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#MayDay (updated)

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Oggi è un Giorno dei Lavoratori che si preannuncia assai movimentato. Le manifestazioni di Francia cadono nel sempre più aspro scontro elettorale, e conviene tenere d’occhio anche la Grecia e la Spagna.
Ma è soprattutto negli Stati Uniti che si prospettano cose inaudite. Occupy Wall Street e gli altri movimenti, hanno annunciato lo sciopero generale.

VIOLA AMARELLI nostra patria

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a) Nel 1856 Ciccillo è a Zurigo: ci lavora 4 anni, insegnando al Politecnico di Zurigo; vive in una stanza con dei canarini, ama Nina; scrive come sempre di quello che gli pare importante, le parole.
 
 
 

 
 
 
b) Così, il vortice, le luci e i tendini – la statuaria: tenebre e lampi, lanterne lumi radenti: da Caravaggio a Malta, da Roma a Siracusa, passando per Napoli dove arriva dopo – dopo, Jusepe. Corto, tracagnotto beve ogni tratto, ogni tono e l’ombra: abbrunendo, virando al bianco nero passioni, il gran lombardo già errante, giù a Sud più a sud, già corpo sepolto salendo a un ritorno, lo Spagnoletto che s’innamora e, amando e penetrando, lì dentro i quartieri, a ripercorrere strade vichi e sguardi e morti.
 
 
 
 

c) Paese dei vitelli, ora per lo più giovenche.

 

d) Francesco S. a 16 anni perde un occhio in Val d’Ossola. Medaglia d’argento, invalido. Ha studiato violino al conservatorio, suonerà tutta la vita. Nipote di prevosto, ucciso il padre per vendette private durante il ‘44, si laurea in chimica. Alla fine della guerra la Montecatini lo manda a Napoli, a dirigere una fabbrica di plastica nuova di zecca. Torna su solo d’estate alla madre, sul lago. Sposa una minuta, vivace napoletana. Si appassiona di Positano, e di pesce. “Qui non hanno idea di che sia la carne”.
 
 


 
b) L’ingorgo, un tornado, raggiera di misericordia: un laooconte di moto, affollato di carne e di ombre. Non l’avrà mai questa grazia il doppio, l’epigono, il fascinato. Più glaciale, più fisso, più fermo, più vene, a puntasecca il pennello. Inseguendo, oltre, di là della fine. Più felice, di vita. E lavoro. Apparendo. Non così, non così. Merisi aveva alzato il sipario, Ribera da vicino Valencia scendendo deciso lungo un mare e gli agri e i vescovadi, a richiuderlo, cupo. E stracciato. Non così.
 
 

c) Clientes, cordate, clan e. Date, date. Da sempre l’arraffo. La vita ridotta a una riffa.

 

 

d) Mario P. fugge una vita. Dalla madre, dalla famiglia, da un Mezzogiorno di ladri e bugiardi. Scia, per ripicca ad un mare acre. Su in Piemonte, alla scuola ufficiali sposa testardo una alta, limpida, 10 anni più vecchia. In guerra, Africa, colleziona medaglie, inclusa la croce di ferro di Rommel. Rifiuta di imbarcarsi col suo generale all’armistizio. Fugge, coi suoi soldati. In Albania, coi comunisti sulle montagne. Altra medaglia. Ritorna, lavora, il direttore di produzione, per film neorealisti e b- movie L’alta e limpida muore, assai vecchia. Mai avuto figli. Resta con un badante, africano, in una Roma indecente. A volte parlano, di deserti e terra rossa. Niente mare.
 
 
c) Palafitticoli, illirici, fenici. Ondate di greci: il 99% del dna ora adesso. Franchi, ostrogoti, longobardi. Un ponte. Una campata appenninica, faglia di azzurro. Sole. E alpi. E pietre, bianchissime, a mare. Splendore: tessuti in ricamo e rovine.
 


 
b) Entrando, alla chiesa, la poverella stesa, deposta, seppellita, una radiosità arcuata, un chiarore diffuso ad affogare, affocata come negli occhi dei ciechi, diluendo, trascolorando la luce. E la vita. Santa Lucia, a Siracusa, stretta finissima a Ortigia, dal cielo di monti a quello africano vicino, vicino, Merisi.
 

d) Su giù, l’inverso, una vecchia canzone: il mondo intero.


c) Due braccia, due gambe, due occhi: uguali, almeno la maggior parte.

