di Carlo Cuppini
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qui il benzinaio dà ragione
a chi si vuole incendiare
di Giacomo Sartori
Mia madre ogni tanto muore, perché a novant’anni passati è abbastanza frequente morire. Poi però in genere resuscita. Insomma, finora è sempre resuscitata. Ricomincia a dire follie, ricomincia a andare al cinema. È appassionata di cinema, vede tutti i film che escono, compresi quelli che non sembrerebbero i più adatti per una signora di novanta e passa anni. E se la stai a ascoltare te li racconta nei minimi dettagli. Ogni tanto fa un po’ di confusione, perché non è mai stata una persona molto precisa, ma insomma prova a raccontarteli pur sempre dalla a alla zeta. Se non stai più che attento ti spiffera nei più minuti dettagli anche la fine, il che può darti sui nervi, soprattutto quando quel film intendevi vederlo anche tu. Del resto mia madre è la persona in assoluto più capace di darmi sui nervi. Dopo averteli raccontati li giudica con un tono sicuro del fatto suo: sentenzia se sono più o meno belli, se vale o meno la pena vederli. Se ha già visto tutto va a una conferenza, a un concerto di musica classica, o passa semplicemente un momento alla sede della Società degli Alpinisti. Più o meno fino agli ottant’anni partecipava anche alle loro escursioni domenicali, comprese quelle molto impegnative – nei passaggi più difficili c’era sempre qualche giovane alpinista disposto a assicurarla e aiutarla – mentre adesso si limita a salire le scale che portano alla sede cittadina, dove trova sempre qualcuno con cui fare due chiacchiere. Di preferenza si intrattiene con gente molto più giovane di lei, perché non ha mai amato i vecchi. Qualche volta porta una crostata che ha fatto con le sue mani, qualche altra una bottiglia di vino bianco. Oppure passa da una sua amica, o da un’altra sua amica, o da un amico. O anche va a giocare a carte, o alla biblioteca comunale, che resta aperta fino a tardi. Tutto questo anche quando piove o nevica, anche quando è buio e fa molto freddo, e io personalmente non metterei fuori il naso di casa nemmeno se mi puntassero una pistola alla tempia. È una di quelle persone che non riescono a stare ferme, devono sempre fare qualcosa, dire qualcosa, andare da qualche parte. Credo che sia per quello che mio padre aveva sempre quell’espressione un po’ sofferente, quel tipico stiramento della bocca e degli occhi di quando il tramestio che ti circonda ti dà la nausea. Lui però è morto ormai da diversi anni: lei adesso può andare in giro impunemente. Qualche volta va anche a sciare. Teoricamente ha smesso qualche anno fa, ma se ogni tanto uno dei miei fratelli la porta è contentissima, e pur cercando di dissimularlo è eccitata come una bambina. Mia madre ha amato lo sci più di qualsiasi altra cosa o persona, un amore violento e dispotico, e appunto per certi versi immortale. Ha cominciato nella tenerissima infanzia, e per tutta la vita ha sempre sciato molto, ma dopo i settant’anni c’è stata un’ulteriore recrudescenza. Ogni anno dichiarava con una faccia affranta e con la voce tremante che molto probabilmente era la sua ultima stagione, e allora preferiva approfittarne. E davvero ci dava dentro: con i miei fratelli, o più spesso con amiche più giovani che guidavano l’auto e la allietavano con la loro età più giovane. Su di lei incombeva questa terribile sciagura: il giorno in cui avrebbe dovuto smettere di sciare. Ne parlava come si parla dell’ineluttabile fine della persona che ci preme di più, alla quale non sappiamo se potremo sopravvivere. Questo frenetico andazzo sciistico è durato più o meno un ventennio. Ha smesso quando è morta la prima volta, e ci ha messo molti mesi a riprendersi. Dello sci non ha più parlato, come non parla mai delle amiche e delle altre persone che non ci sono più. Nemmeno una parola: era come se lo sci e tutti gli annessi e connessi non fossero mai esistiti. Forse proprio per questo è ancora molto presente, come succede con gli spettri più temibili. Adesso – intendo quando eccezionalmente i miei fratelli la portano con loro – non scia più come una volta, ma scia comunque meglio di quanto cammini, perché in fondo per uno che ci è abituato è molto più semplice assecondare il moto discendente degli sci, anche quando la pendenza è molto elevata, che camminare. Io, che sono nato per così dire con gli sci ai piedi, ho smesso di sciare a quattordici anni, per motivi ideologici, a cui sono subentrate remore ecologiche e paesaggistiche, l’ho accompagnata solo una volta. Salendo in seggiovia, una di quelle seggiovie doppie dove ci si parla fissando il paesaggio montano devastato appunto dagli impianti di risalita, mi ha detto che gli altri sciatori la guardavano come se fosse una mummia, un po’ le dava fastidio. Io le ho ribattuto che si metteva in mente, la guardavano ammirati: e comunque non doveva occuparsi degli altri sciatori. Qualche anno prima era diventata cieca, e allora non poteva più sciare, e tanto meno leggere. Veniva nella città dove sto io a farsi curare con delle tecniche all’avanguardia, ma ci vedeva sempre meno: neanche parlarne di leggere. Per lei era un autentico dramma, perché la sua seconda passione dopo lo sci è la lettura. Non poteva sciare, e non poteva leggere. Invece di arrendersi s’è iscritta alla associazione dei non vedenti, e quindi a casa sua è cominciato un intenso via vai di audiolibri. Io prima non lo sapevo, ma i non vedenti sono molto organizzati, e grazie a una rete di volontari hanno la versione audio perfino dei romanzi più recenti. Lei aveva sempre qualche difficoltà con le cassette che si incastravano nell’apparecchio, o semplicemente si mescolavano nella scatola di cartone utilizzata per la spedizione, perché appunto non è una persona molto ordinata, pur essendosi sforzata per tutta la vita di provare il contrario, però insomma poteva ascoltare i romanzi dei suoi autori preferiti, come anche scoprire scrittori nuovi: era un grande sollievo. Se le davi retta ti raccontava la trama dell’ultimo audiolibro e te ne dava il suo inappellabile giudizio. Come molti altri ciechi andava anche al cinema, e commentava i film che aveva solo sentito. Poi invece ha inspiegabilmente ricuperato la vista. I medici dicevano che qualche volta capita. Certo non ci vedeva come prima, ma abbastanza per sciare, e con degli occhiali speciali poteva di nuovo leggere, seppure lentamente: era molto contenta. Davvero raggiante, perché a parte i libri a lei piace leggere anche i quotidiani, e per i quotidiani non ci sono cassette. Ha ricominciato a scomparire nelle pagine del Corriere della Sera, visto che è sempre stata molto minuta, e con l’età s’è ulteriormente striminzita. Però la notte ascolta ancora gli audiolibri: ormai s’è abituata anche a quelli. Ha ricominciato pure a guidare, e quindi si aveva sempre un po’ paura che facesse secco qualche pedone, anche se ormai si limitava ai percorsi brevi per andare al supermercato o dal calzolaio. Ogni due anni andava da un ottico specializzato in queste cose, e in cambio di qualche centinaio di euro otteneva un certificato medico comprovante che ci vedeva come un’aquila. L’hanno scorso per fortuna hanno cambiato la legge, e non le hanno più rinnovato la patente. Quindi adesso si muove solo in autobus, e c’è sempre qualche problema di orari o di fermata giusta, perché non è che con l’età uno diventi più ordinato. Lei sostiene che il suo biglietto elettronico è illimitato, ma se ho capito bene si tratta semplicemente di corse prepagate. Quando è stanca prende un taxi, e poi questiona con il tassista perché dice che la volta prima ha pagato di meno. Con l’età è diventata più avara, come spesso succede ai vecchi. Del resto la sua pensione e la reversibilità di quella di mio padre non sono poi così alte, ogni anno si assottigliano un pochino, mentre i prezzi crescono. Uno dei suoi temi preferiti, dopo la montagna e i film e i libri, è il tempo, il tempo atmosferico, ma in realtà parlare del tempo è un trucco come un altro per non abbordare le faccende intime. Quando io da qualche migliaio di chilometri di distanza al telefono le chiedo come va, lei mi descrive nel dettaglio che tempo fa e che tempo ha fatto i giorni precedenti. Poi mi chiede che tempo c’è dove sono io, e io non le rispondo. Anche la settimana scorsa è quasi morta: al pronto soccorso le domandavano chi era, mi ha raccontato mio fratello, e lei proprio non sapeva rispondere. Li guardava con un’espressione un po’ divertita, e scuotendo un po’ la testa, come quando si ha la data parola sulla punta della lingua, ma proprio non ce se la ricorda. Alcune parole le venivano fuori impastate, altre rimanevano anche quelle incastrate nelle sinapsi dei neuroni. Poi però la mattina dopo ha cominciato a lamentarsi con un linguaggio appropriato dell’ospedale e ha voluto che le comprassero due quotidiani. L’avevano messa in geriatria, ma lei non sopporta i vecchi, non li ha mai sopportati: voleva andare a casa. Al telefono mi ha raccontato la faccenda del pronto soccorso con un tono come se fosse una cosa divertente, ma si intuiva che in realtà un po’ si vergognava. Poi mi ha parlato come sempre del tempo.
