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L’età dell’ansia per il ceto medio

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Di Andrea Inglese

Tema del giorno in Francia (ma non solo).

La Francia è entrata da ormai un paio di mesi in quell’effervescenza tipica delle campagne presidenziali. L’intera macchina mediatica macina temi vecchi e nuovi, fattacci d’attualità e spettri ideologici ricorrenti, nodi politici reali e miti nazionali intramontabili. Tra i leitmotiv prediletti, quello del “declino delle classi medie” risulta particolarmente malleabile e permette di essere declinato secondo i vocabolari ideologici più diversi, da quello socialista a quello del Fronte Nazionale.

EDOARDO SANGUINETI Mauritshuis [agosto 1986]

2

 

C’è un gusto di non finito. Continua… Come non cominciano: cominciano tutte con la minuscola. I due punti, le parentesi e le virgole sono i tre strumenti più semplici con cui si può organizzare un testo. All’inizio, con Laborintus, non avevo usato affatto punteggiatura: avevo lasciato il lettore completamente libero. Anche questo mi sembra appartenere fortemente alla modernità. La parentesi, anche, ha qualcosa di vicino a questo: il discorso è carico di innesti, cresce attraverso delle sorte di microtumori, che si innestano su un discorso ancora elementare, semplice. E’ un controcanto.

Edoardo Sanguineti
Intervista di Maria Serena Palieri
L’UNITA’ – 22/11/2002

 

di Orsola Puecher

 
Mauritshuis, settetto, o settimino di brevi ecfrasi di alcuni capolavori fiamminghi ospitati dall’omonimo museo, che si trova al’Aja in Olanda, visitato da Sanguineti nell’86, è un ironico viaggio pellegrinaggio lirico. Possiamo immaginare l’ilare viso del poeta, l’occhio ampio, il sorriso gattolupesco vagare per le sale spigolando dai quadri particolari curiosi, imbastendo gustose fantasticherie e illazioni sui loro protagonisti, sugli oggetti e sui paesaggi, dipinti nei minimi particolari, in punta di sottilissimi pennelli di martore e tassi, nella luce dei loro cieli nordici e cristallini. Ed eccolo allora immaginare storie, dialoghi. E quasi sempre in Sanguineti, in fondo, assistiamo al miracolo di una poesia di piccole occasioni, di concretezza quotidiana, di nomi e cose consuete, di minimi diari di viaggio dal linguaggio parodistico e sottile. L’io narrante, qui, entra ed esce dai quadri come fossero tableaux vivants che improvvisamente tornano ad animarsi, si immedesima nei loro antichi abitatori colti nell’attimo fuggente di 500 anni addietro. Rende intellegibile e vivo il loro linguaggio silenzioso e remoto.
Come il materializzarsi spirituale delle melodie silenziose nella famosa ecfrasi di John Keats ”Ode su un’urna greca”:
 

Le melodie ascoltate sono dolci, ma quelle inascoltate
Sono più dolci; su, flauti lievi, continuate;
Non per l’orecchio sensibile, ma, più accattivanti,
Suonate per lo spirito melodie silenziose
[..]
Vv 11.14

 
La parola, la scrittura resuscita con la particolare lietezza arguta di Sanguineti l’immagine.
E se fosse la scrittura stessa sempre inconsapevole ecfrasi?
Come nella descrizione omerica dello scudo di Achille forgiato da Vulcano, da cui, attraverso e con il verso, sbalzano dal metallo cerchi di immagini su immagini. Figure e figurine animate. E anche, in un punto, una simile quotidianità campestre che in quadro fiammigo starebbe a pennello:
 

In mezzo a tutti colla verga in pugno
Sovra un solco sedea del campo il sire,
Tacito e lieto della molta messe.
Sotto una quercia i suoi sergenti intanto
Imbandiscon la mensa, e i lombi curano
D’un immolato bue, mentre le donne
Intente a mescolar bianche farine,
Van preparando ai mietitor la cena.

ILIADE
LIBRO DECIMOTTAVO
vv 774-781
[ Trad. Vincenzo Monti ]

 

Mauritshuis

da Il gatto lupesco: poesie 1982-2001
ed. Feltrinelli

 

Jan Sanders van Hemessen ⇨ Allegoria: Il Musicista e la sua Musa [ 1550 ca. ]
[ sotto idealizzate spoglie di sua figlia ⇨ Catharina van Hemessen, pittrice, e del marito musicista Chrétien de Morien ]
159 x 189 cm

Jan Pieterszoon Sweelinck
[ Deventer 1562 – Amsterdam 1621]
Fantasia Chromatica

Glenn Gould – con leggero semi impercettibile canticchiare sporadico
tocco preciso e lucente – all’amato ⇨ Steinway CD318&sedia – 1959


1.
Jan Sanders van Hemessen
 
quella ragazza, tenera ma atletica, che mi schizza e mi spruzza, sputandomi gli
                                                                                                                     [alquanti
grumetti del suo latte, spremendomi il suo capezzolo sinistro, sopra la mia
                                                                                                              [flebile viola
tenore (ma che nemmeno qui, però, mi guarda), sarà una vita, a me, che mi
                                                                                                                 [perseguita
con le sue tante trecce (e con tutte quelle sue foglie, diritte lì nella sua testa,
a cresta), per toccarmi, soltanto:
                                                      e adesso ce l’ha fatta: (e mi ha interrotto,
                                                                                                                      [intanto,
questo mio povero a solo campestre): poso a terra l’archetto: e adesso è tardi:
(sarà anche bene intenzionata, quella): (ma c’è il pastore orrendo, che si agita
                                                                                                                   [nel vento,
laggiù in fondo, e mi fa, forse, una specie di segno, che
                                                                                 [mi chiama):
                                                                                                        sento il ciakciàk
delle timide gocce di quella viva cagliatina ardente: (poi, più niente di niente):


 

Pieter de Hooch ⇨ Uomo che fuma e donna che beve in un cortile [ 1658-60 ]
78 x 65 cm


2.
Pieter de Hooch
 
hai ragione, va bene, sono buffo: (le lasciamo da parte, le mie calze): e poi,
                                                                                                                    [nemmeno
so se te ne accorgi, tu, ma è da mancino che io mi reggo la pipa: (l’altra è sul
                                                                                                                      [tavolino:
e se tu insisti, e se, come si dice, è per farti contenta, io me la prendo giusta,
                                                                                                                          [quella,
con la mia destra, dopo): (per me, però, tu bevi troppo, sempre): (e me, non c’è
                                                                                                                      [nessuno,
guarda, che mi guarda): (e te, te invece, te ti guardano tutti, con quella porta
                                                                                                                         [aperta
sulla strada): (e me, seduto, me non mi vede neanche il campanile): (e adesso
                                                                                                                             [poi,
come si dice, io tolgo tutto il mio disturbo, e chiuso): (ma qui in cortile, a due
                                                                                                                            [passi
da noi, sta nostra figlia, rigida, la frigida: non capisco che cosa tiene in mano: 
è chiaro, ma però, che ci sta triste da morirci,
                                                                           [quella):
                                                                                         perché, comunque, come
si dice, dunque, io così mi consumo: ho giocato e ho perduto: (e adesso, io
                                                                                                                        [fumo):


 

Frans van Mieris ⇨ Scena in un bordello [ 1658 ]
42.8 x 33.3 cm


3.
Frans van Mieris
 
è già un invito, con pudore, all’amore, un goffo fagotto di materassi,
                                                                                                        [mollettoni, ecc.,
che pendono, a prenderci, su, l’aria, dall’alto bordo del soppalco:
                                                                                                             è un altro
invito lì all’amore, ma più giù, un appartarsi di figure (che non ci presto
                                                                                                            [l’attenzione,
proprio) eterne: (ma, in ogni caso, esterne a questo luminoso casotto): (sotto
                                                                                                                         [sotto,
mi significheranno, credo bene, accordo sordo, patetico complotto,
                                                                                                       [dolci pene):
                                                                                                                       ancora,
terzo invito all’amore, è qui una coppia canina che si accoppia (caninamente,
                                                                                                              [veramente):
(e che fu infatti censurata, e velata violata, anzi castrata):
                                                                                                 ma tu, mia grassetta
furbetta, che ti trascuri il bell’addormentato (che io ti tiro il tuo grembiule,
                                                                                                                   [apposta),
e che ti scopri, slacciandoti il corpetto, alcunché del tuo corpo (che io ti porgo,
con due mie dita fragili, alla tua brocca la mia vuota flûte, e la mia bocca
alla tua vuota bocca), lentamente curvandoti, prudente: uh, non mi sei niente, tu,
bella mia, gioia mia, un invito all’amore: sei l’amore sans phrase: (due punti, e
                                                                                                                             [via):


