Home Blog Pagina 299

Il saluto di Mesagne

9

di Domenico Pinto

Un desiderio di chiarezza, come dire di pace, imperturbabile e dirimente, sarebbe il sogno di qualunque osservatore. Non si hanno invece che frammenti, una sequenza di fotogrammi, nulla che ancora custodisca un senso fuorché la corrente di emozioni che continua a attraversare la città di Mesagne. Ora che una larga folla si va adunando in piazza IV Novembre, dopo due giorni dall’attentato alla scuola Morvillo-Falcone di Brindisi, tutti i piani interpretativi di questa realtà, infinitamente mediata e congetturale, irrisolta, contraddittoria, si aprono per far posto al più duro degli oggetti di realtà: il corpo di Melissa Bassi entra per l’arco della Porta Grande, viene seguito da un applauso; dalle finestre della biblioteca comunale si vede la folla dei vivi richiudersi su di esso.

Esercizi di copiatura: 53 lettere di Paul Cézanne

1

La filologia ha ormai da molto tempo fatto i conti con una questione piuttosto delicata, quanto inevitabile: esiste una situazione, o meglio, una condizione psicologica della copiatura. Dobbiamo in primis al magistero di Louis Havet e al suo Manuel de critique verbale appliquée aux textes latins (1911) le pagine più chiare e illuminanti al proposito. Senza farla lunga: chi copia un testo (ad esempio un manoscritto) incappa inevitabilmente in errori, più o meno involontari. Havet ne elenca alcuni: errori diretti e indiretti, errori di udito e/o di vista, senza dimenticare l’influenza del modello, del contesto e – aggiunge – della personalità del copista. Il nostro copista, qui in questione, ha un nome: John Rewald. E’ lui che nel 1937, tra mille ricerche e un accanimento costante, pubblica i risultati di anni di lavoro dedicati al suo artista prediletto, Paul Cézanne.

La paura e la voglia di non essere soli

1

di Gianluca Veltri

Tra qualche tempo, con l’ultimo album degli Amor Fou “Cento giorni da oggi” ripasseremo in rassegna questi anni. Con un’operazione che classicamente si definirebbe “coraggiosa”, la band milanese ha smesso in tempi vertiginosi l’aura cantautorale, vagamente melanconica, che aveva giustificato il credito guadagnato nell’ambito della musica d’autore. L’electro esistenzialista di “La stagione del cannibale”, la scrittura pensosa di “I moralisti” — i due primi lavori — sono stati spazzati via da un vortice, dentro cui è finito il nuovo, terzo disco. Doveva essere un album-concept sui giovani, disse Alessandro Raina, il front-man e autore del gruppo. Una sbornia di gioventù. E gioventù è stata, però da una prospettiva che nel frattempo è cambiata, perché Raina e compagni è come avessero aperto le finestre sul frastuono del mondo, facendosene invadere. Dalle loro camerette, anziché guardarsi l’ombelico, hanno allungato la vista sugli altri continenti, su quel che accade a varie latitudini, riportandolo poi a casa. Sentirsi immersi in un tutto. Un viaggio in Africa proprio nell’anno delle rivoluzioni maghrebine ha dato a Raina nuove chiavi di lettura. E così il singolo che lancia l’intero album è una canzone dal titolo “Alì”; “La primavera araba” è un altro dei brani portanti, insieme a “Le guerre umanitarie”. È come se le canzoni volessero costantemente creare un ponte tra le nostre cose (quasi sempre asfittiche, piccole, rinchiuse in sé) e tutto quello che nel frattempo sconquassa il mondo. “I figli dei persiani di Berlino Ovest” sono visti in controluce ai “figli dei precari di Milano”: i primi, felici come giovani leoni, si dipingono il viso col sole; i secondi, golosi come giovani vampiri, si riparano il viso dal sole (dimenticando di esistere). In “Goodbye Lenin”, brano che prende in prestito il titolo di un film (non è l’unico), viene eletta a epitome di risveglio la rinascita della Germania orientale uscita dal giogo comunista. La decadenza del mondo occidentale viene letta nelle crepe del presente, dalle derive di Scientology alla dittatura televisiva. “Bombardiamo Tripoli/ puniamo chi bestemmia nei reality”, canta Raina paradossalmente — ma nemmeno tanto — in “Le guerre umanitarie”. Accostando due eventi di siderale distanza, che però arrivano appiattiti davanti ai nostri schermi: i bombardamenti su una città araba e la blasfemia nel reality show. Ma non c’è denuncia, non c’è protesta. Le canzoni sono come cartoline spedite dal mondo. “I volantini di Scientology” enumera come in un’indagine: “tre milioni di persone consumano un mese di vita fra le code dei nuovi I-phone […], tre milioni di ragazze dimagriscono non sempre per colpa di Photoshop/ hanno soltanto vent’anni e pochissime non sogneranno il titolo di Amici”. Piccolo trattato di sociologia.
Intriso di presente, il nuovo lavoro degli Amor Fou ha in “contemporaneità”, oltre che in “gioventù”, le parole-chiave. Tempo reale. Vitalità, voglia di vita, straripante. Il titolo “Cento giorni da oggi” è il “carpe diem” degli Amor Fou. Descrive un perimetro sul domani immediato. La visibilità sul futuro non può superare, se non di poco, i tre mesi: cento giorni. Oltre questo sipario temporale non si possono stilare programmi. Niente nostalgia del futuro, bando alle malinconie. Il palinsesto è questo.
I lemmi e i nomi che troverete in queste tracce oltre a i-phone, reality, Photoshop e “Amici”, sono: Erasmus, social network, Ikea, rave, flash mob, sesso sicuro, master, Saviano, mercato, Thyssenkrupp. Musicalmente i nuovi versi di Raina non potevano più accompagnarsi ai consueti vestiti cantautorali. Un disco poco italiano, “Cento giorni da oggi”, e una svolta musicalmente poco praticata, quella degli Amor Fou. Se si eccettuano possibili rimembranze del Battisti di “Anima latina” e dell’assai influente Battiato di “La voce del padrone”, i riferimenti sono tutti anglosassoni. Le influenze più remote, classicamente anni ’80, affondano negli ascolti di Cocteau Twins, Cure, Talking Heads, Flaming Lips. Ma è soprattutto nel brodo recente che vanno ricercati i maggiori link. Più di De Gregori, allora, ci troverete The Drums, e un pizzico dei Vampire Weekend anziché la rimembranza di un De André. Oggi gli Amor Fou guardano più agli Arcade Fire che ai Baustelle, ma in fondo, sebbene con ben altra profondità, anche ai Coldplay. Perché un’altra parola chiave degli ultimi Amor Fou è “POP”. Variamente declinato: dream-pop, pop-funky, synth-pop, afro-pop. Non è smarrita quella cifra citazionista che connota la nuova canzone d’autore (“vengo a prenderti stasera”, “ti voglio cullare”, “per fare un frutto ci vuole un fiore”). Ma più di questo, resta altro, dall’ascolto di “Cento giorni da oggi”. Resta il tentativo di far circolare l’aria quando una casa è stata troppo a lungo chiusa, e questa casa è l’Italia dell’ultimo ventennio. Respirare a pieni polmoni. Mettere in circolo l’energia. Urlare a più non posso, e non più da una cameretta angusta, “la paura e la voglia di non essere soli”.