(l’immagine: Michel Nedjar, senza titolo, 1993)
Une approche documentaire du Web / Jean-Michel Salaün. 2011
[segnalatomi da: λ Ԃ ґ i a n а]
(colpito dal comunicato stampa della duepunti Edizioni, dove si annuncia che la casa editrice non partecipa al Salone del libro di Torino, ho chiesto a Giuseppe Schifani se era disposto a spiegare più in dettaglio il perchè: ecco la sua risposta; più sotto incollo anche il comunicato stesso; GS)
Su richiesta di Giacomo Sartori, proviamo a contestualizzare quanto dichiarato nel nostro comunicato stampa.
Per chi lavora nel settore dell’editoria maggio è il mese “di Torino”: tutti i migliori titoli del semestre devono essere stampati per tempo, e ciononostante si perderanno tra i corridoi del Lingotto, né tanto meno i librai potranno accoglierli tra i loro scaffali già saturati dalle imperdibili novità dei grandi marchi.
Il Salone di Torino è un grande evento per tradizione, prestigio e numeri, ma probabilmente non sposa più il nostro modo di fare editoria e di incontrare i nostri lettori. Le logiche massificanti che guidano eventi di simile portata non vogliono adeguarsi ai ritmi di lavoro e alle forme di comunicazione che più ci appartengono.
Il falso mito del “dover essere” a Torino, pena l’esclusione dai giri buoni, potrebbe apparire come un’ulteriore tentazione per la nostra vanità, ma sarebbe davvero ridicolo che un microeditore semiartigianale e di ricerca come :duepunti si ponesse seriamente domande come quella celeberrima di Moretti: «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?».
Non rinunciamo quindi all’idea di incontrare i nostri lettori e di confrontare le idee con colleghi, autori, traduttori, librai e curiosi, ma continuiamo a farlo attraverso altri canali, altre occasioni, chiedendo un po’ più di sforzo ai nostri interlocutori.
Ci piace infine rimarcare – con un’epigrafe tratta dal libro di Davide Enia, pubblicato nella nostra collana ZOO|||scritture animali – come per noi italiani-palermitani l’arrivo del mese di maggio si mischi da venti anni a questa parte a un sentimento di rabbia e frustrazione. Siamo cresciuti e abbiamo deciso di lavorare in un ambiente spesso ostile e insensibile, ma sempre caparbiamente devoto all’onore, concetto che per fortuna travalica il luogo comune : sarà forse per questo che ci ritroviamo a fare libri sempre e comunque a modo nostro.
ed ecco il comunicato:
SALONE? STAVOLTA CI ESPONIAMO ALTROVE
IL MAGGIO DI :DUEPUNTI TRA POLITICA INCONTRI E LIBRI
Anche quest’anno è arrivato maggio, e sempre più forte si fa la pressione sugli editori e sui loro uffici stampa: ci siete al Salone? ci vediamo al solito stand? cosa presentate di nuovo? chi portate? Domande che di questi tempi suonano un po’ come: (r)esistete ancora? siete ancora vivi? Ebbene: quest’anno NON CI SAREMO. Ma (R)ESISTIAMO ANCORA e SIAMO ANCORA VIVI.
Non rinunciamo a incontrare i nostri lettori, a confrontarci e a scambiare idee con colleghi, autori, traduttori, librai e curiosi, ma continuiamo a farlo attraverso altri canali, altre occasioni, con interlocutori più attenti e che sappiano mettersi in discussione senza rimanere in balia delle sirene (né di Ulisse, né della contraerea). In attesa di scorgervi un mutamento di direzione, un’idea, una visione sull’editoria che cambia, salutiamo il Salone e le sue cene esclusive. Stavolta facciamo a casa da noi, veniteci a trovare in redazione o in rete. Parleremo di libri, di lavoro culturale, e anche di politica.
Non ci ha convinto neppure l’iniziativa “Il maggio dei libri”, promossa dal Ministero per i beni e le attività culturali, il Centro per il libro e la lettura e l’Associazione italiana editori, con il suo slogan «Fuggiamo insieme. Cresciamo insieme. Con i libri e la lettura». Non siamo fuggiaschi, come suggerisce il segnalibro annodato a richiamare il lenzuolo del carcerato. Ci pare che il problema della scarsa diffusione della lettura in Italia, in assenza di un chiaro disegno politico di sviluppo economico e culturale, non possa essere risolto con una campagna di sconti. Gli sconti fanno piacere, ma durano poco. Noi vogliamo cambiare le regole. Le giuste esigenze dei lettori devono essere affrontate con un’equa e trasparente determinazione dei prezzi. DUNQUE :duepunti non aderisce all’iniziativa prevista nelle librerie italiane dal 19 al 23 maggio e NON FUGGE.
23.05.1992 – 23.05.2012
«Dalla bocca di mio padre esce un guaito disperato.
“La mafia s’asciucò a Giovanni Falcone”».