 

a) Ciccillo negli ultimi, lunghi anni, al buio, riaccecato, come ogni indovino, come ogni poeta.
 
“Perciò non mi piacevano i pleonasmi, i ripieni, le riempiture, le perifrasi, le circonlocuzioni, le parentesi, i lunghi e armoniosi giri del periodo, l’abuso delle congiunzioni e delle inversioni. Tutto questo era roba da esser gittata a mare.” – Francesco De Sanctis da ‘La Giovinezza’
 
 
 
 

piccole estinzioni quotidiane

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 Michele Zaffarano

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Non viaggiamo frequentiamo molta gente poi non ne frequentiamo più. Le solite ore di solitudine. Così torniamo e ricominciamo a vivere da soli. Altri rispetto alle altre cose. E le virtù con parole tanto aspre. Hai detto questo. Almeno lui come se veramente potesse portarsela via. Insomma si sente agitata da vibrazioni sottili. È un dato di fatto. È semplice la vita con tutte le sue iniziali.

Byron – Un ritratto

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di Franco Buffoni

Il poeta bel tenebroso, caricaturato da Thomas Love Peacock in Nightmare Abbey come Mr Cypress, nascondeva dunque un segreto “infamante” che, come la sua fama cresceva, il gossip londinese non poteva e non voleva perdonare. Le vicende della sua vita paiono ai nostri occhi quelle di un uomo braccato e sfinito, di un’icona rovesciata, invertita nei suoi sensi più profondi.

Indagine su un genere al di sopra di ogni sospetto

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Una possibile spiegazione all’invasione del giallo vichingo in Italia e non solo

di Andrea Ferrari

Il giallo nordico ha invaso il mercato e gli scaffali italiani alla velocità della luce, manco fosse il tarlo asiatico che minaccia gli alberi delle nostre città più di un approvando piano di governo del territorio. Questa affermazione ha da tempo preso cittadinanza nel dibattito intorno alla letteratura di genere, e soprattutto intorno al mercato che la regola, ma ciò che spesso si omette è che gli ormai sempre più numerosi SSON, ERG, ELL, SEN e chi più ne ha più ne metta, non sono altro che la punta di un iceberg formatosi più di un secolo fa e che, a mio avviso, attinge le proprie atmosfere in un humus culturale ancora più profondo, che risale alla letteratura scandinava nel passaggio fra l’Ottocento e il Novecento.
Come si formino gli iceberg, quelli veri, lo ignoro, ma quello del giallo scandinavo ha avuto una genesi davvero particolare.