 

Rembrandt Harmenszoon van Rijn ⇨ Lezione di anatomia del dottor Tulp [ 1632 ]
169.5 x 216.5 cm


4.
Rembrandt van Rijn
  
il mio nome è Aris Kindt: fui un notorio criminale: (e fui molto autorevolmente
giustiziato, a suo tempo): (e, alla fine, non male riciclato): al connaisseur turista,
che si degusta, oggi, con gli occhi spalancati, il mio arto guasto (che però pare,
ahimè, un’inguantata protesi, un posticcio pasticcio plasticato), io non richiedo,
per il sapiente e calcolato scempio del mio quieto cadavere, compianto
                                                                                                             [né pietà:
                                                                                                                               a me,
può bastarmi per sempre, a mio conforto, tutto quello che è iscritto negli sguardi
di tutti quei signori bene in posa: (il perplesso e lo stolido, l’imbarazzato e il
                                                                                                                          [curioso,
l’inorridito e il distratto e l’ansioso): (ringrazio il dottor Tulp, naturalmente,
per la sua memorabile lezione, e l’avveduta gesticolazione cordiale):
                                                                                                                     vive et vale:


 

Johannes Vermeer ⇨ Veduta di Delft [ 1660-1661 ]
96.5 x 115.7 cm


5.
Johannes Vermeer
 
sono le 7 e 10, all’orologio: (riconosco la porta di Schiedam e la porta di
                                                                                                                  [Rotterdam):
(sarà scesa la pioggia, questa notte): e sto cercando, adesso, certi piccoli
                                                                                                                    [personaggi
in blu, e la sabbia in rosa: (e ho mangiato patate poco cotte): e adesso sto
                                                                                                                        [cercando
un frammentino di muro in giallo, con una tettoia: non riconosco il cielo, è
                                                                                                                            [troppo
largo: (riconosco che sto morendo, adesso):
                                                                    et c’est ainsi que j’aurais dû t’écrire:


 

Joachim Wtewael ⇨ Marte e Venere scoperti da Vulcano [ 1603-1604 ]
20.8 x 15.7 cm


6.
Joachim Wtewael
 
quanta gente interviene, mentre chiavo una signora che è tanto per bene (e che
me la sconvolgono, così): capisco ancora il marito, che mi arriva lì storto, a
                                                                                                                        [culo nudo,
per la flagranza, per pescarmi, lui:
                                                          ma quel tipo che salta sopra il letto, appeso
                                                                                                                               [sopra,
obliquo, al baldacchino, con un cappello rosso e un bastoncino (e quel ragazzo
                                                                                                                            [osceno,
alle mie spalle), e il tuffatore che mi sorvola, schiacciato lì al soffitto,
                                                                                                                    [spalancando
le braccia (e il vecchio bieco e cieco, accosciato in un angolo, con l’amichetta
                                                                                                                         [appresso,
che mi spia), e l’altro (e l’altra), e l’altro ancora:
                                                                                  [è troppo:
                                                                                                     alzo appena una mano, 
per bloccarmi, con un gesto da vero disperato, gli atleti volteggianti, che mi
                                                                                                                         [insidiano
molto immediatamente: e mi aspetto il mio peggio, da bravo malinconico
                                                                                                                          [balordo:


 

Pieter Claesz ⇨ Vanitas [ 1630 ]
39.5 x 56 cm


7.
Pieter Claesz
 
contempla intentamente, figlia mia, questo morto cronometro (con il nastro
                                                                                                                        [cilestro
e con la chiave), questo bicchiere capovolto, questo vedovo
                                                                                            [portacandela:
                                                                                                                  ho deposto,
sopra i miei scartafacci, già polverosi e corrosi, con tutto quell’ossame molto
                                                                                                                         [umano,
questa mia penna semiesausta, muta: (è un repertorio trito e obbligatorio: ma il
                                                                                                                   [suo vivace
effetto lo fa sempre): e poi è vero, certo: qui tutto
                                                                       [è niente:
                                                                                       (e questo niente è tutto):

Poesie

3

di Franco Buffoni

Il terzino anziano

Erano invecchiati
anche quelli della sua età
con la barba verde tra i piedi
e l’odore di maglia a righe,
ma lui restava
in difesa
pesante, a sentirsi i figli
crescergli contro
e vendicarsi.

Art of dancing

6

di
Francesco Forlani
In uno dei più bei film sull’arte della danza, il momento più alto si raggiunge quando il giovane protagonista, al suo provino per entrare in una prestigiosa scuola, deve rispondere alla commissione sul perché della sua passione.

Billy, posso chiederti quali sensazioni provi quando danzi?
– Non so, all’inizio sono un po’ rigido. Ma dopo che ho iniziato, mi dimentico qualunque cosa ed è come se… come se sparissi. Come se dentro avessi un fuoco. Come se volassi. Sono un uccello. Sono… elettricità. Già, elettricità.
(dal film “Billy Elliot” di Stephen Daldry)

Mi è venuto in mente questo dialogo perché ho da poco lasciato Lipsia, patria di Bach, in una improbabile arte della fuga che ha dettato la sua partitura a questi miei giorni ma forse la vera ragione è perché a Röchen, poco distante da Lipsia, veniva sepolto Nietzsche, colui che più di tutti fece del pensiero una questione di movimento, che “incede a passo di danza”. La creazione artistica, che si tratti di pittura, musica, letteratura, è sostanzialmente danza, e la danza è principalmente energia e l’energia non ha morale, che poi vorrebbe dire che un passo comunichi la verità, che la bellezza di un movimento anticipi la verità, come se non sapessimo che non esiste una cosa bella, un passo vero, un movimento giusto. Infatti la Nona di Beethoven, più particolarmente il quarto movimento, noto come Ode an die Freude., dal poema di Schiller, la troviamo alle Olimpiadi della Berlino nazista e subito dopo come Inno della neonata Europa, con una naturalezza tale da diventare in Arancia Meccanica di Stanley Kubrik, il simbolo stesso di come un’opera contenga al proprio interno il male e la cura di esso. L’energia è così. Non si può controllare, è inodore, incolore, non ha sesso. Non si può evocare che la vedi ma ogni volta che un’opera supera la soglia della mera esecuzione, della giusta composizione, libera la stessa energia di una sedia, sì proprio quella sedia di Vincent con la solarità di un girasole nell’intreccio della seduta, la pipa e il tabacco.

Col Nijnsky appare per la prima volta la geometria pura della danza liberata dalla mimica e senza l’eccitazione sessuale. Abbiamo la divinità della muscolatura. Vi sono molti punti di contatto tra l’arte di Isadora Duncan e l’impressionismo pittorico, come pure tra l’arte del Nijnsky e le costruzioni di forme e di volumi di Cézanne.

Scrive Marinetti nel suo manifesto per la danza futurista. Nijinsky come Van Gogh completamente sovrastato dalla energia, dalla follia, dal silenzio. Così pare quasi di sentire i fragore degli elettrodi piantati nel cranio del povero Momo, Antonin Artaud, rivoluzionario dell’arte della parola balbettata, doppiata, morsicata.
Quello che accade con le opere d’arte è che la loro conoscenza è quasi sempre un atto di consapevolezza che nulla ha dell’usufrutto, o della frequentazione di una scuola, di un salotto, di un’accademia. Quel che succede è simile a un moto violento che sembra sedarsi solo quando chi la viva, ne venga come colpito, fino a piangere, o a danzare.

