incipit è una festa di idee: Daniel Plainview è sepolto nelle viscere della terra, con il piccone in mano scava, fa breccia, rompe l’architettura minerale della terra, gli sottrae l’argento, e il piccone si fa scintilla a contatto con la terra, diventa scintilla mentre le terra cede, e Plainview sa il fatto suo, e infila la dinamite in una cavità, poi risale alla luce, il deserto corre arido per chilometri intorno, e in cima al pozzo scavato tira su gli attrezzi, ma sono davvero pesanti, e sta ancora tirando su quando la dinamite esplode, e la polvere si alza, una nube spessa di polvere che cova una sorpresa, il petrolio esploso e impresso sulla bocca del pozzo, nero sul deserto dorato, l’epifania del petrolio che esplode ed inverte il destino di Plainview, che malgrado tutto, nonostante una gamba che si spezzerà, e una fatica da pionieri, scova un giacimento di petrolio, escogita la tecnologia della trivellazione, scava il suo primo pozzo, e scardina la sua posizione sociale diventando signore indiscusso di una piccola comunità, muscolose squadre di uomini che lavorano per lui, che si muovono con lui, città intere che si spostano nello sconfinato paesaggio americano quando Daniel Plainview scopre altro petrolio ancora, e compra terreno per chilometri interi, a prezzi stracciati.

Dura quattordici minuti almeno, l’incipit. Un quarto d’ora di cinema puro, dove la storia cola dalle immagini, e la figura di Daniel Plainview è sbozzata nella luce, sgrossata nei controluce, intagliata nell’ombra. Potrebbe scorrere in perfetta autonomia, l’incipit: per tutta la sua durata, le parole sono bandite, non esiste personaggio che si pronunci, solo la colonna sonora di Jonny Greenwood, il chitarrista dei Radiohead, vibra ed evoca. E una domanda risale i pensieri, allora: cosa ci fa un pezzo di cinema muto all’inizio di un film girato nel 2007? Cosa ci sta mostrando P.T. Anderson adesso? Abbastanza semplice: che il cinema nasce nello stesso momento dell’espansione virale delle forme industriali, che cinema e industria sono indissolubilmente legati, e insieme concorrono a mettere in forma non solo dei modelli sociali – come quello della fabbrica, con le sue gerarchie – ma anche un immaginario specifico, un preciso modo di vedere le cose. Al pari dell’industria, il cinema esplora il mondo, lo setaccia in lungo e in largo, lo trasforma in un serbatoio di immagini e in una miniera di storie. Due valori mettono sullo stesso piano il cinema e il sistema industriale: la possibilità di rendere vicino ciò che era lontano, e la circostanza di disporre delle cose come delle loro immagini. Ovviamente, ciò comporta una rottura epocale rispetto al passato. E Anderson è attentissimo nella regia a rivelare il modo in cui il cinema conquista e sfrutta il mondo: attraverso piani sequenza, lunghe carrellate, dolly che dall’alto s’inabissano nelle profondità della terra, o che s’impennano a rincorrere il getto di petrolio, la macchina da presa sottolinea l’occupazione, la colonizzazione di porzioni di mondo dimenticate per secoli, ed ora rese improvvisamente produttive.

Ma il gioco è ancora più raffinato. Il motore del film non è solo l’istinto predatore di Plainview, ma anche il lunghissimo conflitto che lega il destino del petroliere a quello di Eli Sunday, un giovane predicatore – con il faccino liscio e le espressioni ai limiti dell’epilessia di Paul Dano. Sono due personaggi antitetici. Ma agiscono nello stesso modo, spudoratamente. Mentre Plainview si assicura il potere economico, Eli Sunday piazza in cassaforte il potere religioso, collezionando sostenitori e fedeli. Entrambi sono due truffatori. Plainview compra le terre a prezzi stracciati, senza dichiarare il petrolio sottostante. Sunday parla, benedice e agisce in nome di dio, senza piegarsi a nessun ordine precedente, ma fondando una propria setta. E il mondo sembra farsi e disfarsi secondo la trama del loro rapporto. Alla vicinanza iniziale si sostituirà il conflitto aperto. La lotta diventerà addirittura fisica, e non mancheranno gli schiaffoni micidiali in due scene speculari e bellissime.

E il film sembra raccontare l’inizio del Novecento, ed invece ci rivela il nostro tempo armato, dove sulla scacchiera della storia sono ancora i poteri religiosi e quelli economici a fronteggiarsi. È dalla loro trama, dal loro intreccio, dal modo in cui si evitano o si sovrappongono, che la storia continua a prodursi. Per questo il cinema di Anderson, perfino qui, ha una profonda ambizione corale: perché nonostante siano solo Plainview e Sunday a sfidarsi, stilizzando il mondo intero nella loro relazione, i loro volti in realtà sono popolati e abitati da moltitudini di uomini che negli ultimi corsi e ricorsi storici hanno ripercorso la stessa spirale.