Alla fine del XIX secolo le traduzioni di grandi autori come Conan Doyle e Edgar Allan Poe approdarono in Scandinavia e, sulla scorta delle loro opere magistrali, si mossero i prodromi della letteratura di genere del Grande Nord. Pioniere fu Sven Elvestad che con vari pseudonimi (Kristian F. Biller e Stein Riverton) diede vita a Knut Gribb, il primo detective della storia del Grande Nord. In omaggio all’opera di Sven Elvestad venne in seguito istituito il premio Riverton per la letteratura di genere, tutt’oggi attivo e prestigioso riconoscimento. Autori come Palle Rosenkrantz e Gösta Palmkrantz iniziano, tra le altre cose, a mettere a tema quello che sarà uno dei tratti distintivi della letteratura di genere scandinava, cioè l’attenzione per i temi sociali e la relazione tra lo stato e l’individuo. I pionieri verranno poi nel corso degli anni Quaranta ripresi e sviluppati in abili esercizi di stile da autori come Maria Lang, Stieg Trenter, Niels Meyen che hanno il merito di rendere il genere autonomo dalla ingombrante tradizione anglosassone. Questi i presupposti che paiono ancora lontani e forse un po’ troppo aristocratici.
Possiamo dire che i veri genitori della moderna letteratura gialla scandinava siano però i coniugi Maj Sjöwall e Per Wahlöö, che diedero vita, sul finire degli anni Sessanta, alla serie del commissario della polizia di Stoccolma Martin Beck. Dieci romanzi, all’interno dei quali si trovano una profonda analisi sociale, caustica e perfino impotente, una ricerca importantissima sui rapporti interpersonali nella Scandinavia di quel tempo e una finissima attività investigativa conscia dei limiti dell’essere umano e delle sue risorse finite e fallibili; oltre ad una critica a tratti feroce della socialdemocrazia svedese e del suo welfare “folkhem” , tanto celebrato nel resto d’Europa.
Insomma, Maj Sjöwall e Per Wahlöö con questi dieci romanzi tracciarono una sorta di summa teologica del genere della krimlitteratur , dalla quale tutti i nostri contemporanei scandinavi trarranno “ispirazione”, per dir così, per le proprie opere.
Una citazione a parte merita un altro mostro sacro del giallo nordico, Gunnar Staalesen, scrittore norvegese che, a partire dal 1977, ha dato vita al filone Hard Boiled scandinavo con il suo detective privato di chiara matrice chandleriana, Varg Veum , che ha all’attivo 16 romanzi e numerosi tentativi di imitazione, come la Settimana Enigmistica.
I romanzi di Staalesen segnano un tratto di discontinuità dal classico stile procedurale imposto in un certo qual modo da Sjöwall e Wahlöö e introducono, o per meglio dire riportano alla luce, la figura dell’antieroe solitario che non ha neppure la legge alla quale aggrapparsi per portare avanti la propria ricerca della verità. Filo conduttore che tiene uniti invece tutti gli autori del grande Nord è la spietata critica sociale, che risulta essere trasversale per tutte le tre grandi nazioni scandinave e anche per la piccola Islanda. A partire dagli anni Ottanta, con l’avvento di dinamiche capitaliste e del neoliberismo anche nel Grande Nord, i Socialdemocratici si spostano nettamente verso il centro e la società si sente delusa e tradita. Nel corso degli anni Novanta quindi queste istanze, unitamente al solco tracciato da Sjöwall e Wahlöö, vengono riprese da Henning Mankell, anch’egli svedese. Il suo commissario Wallander è la trasposizione del parigrado Martin Beck nella Svezia a cavallo del nuovo millennio in cui la tecnologia e le novità (infiltrazione delle mafie provenienti dalla Russia e dalle Repubbliche Baltiche formatesi dopo il crollo del muro di Berlino e del blocco socialista) arrivano molto velocemente e investono un tipo di letteratura che per cifra stilistica e di impatto resta, tutto sommato, lenta e attaccata ad una precisione e ad un amore per il dettaglio che rasentano il didascalico.
Dopo di lui, sulle spalle di questi giganti, sono arrivati altri autori, altri SSON, ERG, SEN, UND, Ø e così via, che hanno impresso certamente un proprio impulso alla Krimlitteratur, ma che hanno sicuramente innovato poco il canovaccio tracciato. Autori significativi per voglia di sperimentare sono certamente Kjell Ola Dahl, che fonde lo spirito Hard Boiled di Staalesen con il rigore procedurale di Mankell, e Jo Nesbø, con la figura del commissario Harry Hole prima della deriva da film americano degli ultimi due romanzoni da cassetta. Altri nomi dei quali avrete certamente sentito parlare, ma che hanno forse aprofittato della “piena”, sono Anne Holt, Liza Marklund, Camilla Läckberg. Attenzione speciale, invece, va ad Arnaldur Indridanson, che dalla piccola Islanda ha messo a tema la decomposizione di una società minuscola e chiusa, grazie alla figura quasi epica del commissario Erlendur Sveinsson della polizia di Rejkiavik.
I temi trattati sono gli stessi quasi per tutti, ampliati e attualizzati: l’individuazione delle sempre più enormi falle sistema del welfare scandinavo che viene addirittura eletto a nemico del singolo cittadino. Tutti questi libri sono popolati da protagonisti emarginati, uomini e donne che non hanno più alcuna fiducia verso lo stato che si va progressivamente sgretolando, poi droga, mafie e prostituzione, immigrazione e un’integrazione spesso solo formale e niente più, oltre ai rigurgiti neo fascisti che popolano tutta la Scandinavia.
All’interno di questi aspetti generali e condivisi da altri articoli in merito, si inserisce il recupero di atmosfere tratte dalla letteratura nordica nel periodo fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, come l’esigenza di raccontare la città e i suoi mutamenti che avvertono autori del calibro di Knut Hamsun, e figure borderline che ricordano da vicino il Doktor Glas di Hjalmar Söderberg, per non dimenticare le atmosfere dell’Ibsen di Hedda Gabler o quelle dell’opera di Strindberg .
Una menzione particolare, e volutamente separata da questo bestiario della letteratura di genere scandinava, va a Stieg Larsson, che con la sua trilogia di Millennium ha avuto la triste ventura di divenire la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. I suoi lavori sublimano in modo addirittura eccessivo quanto detto sopra, dando vita ad una serie di romanzi ipertrofici che lasceranno dietro di loro il dubbio che la sua prematura scomparsa abbia accelerato un processo di beatificazione editoriale e di pubblico molto più grande del previsto e del prevedibile. Stieg Larsson, il primo dei nuovi vichinghi che partono dalle coste del Grande Nord e invadono, conquistandoli, i nostri mercati, con navi ipotetiche il cui fasciame si tramuta negli scaffali delle nostre librerie o nelle mensole delle nostre case firmate IKEA. E il cerchio si chiude.