(qui il video e un’intervista ad Alessandro Raina)

Melissa e Nicola

28

di Antonio Sparzani
Una ragazzina e un ragazzino. Adesso sono morti tutti e due.
Melissa lo sanno tutti chi era e che è morta dilaniata da un’esplosione davanti alla sua scuola di Brindisi, mentre vi si stava recando, da Mesagne, come tutte le mattine. Atroce, semplicemente atroce.
Chi sia Nicola lo sanno in meno persone:

MGUS

1

di Fiammetta Cirilli

 

Nel vagone si respira l’aria dei treni pieni: un bambino di qualche anno, non distante dal posto occupato da Giulia, piange nevroticamente; mentre altri due o tre, appena più grandi, ghignano e si agitano, improvvisano giochi, sgambettano noncuranti dei rimproveri delle due donne che sono con loro. Un tale di mezza età minaccia, prima ancora che il treno parta, di chiamare l’uomo nero.

Giulia osserva e non dice nulla. Non sorride. Sfiora con la destra la tempia e la tiene premuta qualche istante, come se avesse l’emicrania. Ma sta bene. Nonostante tutto, oggi può dirsi in buona salute. Non le pesano l’insonnia accumulata negli ultimi giorni, la cattiva digestione, l’aver fatto da una settimana in qua solo pessimi pasti: roba confezionata, riscaldata magari, trangugiata controvoglia.