Così, se Into the wild mostrava attraverso una biografia il lato solare dell’America moderna, qui, in un perfetto controcampo, ritroviamo l’oscurità che pervade la storia. Del resto, il titolo originale del film è There will be blood, scorrerà il sangue. Ed infatti si scioglie a più riprese dalle vene, e non è mai rosso, non ha niente di vitale, ma abbandona i corpi lentamente, nero e vischioso, come se non contenessero altro che petrolio, i personaggi del film, nient’altro che fame e livore. Come se fossero animali incattiviti, più che uomini. E viene da pensare che Daniel Plainview, in mezzo alle piste da bowling, mentre finisce a colpi di birillo Eli Sunday, dopo il dialogo in cui si autoproclama dio, sia l’ultimo erede degli scimmioni spietati di 2001: Odissea nello spazio. Solo che l’arma che impugna non diventa più un’astronave che volteggia nello spazio astrale, non è più il simbolo di un progresso lontano, ma continua a uccidere, e far sprizzare sangue nero, dagli uomini come dalla terra.

[Pubblicato, a suo tempo, su SentireAscoltare]

Vista da Trieste

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di Antonio Sparzani

È quel momento inquietante che prepara il buio della notte, è finito il violetto chiaro dell’ultimo sole, pochi minuti e rimarrà solo buio e le luci artificiali. Però.

Però è piena di luna piena la mia sera, qui, chissà se è proprio al culmine – certo sembra occupare tanto cielo, un cerchio perfetto, da oscurare tutte le stelle circostanti, gaddianamente sopr’a le stelle reìna. Ma non oscura il golfo, il grande golfo che si vede dalla mia finestra aprire blu scuro, il golfo che promette lontananze impensate – all’orizzonte punti luminosi, vaghe alberature.
Non si è ancora spento il punto bianco di Miramare, il primo confine a ovest, con la livida presenza dell’arciduca; oltre quello, lo sguardo non va, solo lo sguardo della mente, sempre così più ardito, può spingersi fino a Duino e vedere anche lì le presenze che da un secolo ormai evoca quel luogo, Boltzmann e Rilke, che a pochi anni di distanza lasciarono parti di vita legate a questo mare favoloso.
Rilke c’era andato senza “famiglia”, ospite della contessina Maria von Turn und Taxis, e dopo avere lasciato a lei e a tutti noi l’impervia testimonianza delle Duineser Elegien, se ne andò per altri lidi; mentre Ludwig Boltzmann, in vacanza con la famiglia, nell’estate del 1906, era preda del tormento continuo di non riuscire a conciliare, all’interno delle sue riflessioni, i diversi aspetti della sua assidua ricerca sulle leggi della meccanica e delle nuova scienza del calore, che giustamente riteneva tra le più profonde e significative della fisica.
Reversibilità o irreversibilità? Determinismo o statistica?
Boltzmann, scienziato cerniera tra antico e moderno, tra Ottocento e Novecento, tra il mondo tranquillo – quasi Biedermeier – della fisica classica che ormai tutto spiegava e prometteva continui perfezionamenti di un quadro così elegante, e le nuvole nere, come le chiamò con maggior consapevolezza Kelvin, che si andavano addensando su questo quadro idilliaco.
Boltzmann, che non si rassegnava alle contraddizioni che sembravano ineluttabilmente radicate nell’insieme della sua ricerca, non sopportò il peso della sua incapacità a rispondere a tutte le critiche, spesso anche superficiali, che vennero mosse alle sue ipotesi e alle sue costruzioni, e scelse Duino per mettere bruscamente fine alla propria ineludibile scontentezza.
E allora, un po’ anche per onorare la sua memoria, che è la memoria di un grande, di uno dei creatori della nuova fisica del Novecento, provo a raccontare un minimo elemento di base della fisica del calore, quella che più Boltzmann contribuì a sviluppare. Provo cioè a dire in poche righe, ora che il cielo è diventato buio e stellato e solo la Luna rimane a rischiarare le colline del Carso dietro di noi, quale sia l’interpretazione della grandezza fisica temperatura secondo il modello di materia che si andava un po’ alla volta consolidando.
Una delle prime cose da ricordare con chiarezza è che l’idea atomistica, che la materia sia fatta di tante tante particelle piccole piccole, pur avendo radici lontane, dagli atomisti di Abdera a Epicuro e a Lucrezio, non era affatto popolare tra i fisici dell’Ottocento materialista e determinista, che anzi mediamente erano agnostici in proposito, oppure ritenevano che la materia fosse un continuo, una pappa senza interruzioni e buchi che riempiva completamente quella parte di vuoto che occupava. Ernst Mach era in prima fila tra questi e l’antagonismo con Boltzmann passava anche per questa strada. Quest’ultimo invece cercava di spiegare le proprietà della materia supponendo che questa fosse appunto composta di atomi, proprio quegli átomoi – oggetti che non possono essere ulteriormente tagliati – annunciati dalla filosofia antica di cui sopra.
La seconda cosa da tener presente è l’idea, che si era ormai saldamente formata nella fisica dell’Ottocento, di energia, che si era rivelata uno strumento assai utile nella descrizione e nella formulazione delle leggi fondamentali della meccanica. In particolare l’energia di un qualsiasi corpo, tipicamente puntiforme, poteva essere anzitutto rappresentata da una quantità che dipendeva dalla sua massa e dalla sua velocità. L’espressione in questione è abbastanza ben nota ed è la seguente E=½mv^2, formula, ovvero abbreviazione linguistica, che significa che per ottenere questa grandezza, che è detta energia cinetica perché dipende dal moto, occorre moltiplicare la massa per il quadrato della velocità e dividere per 2. Le ragioni di questa prescrizione di calcolo ci sono, ma non fatemele spiegare qui.
Bene: cosa ha questo a che fare con la temperatura? Prendete un gas – un gas perché è uno dei modi più semplici di organizzarsi della materia – contenuto in un recipiente di un certo volume che indicheremo con V e soprattutto supponete che esso consista di tanti pezzetti molto piccoli, questi pezzetti li chiameremo molecole perché ognuna di esse, in linea di principio anche da sola, ha le proprietà del gas; ogni molecola ha la sua massa e supporremo che essa si muova continuamente all’interno del volume V nel quale può liberamente agitarsi. Naturalmente le molecole, mentre avranno tutte la stessa massa, avranno tra loro velocità diverse e quindi ognuna avrà la sua energia cinetica diversa dalle altre; ma, ecco che entra la valutazione complessiva, quella che usa l’occhio statistico, potremo considerare l’energia cinetica media di tutte le molecole, che si indica con il simbolo Ē, e che può in linea di principio essere ottenuta sommando le energie cinetiche di tutte le molecole e dividendo alla fine per il numero di esse.
La temperatura del gas è, secondo il modello che si è andato affermando alla fine dell’Ottocento, proporzionale esattamente a questa energia cinetica media, e dunque è un’indicazione di “quanto velocemente” si muovono le molecole all’interno di un gas. Era la base della cosiddetta teoria cinetica del gas perfetto, di cui ho qui già detto parlando di Boyle, e poi, vari anni fa, parlando dell’entropia. Questa apparentemente strana proprietà della materia, di dare sensazioni di caldo o di freddo, è dunque semplicemente ascrivibile ai movimenti delle sue molecole, il che, vi assicuro, è stato un bello shock per la fisica e nello stesso tempo un considerevole successo dei tentativi di spiegare la scienza del calore mediante la meccanica, in quanto proseguendo i pochi ragionamenti che ho esposto qui, si è arrivati a spiegare su basi meccaniche la legge dei gas perfetti.
Boltzmann diede anche il nome alla costante di proporzionalità di cui dicevo prima, in questo senso preciso: una molecola puntiforme possiede – se misurata nell’unità di energia propria del sistema internazionale, il Joule, un’energia pari a (3/2)kT, dove la lettera T, maiuscola, rappresenta appunto la temperatura assoluta, cioè contata a partire dallo zero assoluto, mentre k è la costante di Boltzmann, che vale, con le unità di misura dette, 1,38 10^(-23). Simbolo che uso qui per indicare 10 elevato alla potenza -23, cioè un numero assai piccolo; ma tenete conto che le molecole di un gas sono tante, tipicamente dell’ordine di 10^(23), così che l’energia complessiva di una quantità macroscopica di gas assume un valore ragionevole.