Il successo di pubblico della letteratura del Grande Nord è dovuto in gran parte al solco tracciato dai capostipiti, solco così chiaro da essere ricalcato dai molti, anzi troppi, autori contemporanei. Il mondo che esce dalle loro pagine è percepito dal lettore italiano come abbastanza lontano, ma tutto sommato europeo e quindi distante al punto giusto per essere condiviso senza sporcarsi troppo le mani. Gli scrittori scandinavi sono abili nel riprodurre le atmosfere dei luoghi narrati e renderli vivibili al lettore; che si tratti di Oslo o dei grandi fiordi a picco sul mare del Nord ha, a questo punto, poca importanza. L’ultimo aspetto per cui il lettore italiano si fidelizza con il giallo Nordico è da individuarsi nella ben dosata alternanza fra la quotidianità e i grandi avvenimenti, fra i dettagli più piccoli e i paesaggi sconfinati, in cui è inserita l’intima indagine dell’animo umano e della società contemporanea nel suo decadimento.
Le ragioni profonde per le quali quest’onda del mare del Nord sembra essere infinita, non sono quindi da ricercarsi solo ed esclusivamente nel leggere miope e influenzabile del pubblico italico e nel vendere e promuovere lungimirante delle maggiori case editrici nazionali.
Il mercato ci mette certamente del suo. Regola le nostre vite che ci piaccia o meno, e regola anche il nostro leggere. Magari non quello di tutti, ma sicuramente il leggere di quella massa acritica che con un libro a testa sposta in modo inconsapevole il vento del momento. E il vento del momento è gelido e soffia dal Grande Nord.

(Andrea Ferrari è un “giallista” milanese, laureato in lingue e letterature scandinave)

Oui, nous, nuje, nosotros sommes (un petit poch’) la France!

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di Helena Janeczek

Com’è il bicchiere della riscossa a sinistra dopo il primo turno delle presidenziali in Francia? Mezzo pieno o mezzo vuoto? Il 1,5% di vantaggio di Hollande, insieme alle nette indicazioni di Mélenchon, giustificano festeggiamenti e speranze?

I topastri di Marino Magliani

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(ecco l’incipit dell’ultimo lavoro, giallo-bolaño-animalesco, di Marino Magliani: “La ricerca del legname”, due punti Edizioni, 6 €; provare per credere e apprezzare; GS)

 

“A volte vengono giri d’idee che non appartengono alla nostra lingua, e ciò non ti sembri strano.”

Antonio Tabucchi, Si sta facendo sempre più tardi

 

C’erano i piccoli con cui giocavo sui bordi del tubo che usciva dallo sfiatatoio e a noi sembrava uscisse dal mare. E c’erano i vecchi a ridosso del muro. E c’era il mare, ma non si vedeva. Era sopra di noi, e per raggiungerlo si procedeva attraverso le fessure fino allo sfiatatoio e lassù c’era il tombino e da qualche parte il mare. Ma prima del mare c’era da attraversare la strada e allora uno restava lì, immobile, e dicevano che a quel punto mancava il coraggio.