Testo pubblicato a Gennaio nel catalogo- rivista della mostra Futurismoltre, a cura dell’Arch. Giancarlo Pignataro

Carmelo Bene: la chimera

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Esattamente dieci anni fa moriva Carmelo Bene (Campi Salentina (Le) 1937 – Roma 16 marzo 2002):

La chimera (circa 1913), dai Canti orfici di Dino Campana (Marradi (Fi) 1885- Scandicci 1932)

Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine

Camera verde, sabato 17 marzo: “L’incanto della specie”, di Fiammetta Cirilli

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a Roma, sabato 17 marzo 2012, alle ore 19:30
in Camera verde (via G. Miani 20)

presentazione della raccolta di racconti

L’incanto della specie
Tre contributi sul grottesco contemporaneo

di Fiammetta Cirilli

(Collana Talìa)

Ineditudini: Giacomo Sandron

9

Poesie

di
Giacomo Sandron

cinque minuti prima dell’inizio
bisogna stare già al proprio posto
aspettando che suoni la sirena
marchiato il cartellino con i tappi nelle orecchie
ci si mette il cuore in pace e si comincia

otto ore filate più una per il pranzo per contratto
ci dovrebbero dare un paio di scarpe antinfortunistica
e dei guanti ma niente allora le mani
cominciano a tagliarsi dal primo mattino
si ricuciono e riaprono conficcate dai cartoni
la lentezza con cui si cicatrizzano
sta lì a significare la pazienza che ci vuole
questa lotta si vince al collasso di una delle parti
allo stesso tempo diventare il loro tempo e combatterlo
ritagliarselo chiudersi nel bagno come scampo tenere duro
arrotolarsi le cicche prendersi un caffé senza timbrare
ingoiare arrotondare la mezzora de scondiòn

A linea xe come ‘na mama
che sempre te rompe i cojoni,
mai te mola, mai te lassa star,
no se stanca, no sta ferma, no sta sita
ta i nidi dee recie se rabalta
un casin sensa fin, sensa pase,
un martel inciodà inte ‘l ciaf
che no ‘l tase, e paroe e sbrissia in goa
e se stua scafoiando, i denti
deventa daduti da oto, da strenser,
che no le scampi besteme de fora
‘l col come quel de un muss che ‘l tira
i polmoni s-gionfi de spussa
sacheti onti dee scovasse
i nervi o tendini rusine
de fero stendi pani par picar i
strassi de quel che vansa de a creansa.
Tute ‘ste monae davanti ai oci,
pensavo, tute ‘ste monae davanti,
tuti i giorni santi, i oci par primi
i se suga, i se mastrussa, i se fissa
orbi come dentro un specio che no specia.

la benedizione quotidiana dell’assegnazione del reparto
deciderà del tuo supplizio se sarà lombare o più su dorsale
se ti tireranno i tendini lungo le braccia o perderai
la sensibilità dei polpastrelli se ti sveglierai
nel cuore della notte continuamente informicolato
da quando ho cominciato a lavorare non cago più come prima
dal naso mi escono solo bruni pezzetti che sembra catrame

Mi, pensavo, no so se ghe a vanto
no so ancora quanto combino
a star qua drento, se no scampo,
se vao ‘vanti co e man ingropae
in tuto ‘sto tormento, me deventarà,
e man, a scuminsiar da i dei,
se i no me parte via, se no
i me se sbrega via, se no
i me se schinsa in qualche pressa,
se i resta al posto loro tacai ae man,
che fa fin stran vardarse e man
e trovarli, i dei, tacai
tuti e diese ancora lì al posto suo,
me deventarà, e man, tochi
de fero o plastega o cemento
mani piconi bone da ninte
bone sol che par dar pache
i brassi come pai, duri altretanto,
e spae me se incricarà par sempre
a schena, se anca meti caso
la resta drita, se meti caso no
la se storse come un saèss batùo
dal vento, se no la se marsise a son
de voltaren, pirulìn,
chissà-cos-che-‘l-xe-para-so, me sa che
la restarà in pie come e case
vecie dei paroni de campagna
scavesae, mese dirocae,
muci de rudinasi tignui in pie
co ‘l spuaso, dura più dura
de la ponta de ‘ste scarpe che
me bate sui dei, dura che gnanca
tuto l’amor dee to man rivarà
a moarla pì, ‘na piera a ramengo,
‘na schena de piera de scarto,
e gambe, a furia de andar su e so
su sta linea, e se piantarà
in ‘sto sempio de posto,
no sarà pì bone de far ‘na corseta
do tiri a baòn, andar in bicileta,
trinche inciodae ta ‘l reparto
i pie no se movarà pì
raìse sensa fruto, pensavo, a testa,
pensavo, a testa, pensavo, a testa,
pensavo, a testa, pensavo, a testa,
pensavo, a testa, pensavo, a testa,
pensavo, a testa, a me parte, no torna.

è con la terza settimana di fila che tutto si uniforma
che finalmente la schiena si rompe
il filo asseconda il turno della sveglia mugugnando meno
si uniformano i pensieri tra le fila dei reparti le bestemmie
rabbiose sfilate a forza dai denti esplosioni
di cristi e madonne che squarciano il petto
e danno sollievo il tempo che durano sono un canto
sono un canto che le mani sono dure per sempre
non basta la crema idratante
non toccano più queste mani non toccano
premono afferrano spingono tirano
non toccano si dimenticano come fare
come posso infilare queste dita
nella bocca della donna che mi piace, come farei,
aprirei delle voragini

Cussì scuminsia, pensavo, un toco
par volta, pensavo, sensa un lamento,
pensavo, cussì devento, pensavo,
un toco anca mi, pensavo, ma
no tanto par dir, pensavo, un toco vero,
pensavo, un toco de tochi, pensavo,
toco dentro tochi, pensavo, tochi
montai su tochi, toco de tochi
strenti co’ altri tochi, pensavo, muci
de tochi compagni, pensavo,
tuti tochi de tochi tuti,
pensavo, tochi tuti quanti

casca tochi pici
casca come strafanici
casca tochi tochini tocheti de pan
casca tuti i tochi da e man
i va par tera se missia ai bissi
se mistura ai strassi
i tochi deventa tocuti deventa fregoeti
deventa granei che no te vedi co i oci
deventa pici, pì pici dei peòci
e i sparisse

Val di Susa, Stoccarda, Wall Street:scopri le differenze

28

di Helena Janeczek

Proteste che vanno avanti per anni, presidi e blocchi ad oltranza, cariche della polizia con centinaia di feriti, qualcuno quasi accecato dai lacrimogeni, manifestazioni a cui affluiscono in 100.000, ripercussioni elettorali, consultazioni- persino referendarie – per risolvere lo scontro tra cittadini e politica. Tutto questo è avvenuto a Stoccarda, capitale di uno dei Land tedeschi più ricchi e conservatori: per non far scavare un tunnel, abbattere un tot di alberi, spendere denaro pubblico per l’ampliamento di una stazione ferroviaria.

Nuovi autismi 17 – La mia faccia

2

di Giacomo Sartori

La mia faccia non si può cambiare. O meglio, forse con le tecniche di   adesso si potrebbe, ma ci vorrebbero determinazione, fiducia nei medici, simpatia per gli ambienti ospedalieri, spregiudicatezza, fede nelle sorti progressive dell’umanità, soldi, coraggio, intraprendenza. Tutti orpelli che mi mancano. E poi mi conosco, sarei altrettanto scontento di quella nuova. Anzi, mi sentirei ancora più beffato, sarei ancora più a disagio. Senz’altro rimpiangerei la vecchia, quella di adesso, perché come dice mia moglie una delle cose che mi viene meglio, come a tutti i nevrotici di una certa gravità, sono i rimpianti. Mi struggerei di nostalgia per la mia faccia svanita nel nulla, mi sembrerebbe di essere infelice perché non l’ho più. Sono fatto così. Senza contare che in fondo ci sono attaccato alla mia faccia di cazzo:

Houston we have a…

28

… P FUNK! (Live 1976)*

I debiti illegittimi. Intervista a François Chesnais

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A cura di Andrea Inglese

Traduzione di Ilaria Bussoni

[Pubblico la versione integrale dell’intervista apparsa in versione ridotta sul n° 16 di “alfabeta2“]

François Chesnais, professore associato di economia all’Università di Paris 13, ha un lungo passato di studioso e militante. È stato membro del partito trozkista e ha partecipato alla nascita, nel 2009, del Nuovo Partito Anticapitalista.