An Exciting Mission

3

di Monica Jansen

“Caution Church Van. An excited Church with an Exciting Mission”: guardando questa avvertenza sul retro di un pulmino di parrocchiani, posteggiato accanto alla ‘cappella’ di Hyde Hall sul campus della University of North Carolina a Chapel Hill, mi sono chiesta se potesse valere anche per la congregazione che per tre giorni, inizio maggio, lì si è ritrovata per discutere i pro e contro della “Anomia della terra” (titolo del convegno). Il progetto veniva da una rete internazionale di ricerca creatasi l’anno scorso tra le università di Amsterdam e Utrecht, Parigi (Nanterre), Michigan e Chapel Hill con il titolo generale “Precarity and Postautonomia: the Global Heritage”. Una delle conclusioni più sorprendenti del convegno-“assemblea”, almeno per me, è stata che l’autonomia concepita nell’Italia travagliata degli anni Settanta, non solo ha conquistato l’intellighenzia accademica statunitense in questi primi anni 2000, ma starebbe perfino cambiando la società americana nei suoi fondamenti. Gustavo Esteva, professore/attivista trasferitosi negli USA dal Messico nel 1954, nel dibattito conclusivo ha complimentato gli americani per il loro risveglio politico, con un (ironico?) “welcome to the boiling!” Ma cosa vuol dire applicare la (post)autonomia alla realtà sociale e economica delle due Americhe: dico due perché l’America del sud è ampiamente rappresentata nelle università dell’America del nord e lo spagnolo è ormai seconda lingua se è lecito trarre conclusioni dalle doppie scritte inglese/spagnolo nei servizi pubblici. E cosa si intende per “autonomia” se si estrae il concetto dalle sue origini operaistiche degli anni Settanta in Italia, segnati non solo da rivolte di studenti e operai ma anche dal terrorismo, di destra, di sinistra, e di Stato? Come ha osservato giustamente Andrea Righi, autore di Biopolitics and Social Change in Italy (2011), i pensatori che negli Stati Uniti vanno per la maggiore, da Negri e Virno a Bifo, son tornati alle giovani generazioni italiane dopo la loro riabilitazione nei campus americani. Un altro partecipante faceva notare invece che il nesso tra i Black Panthers e Autonomia non era stato indagato a sufficienza mentre era essenziale per comprendere il valore sociale del pensiero radicale negli Stati Uniti. E che risposta dare all’indignazione di una relatrice, rappresentante dei diritti degli indigeni americani, i first nation, non inclusi da nessun relatore nella ‘moltitudine’ dei richiedenti diritti, da Autonomia a Occupy ad Anonymous? Intanto, seduta accanto a me, una signora legge un giornale locale recante in prima pagina la foto di un poliziotto con sotto la dicitura “Life without Activism would be dull”, la vita senza attivismo sarebbe noiosa. In quale quadro concettuale si deve allora concepire l’attivismo, che per molti dei presenti al convegno andrebbe diretto contro lo Stato? Per tornare alla domanda sugli indigeni: forse, come ha suggerito un relatore, la strategia Occupy di diventare invisibili, di fondere la propria soggettività con quella dei passanti che popolano la strada, è più difficile da realizzare quando si appartiene a una minoranza “visibile”? Osservazione contraddetta da altri secondo i quali nel movimento Occupy negli Stati Uniti sono state proprie diverse minoranze specifiche, come i caraibici newyorkesi, a prendere l’iniziativa per azioni locali tipo ‘urban gardening’ che hanno funzionato come nuclei di aggregazione. Ma allora come la mettiamo con un episodio Occupy in Messico, dove il comitato organizzatore ha violentemente rifiutato i rituali iniziatici di un gruppo indigeno, provocando la scissone del gruppo d’azione? Contraddizioni su contraddizioni, paradossi che generano altri paradossi: in questo convegno, l’ambivalenza sembrava il punto di partenza per intravvedere le possibilità di legare l’astrazione teorica a modalità nuove di intervento politico. Karen Pinkus, per esempio, professore di letteratura italiana, ha preferito lasciare da parte l’intervento sulla fiction preannunciato, per richiamare l’attenzione sul gigantesco problema del cambiamento climatico e sull’azione concreta degli attivisti nella zona della sua università, Cornell, contro le tecniche di sfruttamento chiamate ‘fracking’; questi attivisti fanno leva, paradossalmente, su uno dei provvedimenti americani più conservatori, ovvero il prevalere della sicurezza dei cittadini in situazione di pericolo. Però, un altro partecipante aveva apposto sul suo “mac” un adesivo con lo slogan: “the green scare”, affermando che occorre resistere contro ogni strumentalizzazione della paura del cambiamento climatico, che distoglie la nostra attenzione da altre emergenze più problematiche. Nonostante le controversie interne, tutti i presenti sembravano d’accordo con la “missione” di cui gli intellettuali dovrebbero farsi carico per –almeno – limitare i danni. Molti di loro sono attivi sia nell’università sia in movimenti, che talvolta sono anche accademici: Elise Danielle Thorburn, dottoranda e rappresentante di EduFactory, ha lanciato un appello a favore degli studenti in Quebec, le cui manifestazioni contro l’aumento delle tasse sono state represse con violenza dalla polizia, con tanto di feriti e arrestati, e quindi notevoli costi legali per il movimento. George Caffentzis, professore di filosofia dell’università di Southern Maine invece ha chiesto solidarietà con la lotta studentesca contro il debito del prestito di studio, che negli Stati Uniti pare sia ancora più grave di quello della carta di credito. Si sentiva insomma che alcuni partecipanti provenienti da varie aree di attivismo, si aspettavano che i relatori non offrissero solo analisi teoriche ma concepissero anche strategie pratiche. E si è creata anche una divisione tra gli antagonisti del capitalismo e chi sosteneva che il capitalismo ormai capillare sia piuttosto un nemico interno; tra chi sosteneva una visione anti-umanistica della lotta, proponendo una dimensione impersonale allargata alle entità di animali e molecole, e chi riteneva essenziale riportare i problemi a realtà concrete e soluzioni pragmatiche; tra chi si sentiva attratto all’‘anomia della terra’, che oltrepassa il concetto territoriale di Stato, e chi invece rigetta una critica irresponsabile e elitaria dello Stato. Un esempio: l’autonomia sanitaria può funzionare senza l’assistenza da parte dello Stato?

Per me, partecipare a questo convegno, è stata un’esperienza davvero molto eccitante, ma che perde la sua pertinenza se non ci si sforza di comprenderne le ambivalenze, le contraddizioni e i paradossi. Non per fermarsi all’impotenza della complessità, ma proprio per poter aprire altri orizzonti di pensiero. E perciò la sfida posta dall’anomia della terra, lanciata dall’organizzatore Federico Luisetti sulla scia del filosofo tedesco Carl Schmitt, ha funzionato bene come propulsore provocatorio che ha liberato diversi tipi di vitalismo, complementari e conflittuali.

Per ulteriori informazioni: postautonomia.org

Da “Le Qualità”

11

di Biagio Cepollaro

1.

il corpo si rende conto che senza secernere un po’
di gentilezza non offre spazio né accoglimento
in cui l’umano possa trar conforto dallo specifico
delle sue peregrinazioni: è come se uno dovesse
simulare l’arco aperto del porto che ferma
il mare ma che non trattiene tempesta o male
ma lui non può: è ancora colmo d’odio che è
olio che dal vaso trabocca ad ogni occasione
e così vorrebbe lui una specie di miele o di oblio
così – come si dice – morde la serpe coda ch’è sua

Piazza Macao

14


di Gianni Biondillo

(ero in Piazza Macao il giorno dello sgombero. Ho scritto una cosa, “all’impronta”, che solo ora riesco a pubblicare)

“Sei stato a Macao?” mi chiede via skype Marco Rovelli e io non capisco la domanda. Vengo a conoscenza così dell’occupazione della torre Galfa, gioiello dell’International Style meneghino tanto amato da Gio Ponti. Ma quelli erano gli anni Cinquanta e bastava Melochiorre Bega per farsi ammirare dal mondo, senza bisogno di chiamare archistar irachene o giapponesi per rifare il trucco alla città. Ho passato, per lavoro, buona parte della scorsa settimana fuori Milano. “Ci vado appena posso”, ho risposto, convinto che l’occupazione sarebbe durata più a lungo. Non per romantico spirito ribellista, ma per ingenua convinzione che l’inerzia avrebbe sopraffatto tutto, come al solito. In fondo il grattacielo è rimasto vuoto per quindici anni, a pochi passi da un ganglio urbano in piena trasformazione. Un vuoto sordo, incomprensibile. Che artisti, musicisti, designer, scrittori, avessero deciso di trasformarlo in un luogo vero, pieno di contenuti condivisi con la cittadinanza mi sembrava una cosa importante, oggi, in un tempo del quale persino il Ministro della Cultura sembra un desaparecido (qualcuno di voi sa cosa sta facendo? Ha notizie dal Ministero? Com’è che inizio a provare una nostalgia indicibile per Bondi?).