Un giorno da lassù era caduto un serpente. Scappammo via, e quando da dietro i ripari ci voltammo a guardare tirammo un sospiro perché il serpente era morto. Le ruote delle macchine gli erano passate addosso mentre tentava d’infilarsi tra le sbarre e gli avevano spezzato la frusta che hanno dentro i serpenti. Le ultime forze le aveva usate per trascinarsi e cadere tra noi. Prima di avvicinarci e mangiarlo, aspettammo che anche i suoi nervi si quietassero e la bocca non mordesse più l’aria. Anche El Tira era tornato a guardare. Lui era il più sveglio e non credo lo fosse solo perché era nipote di Josephine la cantante. A una certa età queste cose non interessano. La popolarità di Pepe El Tira continuò anche quando entrammo al commissariato. Io mi arruolai proprio perché c’era lui. Ci misero a fare i turni nello stesso quartiere, era un periodo in cui nella colonia vivevano parecchie teste calde, sabotavano i collegamenti ai condotti periferici, disturbavano il transito dei pendolari. Poi mi trasferirono alle aree di risorsa. Dovete sapere che l’ottanta per cento del legname proveniva dalle radici dei platani che sfondavano i muri di contenimento, il resto si recuperava ammassato contro le grate. Era legname di prim’ordine che giungeva dal fiume e si accampava provocando innondazioni. Le grate esterne ne lasciavano passare grosse quantità, quelle interne trattenevano i tronchi e le tavole, pezzi di mobili che galleggiavano nell’acqua assieme ai cadaveri sorpresi dalle piene. Le squadre dei recuperatori avevano sempre il loro daffare. A volte li scortavamo nei condotti poco sicuri.

Per un periodo, con El Tira lavorammo fianco a fianco anche nella lotta contro il brac­conaggio. I bracconieri possedevano una tecnica fulminea, la usavano durante i temporali di maggio, e nel giro di poche ore le lumache che inseguivano le trasudazioni fino al nostro livello venivano sterminate.

Poi con El Tira ci perdemmo di vista; gli assegnavano i controlli di altri livelli, territori frequentati da assassini di grossa taglia, serpenti e faine, fin quando non si mise in testa che per una serie di delitti il responsabile era uno di noi, un topo. All’Accademia, per quel poco che la frequentammo prima di praticare, ci avevano sempre detto che i topi non uccidono i topi. Ma El Tira aveva avuto quell’intuizione, nel nostro mestiere contano le intuizioni. E quella volta il serial killer era davvero un nostro simile, anche se i capi non lo ammisero mai per non allarmare la popolazione. A rendere definitivamente famoso El Tira ci pensò lo scrittore cileno col racconto del serial killer. Da quel giorno, quando si usciva con lui, lo riconoscevano subito tutti: guarda, Pepe El Tira, dicevano. Lui s’era calato nel personaggio. Ci confidava che stava indagando sulle morti dello sfiatatoio con metodi nuovi, usati nel mondo superiore.

Quando uscii dal corpo di polizia non passò molto tempo che se ne andò anche El Tira. Rimanemmo entrambi a vivere nel quartiere, anche se ci incontravamo di rado. Lui veniva intervistato e parlava di disagi e crimini, e credo che la popolarità non gli dispiacesse. Quanto a me, dopo un periodo a far nulla, cominciai ad annoiarmi. Tornavo nei posti dell’infanzia, i miei genitori non vive­­vano più, a volte mi portavo lungo la scarpata, prima dello sfiatatoio, e mi nascon­­devo nel buio in attesa che penetrasse qualcuno: giovani serpenti, al solito, moribondi con i segni delle gomme sul ventre. Mi piaceva vederli mordere l’aria mentre morivano, una soddisfazione di cui non riu­scivo vergognarmi.