Davide Enia, Mio padre non ha mai avuto un cane
:duepunti guarda con interesse e partecipazione al laboratorio del Quinto Stato, preziosa opportunità di confronto con persone e soggetti collettivi di cui condividiamo non solo problemi e preoccupazioni, ma anche valori e obiettivi.
http://www.ilquintostato.it/tv-commons/appello-del-quinto-stato/
ed ecco anche l’editoriale del 10.05.12, sempre in tema, sul sito della casa editrice:
Salone? Anche basta. Stavolta ci esponiamo altrove
Intendiamoci, la nostra a rigor di termini non è una polemica contro il Salone. Il Salone non c’entra. Non ha fatto nulla. E questo è il punto. Potremmo richiamare l’orchestra del Titanic, ma si tratta di un’immagine oltre che esausta anche imprecisa per illustrare la questione, perché se c’è un mondo che sta naufragando, ce n’è un altro nuovo che si aggrega e cresce. Meglio sarebbe riandare per esempio al magistrale racconto di Dino Buzzati, Eppure bussano alla porta, dove una famiglia borghese continua a mettere in scena macchinalmente i suoi riti, affettando indifferenza mentre alla porta di casa incalza un tumulto che spazzerà via tutto. Questa è l’impressione che si ricava oggi come oggi dalla lettura delle dichiarazioni dei big dell’editoria, che esprimono smarrimento o preoccupazioni senza costrutto, e quando si incontrano, come hanno fatto alla scorsa edizione di Libri come a Roma, non sanno far altro che accapigliarsi perché uno di loro pratica una politica dei prezzi troppo aggressiva (lacrime di coccodrillo: a forza di trattare i libri come una merce qualsiasi, c’era da aspettarsi che prima o poi qualcuno si mettesse a fare il mercante sul serio…). Il Salone non è cambiato e anche quest’anno sarà invaso da un pubblico per lo più distratto dagli effetti speciali e dai caratteri cubitali degli annunci, che affollerà i mega-stand dei gruppi editoriali, dove per i 10 euro del biglietto avrà modo di gettare un’occhiata fugace agli stessi libri che potrebbe comodamente sfogliare, gratis, in una qualunque libreria (e in molte librerie qualunque), e si accalcherà alle presentazioni degli instant-book scritti dai ghostwriter per le celebrity che potrebbe ascoltare, sempre gratis, in un qualunque salotto televisivo. Del resto è una tendenza generalizzata, europea. Anche a Parigi ormai gli editori indipendenti medio-piccoli disertano il Salon du livre, contribuendo a dare al visitatore la curiosa impressione che in editoria non esistono le mezze misure, e che dopo un paio di esperienze come ospiti degli spazi degli enti locali con un catalogo di una manciata di titoli si possa schizzare direttamente agli stand di ottanta metri quadri con hostess e touchscreen. Insomma, il Salone è sempre lo stesso, siamo noi ad aver maturato un cambiamento di prospettiva. Vogliamo concentrarci sulle cose importanti di cui al Salone non ci sarà modo di parlare, se non marginalmente, nei corridoi e in incontri sporadici schiacciati negli interstizi del programma: di un mercato editoriale dominato dalle concentrazioni, strutturalmente basato sulla precarizzazione del lavoro, che fa da specchio a un paese incapace ormai da troppi anni di investire in formazione, ricerca e cultura. Di queste cose andiamo parlando da un po’ di tempo nei nostri interventi pubblici e nei nostri scritti, insieme alle persone che dimostrano maggiore sensibilità per questi temi, con le quali vogliamo praticare altre forme del lavoro culturale e progettare un modo diverso di fare editoria. Ci esponiamo altrove, insomma, e prendiamo posizione. Al Salone faremo giusto un giro per tenerci informati. Ci piacerebbe essere smentiti dai fatti, chissà…
ALC : GS : RS
di Gianluca Veltri
La «storia di un uomo che ha sognato e poi s’è svegliato» è pure la storia dell’Italia degli anni ’70, perché la vicenda di Carlo Rivolta, raccontata da Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale nel libro L’aspra stagione, è intrisa delle sorti di quel decennio.
Romano di madre calabrese, Rivolta è un cronista di talento. Giovane professionista già a «Paese Sera», passa alla neonata «Repubblica»: la sua firma campeggia sul primo numero del giornale di Scalfari. «Ha ventisei anni. Magro, poco più di uno e settanta, un fascio di nervi. I capelli neri, portati fin sulle spalle, incorniciano un viso lungo, dal profilo affilato».
Rivolta è stato vicino al PDUP, simpatizza per le frange meno ortodosse della sinistra. Scrive quel che vede, è indipendente ma non neutrale, la giusta distanza è un mito che non gli appartiene. Epoca di sbornie collettive, delusioni elettorali, radio libere, morti ammazzati; intanto è già il ’77, anno grifagno. Carlo del movimento apprezza il lato libertario, ludico, comunitario. Cruciale il suo ruolo a «Repubblica»: cronista del movimento, incide sul Dna del giornale, aumentandone il prestigio nei lettori giovani. Sa ascoltare di Roma rumori e scricchiolii come un sismografo in anticipo sui tempi. Le cronache dalla strada e i resoconti degli scontri di piazza non sono graditi né alle frange più ottuse e meno dialoganti dell’Autonomia, né a un PCI in sindrome d’assedio. In quell’anno decisivo si passa dalla creatività alla violenza, dall’aggregazione alla paura, come si chiudesse un gigantesco portone. «Hippie travestiti da leninisti, maodadaisti, punk sovietizzanti, terzomondisti. Poeti, filosofi, artisti. Indiani metropolitani, autonomi, esagitati, gruppettari». Un pianeta pronto a esplodere, che deflagra nei primi mesi dell’anno seguente, con il sequestro e l’uccisione di Moro, pietra tombale dei movimenti. Confesserà Rivolta: «Per mesi mi sono sentito in colpa. Ero allo stesso tempo partecipe della vicenda umana di Aldo Moro e della sua famiglia, in guerra con gli autonomi, in guerra col Pci, non più in sintonia con il mio giornale che aveva scelto la linea della fermezza. Ero solo con me stesso, per la prima volta senza riferimento politico». «Repubblica» sposa una linea costituzionale. Lui è per il dialogo e la trattativa, il vuoto e il gelo si fanno strada per chi aveva vissuto vita personale e politica in irrimediabile condizionamento reciproco. Si incrina la relazione con la compagna Emanuela; esposto all’incrocio dei venti, Carlo — «né con lo Stato, né con le Br» — prende bastonate da entrambe le parti: «Quest’aspra stagione ha influito anche sulla mia vita privata, sui miei rapporti con il lavoro, con gli amici». Si è rotto qualcosa e non si ricompone più. In redazione è diventato sospetto per una collaborazione, prestata per una testarda idea di tolleranza e garantismo, con l’ambiguo periodico «Metropoli». La galassia in ebollizione, nel dopo-Moro, ha davanti a sé un trivio vorace: riflusso, siringhe, armi. Il movimento si è suicidato e il cronista di questa notte è Carlo Rivolta, che s’interroga su quale fine abbiano fatto le decine di migliaia che manifestavano fino a poco prima. «Ora gli spinelli sono stati soppiantati dal tiro di eroina o di cocaina. Non c’è gioia, ma noia e tristezza». Testimone del riflusso, Rivolta scrive un pezzo d’autobiografia in ogni articolo. Non mette filtro, professionista dell’empatia, si lascia divorare dalle cose di cui si occupa. Lo spingono alla deriva le piazze vuote e mute, la normalizzazione militare, la disgregazione. Passa a «Lotta continua» (direttore Enrico Deaglio), segue terremoto irpino e Vermicino, ‘ndrangheta e droga, guerra russa in Afghanistan. Colleziona «cronache di resistenza», ma intanto sprofonda. Da consumatore occasionale è diventato malato di eroina. Né riflusso né armi per Rivolta. Non poteva abbracciare il terrorismo. Non poteva più tornare a casa.