Come al solito la sinistra meneghina non ha capito niente. Il capogruppo PD al Comune, Carmela Rozza, innervosita, ha trattato gli occupanti come dei perdigiorno radical chic. I “cosiddetti creativi”, così li ha apostrofati, vadano a Quarto Oggiaro, ché lì c’è bisogno di cultura. Eppure Rozza, per la sua storia personale, dovrebbe sapere che in quel quartiere già molta gente lavora sul territorio, organizza eventi, invita scrittori. C’è Vill@perta, Quarto Posto, Il Baluardo… Associazioni che fanno tutto – e tanto – nell’indifferenza dei media e, sospetto, della politica. Occupare la Torre Galfa – il “torracchione” che, nella Vita Agra di Lizzani, Ugo Tognazzi vuol far saltare in aria -, trasformarla in un “Temporary Cultural Center”, dopo tanti inutili “Temporary Shop”, è un gesto oculato, intelligente, fortemente mediatico. Significa, in breve, che la democrazia partecipata, quella che ha portato a Palazzo Marino questa giunta, vuole fare di un simbolo del capitale finanziario un luogo di cultura popolare.

Perché questi che sono stati sgomberati stamattina non sono ragazzi capricciosi, finiamola con la retorica paternalistica dello Stato forte ma giusto. Li vedo, ora che li ho raggiunti in bicicletta, mentre occupano la strada, trasformata in una forzosa piazza pedonale. Ci sono studenti universitari, designer, artisti, musicisti, scrittori. Non c’è la cupa e passatista atmosfera da centro sociale – “poche birre, niente cani”, m’è stato detto, per gioco -, sembra più un vernissage, un Fuori Salone. Questi con cui parlo sono persone che vorrebbero e dovrebbero vivere di cultura ma non ce la fanno, perché mai come in questi anni l’unico talento che potrebbe farci uscire dalla crisi, il loro, viene continuamente represso. Sono la classe creativa, gli intellettuali, gli artisti, che nel resto d’Europa avrebbero già spazi dove esprimere le loro idee innovative, senza doverli rubare ad un capitalismo indifferente alle novità. Sapevano benissimo di aver forzato la mano, sapevano benissimo che li avrebbero sgomberati. Sono usciti senza opporre resistenza.

Guardo i pochi poliziotti e finanzieri in assetto da battaglia, che presidiano l’ingresso, sbadigliando sotto il sole. Nessuno li considera, tutti presi come sono a inventarsi altre forme di lotta creativa. Mi dispiace davvero di non aver visto i concerti gratuiti, le letture, i dibattiti dentro la torre, assieme a loro. Di non aver goduto del panorama agli ultimi piani. Ho perso un’occasione, penso. Ma, quel che è peggio, è che forse anche la politica ha perso la sua, di occasione. Speriamo sappia recuperare al più presto questo inespresso desiderio di dignità e di gioia collettiva. Conviene.

Enel, il carbone e Greenpeace

0

di Jan Reister

A fine marzo 2012 Greenpeace Italia ha lanciato una campagna contro l’uso del carbone nelle centrali termoelettriche di Enel. Lo scopo è “costringere l’azienda ad abbandonare l’uso del carbone per adottare un nuovo piano industriale, che segni un forte investimento sulle fonti rinnovabili”. La campagna in sé è meritoria ed vi invito a conoscerla e sostenerla. In questo articolo vorrei invece fare alcune considerazioni critiche sugli aspetti tecnici e sociali della campagna digitale, e sui problemi e prospettive che possono avere analoghe iniziative di attivismo civile in rete.

 

Il sito web della campagna: www.facciamolucesuenel.org

Facciamo luce su Enel è una campagna ufficiale di Greenpeace Italia. I comunicati, le iniziative e la documentazione delle azioni sono raccolti sul sito dedicato: esso presenta al pubblico i materiali della campagna e le notizie, cerca di coinvolgere le persone nel sostegno all’iniziativa ed è il luogo in cui la comunità degli attivisti sostenitori si incontra e cresce.

Ciò che colpisce immediatamente sul sito web è l’uso professionale e sofisticato della rete e dei social network. Dove una campagna tradizionale avrebbe chiesto la firma ad una petizione ed al massimo una donazione, Facciamo Luce su Enel cerca di usare tutte le possibilità sociali della rete per divulgare il messaggio e coinvolgere più strettamente i sostenitori. Per farlo utilizza tecniche di gamification (ludicizzazione) che trasformano il sostegno alla campagna in un percorso personale, fatto di riconoscimenti, premi e rinforzi sociali, e progettato per divertire ed appagare il sostenitore.

un gruppo di investigatori climatici al lavoro

Il problema del carbone viene quindi proposto nella cornice di un’indagine criminale fittizia secondo l’immaginario delle serie televisive alla CSI: un gruppo di investigatori con tanto di tuta banca e torcia in pugno accoglie dalla home page il visitatore invitandolo ad unirsi alla squadra. I danni ambientali sono “il crimine”, il carbone è “l’arma”, “l’indiziato” è l’Enel e “la missione” proposta all’attivista è diventare “investigatore climatico” ed inviare un “avviso di garanzia” climatico ad Enel.

 

Iscrivendosi si accede ad un profilo personale (qui un esempio) in forma di dashboard (cruscotto) che propone diversi percorsi di attività (dalla diffusione della campagna al coinvolgimento di altre persone alla raccolta di documentazione) corredati da un punteggio, medaglie e distintivi con cui arricchire il proprio profilo ad ogni azione fatta. In un riquadro è visibile la classifica degli attivisti e degli amici dal punteggio più alto, in un altro le persone attive in tempo reale sul sito. In palio ci sono gadget per i primi classificati, per stimolare l’emulazione e lo spirito competitivo.