Un giorno feci come tutti i poliziotti che si annoiavano e misi su un’agenzia di investigazioni. Piccole indagini per conto dell’amministrazione. E fu durante l’estate, che era il periodo di maggiore lavoro perché i condotti si prosciugavano e l’amministrazione dava in appalto la realizzazione di accessi ai livelli superiori, che venne a farmi visita la madre di un tale Rudy. Disse che il figlio era sparito da tempo e la polizia sosteneva che poteva essere stato depredato e ucciso. Oppure era stato fatto fuori durante un rego­la­mento di conti.  ….

(la collana ZOO|||SCRITTURE ANIMALI nella quale appare il testo di Magliani è diretta da Giorgio Vasta e Dario Voltolini)

26 Aprile

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Byron – Le ultime poesie

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di Franco Buffoni

Ancora oggi si ritiene che “On This Day I Complete my 36th Year” sia l’ultima composizione di Byron. Invece è la prima di un breve ciclo – che potremmo idealmente intitolare “To Lukas” o “To Luke”, come avrebbe preferito Lord Byron – in un pendant col giovanile ciclo “To Thyrza”, dedicato al primo amore John Edleston.

La Région Centrale

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Altro Snow qui.

… nella notte lo guidano le stelle…

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Felice Cascione
[Imperia, 2-5-1918 – Alto, 27-1-1944 ]

Sassolini, mollichine.

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di Giuseppe Zucco

Una sola metafora spesso dice più di un lungo discorso.
Bernard Lamy

Gli stringevamo una corda intorno ai piedi, e lo trascinavamo fuori dalla tenda. In realtà, non erano i piedi, quanto l’estremità del sacco a pelo. Facevamo strisciare il sacco a pelo sul catino della tenda, sullo spiazzo di terra davanti alla tenda, intuendo appena la polvere sollevata nell’oscurità.

Intervista a Vladimiro Giacché

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di Helena Janeczek

Si chiama Titanic Europa (Aliberti, 14,00€), ma in circa 170 pagine contiene una nave e un iceberg ben più grandi: la crisi economica presa da molto prima del crack di Lehman Brothers, fino alla Grecia e l’Italia, perno del possibile naufragio, too big to fail ma troppo grande per essere salvata. L’ha scritto Vladimiro Giacché, dirigente della finanziaria Sator e, al contempo, marxista dichiarato. Nel saggio prevale lo sguardo dell’insider o la voce del militante?

Con due deca

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hanno ucciso l'uomo ragno / 883di  Giacomo Bottà

[Quest’anno è, tra le altre cose, il ventennale di Hanno ucciso l’uomo ragno degli 883. Alcuni gruppi indie italiani hanno realizzato una compilation on line su Rockit.it]

Ho abitato a Pavia dal 1993 al 1999. Levando un paio di semestri di Erasmus, la città sul Ticino è stata la mia casa ammobiliata, la mia stanza condivisa, la mia aula magna, la mia sala studio, il mio bar mal frequentato e la mia pizza al metro.

Contemporaneamente gli 883 di Pavia andavano in televisione, alla radio, al Festivalbar, su Sorrisi e Canzoni e magari qualcuno diceva di aver visto Pezzali in giro in centro, con gli occhiali ray-ban a pera e la giacca da aviatore o dentro una macchina, mentre girava rombante la rotonda di Pomodoro. Il Celebrità, il Bar Dante, il Naviglio fetido e altri riferimenti delle canzoni degli 883 erano posti reali di Pavia.

Le (r)esistenti

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STORIE DI 27 DONNE AQUILANE 

Le (r)esistenti
Una giornata a L’Aquila
27 donne raccontano

[ clicca sulle sagome rosse per vedere le storie ]
 
pubblicato da orsola puecher

Byron – I diari distrutti

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di Franco Buffoni

La notizia della morte di Lord Byron a Missolonghi il 19 aprile 1824 giunse a Londra solo il 14 maggio. Superato lo shock iniziale, l’amico John Cam Hobhouse, nominato esecutore testamentario, ebbe un solo pensiero: distruggere la carte compromettenti. Non importava che si trattasse di opere letterarie. Che cosa accadde delle privatissime e brillantissime Memoirs, scritte a Venezia nel 1818, con sostanziali aggiunte apportate nel 1820 e nel 1821?