Carlo Rivolta muore a 32 anni, dopo una settimana di agonia, cadendo dal davanzale di casa durante una crisi di astinenza.
Il ritmo del libro è sincopato, nervoso, a strappi temporali. Avanti e indietro in quella stagione agra, Favale e De Lorenzis firmano un denso, documentato, formidabile ritratto sugli anni del piombo, dell’eroina, dei sogni diventati incubi. Un manuale sul declino degli anni ’70 da leggere come un romanzo.
[pubblicato su Mucchio Selvaggio n. 694, maggio 2012]
di Giovanni Nadiani
Silente, dolce far niente
Sabato. Mattino.
Seduto a un tavolino di un caffè a fissare il vuoto dell’ancora deserta pseudo piazza dell’outlet più vicino, in fuga da: tosaerba, potasiepi, trapani, seghe, martelli pneumatici di attivi pensionati, finestre aperte coi televisori accesi su repliche di Grandi e piccoli Fratelli, cani cagatori, cicaleccio assordante di padroni e padrone (di cani) senza museruola…
di Silvia Contarini
Sto finendo di leggere l’ultimo romanzo di Ornela Vorpsi, Fuorimondo. Mi sconcerta un po’. Non che non mi piaccia, anzi. È che mi aspettavo altro: quando si sono letti diversi libri di un autore, ci si aspetta – scioccamente, certo – di ritrovare le stesse sostanze, quelle che ai nostri occhi fanno il suo mondo. Ma appunto qui siamo “fuorimondo”: non nell’Albania comunista (Il paese dove non si muore mai), non nella Sarajevo del difficile ritorno (La mano che non mordi), Vorpsi non scrive di migrazioni, né di Balcani e Occidente. Qui siamo “fuori”: nel mondo della follia, al femminile. È forse questo che mi ha sorpreso e inquietato, questa storia di madri e figlie e donne folli, folli d’amore, donne che inesorabilmente si innamorano perdutamente, e dunque si perdono, fuori dalla realtà. Il caso vuole che di recente abbia letto altri due romanzi, belli e forti, che raccontano di donne folli. Lo stranissimo Mia figlia follia, di Savina Dolores Massa (Il Maestrale), una sorta di affabulazione, con toni da realismo magico, percorso da una vena pulsante di sofferenza, ha per protagonista una ragazzina, poi donna, ritardata mentale, marginale, che nel suo delirio, vergine isterica puttana, vuole avere un figlio da tre uomini e osserva la pancia gonfiarsi… E il più noto Settanta acrilico trenta lana di Viola Di Grado; molte le recensioni, poche hanno messo il dito in quella che a mio parere è la piaga dolorosa del romanzo: la relazione tra madre e figlia, la felicità femminile impossibile (perché dipende dalla felicità in amore), l’infelicità che sfocia in follia, la perdita di riferimenti nel mondo reale. Senza un uomo che vi ami, non è dato vivere felici. La madre di Camelia chiusa nel suo mutismo fotografa buchi (ovvio l’aspetto simbolico e metaforico del buco); ma l’attrazione per i buchi mi ha ricordato i “pozzi” di Natalia Ginzburg: “le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo […]” Le donne sono una stirpe disgraziata e infelice con tanti secoli di schiavitù sulle spalle e quello che devono fare è difendersi con le unghie e coi denti dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto, perché un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di se stesso soltanto per sforzarsi di essere ogni giorno più libero”, scriveva nel Discorso sulle donne, 1950. Nulla è cambiato? Pensavo che la follia (depressione, isteria) per pene d’amore, trasmessa secondo genealogie femminili, di madre in figlia, fosse un tema desueto, un topos socio-culturale e letterario di altri tempi. Di quei tempi in cui le donne non esistevano senza un uomo. Ora riappare, dopo decenni di una letteratura femminile (femminista e postfemminista, per intenderci) che ci aveva abituati a mogli e madri ribelli o “cattive”, a ragazze e donne emancipate o seduttrici; anche quando il malessere le investiva, anche quando l’amore le pervadeva, la follia non era in agguato, non cadevano nel pozzo o ne uscivano rinforzate; madri e figlie non erano incatenate l’una all’altra, non si avvinghiavano a uomini e amori improbabili, non si chiudevano fuori di sé. Benché non appartengano alla stessa generazione, né alla stessa area geografica, benché le loro opzioni linguistiche e narrative siano diverse e distanti pure i loro universi letterari, Vorpsi, Massa e Di Grado manifestano una prossimità che non mi sembra accidentale. Le loro donne matte (per mancanza) d’amore, sono madri e figlie segregate nella dimensione del privato, con un medesimo destino di esclusione sociale, prototipiche di un’umanità ai margini, che parlano da luoghi decentrati (un paesino della Sardegna, un paesino dei Balcani, una grigia città industriale dismessa del nord Inghilterra). Consumano le loro vite nelle periferie del mondo, fuorimondo, anche in questo senso. Penso sia questo ad avermi inquietato, che tre scrittrici di oggi sentano la necessità di scrivere storie di donne rinchiuse in se stesse e nelle proprie follie, un mondo di dentro fuori dal mondo, come se tra loro e il resto non ci fossero ponti. Il mondo di oggi non è fatto per le donne?
PS Mi riprometto di leggere presto Ogni madre, il nuovo libro di Savina Dolores Massa, appena uscito.
[versione II]
Se le poesie sono eterne occasioni,
allora il contesto pre-eterno per quanto
segue fu un panel su “La
marginalizzazione della poesia” alla American Comp.
Lit. Conference a San Diego, l’8
febbraio 1991 alle 14:30:
E così, senza neppure portare l’acqua alta (che pure sarebbe stata molto in tema), nell’ultimo giorno d’Agosto 2008 la piccola Ponyo era giunta a Venezia. E il giorno prima ero arrivato in laguna anche io, che Ponyo già la conoscevo piuttosto bene, dato che per tutto il mese mi ero occupato della stesura del copione italiano per il sottotitolaggio del film. Io e Ponyo ci siamo così rincontrati al Lido, insieme all’autore di lei, ovvero quel Miyazaki Hayao che sempre allo stesso Lido, solo due anni prima, avevo visto ricevere un Leone d’Oro alla carriera. Una carriera fatta di ormai molte opere, soprattutto tante pellicole per me tutte così significative. Questa volta, oltre che l’opera del caso, ho avuto la fortuna di conoscere anche l’autore, anzi gli autori, visto che non riesco a considerare il ruolo di Suzuki Toshio meno rilevante di quello di Miyazaki Hayao stesso.
di Giacomo Sartori
Se c’è un vincitore defilato ma incontestabile delle elezioni presidenziali francesi, questo mi sembra essere, all’ombra dell’acclamato successo del neopresidente Hollande, la politica stessa. E nella fattispecie, ma ci tornerò sopra, la politica altamente tecnica e performante, quasi scientifica, di questa campagna elettorale. Uno dei dati salienti è infatti il grande e crescente seguito che ha avuto la lunghissima battaglia elettorale: il lento crescendo, invece di stancare ha saputo attrarre e anche sommuovere gran parte dei cittadini. Ne sono una riprova l’altissimo seguito dei dibattiti televisivi e l’alta affluenza alle urne. Anche tenendo conto delle preoccupazioni legate alla crisi economica, questo successo popolare non era affatto scontato, visto il diffuso e crescente discredito che la classe politica francese, presa nel suo complesso, gode nella società civile.