Scelte tecniche

Il sito della campagna è realizzato con WordPress e componenti personalizzati, come spiega Salvatore Barbera, responsabile Campagna Clima. L’autenticazione è integrata con Facebook, mentre le attività per gli iscritti facilitano l’uso di Facebook e Twitter per la diffusione del messaggio e per l’acquisizione di nuovi partecipanti. Il sito tuttavia è autonomo, ha un proprio database di utenti ed usa le reti sociali in modo strumentale, senza delegare all’esterno la gestione degli utenti che avviene internamente, in un percorso anche tradizionale: invio di newsletter, coinvolgimento nelle altre iniziative di Greenpeace, sostegno all’associazione.

badge pedinatore

Punteggi, badge e referral sono gestiti a livello software da strumenti di profilazione, fidelizzazione ed affiliazione analoghi a quelli usati nel marketing e nel commercio elettronico, con codici personali nei link da distribuire agli amici, cookie per misurare l’interazione col sito, rank del profilo. Si può immaginare il ciclo vitale dell’attivista in rete: iscrizione, azioni di sostegno, retribuzione (badge e punti), coinvolgimento nella comunità online, donazioni, fine campagna e convolgimento nelle altre attività di Greenpeace.

La demografia dei lettori

badge gola profonda

Suppongo che questa campagna sia stata progettata in base al profilo demografico del sostenitore di Greenpeace, analizzando il Social Graph della pagina Facebook dell’associazione. Una campagna ambientale impostata sul gioco in rete avrà successo? Molto dipende dai partecipanti. E’ facile prevedere che l’iniziativa potrà coinvolgere meglio persone a loro agio in rete, al corrente della cornice narrativa: una fascia di età giovane, fino ai 35-40 anni. Più difficile sarà coinvolgere fasce di età più alte o chi, per forma mentale e preparazione intellettuale si trova a disagio davanti all’esposizione guidata e semplificata di temi complessi.

Il marketing dell’attivismo

Ma è corretto usare sofisticate tecniche pubblicitarie per attività di impegno civile? Tradizionalmente questo è il territorio della società civile, dell’impegno politico di base che diffida dei tentativi di manipolazione.

Una prima risposta si può cercare nella storia di Greenpeace, che ha sempre fatto campagne di comunicazione molto elaborate, basate su azioni spettacolari di poche persone specializzate, ma che è poco radicata nel territorio. Per usare la rete come ambiente di socializzazione e non come semplice canale comunicativo servono competenze e linguaggi differenti da 10 anni fa, e occorre soprattutto sperimentare.

Barbera non ha problemi a pronunciare la parola marketing, che considera un insieme di strumenti necessari per una una comunicazione seria sui temi ambientali. Molti elementi della campagna vengono dalla sua esperienza in precedenti iniziative sul nucleare in Turchia e su Volkswagen, in cui sono stati sperimentati vari gradi di coinvolgimento in rete dele persone, con risultati incoraggianti.

Credo in effetti che il sito della campagna, pur essendo congegnato come un funnel (imbuto), sia differente dai percorsi simili su siti commerciali. Per prima cosa non mira a produrre una vendita, ma piuttosto l’ingresso nella comunità dei sostenitori di Greenpeace e la consapevolezza sui temi ambientali. Inoltre, a differenza dei percorsi obbligati nell’ecommerce (merce-carrello-cassa), la dashboard offre un percorso a schema libero, senza tappe obbligate. Piuttosto vi sono analogie con i sistemi di formazione online, dato che la piattaforma misura e premia la raccolta di documentazione e l’aggiornamento, gli “indizi” da raccogliere nel “dossier” (che è analogo al curriculum di studi).

E’ vero tuttavia che il percorso offerto al sostenitore di Greenpeace è ben definito: sostegno, donazioni, appoggio materiale alle iniziative dell’associazione, e solo dopo due anni di documentato e distinto attivismo è possibile presentare domanda di ammissione a socio dell’associazione Greenpeace ONLUS.

Il rischio di banalizzazione

Un ulteriore aspetto critico è la semplificazione del problema del carbone ad uso termoelettrico. La cornice narrativa usata è a senso unico e riduce i temi trattati a unità giocabili, moduli di cui viene già data una definizione. Questo modo di trattare l’informazione è funzionale alla campagna ed è gratificante per chi vi partecipa (vedo un problema, agisco, ho un riscontro), ma rischia di banalizzare la complessità del problema, che ha aspetti sientifici, economici, sociali. Un attivismo ambientale vissuto esclusivamente in questi termini lascerebbe privi di strumenti critici per capire i nuovi problemi che incontreremo in futuro e richiederebbe il costante ricorso alla delega, a qualcuno capace di spiegarci le cose complesse in modo semplice.

A questa critica Barbera fa notare che Facciamo Luce su Enel è una iniziativa a vari livelli, fuori e dentro la rete, e che la campagna si articola attorno ad uno studio approfondito sugli effetti ambientali del carbone commissionato a SOMO, un istituto di ricerca ambientale olandese.

In effetti credo che ogni costruzione di un messaggio persuasivo implichi una scelta degli argomenti e una riduzione dello spazio retorico, specie in una situazione asimmetrica come Greenpeace contro la colossale Enel. Questa impostazione tattica non dovrebbe però precludere la possibilità di approfondire criticamente la complessità del problema, cosa che sul sito della campagna non è facile fare: manca ad esempio una sezione bibliografica, o link a documentazione esterna, a wikipedia (carbone, coal).

Clicktivism o impegno?

badge motivatore

Chiunque abbia organizzato un incontro pubblico attraverso Facebook sa che i partecipanti saranno pochissimi rispetto ai “mi piace” ricevuti e dei rilanci degli amici. Che possibilità di cambiamento sociale ha una iniziativa online a cui è facile e gratificante partecipare, ma che non richiede nessun comportamento concreto nella vita quotidiana? E’ il problema dello slacktivism, l’attivismo digitale dove il basso costo di partecipazione e la facilità di comunicazione creano velocemente grandi aggregazioni online prive però di una presenza offline rilevante.