pop muzik (everybody talk about) #18

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Bingo! / AKB48. 2007

Nuovi autismi 20 – Letteratura e fallimenti

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di Giacomo Sartori

Nella mia famiglia siamo tutti dei falliti. Certo con sfumature diverse, perché la vita è sempre molto varia, e anche in un asfittico ecosistema autoreferenziale la biodiversità può essere notevole: falliti presuntuosi da parte di mia madre, falliti più dimessi da parte di mio padre, falliti coscienti di esserlo e falliti emuli Napoleone, falliti coraggiosi, a tratti eroici, e falliti meschini, falliti estroversi e falliti depressi, falliti nullafacenti e falliti iperattivi, falliti invitti e falliti suicidi: ce n’è per tutti i gusti. Ma pur sempre falliti. Io sono cresciuto nel silenzio che segue le grandi catastrofi. Quando ero piccolo il fallimento più vistoso e invadente, il cataclisma che pesava su ogni discorso, era il fiasco del RIFUGIO. Dopo la guerra mia madre aveva avuto la bella idea di investire gli ultimi risparmi rimasti a mia nonna dopo il naufragio precedente, quello della SVALUTAZIONE, nella costruzione di un rifugio alpino sulla montagna che sovrasta la cittadina dove abitavamo. Naturalmente sul rifugio si focalizzano tutte le aspirazioni e le predilezioni dei miei: la passione per la montagna e per gli sport salutisti, l’ideale di una vita semplice e spartana, un lavoro indipendente, la lontananza dalla città e dalla corruzione democristiana. L’idea forse non era male, ma troppo avanti con i tempi: all’epoca i clienti si facevano vedere solo la domenica, e solo quando faceva bel tempo. E avevano pochissimi soldi: la maggior parte ordinavano una bevanda, o al limite un qualcosina per integrare un pranzo al sacco, mangiavano, e poi sparivano. Ma soprattutto i miei non avevano nessuno spirito commerciale: a mia madre è sempre piaciuto pontificare agitando le braccia nell’aria, e mio padre si atteneva al ruolo dell’orso burbero e sessualmente temibile. Non sapendo trattare con i fornitori pagavano tutto caro, e men che meno riuscivano a incassare i debiti. E comunque un sacco di gente consumava e se la filava alla chetichella: il rifugio aveva raggiunto una certa notorietà proprio per questo. Loro si inventavano sempre nuovi metodi, ma moltissimi riuscivano lo stesso a farla franca. Rendendo pazzo di rabbia mio padre, la cui moralità littoria non poteva concepire bassezze di questo genere. Del resto visto l’andazzo anche i sottoposti facevano man bassa. Insomma, dopo una lunga agonia hanno gettato la spugna. Prima mio padre, e dopo qualche stagione, e per la precisione un anno dopo la mia nascita, anche mia madre. Del rifugio, svenduto per poche lire poco prima che la zona cominciasse a diventare di moda, restavano decine di coperte di lana grezza, e dei pesantissimi piatti di porcellana grezza, quelli stessi che ogni tanto mia moglie porta in cantina e io vado a riprendere, perché appunto ai fallimenti e ai loro simboli ci si affeziona. Lo scacco del rifugio era però prima di tutto una metafora: il vero fallimento era il loro matrimonio. Per rimediare a quello non si poteva fare proprio niente, anche con la migliore volontà. Ma naturalmente dietro alla disfatta della loro unione c’era quello delle loro giovinezze e delle loro belle speranze: in altre parole il crollo del fascismo, al quale entrambi avevano aderito con entusiasmo. Per far fronte a quello non c’era rifugio che tenesse. Ma appunto più indietro ancora c’era tutta una genealogia di insuccessi, sia da parte di lui che da parte di lei. Adesso non voglio dilungarmi, altrimenti diventa un romanzo, ma mio nonno paterno aveva investito tutti gli averi della moglie in un avveniristico progetto di lavanderie per alberghi, nel quale la proprietà delle lenzuola e delle tovaglie restava alla sua società. Anche qui i tempi non erano maturi, anche qui mancava completamente il bernoccolo degli affari: le lenzuola e le tovaglie venivano sistematicamente rovinate e distrutte. Mio nonno materno, la cui carriera americana aveva preso il là da una giovanile perdita al gioco, è fallito