Nelle pubblicazioni specialistiche come nei documentari (per esempio il persuasivo Les nouveaux chiens de garde, di Balbastre e Kergoat) e nella satira, molto vivace e seguitissima, la classe dirigente d’oltralpe si configura e è percepita sempre di più come un’unica elite, senza più una linea di demarcazione tra destra e sinistra, formata nelle stesse scuole d’eccellenza, frequentante gli stessi giri di persone influenti, legata in modo incestuoso al mondo dei media (a loro volta di proprietà dei grandi gruppi economici e finanziari), e distante anni luce dalla gente comune. Non è un caso che Sarkozy abbia festeggiato la sua vittoria nel 2007 prima in un locale di lusso e poi sullo yacht dell’amico miliardario e proprietario di televisioni, cosa che è piaciuta pochissimo ai suoi connazionali, i quali non hanno mai davvero dimenticato la rivoluzione che hanno fatto. Come non è piaciuta la sua gestione accentratrice e assolutistica del potere, che lo ha portato ai minimi storici della popolarità. Ma come è noto il candidato socialista dato dai sondaggi per favoritissimo, Strauss-Kahn (che tra parentesi era stato imposto alla testa dell’FMI proprio da Sarkozy), si è fatto prendere con le mani nel sacco nel suo agghiacciante menage, una miscela di compulsione sessuale, lusso, maltrattamenti e abusi di potere. A dispetto dei penosi sforzi dell’interessato di ricondurre il proprio operato nell’alveo della blasonata tradizione libertina, queste pratiche niente hanno a che fare con essa, e sono anzi filosoficamente agli antipodi, come anche sono agli antipodi dei valori fondamentali della sinistra: l’eguaglianza e il rispetto della dignità dell’individuo. Ma appunto non è un caso che i due protagonisti principali della tenzone – uno ha un po’ esagerato e ci ha rimesso le penne – abbiano flirtato quasi alla luce del sole con il diavolo delle tentazioni monarchiche e assolutiste (anch’esse mai davvero estinte nel DNA politico francese).
Lo sforzo precipuo dei due principali contendenti, o meglio delle impressionanti equipe di esperti mediatici e comportamentali che li fiancheggiavano, è stato quindi quello di far dimenticare agli elettori questo baratro. Anzi, Hollande, che si è aggiudicato le primarie socialiste dopo il forzato ritiro del satiro, ne ha fatto il suo cavallo di battaglia, presentando se stesso, in aperta contraddizione con il ruolo dato al presidente dalla costituzione della quinta repubblica, e con il suo stesso modello esplicito (Mitterand), come “l’uomo normale”. Nell’altro campo ci si è messa nel suo piccolo anche la nostra Carlà, con la sua allucinante dichiarazione – enunciata con la sua spudorata vocina e subito ripresa da tutti i media – “noi siamo gente modesta”. Dall’una e dall’altra parte la cosa ha funzionato fino a un certo punto, perché Le Pen (figlia) a destra, con i suoi ritornelli xenofobi e nazionalisti, Mélenchon a sinistra, con la sue vacue ma indubbie doti oratorie, e Bayrou al centro, hanno cavalcato i potenti venti di protesta, con un unico comune denominatore “anticasta”, diremmo noi (ma la nostra casta, antiquata e arraffona, è altra cosa). Nell’insieme quasi due elettori su cinque, al primo turno, hanno scelto la protesta radicale. Il che non è poco, se si tiene conto che moltissimi hanno appoggiato i due candidati favoriti come una volta in Italia tanti votavano democristiano, vale a dire scegliendo il meno peggio, o addirittura (nel caso di Sarkozy) tappandosi il naso.
Per sembrare più vicini, o comunque più appetibili, per la gente comune (quella vera), entrambi i candidati hanno cambiato radicalmente la loro apparenza e la loro gestualità. I coach di Sarkozy sono riusciti non si sa come a fargli passare i frenetici tic e scossoni delle spalle e della testa che lo facevano sembrare a ogni intervento pubblico un cavallo imbizzarrito e potenzialmente pericoloso. E quelli di Hollande lo hanno dimagrito di trenta chili, gli hanno lobotomizzato il senso dell’umorismo (sviluppatissimo), gli hanno reso seriosi e compunti (presidenziabili) l’eloquio e l’espressione del viso, e hanno educato al galateo della telegenia le sue mani. Perché la vera lotta, i due campi lo hanno capito bene, era basata sull’aspetto del candidato, sulla sua capacità di apparire convincente, sul suo (costruito) profilo psicologico.
Proprio per non provocare reazioni o idiosincrasie, i programmi sono stati invece presentati con il contagocce. Era evidente che ogni proposta era messa lì come un potente marchio commerciale introduce sul mercato un nuovo prodotto, certo con alle spalle solidissime ricerche di marketing, ma pronto a aggiustare il tiro sul gusto o sul colore della confezione, o al limite anche a ritirare la novità. Nel caso di Sarkozy, sceso in campo ufficialmente solo poche settimane prima del voto, questa ritenzione aveva dell’avarizia di Arpagone. E comunque sia da una parte che dall’altra la forma, era sempre più importante del timido contenuto. Il quale più che verosimile – spesso i commentatori lo bollavano unanimemente come velleitario – doveva rivelarsi ben digesto e sondaggio-genico.
Il dato paradossale è che in questa guerra che in entrambi i campi adopera la stessa prudenza e le stesse tecniche commerciali, e nella quale le idee e i programmi sono diventati pura decorazione, a differenza di quanto poteva ancora accadere nell’ormai lontanissimo 2007, non si potrebbe dire che ci sia un completo appiattimento tra destra e sinistra. Nel programma di Hollande ci sono due elementi che si possono definire senza ambiguità di sinistra: una politica fiscale concentrata sulle grandi ricchezze piuttosto che sui meno abbienti, e la proposta, quasi uno scampolo di welfare, anche se il termine nel frattempo è diventato tabù, di un aumento degli effettivi nella scuola. Ai quali si aggiunge la volontà dichiarata del nuovo presidente di rinunciare alla facoltà di nominare personalmente molte importanti cariche (per esempio della televisione di stato), di voler rendere più autonoma la magistratura, e di perseguire in tutti i campi una maggiore giustizia. Una sinistra insomma ormai adattata alle leggi dell’era dello spettacolo, e nella quale quindi lo stile e la faccia del candidato sono altrettanto importanti delle omeopatiche proposte concrete, ma pur sempre una sinistra.