Caccia alla tigre

4


di Riccardo Ielmini

In memoria di Simone Cattaneo

Quando il mio amico Walter Primi tornò a casa, nella tarda primavera di quell’anno, non era più lo stopper che faceva coppia di centrali con me nei tornei estivi, quando ci chiamavano gli spietati. E nemmeno il chierichetto senza fronzoli, con la cotta troppo corta che gli scopre le caviglie, il chierichetto di cui si fida ciecamente don Toni. Il giorno che tornò, in licenza o congedo o vattelapesca, era qualcos’altro. Come se mi avessero spedito un fantoccio con il suo nome scolpito nel dna, o una specie di risvolto sbiadito della manica. Un Walter al contrario, un maglione visto di dentro, con tutte le cuciture, l’etichetta e i fili disordinati. Non assomigliava neppure lontanamente al gigante diabolico che mi faceva un cenno con gli occhi brillanti per dirmi che avrebbe preso lui l’attaccante – e fossi stato io, il centravanti, avrei dato tutto l’oro del mondo per non trovarmi, novanta minuti, a meno di un metro di distanza da lui. Come in tutte le coppie che funzionano, io facevo il partner. Io ero la spalla, il buono, il mite. Negli anni d’oro mi mettevo al centro della difesa; cercavo di non pensare a tutta l’angoscia che mi rammolliva le gambe; provavo a chiudere fuori i rumori del mondo; mi segnavo con la croce: e poi, occhi su Walter. Lui era fermo, le mani sui fianchi, il respiro regolare, le gambe piantate a terra, divaricate come i soldatini di piombo della sua collezione, la faccia quadrata e larga, i capelli corti e brillanti d’acqua, e tutto il suo metro e 95 che sembrava non finire mai, prolungato a dismisura nell’ombra sotto i fari del campo. Come una fortezza. Come il vecchio blockhaus austro-ungarico sporgente sul lago, vicino al campo, sferzato dai venti di tramontana. Ecco cosa mi sembrava, ecco perché a quel punto mettevo da parte coscienza, tentennamenti, paure, e pensavo solo alla battaglia che stava per cominciare.
Andò avanti così per due o tre estati, all’inizio degli anni Novanta. Chi metteva su una squadra per un torneo, pensava a qualcuno che non avesse pietà per nessuno. Walter Primi: presente. Poi lui chiamava me e mi diceva il posto, e l’ora. E la paga. Mai giocare solo per il piacere della partita – una questione di principio per lui: altrimenti non ti rispettano più, diceva rimproverandomi le sciocchezze alla De Coubertin imparate da mio padre. Ma a quel tempo ero nella stagione dei grandi rivolgimenti, di mio padre caduto giù dal piedistallo di capitano dell’industria per la storia del fallimento, e Walter mi pareva abbastanza degno di prendere il suo posto. Aveva un suo codice. Una lista di paroloni che lui chiudeva sempre così: e Soldi. Mi aveva riempito la testa con il suo decalogo di comportamento in campo, come dovessi caricarmi sulle spalle il male del mondo. E tutto per una partita di calcio. Ma per lui le cose andavano così.
Era stato l’unico dal quale avessi accettato la lavata di testa per aver lasciato l’università – anche questa «una questione di principio» come sosteneva mentre bevevamo una birra giù, al bar Vela, una domenica di fine agosto del ’94 che non dimenticherò mai. Sì, c’era stata la morte di mia madre, e la brutta storia di mio padre. Ma non era sufficiente, diceva lui, perché mi sgonfiassi come una camera d’aria. Io lo ascoltavo, ma che credibilità aveva lui, per mettermi davanti questioni di principio? Non aveva smesso di dar retta ai principi ai quali lo avevano educato i suoi deliziosi genitori? Non aveva tirato per il collo il destino pensato per lui da suo padre – mettersi in sella alla piccola azienda di antifurti che sponsorizzava almeno la metà dei tornei estivi ai quali partecipavamo? Non aveva deciso da solo cosa fare della sua vita, sprezzando il buon senso, subito dopo la visita militare? Finito il liceo, era partito per la naia. Poi la ferma volontaria. Poi le missioni di pace, e tutto il resto. Forse era la sua dirittura, era questo a tenermi sulla corda, a renderlo inimitabile? Uno che sapeva cosa fare, dove andare. Ed eccomi servito, io con i miei tentennamenti.
Allora, al tempo di quelle memorabili estati del ’95, ’96 e giù di lì, quando tornava a casa per la licenza lunga, allora avreste dovuto vederlo, Walter Primi, lo spietato, arrivare in scivolata, da dietro, sull’ala leggera lanciata in porta, e far schizzare il pallone oltre la rete di recinzione, con l’ala che vola via e da quel momento gironzola spaurita a dieci metri dall’area, poveraccio. O vederlo svettare con i gomiti altissimi in cima ad una mischia di sudore e sangue. Avreste dovuto vederlo, all’apice della sua fama, quando eravamo tutti e due al culmine della nostra parabola di centrali di difesa. Gente cresciuta quando i calciatori non erano fighetti con il codino e gli orecchini e i tatuaggi, come diceva lui per chiarire qual è la gerarchia dei valori. E chiudere i giochi, beato lui.
Chi l’avrebbe detto che le cose sarebbero andate così. Fossero passati i canonici vent’anni da quei momenti, avremmo tirato le somme di qualcosa – io e lui: ehi, ti ricordi com’era vent’anni fa? Qui c’era poco da tirare le somme. Dieci anni nemmeno dopo le nostre stagioni d’oro ci eravamo ritrovati, in un pomeriggio di maggio, ad ammirare le nostre inconcludenze. Solo che Walter era davvero irriconoscibile, con il suo metro e 95 di durezza appallottolato su se stesso. Io, invece, lo stesso incompiuto di dieci anni prima: il mio lavoro di magazziniere con l’incubo della cassa integrazione, le migliaia di libri letti, e i tre romanzi iniziati e piantati a metà della seconda stesura.