camera di Albrecht

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di Marco Giovenale

in/ex. Lutero. Amsterdam. mortaio, disegno: punta d’argento.
una donna è di profilo a Rheinfells già lungo il Reno, dentro il suo
bagaglio nasconde un astuccio, filigrana o forse. Stephan ha intanto
rosario di cedro, 1, sul battello, spende 7 heller, mostra a Treviri
il salvacondotto, alla dogana, fanno passare in territorio
di Engers, il giorno di San Giacomo, alla volta di Linz, alla barriera
mi ha lasciato del vino, la lucertola impazziva a seguire
le lucciole nella scatola di bosso. si unisce un messo singolare
quando venni condotto al tavolo la folla stava in piedi sui due lati
proprio come si facesse scorta al gran signore. ad Anversa
abbiamo fatto colazione, per il trasporto delle persone passano
tutti sotto un filo d’oro che va giù dall’orologio del confine.

Il cardinale Ruffo è silenzioso e accigliato

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Il cardinale Ruffo

di Wilhelm von Humboldt
(…) Poco tempo fa ho avuto un colloquio con il famoso cardinale Ruffo [Fabrizio Dionigi Ruffo], colui che ha condotto la guerra contro gli insorti e i francesi a Napoli. È un vero peccato che questa campagna militare finisca sepolta nell’oblio. Nell’intera storia dei nostri tempi nessun’altra potrebbe dare un’immagine più vivida ed espressiva, simile a quelle che troviamo in Tucidide, di una guerra civile.

Nobili e cafoni, da Caminante – Mino De Santis

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[Bravo De Santis!]

Noi signori nobili, stirpe di notabili, noi che abbiamo il sangue blu / non ne possiamo più di questa servitù che chiede… chiede… chiede… / […] Noi la gente d’alto rango voi immersi dentro al fango… / Vorreste capovolgere ogni evento?