Ma appunto le non sostanziali differenze tra destra e sinistra, entrambe sottomesse ai dettami della crisi economica e degli obblighi internazionali, non devono nascondere secondo me il dato più importante. Con le sue nuove tecniche mediate dal marketing la politica francese è riuscita nel complesso, seppure in extremis, a venircene fuori bene, è riuscita a rinsaldare, almeno per il momento, il suo legame con il paese. Resta da vedere come fronteggerà la crisi economica, che tutti i candidati, compreso quello vincente, e proprio per non spiacere a nessuno, hanno minimizzato.
(pezzo pubblicato sul quotidiano “Trentino” del 07.05.2012)
di Franco Buffoni
Per oltre un secolo dopo la morte di Byron, anche solo toccare l’argomento omosessualità in Inghilterra fu tabù. Si dovette attendere il 1861 perché finalmente le due camere votassero l’abolizione della pena di morte per il reato di sodomia tra adulti consenzienti, sostituendola con il carcere a vita. Nei decenni successivi la pena venne ridotta a un numero ristretto di anni, fino a giungere ai due anni di carcere duro comminati a Oscar Wilde nel 1895.
transizioni arte__poesia
Milano – martedì 8 maggio 2012 – ore 11
Accademia di Brera, sala napoleonica
Eugenio Gazzola presenta:
FABBRICA DI POESIA
ADRIANO SPATOLA GUARDA UN TESTO
Ingresso libero
I Am the Fly / Wire. 1978
di Gianni Biondillo
Marco Rossari, L’unico scrittore buono è quello morto, E/O, 214 pagine
La letteratura che parla di se stessa – che parla di libri, di scrittura e di autori – è un genere a sé stante, genere nobile e di antica tradizione. In fondo ogni scrittore passa buona parte della sua giornata a scrivere, a leggere o a ragionare di scrittura, diventa inevitabile che sia anche il centro di molta narrazione. Detto così può preoccupare l’idea di imbattersi in un libro che sembra parli esotericamente al suo ego, ma per fortuna, proprio perché l’argomento è la ragione stessa di vita dell’autore questo genere letterario – la letteratura che parla di letteratura, una sorta di letteratura al quadrato – sa anche essere affascinante, proprio come nel caso del libro di Marco Rossari, divertente già dal titolo: L’unico scrittore buono è quello morto.
Questo di Rossari non è un romanzo o una racconta di racconti e meno che mai una collezione di saggi critici. Sembra piuttosto uno zibaldone, una congerie di aforismi affilatissimi e lunghi meta-racconti paradossali, dove si possono incontrare un Tolstoj invitato a parlare delle sue opere alla radio, o uno Shakespeare accusato di plagio. Molti di questi racconti di racconti sono in prima persona. Fiction di autofiction (la ridondanza e il gioco di specchi caratterizza l’intero libro) dove i molteplici Rossari – emblemi dei molteplici scrittori, poeti, traduttori, critici che affastellano il mondo dell’editoria – si ritrovano di fronte a situazioni frustranti, assurde, umilianti.
Ma non c’è né autoindulgenza né rabbia. L’autore sa che chi scrive convive con una malattia totalizzante che si accanisce sull’esistenza dandole al contempo senso. Rossari poi, dalla sua, ha la fortuna di snocciolare nelle sue pagine una cultura, non solo nozionistica o anedottica, davvero notevole senza dotti compiacimenti di sorta. Scrive bene, cambiando spesso di tenore e registro, con autentica sapienza, regalando al lettore un libro che fa intravedere, da dentro, la macchina magica e infernale delle nostre ossessioni.
[pubblicato su Cooperazione, n. 8 del 21 febbraio 2012]
BLACK BLOCK [2011]
di Carlo A. Bachschmidt
no fiction/no ketchup
[contesto+voci+volti+nomi+verità=memoria]
pubblicato da orsola puecher
di Franco Buffoni
Grazie alle sue impareggiabili doti di versificatore e di creatore di trame teatrali, Byron spesso si rivela solo agli “iniziati”. La tipologia ricorrente è quella dell’eroe byroniano, palese proiezione sulla scena del poeta stesso. Costui è sempre molto attraente e affascina la protagonista femminile; ma è scontroso, tanto da apparire misogino; tuttavia è anche capace di slanci di generosità e talvolta persino di gesti affettuosi.
(È disponibile il nuovo numero di Lettera Internazionale. Si riprende qui l’editoriale di Biancamaria Bruno.)
la lingua – diceva Gramsci – viene inevitabilmente considerata dalle classi dominanti più come uno strumento di politica culturale per la conservazione del potere che non come una risorsa da valorizzare. I pochi che hanno un effettivo controllo sull’uso della propria lingua la piegano ai loro scopi. Quei pochi, consapevoli della loro superiorità “linguistica”, e quindi politica, non hanno interesse alcuno a che la gente alimenti la propria consapevolezza sulla lingua che parla e che scrive – è la storia dell’umanità a dircelo, e anche la storia italiana degli ultimi anni.
11 maggio – 5 luglio 2012 (6 maggio anticipazione del cammino da Mantova alle Grazie)
Un cammino a piedi per ricucire l’Italia con i nostri passi
L’Italia ha bisogno di risorgere. Ha bisogno di tirare fuori dalla sua testa, dalla sua pancia e dal suo cuore le energie che pure conserva dentro di sé e che ‐come è successo altre volte in passato‐ possono farla risorgere. C’è bisogno di gesti, individuali e collettivi, che diano una spinta verso questa rigenerazione. C’è bisogno di unire sentimento e visione. C’è bisogno di mettere al mondo e rendere visibile questa urgente necessità e questo desiderio diffuso attraverso gesti significativi e prefiguranti da compiere insieme. C’è bisogno di un incontro non solo mentale e ideale ma anche fisico, che renda visibile e che faccia vivere l’immagine e la possibilità di un’unione dinamica riconquistata, dopo anni di intossicazione, di avvilimento e di mancanza di prospettive, di lacerazioni e di divisioni, territoriali e sociali, in cui c’è stato chi ha creduto di prosperare agitando e acuendo proprio queste divisioni e queste lacerazioni, fino a portarci nel vicolo cieco in cui ci troviamo e da cui è questione di vita o di morte uscire per poter finalmente imboccare altre strade.
Antonio Moresco
Dopo l’esperienza di Cammina Cammina dello scorso anno, realizzata grazie a oltre 700 persone tra donne e uomini che dal 20 maggio al 4 luglio hanno compiuto un viaggio a piedi da Milano a Napoli per ricucire l’Italia con i propri passi (http://camminacammina.wordpress.com), ora proponiamo un’impresa che sembra più impossibile ancora. Stella d’Italia ‐ questo il nome della nuova iniziativa ‐ sarà un grande spostamento a piedi, di menti e di corpi, che partirà da diverse zone geografiche del nostro Paese: dal nord, dal centro e dal sud, con percorsi che assumeranno la forma dei bracci di una stella e che convergeranno su L’Aquila. Città che, oltre a trovarsi in una posizione centrale nel nostro Paese, rappresenta anche il nostro bisogno e desiderio di ricostruzione. Dal prossimo 11 maggio (con un’anticipazione il 6 a Mantova con la partecipazione alla Giornata Nazionale dei Cammini) e fino al 5 luglio 2012 attraverseremo molti comuni grandi e piccoli e cercheremo, in dialogo con Associazioni e Amministrazioni sensibili a questo bisogno di rigenerazione, di far vivere ‐anche attraverso incontri pubblici da tenere alla fine di alcune tappe ‐ tutta la forza antica e nuova del tessuto comunale del nostro Paese.