Comunque, era tornato a casa. All’improvviso.
Non aveva avvisato nessuno perché non voleva passare per uno di quegli eroi che il vecchio circolo di destra, a Verbate, aspettava di celebrare. Così mi disse. I vecchi rompicoglioni con le loro foto color seppia sulla decima mas, diceva lui. E non voleva nemmeno incrociare quelli della sezione degli alpini. O qualche ragazzino pacifista che gli appioppasse sulle spalle una di quelle assurde bandiere multicolori, gridando frasi incomprensibili e vuote sui destini dell’universo. Quelle puttanelle con vestiti da figli dei fiori comprati a centocinquanta euro, diceva. Alla larga, por favor.
Ci si vedeva giù, al bar Vela, come se il tempo non fosse passato, e fossimo sempre stati lì, per dieci anni e più. Magari fosse stato così. Mi precedeva sempre al primo tavolo a sinistra, nella veranda appoggiata sul lago, di traverso. Arrivandogli di sbieco, lo osservavo: i gomiti appoggiati al tavolo e le mani giunte, i suoi 195 centimetri accartocciati su qualcosa. Questo era quello che pensavo: ma forse erano le mie fantasie di scrittore introspettivo. O il bisogno di vedere che era diverso, come se avesse una vita da farsi perdonare. Guardava lontano, da qualche parte, nel chiarore del lago, dove non c’è niente da guardare se non le sagome fantasiose che pullulano all’occhio, in quel bianco di lattigine e nebbiolina.
«Non chiedermi niente» mi aveva detto il primo giorno che ci si era visti.
«Ok» avevo detto io. Ancora oggi mi chiedo se fu la scelta giusta, far finta che non fosse successo niente – e cosa mai doveva essere successo mentre lo scarrozzavano su e giù per le montagne fredde e spoglie dell’Afghanistan, nei giorni in cui io vivacchiavo aspettando che succedesse qualcosa per me, senza crederci davvero, che sarebbe successo qualcosa?
«È così chiaro» aveva aggiunto indicando il cuore invisibile del lago. «Come il posto in cui morire. A sceglierlo. Così». Gli venivano fuori queste frasi. Altro che stopper senza pietà, altro che fortezza. Altro che giganti di pietra. Un singhiozzo senza pianto. Un lamento senza vestiti strappati e urla di dolore. Straziante, per me.
«Troppo bianco» avevo detto io.
«No, bianco giusto. Come latte, come nascere ancora».
Quando attaccava così, non sapevo più cosa dire. C’era qualcosa di fuori posto nei suoi discorsi. Non che la cosa mi pesasse – il mio amico Walter aveva qualcosa di lirico, di sopra le righe, qualcosa che nemmeno lui aveva sospettato di avere. Solo che ogni sua parola sembrava saltar fuori da qualcosa di pazzesco, di abnorme. Come le cose che dici sotto anestesia.
«Una volta ho visto una donna. Una vecchia. L’ho vista in faccia e nel corpo. Un sobborgo di Kabul. Senti, ascoltami. Era senza bende, veli, e tutto quel nero che copre le donne in quel buco del mondo. Una vecchia bellissima, giuro. In una casa, durante un pattugliamento. Lei mi ha visto. Aveva appena preparato il bagno, o qualcosa del genere, in una tinozza. Potevo sentire il suo odore. Non aveva paura. Aveva i capelli lunghissimi, bianchi. La luce che veniva da fuori – una luce accecante che sbatteva sulle pareti terrose del tugurio – le faceva brillare i capelli. Li stava pettinando, o tirando, lentamente. Ha smesso di pettinarsi, e mi ha guardato – aveva visto che ero lì, ma aveva continuato per un po’ a fare come se non ci fossi. Poi mi ha fatto un segno, con la mano. Così – mi fece vedere – come passarsi un coltello sulla gola. Non ho capito cosa volesse dirmi, se voleva dirmi qualcosa: non c’erano minacce lì intorno. Zona bonificata, come dicevo ai miei uomini. È venuta verso di me, e poi – eravamo a due metri, e aveva un odore fortissimo, di incenso – ha chiuso la porta della sua stanza. Mi sono avvicinato, e ho ascoltato. Cantava. Un canto come stesse piangendo. Sentivo l’acqua intanto, muoversi. Ho guardato su, nel cielo, e verso le montagne. Era un cielo pieno di sole, accecante, bianco. E ho pensato che c’era così tanto bianco che avrei potuto perdermi, dimenticare tutto – la donna, i miei uomini, la guerra, tutto. Poi non ho sentito più la sua voce. Allora ho aperto la porta. La donna era sdraiata nella tinozza. Aveva i polsi tagliati. È morta dieci minuti dopo. No, non fare quella faccia – evidentemente dovevo sembrare il ragazzino che ero sempre, di fronte alla vita –. Era bellissimo. La luce accecante che veniva dalle finestre e dal tetto, e la donna che rantolava, e il sangue. Non sono riuscito a fare altro che stare lì a guardare».
«Come adesso» dissi io.
«No. Quello è un altro mondo. Non è per noi».
«Anche qui si muore».
«Sto parlando di un’altra cosa».
«E di cosa parli, accidenti, Walter?».
«Luce, silenzio, vuoto. Un altro mondo. Io dovevo passare di là. E adesso so le cose».
«Quali cose, per Dio?» Mi faceva spazientire. Tutto: vederlo così, sentirlo blaterare frasi sconnesse. Ridatemi il mio amico Walter, lo stopper senza pietà, il soldato duro e inflessibile. Ridatemelo, costi quel che costi.
«Le cose che ci aspettano in quel biancore. Non ne hai idea. Liberazione. Non libertà. Liberazione».
Avevo mollato il colpo. Mi sembrava tutto campato in aria, e mi sentivo venir su dallo stomaco il senso di pietà e commiserazione, proprio quello che non volevo avere parlando con il mio amico Walter. Mi raccontava storie così tutti i giorni. Un’altra volta disse che si era chinato sul corpo di un morto per sentire l’odore di mirra nella sua mano. O di quando si era vestito come un afgano, e aveva girovagato nei dintorni di Kabul per vedere sgozzare le capre, e ascoltare il riso dei bambini. Eppure era lui a dirmi di non chiedergli niente. Col passare del tempo ho cominciato a dubitare che fossero storie vere. Se non avessi saputo da sua madre e dai giornali delle sue note di merito, a Kabul, le sue parole sconclusionate e i suoi racconti mi sarebbero parsi del tutto folli. Cercavo di seguire il filo flebile della sua logica. Quando mi pareva di afferrarlo, quel filo, lui scantonava e non ti lasciava andare giù, all’inizio del groppo dal quale srotolava tutte quelle visioni. Ti guardava, sorrideva, ordinava un’altra birra, e amen.

Per un paio di settimane l’appuntamento quotidiano fu dopo le cinque e mezza del pomeriggio giù al bar Vela. Non sapevo cosa facesse tutto il giorno, mentre io ero al lavoro. Non sapevo nemmeno cosa facesse di notte. Avevo l’impressione che quell’ora che passava con me, davanti a due birre chiare, con la temperatura dell’aria che preannunciava l’estate, ogni giorno di più, fosse come una specie di ora d’aria, o una seduta gratis dallo strizzacervelli. Solo che io non ero una guida spirituale o cose del genere. Mai stato. Non che non mi sarebbe piaciuto: quando ero un ragazzino avevo un debole per le cause perse, per le storie di missionari ai quali mandavamo il riso raccolto nell’atrio della scuola elementare, per i gentiluomini mossi da un’ispirazione divina, o giù di lì, che mollano tutto e infilano le mani nelle piaghe della lebbra o nelle ferite dell’anima. Ma nel 2004 ero solo un uomo di poco più di trent’anni senza arte né parte. Uno specchio generazionale? No. Solo uno dei tanti. E davanti a me il mio amico Walter con i suoi racconti campati in aria, lo sguardo alla ricerca di qualcosa, e il suo metro e 95 traballante.