Rebecca Borraccini, Assistente Nuovi Media, è la persona che mi ha segnalato inizialmente Facciamo Luce su Enel e che segue la comunità sul sito. La sua impressione è che a molti sostenitori l’attività online non basti e che cerchino altre azioni concrete offline, come cambiare fornitore di energia elettrica o installare un impianto fotovoltaico. Questo è un paradosso per la campagna, che non ha lo scopo di influenzare il mercato in ottica di consumerismo, ma che si prefigge invece di spingere per dei cambiamenti in Enel stessa, il principale produttore di energia in Italia. Però è un indicatore di desiderio di impegno pratico molto incoraggiante. Anche la recente campagna per il referendum sul nucleare, che ha coinvolto 2.000.000 persone senza precedenti esperienze attiviste, sembra dimostrare un interesse ad azioni concrete a partire dalla rete.

Il grado di coinvolgimento dei partecipanti si può misurare facilmente dalle donazioni e dagli invii di materiale (adesivi e magliette), io stesso ho visto gli adesivi gialli della campagna per le strade del mio quartiere. E’ importante distinguere tra forme di impegno interne alla logica associativa di Greenpeace (donazioni) e azioni rivolte all’esterno, per quanto piccole (l’adesivo incollato sul lampione, la maglietta indossata, la manifestazione in strada).

Il software è il messaggio

A chi usa solo il martello tutti i problemi sembrano chiodi.

Il linguaggio e gli strumenti software caratterizzano fortemente l’interazione che una persona ha con gli altri. Se un sito web promuove interazioni sociali con gli strumenti del marketing e della pubblicità, c’è il rischio che il frequentatore si senta oggetto di manipolazione commerciale.

Una ulteriore conseguenza dell’abile uso delle reti sociali (Facebook, Twitter) da parte di Facciamo Luce su Enel è un allineamento dei modi espressivi nella campagna, poco sfumati (mi piace, oppure nulla) e unidirezionali: gli investigatori climatici sono tutti personaggi positivi che possono solo  migliorare ancora di più, tutta la negatività si concentra verso l’obiettivo della campagna, Enel. Ci saranno pure attivisti che sbagliano, che usano il carbone nella stufa, che sono ammalati: per loro non c’è un badge, il gioco sacrifica le finezze della vita per gli obiettivi della campagna.

Queste semplificazioni sono la conseguenza inevitabile delle scelte progettuali. Scelte diverse (una campagna decentrata, via email, collaborativa su un wiki…) comporterebbero distorsioni differenti, ma altrettanto forti. Occorre esserne consapevoli, senza negare né assolutizzare come progettisti e come utilizzatori le connotazioni del mezzo che abbiamo scelto per incontrarci in rete.

In attesa dei risultati

La campagna è in pieno svolgimento ed è imminente la pubblicazione dello studio di SOMO sui danni delle emissioni atmosferiche.  Enel da parte sua ha annunciato querela (aggiornamento: la risposta di Greenpeace).

L’abbandono del carbone negli impianti termoelettrici italiani è un obiettivo importante, ma ugualmente interessante (anche se meno cruciale per l’ambiente) sarà conoscere gli esiti sociali di questa campagna: ha funzionato meglio delle precedenti? ha generato impegno critico? e cosa può insegnare questa esperienza a chi vuole costruire spazi di collaborazione e condivisione in rete?

www.facciamolucesuenel.org

 

Ringrazio Rebecca Borraccini e Salvatore Barbera per la chiaccherata e le delucidazioni. Tutte le opinioni non attribuite esplicitamente sono ovviamente mie. Le immagini sono tratte dal sito www.facciamolucesuenel.org. JR

L’editore riluttante. Cartoline dalla Fiera

8

di Marilena Renda

Alla Fiera del Libro di Torino si va per incontrare gli editori, o almeno così dicono. Gli esperti del settore, i redattori, gli uffici stampa, gli scrittori. In ultimo si incontrano anche i libri, la cui quantità è spropositata e la cui presenza fisica, anche volendo, non è facilmente ignorabile. Alla Fiera del Libro di Torino i libri si presentano come un immenso dinosauro cartaceo che lascia sgomento anche il visitatore più volenteroso; anche solo farsi un’idea più che generale di quello che pubblica l’editoria italiana è impossibile, a meno di non interrarsi vivi dentro l’immenso dinosauro.
Ecco come sono andate le cose a me, che volevo solo comprare alcuni libri che mi interessavano e vedere alcune persone che non vedevo da tempo.

LA RIVOLTA IMPOSSIBILE vita di Lucio Mastronardi

5

dalla Settimana INCOM 1961
di Riccardo De Gennaro

Capitolo quarto

Prima che Il calzolaio approdi nelle librerie nella collana dei «Coralli», ampliando in questo modo la cerchia degli happy few che l’avevano letto sul Menabò, via Biancamano propone ai lettori Il maestro di Vigevano. «Siamo tutti molto impressionati», gli confida Calvino in una breve lettera con cui gli annuncia la pubblicazione.

stati caldi di vacanza

3

di Roberto Cavallera

 

stati caldi di vacanza 1

tra sé e sé, una per una, infarcite delizie di casa per forni più capienti. lenti con tutto disputano sul prezzo. non s’alza nessuno. muti sul posto. le corrispondenze su quello che cade. un guadagno sulle vendite i subalterni confusi entrano da dietro danno il resto ne danno un altro s’adoperano superlativi per il lancio. riprendono con gusto, si fanno vedere disgiunti dal piano, più d’uno s’appaga smuovendo un trillo, un tintinnìo

La storia di Genji

4

di Antonio Moresco

Poco prima di partire per il cammino a piedi della Stella d’Italia ho avuto la gioia di ricevere un regalo meraviglioso e ben augurale, una grossa busta dell’Einaudi con dentro uno dei romanzi che amo di più, scritto dalla più grande scrittrice di tutti i tempi: La storia di Genji di Murasaki Shikibu, appena uscito nella traduzione italiana di Maria Teresa Orsi, per la prima volta direttamente dal giapponese antico.
Su questo libro giapponese dell’anno Mille ho già scritto molte volte e chi conosce i miei libri conosce anche l’intensità del mio trasporto per questo impareggiabile romanzo e il mio amore fisico per la sua misteriosa autrice.
Diversi anni fa, quando io e gli altri amici del Primo amore eravamo ancora in Nazione Indiana, abbiamo organizzato al Teatro I una serata su questo libro ancora in cantiere, con la presenza tra gli altri della sua traduttrice, di Andrea Raos e di altri.
Ringrazio e abbraccio Maria Teresa Orsi e – attraverso di lei – anche il corpo o il corpicino di Murasaki avvolto negli strati sovrapposti delle sue vesti.