Il cammino muoverà da Messina, da Reggio Calabria, da Venezia, da Genova, da Santa Maria di Leuca e da Roma (grazie alla collaborazione con la Lunga marcia per L’Aquila organizzata per il 30 giugno dal comitato Lunga Marcia per L’Aquila) secondo un preciso calendario che prevede una marcia distribuita su circa 60 giorni tra la primavera e l’estate 2012.
Stella d’Italia, oltre a essere un “cammino” alla scoperta dei luoghi meno noti e meno frequentati della penisola, fornirà anche l’occasione a tutti i camminanti e alle persone che vedranno attraversati i loro luoghi, di raccontarsi e raccontare, denunciare o decantare problemi o eccellenze del proprio territorio così da utilizzare questo come un contenitore in grado di fare da cassa di risonanza all’intero territorio. Non sarà semplice turismo o rivalutazione del territorio, Stella d’Italia sarà un potente motore nella cui scia potranno inserirsi tutti coloro che abbiano in comune una visione più ampia del loro essere al mondo.
• Stella d’Italia partirà dalla Sicilia, dalla Calabria, dal Veneto, dalla Liguria, dalla Puglia e dal Lazio in questo ordine: 11 maggio da Messina – 12 maggio da Reggio Calabria – 25 maggio da Venezia – 27 maggio da Genova ‐ 2 giugno da Santa Maria di Leuca – Inoltre, grazie al fortunato incontro con l’iniziativa promossa dal Comitato Lunga Marcia per L’Aquila, ci sarà anche un braccio della Stella che partirà il 30 giugno da Roma (Montecitorio)
• Stella d’Italia è un progetto totalmente basato sul volontariato: sul servizio volontario degli uomini e delle donne che accettano di contribuire liberamente all’impresa. Per questo, sostenere Stella d’Italia significa contribuire alla riuscita del progetto e partecipare alla sua realizzazione. Chiedi informazioni su come sostenerci mandando un email a stelladitalia12@gmail.com;
• Durante il cammino sono previsti eventi speciali di coinvolgimento del territorio, di racconto e raccolta delle esperienze (per questo si chiederà l’impegno delle Istituzioni di riferimento e delle Associazioni del Territorio). In particolare a Cosenza, Lamezia Terme, Bologna Aulla, Taranto, Lucca, Matera, Monselice, Monteriggioni, Camaldoli, Assisi e L’Aquila dove dal 5 all’8 luglio 2012 si svolgerà un evento dal titolo “I fuochi dell’Aquila”: http://camminacammina.wordpress.com
• La comunicazione di Stella d’Italia, oltre a quella stampa, avverrà prevalentemente attraverso mail e social network. Attiva una mailig list di oltre 3000 contatti e presto nelle librerie l’esperienza‐diario di Cammina Cammina, che lo scorso anno, da Milano a Napoli ha visto la partecipazione di circa 700 persone scaglionate in ogni tappa della via Francigena e dell’Antica Appia, da Roma a Napoli.
• Stella d’Italia partecipa alla 4° Giornata Nazionale dei Cammini Francigeni con la Stella in anteprima il 6 maggio a Mantova. – http://camminacammina.wordpress.com ‐ www.ilprimoamore.com
I fuochi dell’Aquila
da terremotati a terremotanti
L’Aquila, 5 – 8 luglio 2012
Alla fine del lungo cammino che ci porterà da ogni parte del Paese nella città di L’Aquila, facendola diventare la capitale sentimentale d’Italia e la sua prefigurazione, Stella d’Italia si trasformerà in un fuoco che vuole rispondere al grido muto della città. Un qualcosa che non si perda e che continui a crescere e a sedimentare anche quando questo nostro sogno collettivo sarà finito. Che sia di aiuto alla rigenerazione della città e che impedisca che venga dimenticata e ibernata. Perché quello che ci dice e ci sta gridando rimanga di fronte ai nostri occhi e a quelli dell’intero Paese, incancellabile, fino a quando non resterà che ascoltare la sua voce.
Dal 5 all’8 luglio prossimo si svolgerà, in collaborazione con le tante associazioni e Istituzioni aquilane e abruzzesi che hanno aderito, un grande incontro nazionale e internazionale che avrà al centro l’esperienza del terremoto. Ma non solo quella dimensione del terremoto che ogni tanto scuote le nostre città e le nostre vite in ogni parte del mondo, ma anche quella più generale in cui si muove la nostra vita e quella che attende in futuro la nostra specie in questo passaggio d’epoca pieno di incognite in cui è tutto da ripensare e da reinventare.
Saranno invitati (in forma assolutamente volontaria e gratuita e chiedendo per di più di meritarsi la propria presenza facendo almeno l’ultima tappa a piedi) persone che già adesso si muovono in questa frattura di faglia, nel campo scientifico, culturale, economico, dell’architettura, della medicina, in quello giornalistico, musicale, nelle altre arti.
In quest’ottica si è pensato di organizzare una kermesse che declini il termine “terremoto” in cinque aree tematiche individuate (anche queste come le punte di una stella):
Ognuna delle macroaree occuperà un luogo fisico diverso del Centro storico della città (all’aperto o in luoghi eventualmente individuati con la collaborazione degli Enti preposti) e ospiterà eventi di diverso tipo: incontri con personaggi di spicco, letture, concerti, spettacoli, racconti di esperienze, feste, semplici momenti di riflessione collettiva su aspetti singoli delle problematiche che attraversano quotidianamente la nostra esistenza. Quattro giorni di incontri e di manifestazioni artistiche e musicali all’interno del centro storico, non solo con persone e membri di associazioni che hanno dovuto far fronte alla vostra stessa terribile esperienza in altre parti dell’Italia e del mondo (Giappone, Cile, California…), per costituire un bacino di esperienze e di conoscenze e una banca di idee, ma anche con chi ha compreso, nei vari campi, che il terremoto è la forma stessa della nostra vita e che bisogna saperci convivere, qualcosa che ci può indicare persino nuove possibilità e nuove strade.
L’Aquila sarà il luogo dove nascerà un nuovo modo di incontrarsi tra persone che vogliono rigenerarsi e rigenerare il territorio e il rapporto con gli altri. Tra persone che da terremotati si trasformeranno in terremotanti per diventare il centro di questo sentimento del mondo, di questa consapevolezza e di questa ricerca.
Eventi intermedi di Stella d’Italia
Lungo il cammino Stella d’Italia entrerà in alcune piccole o grandi città, borghi e paesi e in qualcuno si stanno programmando momenti di incontro tra la Stella e gli abitanti locali.
Auspichiamo che queste occasioni si moltiplichino ma intanto comunichiamo quelli già in fase organizzativa:
l’8 giugno a Lucca si svolgerà un incontro con Claudio Puccinelli – (pomeriggio) e al mattino con Pia Pera.
il 9 giugno a Taranto in collaborazione con l’Associazione Presidi del Libro e in particolare con la Libreria Dickens si svolgerà un incontro con le realtà culturali della zona;
il 13 giugno a Matera, nei Sassi, si svolgerà una lettura diffusa di autori e lettori. L’evento è aperto alla città e a tutti i cittadini;
il 25 giugno ad Assisi, presso la Rocca Maggiore, si svolgerà una lettura collettiva di alcune tra le pagine più suggestive della letteratura italiana. L’evento è aperto alla città e a tutti i cittadini.