Poi, un giorno, all’improvviso, è saltato fuori con quella storia.
«Sai cosa vorrei fare, vecchio Sam?» mi chiamava così da quando eravamo seduti allo stesso banco, in terza elementare. Io avevo mandato giù un goccio di birra, e a sentirmi chiamare così mi ero ricordato del compito di latino che gli avevo passato in seconda liceo, quando io promettevo una mirabile carriera e per mia madre rappresentavo la quintessenza del bravo ragazzo, il figliolo-immaginetta da mettere sul comodino prima di dormire. Bei tempi.
«Cosa?»
«Ho visto i leoni, allo zoo di Kabul. Un posto di merda. Merda. E dentro quei leoni mezzi morti di fame. E quei dannati animalisti intorno a fare casino. Nel bel mezzo della guerra, gli animalisti con i fotografi e i giornalisti. E i leoni mezzi morti».
Da quando aveva cominciato a parlare aveva già lasciato almeno tre frasi a metà, ed io ero rimasto interdetto sul da farsi. C’era un balbettio infantile nelle sue parole, nel suo modo di muoversi. Un che di rompete le righe e si salvi chi può. Se l’avessi messo in un campo di calcio si sarebbe ripreso? O avrebbe vagato sulla linea della trequarti chiedendosi cosa fare? Pensai una cosa che non avrei creduto: povero Walter, pensai. Ecco cosa feci.
«Ero sulla camionetta che ci portava da una parte all’altra dell’Afghanistan, e pensavo a quei leoni. Al caos che c’era intorno. Al fatto che loro non se ne accorgevano davvero, perché erano stremati e spaventati, con la bava che gli veniva giù dalla bocca. Uno schifo. I leoni. Avevano occhi affamati. Di liberazione, qualunque cosa fosse. Avrei dovuto abbracciarli. O farmi sbranare, se ne avevano le forze. O sparargli un colpo. O portarli giù, al vecchio zoo safari».
Di nuovo si era fermato. Provai ad immaginarmi la scena. Il gigante Walter su una camionetta del corpo degli alpini che scende in mezzo al deserto e alle montagne vicino a Kabul, con il vento che gli morde via la pelle dalla faccia. Walter lo spietato va a prendersi i leoni – per pietà, per pura pietà – e li trascina via e li carica su un cargo, vigilandoli fino a che non sono in salvo, giù, allo zoo safari. Pazzesco.
«Vogliono chiuderlo» dissi.
«Cosa?»
«Il vecchio zoo safari».
Era vero. Una campagna animalista ferocissima e una serie di incidenti, in pochi mesi, avevano sputtanato una delle più solide istituzioni di Verbate. Tutti noi c’eravamo stati almeno un paio di volte, nella nostra vita, con i nostri genitori. Ah, le allegre scampagnate nella foresta, come Orzowei alle prese con i Masai. E le visite guidate con la scuola, quando capitava di trovarsi a giocare con scolaresche provenienti da posti mai sentiti. Mi era capitato di incontrare il vecchio Attilio. Il vecchio aveva messo su la baracca alla metà degli anni Settanta, dopo un illuminante viaggio in Africa. Era invecchiato con le sue bestie. «Sabotaggi, Sam, non incidenti» mi aveva confidato appoggiandosi al mio braccio. Mio padre era un suo vecchio amico, e con me aveva il modo di fare di uno zio d’America, con i suoi stivaloni e il cappellaccio di pelle.
«Ci sono stati degli incidenti. Fuoco giù ai vecchi padiglioni. E foto di animali in condizioni pessime. Lo chiuderanno presto» dissi a Walter.
«E il vecchio ‘Tilio?» mi chiese. Era a casa da una settimana ed era la prima volta che lo vedevo interessarsi a qualcosa. Come se all’improvviso il velo di latte che gli si era calato addosso si squarciasse, e tornasse a brillargli lo sguardo fiero da gioventù hitleriana. Anche Walter conosceva bene il vecchio, perché un’estate – non una qualsiasi: era l’estate della maturità – ci aveva preso a lavorare per un mese allo zoo. Sveglia prestissimo per la distribuzione di cibo agli animali, per la pulizia delle gabbie, per il deposito di rifiuti. Ci aveva pagato bene, a sufficienza per la prima vacanza da soli: sacco a pelo, ostelli, ragazze abbordate sulla spiaggia e via dicendo.
«Il vecchio ‘Tilio dice che sono sabotaggi, non incidenti».
«Bastardi». Aveva già fatto i suoi conti. Aveva già deciso da parte stare. Lo guardai mentre beveva la sua birra. La mano che restava appoggiata al tavolo tremava. Me ne accorgevo solo in quel momento.
«Andiamo dal vecchio?» mi chiese.
«Adesso?». Ero stanco morto. Domani ho il turno sei-due, avrei voluto dirgli. Non siamo tutti a casa in licenza, avrei dovuto aggiungere. Noi abbiamo da fare, siamo gente che lavora, accidenti, altro che fantasmagorie afgane e malinconie da disadattato. Ma non dissi niente, o dissi di sì: quella mano che tremava sul tavolo mi faceva più paura di quando lo vedevo avventarsi senza pietà sugli attaccanti.

Dopo la visita allo zoo safari non si fece più vedere, né sentire, per almeno un mese. Io non lo cercai, è vero. Non sono il tipo che va a stanare le volpi. Mai stato. Pensai che forse cercava di mettere ordine in quella sua testa piena di luci, e chiarori e magie. La sua testa piena di liberazione, come aveva detto lui quella volta, calcando la pronuncia e facendo un gesto nell’aria con la mano, come se fosse Lawrence D’Arabia. D’altra parte non eravamo più ragazzini: eravamo uomini, ognuno con una vita da far quadrare, tutto sommato. E anch’io, in quei giorni di maggio in cui la natura diventa troppo verde e blu per sopportare il fatto di stare qui e vivere, anch’io avevo le mie preoccupazioni, i miei progetti velleitari, i miei libri da leggere, i miei racconti da buttar giù nel silenzio della camera. Allora sentivo mio padre strascicare i piedi, al piano di sotto, come un’anima in pena alle prese con tutti i ricordi ingombranti di una vita – speranze, rimpianti, rimorsi, e mia madre. Io, di sopra, mi sforzavo di scrivere cose che sarebbero piaciute a La Capria – è questo che pensavo, povero illuso. La Capria, nientemeno: l’unico grande scrittore italiano del Novecento. Un uomo che insegue i suoi flebili sogni, ecco cos’ero. Eppure: chi poteva darmi torto? Chi poteva additarmi come un ingrato, se non chiamavo Walter e non gli chiedevo di uscire dal suo guscio di riservatezza, o oblio, o paura, e venire giù, al Vela, a farsi una birra? Magari incontriamo il figlio del sindaco D., e dai, Walter, ci mettiamo a raccontare tutta la stagione allievi del 1988-89, quando eravamo imbattibili e il figlio del sindaco D. faceva il centravanti, e tu lo pestavi forte negli allenamenti, per farlo diventare più duro, che ne dici Walter? – credete che a questo, a questa retorica il mio amico avrebbe dato corda? Magari arriva anche il Malerba, e ci offre da bere, con quella sua faccia da filosofo perdente, ma ci offre da bere e si mette cavalcioni sulla balaustra del lungolago, e ti chiede di raccontargli com’è il deserto, allora Walter ci stai? – pensate che lui avrebbe accettato, allora? Io non lo cercai, è vero. Per quanto ne sapevo, Walter poteva anche essere ripartito – mai capito io la questione della licenza, e del congedo, e vattelapesca. Poteva essere andata così, se mi mettevo a rigirare la frittata. Un vecchio amico torna confuso e disorientato dalla guerra. Dice cose insensate o quasi. Non è più lo stesso gladiatore di dieci anni prima. Non è più il valoroso soldato che ci avevano detto. Ma poi recupera le forze, come i personaggi di quei romanzi sui sanatori. Lava via tutte le scempiaggini nel sole di casa sua. E torna sul fronte, dove è nato per stare. Senza salutare – e questo è davvero Walter Primi. Non poteva essere così? E poi, non era stato lui, qualche anno prima, a chiudere i ponti con me, a dedicarsi anima e corpo alla sua carriera militare così gonfia di promesse? Ero stato forse io a convincerlo ad entrare nell’esercito? Perciò non mi sentivo in debito, né in dovere di tirarlo fuori dal buco in cui si era cacciato – anche se in fondo avevo capito, sapevo che era davvero un buco. Un fondo di caffè che non si poteva interpretare. Altro che luce, altro che chiarori e rivelazioni. Povero Walter.