Le fossoyeur y Don Manuel Bueno, mártir, Miguel de Unamuno – Recensione per la quale è necessario avere letto il libro

0

di Gianluca Cataldo

Durante i funerali i parigini mantengono una compostezza invidiabile. In fila indiana, tenendosi appena un fazzoletto sul naso, non sempre vestiti di nero, si aggirano fra le tombe di Montparnasse nella speranza che il proprio caro venga sepolto di fianco a Guy de Maupassant. Piangono, è vero, poi mi notano a due tombe di distanza, in attesa con la mia macchina fotografica – quest’oggetto violento – e reprimono il naturale sfogo del dolore. Io scatto una foto, poi mi giro dall’altra parte.

Piccolo Karma

1

di Marco Coccioli

Negli ultimi anni si è assistito a un graduale ritorno nelle librerie di una potente e tormentata voce della nostra letteratura del dopoguerra. Carlo Coccioli, nato nel 1920 a Livorno e vissuto in Messico dal 1954 al 2003, anno della sua scomparsa, ha scritto una quarantina di opere, quasi tutte pubblicate nelle principali lingue del mondo.

Quando parliamo di ebook non dimentichiamoci gli scrittori

4

di Virginia Fiume

(d’accordo con Francesco Forlani, ritengo utile dare voce e riprendere qui un articolo pubblicato da Virginia Fiume sul suo blog, e poi rifiutatole da un quotidiano on-line. a.s.)

Si svolge in questi giorni il Salone del Libro,

da “Militanza del fiore”

5

di Carlo Cuppini

.