Inoltre sono previsti incontri a Cosenza, a Lamezia Terme, ad Aulla, a Messina, a Camaldoli, Monselice, Dolo…
Nelle città da cui si parte saranno via via segnalati gli eventi di presentazione della Stella d’Italia sul sito di Cammina cammina.
Scaletta date Stella d’Italia ‐ Nord
Liguria Partenza da Genova domenica 27 maggio: Fermi il 7 giugno a Lucca ‐ Partenza da Lucca l’8 giugno ‐ Arrivo ad Assisi il 24 giugno Fermi ad Assisi il 25 giugno
Veneto Partenza da Venezia venerdì 25 maggio Arrivo a Bologna il 2 giugno – fermi il 3 ‐ Arrivo a Camaldoli il 13 giugno ‐ Fermi a Camaldoli il 14 giugno Arrivo ad Assisi il 24 giugno Fermi ad Assisi il 25
I bracci dal nord si congiungono il 24 giugno ad Assisi e l’unica colonna parte da Assisi per l’Aquila il 26 giugno
Arrivo a Spoleto il 29 giugno Partenza da Spoleto il 30 giugno Arrivo a L’Aquila il 5 luglio
Scaletta date Stella d’Italia ‐ Sud
Calabria Partenza da Reggio Calabria il 12 maggio Arrivo a Matera il 12 giugno Fermi a Matera il 13 giugno
Puglia Partenza da Santa Maria di Leuca il 2 giugno ‐ Arrivo a Taranto l’8 giugno ‐ Fermi il 9 giugno a Taranto Partenza da Taranto il 10 giugno Arrivo a Matera il 12 giugno Fermi a Matera il 13 giugno I bracci dal sud si congiungono il 13 giugno a Matera e l’unica colonna parte da Matera per l’Aquila il 14 giugno Partenza da Matera il 14 giugno Arrivo a L’Aquila per il Tratturo Magno il 5 Luglio
Lazio (a cura di Lunga marcia per L’Aquila) Partenza da Roma il 30 giugno Arrivo a L’Aquila il 5 luglio dal Lago Rascino
Per le iscrizioni:
Potete scrivere per info e iscrizioni a iscrizionistelladitalia@gmail.com oppure telefonare ai seguenti referenti
Puglia Emma Cortellini 3703037876 Irene Greco – 3355892711 Il tratto Santa Maria Di Leuca – Taranto è a cura di SpeleoTrekkingSalento di Lecce
Liguria Tina Imbriano – 3404079594 Roberta Medini ‐ 3342683069
Sicilia e Calabria Laura Mutti ‐ 3487313027 Fabiola Zanetti ‐ 3397444911
Veneto Maurizio Netto ‐ 3357816416 Beatrice Bertolo ‐ 3498786929
Lazio Enrico Sgarella del Comitato Lunga Marcia per L’Aquila 3929135419
Per adesioni o sostegno a Stella d’Italia o info sugli eventi, per l’ufficio stampa e la segreteria scrivere a: stelladitalia12@gmail.com,
Per la comunicazione al sito http://camminacammina.wordpress.com ‐ tribuditalia@gmail.com
La partecipazione a Stella d’Italia non prevede alcuna tassa di iscrizione. E’ richiesta invece la quota assicurativa obbligatoria di 3 euro liquidabile all’inizio di ogni tappa o (per più di una quota contemporaneamente) con versamento sul conto corrente postale (info da richiedere a stelladitalia12@gmail.com). La quota permette anche di diventare “Amici di Stella d’Italia”, ovvero aderenti e sostenitori di Stella d’Italia. Le persone che faranno il versamento della sola quota di iscrizione o di sostegno più ampio (da 3 euro in su) saranno aggiunti ai nostri Amici e potranno seguire come vengono eventualmente impiegati i fondi donati direttamente sul nostro sito.
Chi siamo
L’Associazione Culturale Il Primo amore: Andrea Amerio, Sergio Baratto, Carla Benedetti, Maria Cerino, Gabriella Fuschini, Serena Gaudino, Giovanni Giovannetti, Teo Lorini, Antonio Moresco (presidente), Sergio Nelli, Tiziano Scarpa, Andrea Tarabbia, Dario Voltolini.
I volontari che organizzano Stella d’Italia:
Coordinamento generale ed eventi ‐ rapporti con le Istituzioni: Serena Gaudino Giovanni Giovannetti Antonio Moresco
Marketing e Fund raising: Renata Moresco e Emma Cortellini
Ufficio Stampa e Comunicazione: La redazione del Primoamore.com insieme a Sergio Baratto Segreteria di supporto: Irene Greco, Tiziano Colombi
Referenti braccio Nord Est: Venezia ‐ L’Aquila: Beatrice Bertolo, Tina Imbriano e Maurizio Netto
Referenti braccio Nord Ovest: Genova ‐ L’Aquila: Tiziano Colombi, Giacomo D’Alessandro, Roberta Medini, Tina Imbriano
Referenti braccio Sud Est: Santa Maria Di Leuca – Taranto: Raggio Speleo Trekking Salento, Taranto – L’Aquila: Irene Greco e Emma Cortellini
Referenti braccio Sud Ovest: Messina ‐ Reggio Calabria ‐ L’Aquila: Fabiola Zanetti, Laura Mutti
Referente Braccio Ovest – Est: Roma L’Aquila: Enrico Sgarella (Comitato Lunga Marcia per L’Aquila) Collaborano inoltre alla buona riuscita di Stella d’Italia Alberto Vesprini, Dina Albrizzi, Erica Locatelli, Giovanni Tundo, Grazia Sanna, Maria Pace Ottieri, Marina Marani, Antonio Cerullo, Chiara Rossi, Lulù Izzo, Rachele Moscatelli.

di Francesco Forlani
«Correva da solo, fuori dal branco, ruvido e schietto, ancora capace di stupirsi, indignarsi, ridere. Perché era un uomo vero, in un ambiente in cui crescono a vista d’occhio individui virtuali. Perché era un uomo antico che anticipava il futuro. Uno per cui contava l’essere e non l’apparire. Per questo non l’avete mai visto e non l’avreste mai visto in un talk show.
Privilegio degli scrittori è proprio quello di continuare a parlare anche dopo la loro scomparsa
fisica. Se sono autentici, come Sergio era, il seme che hanno gettato non va perduto»
Ernesto Ferrero
Azione Atzeni
Comunicato stampa
di Azzurra d’Agostino

and fade out again
and fade out
Radiohead
Se “benedetta è la città che fonda un teatro”, come suona la frase di Edward Bond a sottotitolo dei Quaderni di Roma – com’è la città che lo chiude?
In momenti come questi viene in mente un paragone piuttosto amaro, ci si sente come quando a un funerale vorresti dire due parole a suggello della vita di un amico; difficile raccogliere in una manciata di frasi tutta la strada che avete fatto insieme, il peso di un’assenza che comincia a diventare reale.