Aveva ragione lui, invece. Quel blaterare di liberazione, che arriverà, oh se arriverà. In quei furenti giorni di maggio tutto quel chiarore sarebbe diventato rivelazione di qualcosa, almeno per lui, o per quello che restava del mio vecchio amico roccioso.
Era notte. Dolce, e chiara, e tutto il resto.
«È scappata le tigre» lo sentii dire, con la voce da Caronte che aveva una volta. Mi aveva telefonato lui.
Guardai la sveglia digitale sul comò.
«Walter, sono le due, cosa..?»
«La tigre, giù allo zoo, è scappata. Le puttanelle hanno aperto le gabbie. Mi ha chiamato il vecchio ‘Tilio, mentre ero in giro per il bosco». Dopotutto, aveva finalmente la voce di uno vivo, accidenti – fatti, tempi, personaggi: non quel suo blabla campato in aria.
«Dov’eri? Dove sei?» chiesi io.
«Su, al bosco. Il vecchio mi ha chiamato. Mi ha detto che la tigre non c’è più. Gabbia aperta. E tracce verso il bosco. Ti chiamo da qui. La tigre, la tigre!» e sentivo che avrebbe voluto gridare, ma tratteneva la voce. Vecchio vademecum militare, pensai. Muoversi nella foresta senza che il nemico possa sentirti.
«E cosa ci fai nel bosco? Vieni via, sono le due»: stentavo io stesso a credere a quello che stavo dicendo. Ma era tutto vero. Vera la telefonata, inaspettatamente vera la sua voce, vera la sua presenza nel bosco alto di Verbate, ad est dello zoo safari.
Dunque era così. Forse passava il giorno a dormire e di notte girovagava per i boschi. Era un’anima in pena baciata dalla luna che filtra fra i rami. Cos’era diventato? Uno sciamano, un fauno, un satiro malinconico e invecchiato? O forse il tragicomico rabdomante di se stesso, un poveraccio sconclusionato alla ricerca del suo spirito?
«E cosa vuoi?» chiesi. Cominciavo a vederci più chiaro, e la cosa mi sembrava sempre più pazzesca.
«Raggiungimi. Vieni all’incrocio del sentiero con la pista da cross, sopra la torbiera. Partiamo da lì».
Conoscevo bene il posto. Per tutti gli anni Ottanta era stato uno dei crocevia di tossici di eroina a Verbate. Uno snodo dal quale ci mettevano in guardia le nostre madri, quando partivamo, con le nostre vecchie bici saltafoss. Era l’angolo di confluenza di tre sentieri, nel punto di accesso al rettilineo di partenza della vecchia pista da motocross abbandonata. A un tiro di schioppo dallo zoo. Avevano chiuso la pista – dopo due campionati italiani e un mondiale di sidecar – quando erano partiti i lavori per la costruzione del safari, a fine anni Settanta.
«Ma sono le due di notte» gli ripetei. Dovevo sembrare un disco rotto.
«Vieni. Porta la torcia» e chiuse la chiamata.
Restai a guardare i led rossi della sveglia che bucavano il buio della mia stanza. Da bambino passavo un sacco di tempo rannicchiato sotto le coperte, con la torcia accesa in mano. Il nascondiglio segreto, dicevo a mia madre quando entrava e mi chiedeva cosa stessi combinando, con quell’aria da profugo o terremotato – coperta aggrovigliata, capelli arruffati e briciole di biscotti sparsi sul pavimento. Bei tempi. Mi alzai dal letto, infilai la tuta da lavoro, le mie scarpacce antinfortunio, e scesi giù.

Ci vollero dieci minuti di macchina.
Walter mi aspettava, seduto su un ceppo di castagno. Sembrava davvero uno sgusciato fuori dal sogno di una notte di mezz’estate. Quando mi vide arrivare fece un cenno con le braccia, alzandosi, perché spegnessi il motore e i fari della mia Ford. Accostai e scesi. Dal bosco arrivava fortissimo l’odore di pollini e muschi. Come quando mi portavano, le sere di maggio, a recitare il rosario nelle piccole cappelle votive diroccate, che inaspettatamente tempestavano i sentieri del bosco dai giorni della Controriforma. Allora era davvero tutto incredibile – mia madre come una ninfa che vola nei boschi, mio padre come la quintessenza dell’energia, e io al centro dell’universo. Era successo secoli prima.
«Ciao» dissi dirigendomi verso di lui.
«Stai chino. L’aria diffonde il tuo odore» fu la sua risposta. E chi dovrebbe sentirlo, il mio odore? – volevo dirgli.
«Ora. Seguiamo il sentiero fino alla prima morena, poi facciamo la vecchia pista» mi intimò. Aveva la faccia sporca di terra, come i marines che vedevo nelle fiction dopo il lavoro. Faceva sul serio.
«Hai la torcia? Da’ qui, vado avanti io» aggiunse. Si alzò e cominciò a camminare: da dietro sembrava il gigante di una fiaba, o un cavaliere errante sui sentieri della sua intuizione folle, o il vecchio stopper che imprecava gelido al limite dell’area, portandoci, su tutti! verso la linea del fuorigioco. La luce della torcia toccava le morene di fili d’erba e arbusti, sfiorate dalla brezza che disperdeva i pollini. Camminando potevo sentire le punte delle felci che mi toccavano le gambe, come il solletico di mille invisibili dita.
E ci inoltrammo nel bosco.

C’era un silenzio naturale. Camminavamo senza nemmeno sentire i nostri passi, senza avvertire le nostre traslazioni a pelo d’erba, come se fluttuassimo sulle punte della vegetazione. Ci guardavamo intorno. Dall’altro lato della montagnola, dove c’era il serpente di terra e sassi della vecchia pista, sulle morene di robinie, altre luci bucavano il buio. Un fascio, attraverso le trame degli alberi, sparato in alto, verso il cielo, la luna e Dio – se c’è. Altri ricercatori. Ci arrivava il loro bisbiglio bambinesco. Noi eravamo in silenzio, invece. E al buio. Noi eravamo a caccia. Acquattati fra le felci, ci saliva il sentore della terra nera, e di tutto quello che era lì in macerazione, da secoli, sotto le nostre pance. Walter mi faceva dei cenni, con indice e medio allineati e vicini, come fossimo due controfigure in un film di guerra.
Oltre alla sua faccia di terra, quel suo parlare con le dita era l’unica parvenza del soldato che era stato, e che inspiegabilmente non era più. Come se la scia luminosa sulla quale aveva cavalcato in quegli anni, su su verso il successo che tutti gli pronosticavano, come se quella scia fosse stata tutto un abbaglio, un clamoroso bluff al quale lui stesso aveva creduto, da quando era venuto da me, freddo e luminoso, a dirmi che aveva «messo la firma», nel ’94 o giù di lì. Che gli fosse capitato qualcosa di tremendo mentre era di stanza nei dintorni di Kabul, non l’avevo nemmeno pensato. Non era tipo da facili sentimentalismi. Non uno che si faccia abbindolare da suffragette pacifiste o da vecchi medici di organizzazioni non governative. E nemmeno uno interessato a scoprire i drammi di un popolo, di una terra. Non era mai stato un cuore tenero da redimere. Ma quel gesto, quelle due dita unite ad indicarmi i movimenti da fare – perché la tigre non ci vedesse, non ci sentisse, non sapesse niente di noi – era l’unica traccia di ciò che era stato: il resto era soltanto un fantoccio molle preda di fantasmi e fantasie.
Ed io? Perché l’avevo seguito? Perché mi ero fatto trascinare – letteralmente – in quell’assurda e pericolosissima scampagnata notturne per i boschi? Cosa pensavo di fare, smettere di fare il mezzo fallito e buttarmi in ritardo di quindici anni nel gorgo della vita, come Hemingway, che da ragazzo aveva rappresentato per me la quintessenza stessa dello scrittore che avrei voluto diventare e non sarei mai stato? O volevo fare il profeta disarmato che ammansisce le belve – oh miracolo! – io, minuscolo San Francesco, piccolo Orfeo del millennio? O mettermi a giocare a Sandokan e finalmente, con trent’anni di ritardo, stavolta, diventare l’eroe dei romanzi di Salgari che avevo amato? No. Balle. Era per Walter. E per il brillio sinistro che ghignava nei suoi occhi – quello era. E anche per il formicolio che aveva ripreso a scuotermi come prima di scendere in campo per la finale. Stava succedendo, ecco tutto – e quando succede il resto sono particolari. Illuminazione. O Liberazione. O qualsiasi altra cosa uno voglia dire. Sentivo distintamente i nostri respiri. Percepivo gli odori del mondo. Avevo cominciato a vedere l’impercettibile spostamento della luna, in cielo. E delle costellazioni, dove le frasche diradavano e piccole parentesi di cielo si aprivano sopra di noi. Di là, sulla montagnola opposta, ancora luci alla rinfusa, disordinate, scendevano. Gli uomini delle ricerche stavano pattugliando il bosco. Cercavano la Tigre. Noi no: noi eravamo a caccia, disarmati. La faccenda era diversa, completamente. Walter mi fece il segnale – avanzavamo sugli avambracci, respirando il profumo di milioni di esseri esalanti sotto di noi. Lui sembrava un lunghissimo serpente uscito da una storia diabolica: ma non importava. Importava essere lì. Walter, io, e la Tigre. Noi sulle sue tracce, e lei sulle nostre.