qui il benzinaio dà ragione
a chi si vuole incendiare

Nuovi autismi 21 – Mia madre

5

di Giacomo Sartori

Mia madre ogni tanto muore, perché a novant’anni passati è abbastanza frequente morire. Poi però in genere resuscita. Insomma, finora è sempre resuscitata. Ricomincia a dire follie, ricomincia a andare al cinema. È appassionata di cinema, vede tutti i film che escono, compresi quelli che non sembrerebbero i più adatti per una signora di novanta e passa anni. E se la stai a ascoltare te li racconta nei minimi dettagli. Ogni tanto fa un po’ di confusione, perché non è mai stata una persona molto precisa, ma insomma prova a raccontarteli pur sempre dalla a alla zeta. Se non stai più che attento ti spiffera nei più minuti dettagli anche la fine, il che può darti sui nervi, soprattutto quando quel film intendevi vederlo anche tu. Del resto mia madre è la persona in assoluto più capace di darmi sui nervi. Dopo averteli raccontati li giudica con un tono sicuro del fatto suo: sentenzia se sono più o meno belli, se vale o meno la pena vederli. Se ha già visto tutto va a una conferenza, a un concerto di  musica classica, o passa semplicemente un momento alla sede della Società degli Alpinisti. Più o meno fino agli ottant’anni partecipava anche alle loro escursioni domenicali, comprese quelle molto impegnative – nei passaggi più difficili c’era sempre qualche giovane alpinista disposto a assicurarla e aiutarla – mentre adesso si limita a salire le scale che portano alla sede cittadina, dove trova sempre qualcuno con cui fare due chiacchiere. Di preferenza si intrattiene con gente molto più giovane di lei, perché non ha mai amato i vecchi. Qualche volta porta una crostata che ha fatto con le sue mani, qualche altra una bottiglia di vino bianco. Oppure passa da una sua amica, o da un’altra sua amica, o da un amico. O anche va a giocare a carte, o alla biblioteca comunale, che resta aperta fino a tardi. Tutto questo anche quando piove o nevica, anche quando è buio e fa molto freddo, e io personalmente non metterei fuori il naso di casa nemmeno se mi puntassero una pistola alla tempia. È una di quelle persone che non riescono a stare ferme, devono sempre fare qualcosa, dire qualcosa, andare da qualche parte. Credo che sia per quello che mio padre aveva sempre quell’espressione un po’ sofferente, quel tipico stiramento della bocca e degli occhi di quando il tramestio che ti circonda ti dà la nausea. Lui però è morto ormai da diversi anni: lei adesso può andare in giro impunemente. Qualche volta va anche a sciare. Teoricamente ha smesso qualche anno fa, ma se ogni tanto uno dei miei fratelli la porta è contentissima, e pur cercando di dissimularlo è eccitata come una bambina. Mia madre ha amato lo sci più di qualsiasi altra cosa o persona, un amore violento e dispotico, e appunto per certi versi immortale. Ha cominciato nella tenerissima infanzia, e per tutta la vita ha sempre sciato molto, ma dopo i settant’anni c’è stata un’ulteriore recrudescenza. Ogni anno dichiarava con una faccia affranta e con la voce tremante che molto probabilmente era la sua ultima stagione, e allora preferiva approfittarne. E davvero ci dava dentro: con i miei fratelli, o più spesso con amiche più giovani che guidavano l’auto e la allietavano con la loro età più giovane. Su di lei incombeva questa terribile sciagura: il giorno in cui avrebbe dovuto smettere di sciare. Ne parlava come si parla dell’ineluttabile fine della persona che ci preme di più, alla quale non sappiamo se potremo sopravvivere. Questo frenetico andazzo sciistico è durato più o meno un ventennio. Ha smesso quando è morta la prima volta, e ci ha messo molti mesi a riprendersi. Dello sci non ha più parlato, come non parla mai delle amiche e delle altre persone che non ci sono più. Nemmeno una parola: era come se lo sci e tutti gli annessi e connessi non fossero mai esistiti. Forse proprio per questo è ancora molto presente, come succede con gli spettri più temibili. Adesso – intendo quando eccezionalmente i miei fratelli la portano con loro – non scia più come una volta, ma scia comunque meglio di quanto cammini, perché in fondo per uno che ci è abituato è molto più semplice assecondare il moto discendente degli sci, anche quando la pendenza è molto elevata, che camminare. Io, che sono nato per così dire con gli sci ai piedi, ho smesso di sciare a quattordici anni, per motivi ideologici, a cui sono subentrate remore ecologiche e paesaggistiche, l’ho accompagnata solo una volta. Salendo in seggiovia, una di quelle seggiovie doppie dove ci si parla fissando il paesaggio montano devastato appunto dagli impianti di risalita, mi ha detto che gli altri sciatori la guardavano come se fosse una mummia, un po’ le dava fastidio. Io le ho ribattuto che si metteva in mente, la guardavano ammirati: e comunque non doveva occuparsi degli altri sciatori. Qualche anno prima era diventata cieca, e allora non poteva più sciare, e tanto meno leggere. Veniva nella città dove sto io a farsi curare con delle tecniche all’avanguardia, ma ci vedeva sempre meno: neanche parlarne di leggere. Per lei era un autentico dramma, perché la sua seconda passione dopo lo sci è la lettura. Non poteva sciare, e non poteva leggere. Invece di arrendersi s’è iscritta alla associazione dei non vedenti, e quindi a casa sua è cominciato un intenso via vai di audiolibri. Io prima non lo sapevo, ma i non vedenti sono molto  organizzati, e grazie a una rete di volontari hanno la versione audio perfino dei romanzi più recenti. Lei aveva sempre qualche difficoltà con le cassette che si incastravano nell’apparecchio, o semplicemente si mescolavano nella scatola di cartone utilizzata per la spedizione, perché appunto non è una persona molto ordinata, pur essendosi sforzata per tutta la vita di provare il contrario, però insomma poteva ascoltare i romanzi dei suoi autori preferiti, come anche scoprire scrittori nuovi: era un grande sollievo. Se le davi retta ti raccontava la trama dell’ultimo audiolibro e te ne dava il suo inappellabile giudizio. Come molti altri ciechi andava anche al cinema, e commentava i film che aveva solo sentito. Poi invece ha inspiegabilmente ricuperato la vista. I medici dicevano che qualche volta capita. Certo non ci vedeva come prima, ma abbastanza per sciare, e con degli occhiali speciali poteva di nuovo leggere, seppure lentamente: era molto contenta. Davvero raggiante, perché a parte i libri a lei piace leggere anche i quotidiani, e per i quotidiani non ci sono cassette. Ha ricominciato a scomparire nelle pagine del Corriere della Sera, visto che è sempre stata molto minuta, e con l’età s’è ulteriormente striminzita. Però la notte ascolta ancora gli audiolibri: ormai s’è abituata anche a quelli. Ha ricominciato pure a guidare, e quindi si aveva sempre un po’ paura che facesse secco qualche pedone, anche se ormai si limitava ai percorsi brevi per andare al supermercato o dal calzolaio. Ogni due anni andava da un ottico specializzato in queste cose, e in cambio di qualche centinaio di euro otteneva un certificato medico comprovante che ci vedeva come un’aquila. L’hanno scorso per fortuna hanno cambiato la legge, e non le hanno più rinnovato la patente. Quindi adesso si muove solo in autobus, e c’è sempre qualche problema di orari o di fermata giusta, perché non è che con l’età uno diventi più ordinato. Lei sostiene che il suo biglietto elettronico è illimitato, ma se ho capito bene si tratta semplicemente di corse prepagate. Quando è stanca prende un taxi, e poi questiona con il tassista perché dice che la volta prima ha pagato di meno. Con l’età è diventata più avara, come spesso succede ai vecchi. Del resto la sua pensione e la reversibilità di quella di mio padre non sono poi così alte, ogni anno si assottigliano un pochino, mentre i prezzi crescono. Uno dei suoi temi preferiti, dopo la montagna e i film e i libri, è il tempo, il tempo atmosferico, ma in realtà parlare del tempo è un trucco come un altro per non abbordare le faccende intime. Quando io da qualche migliaio di chilometri di distanza al telefono le chiedo come va,  lei mi descrive nel dettaglio che tempo fa e che tempo ha fatto i giorni precedenti. Poi mi chiede che tempo c’è dove sono io, e io non le rispondo. Anche la settimana scorsa è quasi morta: al pronto soccorso le domandavano chi era, mi ha raccontato mio fratello, e lei proprio non sapeva rispondere. Li guardava con un’espressione un po’ divertita, e scuotendo un po’ la testa, come quando si ha la data parola sulla punta della lingua, ma proprio non ce se la ricorda. Alcune parole le venivano fuori impastate, altre rimanevano anche quelle incastrate nelle sinapsi dei neuroni. Poi però la mattina dopo ha cominciato a lamentarsi con un linguaggio appropriato dell’ospedale e ha voluto che le comprassero due quotidiani. L’avevano messa in geriatria, ma lei non sopporta i vecchi, non li ha mai sopportati: voleva andare a casa. Al telefono mi ha raccontato la faccenda del pronto soccorso con un tono come se fosse una cosa divertente, ma si intuiva che in realtà un po’ si vergognava. Poi mi ha parlato come sempre del tempo.

(l’immagine: Michel Nedjar, senza titolo, 1993)