in un modo meno eclatante, ma più ignominioso: ammalandosi di una malattia impronunciabile. Dopo la sua morte prematura mia nonna è riuscita a recuperare solo una piccolissima parte dei suoi averi mimetizzati in una ingarbugliata foresta di società e di prestanome sparsi per il mondo. Di lui restavano la divisa di ufficiale sabaudo, qualche gingillo prezioso, perché adorava il lusso, e qualche lettera manoscritta dell’amico di gioventù Giovanni Agnelli. Ma naturalmente i fallimenti precedenti si ammantavano di ancora più evanescenti nebbioline, nelle quali fragili figurette danzavano sul bordo della voragine dell’oblio: miraggi ancora più labili. Io sono cresciuto nella nostalgia di un qualcosa che non c’era più, e ancora adesso provo nostalgia per ciò che forse non è mai esistito. È con questa zavorra sentimentale che ho affrontato i miei primi romanzi, è con questa bramosia che ho divorato le scaffalate di diari e di racconti di guerra che leggeva mio padre. Vicende che si svolgevano per lo più dalla parte sbagliata della storia, con retoriche che ora aborro, però pur sempre umane storie di fallimenti, con corpi che soffrivano e sangue che sgorgava. Ma anche dopo nei libri ho sempre cercato esempi di insuccessi con i quali confrontarmi, braccando gli strumenti per interpretare la mia disfatta personale, e forse anche nutrirla, come si foraggia senza volerlo un insaziabile verme solitario. La letteratura per me non è mai stata evasione, ma vertigine e confronto, dialogo con me stesso: essenziale lavorio quotidiano. Nel mio piacere allignava sempre la soddisfazione della vittoria sui miei pregiudizi, l’ebbrezza di nuovi orizzonti di ripiegamento. Nel corso degli anni ho rincorso esempi sempre più arzigogolati e raffinati, sempre più infossati negli abissi dell’interiorità, perché mano a mano diventavo più esigente, più difficilmente contentabile. Non mi dicevano più niente le rozze battaglie che mi soggiogavano quando ero ragazzo. E naturalmente sempre più i messaggi segreti li trovavo imbrigliati nei meandri del linguaggio, sempre più diventava una questione di scarti e  di virtuosismi linguistici. Ossessionato dalla ricerca della verità, senza rendermene conto ero io stesso forse diventato un prodotto delle finzioni che avevo assimilato, avevo forse perso ogni realtà, ogni verosimiglianza. In questa terra di nessuno popolata da miraggi ho cominciato io stesso a scrivere. Eppure andavo avanti a cercare, e tuttora sfrucugno alla ricerca di insegnamenti, o anche solo di risultanze sperimentali, cristalline evidenze fatte di parole, che possano essermi utili. Devo dire che ho sempre trovato senza difficoltà quello che cercavo: l’assillo principale del romanzo moderno, a cominciare dal Don Chisciotte, sembra essere proprio il fallimento. In tutte le sue declinazioni e varianti, in tutti i suoi inessenziali ammaestramenti.

(l’immagine: Michel Nedjar, senza titolo, 1989 circa)

In nome del debito sovrano

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L’età del declino *

“…Nel 2012 la democrazia nell’Europa mediterranea venne sospesa, per instaurare una tecnocrazia il cui unico fine era quello di drenare le risorse del capitale privato e convogliarlo nelle casse della BCE. I colpi di Stato bianchi dei tecnocrati vennero favoriti dalla corruzione endemica delle classi politiche locali, che accettarono il fatto compiuto sulla base di un ricatto strisciante, pur di conservare i loro privilegi e restare immuni da ogni provvedimento in sede processuale. Questo fenomeno determinò la sospensione effettiva dei diritti dei cittadini e dei più elementari principii di legalità, costituendo inoltre un laboratorio politico per le democrature, le tecnocrazie e i totalitarismi che avrebbero caratterizzato la successiva fase del collasso delle strutture sociopolitiche dell’Occidente.

Gli ultimi desideri di Boyle: alchimia e luce.

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di Antonio Sparzani

Continuando quanto vi raccontavo a proposito della lista dei desideri del nostro Robert Boyle, molte altre cose potrebbero formare oggetto della nostra curiosità e del nostro stupore,