Vidi la Tigre quando ormai la Tigre aveva visto noi.
Dall’altra parte, sul pendio, non c’erano più luci. Gli uomini alla ricerca erano scomparsi in fondo al valloncello, ai piedi del bosco dove eravamo noi. Non ci arrivava nemmeno l’eco delle loro parole di richiamo. Erano come lucciole spente sotto una cappa.
Walter era immobile, gli occhi fermi, puntati in avanti, e il suo ghigno. Chi non lo aveva conosciuto nei suoi giorni di grandezza, avrebbe pensato che fosse cinico, e scettico. O che fosse un povero fallito, se lo avesse visto in quei giorni: un ragazzaccio fatto a pezzi dalle sue debolezze e da fantasmi che avevano piantato il loro vessillo nel suo cervello fragile. Io lo guardavo davvero, e sapevo cosa stavo guardando: vita immobile, un grumo di nervi pronto ad esplodere. Mi fece un cenno rapidissimo, con le due dita unite. Io ero troppo impaurito per decodificare subito quello che voleva dirmi. Non sarei sopravvissuto più di un’ora, senza Walter. Mi fece ancora il segnale. Aveva la faccia di uno che ha già fatto i suoi conti. Di uno che sa già come andrà a finire, perché finirà esattamente come lui vuole che finisca.
Guardai avanti. La Tigre era sdraiata su un fianco. Sembrava di terracotta smaltata, una di quelle cose kitsch che ci sono sopra i camini. Il suo pelo si accartocciava flaccido sui rametti e sulle foglie sparsi attorno. Bellissima. Guardava verso di noi, e cadenzava il respiro. Anche lei sapeva cosa sarebbe successo, e sembrava aspettare. Solo io non avevo chiaro un bel niente, o avevo frainteso tutto, come sempre. Avevo solo paura, una dannata paura.
Walter mi guardò, allora. Ghignò, il corpo puntellato sui gomiti, la testa ripiegata, le gambe lunghissime, come una coda. Altro che fantasie lattiginose, e pause lunghissime nei discorsi, e tutta quella pappa molle che mi aveva gettato addosso, come stesse delirando, nelle serate al bar Vela. Signore e signori, ecco a voi Walter Primi, lo spietato.
Chissà come dovevo sembrargli. Chissà cosa pensava del suo vecchio compagno di difesa, del mio sorriso di circostanza, ora che capivo di essermi cacciato davvero nei guai. Durò un attimo: incrociammo i nostri occhi, e insieme tutta la parentesi terrena che fino ad allora avevamo misteriosamente condiviso. Poi feci quello che dovevo fare.
Mi alzai, senza guardare niente – il bosco, il sentiero, la Tigre, Walter. Niente. Mi alzai e cominciai a correre, io un’ombra duplicata dalla mia stessa ombra notturna, sotto la luce della luna.
Anche Walter si alzò.
Anche la Tigre, allargando le fauci ed emettendo un suono rauco e primitivo.
Io correvo, inciampando ovunque.
La Tigre balzò verso di noi, verso di me.
Mi voltai, scivolando ed annaspando.
In piedi, fermo, c’era Walter. Si tirò su le maniche. Non so perché lo fece. Fu un gesto stupido. Un gesto grandioso.
La tigre emerse biancoarancione dalla lunga serie delle felci. La vidi caracollare, prima, e poi prendere una lunga rincorsa. Walter rimase fermo. Si piegò sulle ginocchia. Prese posizione. Non lo vidi in faccia. Non si voltò. La tigre emise il suo grido di guerra. La vidi ancora balzare in avanti, come pescando le forze dall’accumulo della sua prigione dorata, giù allo zoo. Balzò ancora, e ancora. Poi, fu in campo aperto, fuori dalle felci. Una magia, vederla dove anni prima avevamo lasciato le nostre biciclette e ci eravamo inoltrati nel bosco. Dove ero passato con mio padre e mia madre, vent’anni prima. La Tigre. Era immensa. Era bellissima.
Di fronte a lei, verticale e freddo, Walter. Come la statua di Stefano davanti ai lapidatori, quella che avevamo davanti quando servivamo messa.
Anche lui era balzato fuori – fuori dalle felci, fuori dalla terra, fuori da tutto quello che lo aveva imprigionato. Balzò fuori, all’aperto, sotto la luna e le stelle, sotto Dio.
Lo vidi correre, luminoso, verso dove sapeva di dover andare. Correva verso la Tigre. Poi più nulla, come una liberazione.

Riccardo Ielmini è nato a Varese nel ’73. Ha vinto il Premio Chiara Inediti 2011 con la raccolta di racconti Belle speranze (Macchione 2011).

hanksy

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di Sabina de Gregori

Il mondo si sa, gira e rigira su se stesso, ma ogni tanto improvvisa e sorprende con qualche variazione. In questo caso, il re della street art Banksy – ancora oggi anonimo (e milionario) – è stato sorpreso dalla variazione dei suoi stessi lavori. Per mano di chi? Hanksy. Sì, avete capito bene, il nuovo fenomeno che viene dalle strade newyorkesi si chiama proprio così. Tra la beffa e l’omaggio, i personaggi più famosi dell’artista britannico hanno ripreso vita sui muri della grande mela, con il particolare però che i volti sono stati sostituiti con quello dell’attore Tom Hanks. Ecco quindi che negli ultimi mesi, tra i grattacieli, sono apparsi cameriere mascoline accompagnate dalla scritta “La street art è un pozzo di soldi” o bambine che guardavano volare via un palloncino con il volto dell’attore che, sarcastico, recitava: “Prendimi se ci riesci”. L’attenzione del pubblico e dei media è stata talmente alta da spingere la Krause Gallery, nel Lower East Side di Manhattan, quartiere dove è cresciuto lo stesso Hanksy, a organizzare la sua prima personale lo scorso gennaio.

Intervista a Valerio Evangelisti

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 a cura di Tiziano Colombi

One Big Union è l’ultimo romanzo dello scrittore bolognese padre di Eymerich l’inquisitore catalano la cui saga ha raggiunto i lettori di tutto il mondo. Qui però si racconta altro. L’epopea è quella degli Industrial Worker of the World, il sindacato rivoluzionario che, tra la fine dell’800 e gli inizi del 900, provò a organizzare precari, bracciati, manovali, immigrati e disoccupati. Storia di una sconfitta.

Au revoir, Gir

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Jean Giraud (8 maggio 1938 – 10 marzo 2012)

pop muzik (everybody talk about) #15

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No fun / The Stooges. 1969

se c’è una cosa che non ti fa stare zitta, è un segreto

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di Chiara Valerio

Ha i suoi vantaggi essere nel posto più brutto, perché non ti preoccupi di perderti qualcosa. Nella stazione termale, stanno, insieme ad altri ospiti ma un po’ discoste, quattro donne. Emma, morbida perfino nei polpacci, la nipote Lucy che forse sarebbe stata più felice se quei bei ragazzi russi, intravisti all’arrivo, fossero rimasti, Giuseppina, con una stampella che tiene salda lei e la sua bellezza passata e presente, smagliante e pugnace e Lucia, sottile e appena curva come un arco teso, con una faccia dolce o severa, a volte infantile. Nella stazione termale, dove la noia è complicata, le quattro donne si notano, si seguono, soprattutto s’incrociano, e poi qui è previsto di godersela. Ne La stazione termale (Sellerio, 2012) di Ginevra Bompiani le quattro donne, ognuna a un’età diversa, ognuna con un differente obiettivo, o nessuno, passano il tempo nuotando, fuggendo dalla sala del pranzo e della cena per rifugiarsi in un ristorante a mangiare una tartara con salse e cognac, giocano a dama, si sogguardano, passeggiano nuotano. Soprattutto, s’incrociano. Hanno una certa età, vuol dire che hanno un’età che nessuno vuole indovinare, e magari neanche avere.

Ciao, Elio. Grazie

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CIAO ELIO, GRAZIE

“La ragazza Carla”

di Elio Pagliarani

Di là dal ponte della ferrovia
una trasversa di viale Ripamonti
c’è la casa di Carla, di sua madre, e di Angelo e Nerina.

Dal 6 marzo in edicola e in libreria il n° 17 di “alfabeta2”

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«Ci sono delle cose che non si possono dire. Ci sono dei momenti in cui il mondo, di fronte alle nostre interpretazioni, ci dice No.