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Il film già visto

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di Helena Janeczek

“È un film già visto”. Sarà perché pochi giorni prima avevo invocato la fine della fiction, che questo commento, uno dei più ricorrenti sui fatti di Roma, mi è parso tra più insidiosi. Gli infiltrati, i black-bloc, i “nuovi brigatisti” – dopo gli scontri del 15 ottobre è partito un rewind dove lessico e immaginario si sono proiettati indietro di dieci anni o di oltre trenta. Il pericolo non è solo acquisire come note di cronaca che i ragazzi coinvolti nella guerriglia sono quasi tutti troppo giovani per ricordare il G8, e in molta parte sembrano essersi formati negli stadi. La trappola mentale è proprio quella di vedere un film già visto.Non è solo il ministro Sacconi a voler scorgere negli indignati futuri banchieri e finanzieri, falsificando la realtà di una crisi che si abbatte su chi protesta pacificamente e su chi brucia le auto, su chi guarda il tg, perfino su chi plaude alle leggi speciali. E’ per cercare di rispondere globalmente a un processo che colpisce in modo senza precedenti le vite di chi abita anche nel cosiddetto mondo avanzato, che i movimenti sparsi per il pianeta hanno voluto darsi un appuntamento concertato. Solo in Italia, però, sembra essere andato in onda “il film già visto.”

Milano, trasformazioni contemporanee

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Giovanni Hänninen, fotografo, insieme a Massimo Bricocoli e Paola Savoldi, docenti presso la Scuola di Architettura e Società del Politecnico di Milano, parleranno delle trasformazioni urbanistiche di Milano giovedì 20 ottobre alle 21,30 presso la Scighera, in Via Candiani 131, nel cuore del quartiere Bovisa di Milano.

I lettori attenti ricorderanno bene il trio Bricocoli/Hänninen/Savoldi per il loro libro Milano Downtown, di cui abbiamo scritto su Nazione Indiana, ed il saggio Fare città, fare democrazia su alfabeta2.it.

[La fotografia di Giovanni Hänninen è della serie Milano Up. S ullo sfondo, il Monte Rosa, credo. JR]

l’imperatore degli Stati Uniti d’America

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di Graziano Graziani

L’obiettivo di chi decide di dichiarare indipendente un territorio piccolo, piccolissimo, una porzione di mondo che spesso delimita poco più che la residenza del novello governante, o al massimo della sua comunità di riferimento, è il desiderio di sentirsi sovrani in casa propria. Manie di grandezza, particolarismo esasperato? C’è un po’ di tutto questo; ma anche se praticamente la totalità di questi microstati non hanno alcun riconoscimento internazionale che non sia quello di altre micronazioni come loro, i sedicenti governanti sottolineano che anche la sovranità, in fondo, è una questione di percezione. E forse non hanno tutti i torti se è vero quel che si racconta, ad esempio, del vecchio dittatore portoghese Antonio de Oliveira Salazar, alla cui vicenda José Saramago dedicò un racconto: colto da infarto e costretto ad abbandonare il potere, continuò a credere per molti mesi di essere a capo del governo poiché nessuno ebbe il coraggio di comunicargli che non era più così. Ma se in quel caso si trattava di un vero potente, la vicenda che ha per protagonista Joshua Abraham Norton è ben più bizzarra e indicativa del clima che circonda la fondazione di una micronazione. La sua storia è, infatti, presa a modello da molti sedicenti sovrani. Non sono in molti a saperlo, ma la patria di Washington e Lincoln, culla dei principi repubblicani, ha avuto per vent’anni un monarca.

Roma, 15 ottobre. La violenza o le pratiche?

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di Marco Rovelli

Eravamo tanti. La narrazione comincia da qui. Di questo dobbiamo far memoria. Eravamo tanti, un fiume in piena . E dobbiamo andare oltre, e prendere lezione, e costruire pratiche di movimento che adesso non ci sono.
Non è questione di violenza e non violenza, non è questa la questione. (Che poi, nulla è più violento del “sistema”, oggi, che ci sta portando via presente e futuro, nostro e del pianeta: ogni altra violenza, oggi, è in scala inferiore rispetto a questa). La violenza accade, può accadere, la Storia ce lo insegna che a volta deve accadere. A certe condizioni: se è razionale rispetto al scopo, dunque sensata e può produrre effetti reali in un contesto di strategia; se non vi sono altri mezzi possibili (e questo, per dire, esclude le autolegittimazioni di quella parte di movimento che rivendica gli scontri paragonando le pratiche della piazza romana a quelle di piazza Tahrir). Non siamo in presenza di queste condizioni. Ben miope è la mistica degli scontri di piazza. Che non si inseriscono in alcuna strategia politica, che non producono alcun effetto positivo, che contribuiscono a distruggere un movimento e non a costruirlo. In che cosa oggi siamo più vicini alla demolizione del sistema? In nulla.

Pomeriggio del 15 ottobre – Una lettura dei fatti

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di Alessandro Leogrande

La prima cosa che mi viene da dire contro i fascisti, gli infiltrati, il blocco nero, cioè tutti coloro che hanno rovinato la manifestazione del 15 ottobre a Roma, è che avete profanato Piazza San Giovanni, un luogo cardine della storia del movimento operaio italiano.

Lo avete fatto pensando che l’unica manifestazione buona è quella violenta, che l’unica cosa che conta non sia affermare quello in cui si crede, elaborare una strategia matura di lungo periodo, ma scontrarsi con violenza contro la polizia. E non capite che, così facendo, avete distrutto tutto. Non solo una manifestazione che poteva essere bella e invece è stata brutta, ma soprattutto la possibilità che un movimento al pari di quello spagnolo o americano potesse pacificamente sorgere in Italia.

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Nota di uno scrittore pre-postumo

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di
Francesco Forlani (In un tempo direi rapidissimo, con l’ultima copia prenotata da Marco Petrillo abbiamo raggiunto le 200 copie della tiratura Edition Limited. Qui in anteprima la cover di Chiunque cerca chiunque, opera di Marco de Luca che ha curato l’impaginazione. I correttori sono al lavoro, in molti hanno aderito alla campagna revisione che come ho già detto si avvarrà dell’imprimatur di Gigi Spina . Tra una settimana circa andremo in stampa e a metà novembre l’opera sarà.Grazie a tutti effeffe)
carissimi,
questa estate ho pubblicato a puntate su FB il mio nuovo romanzo
Chiunque cerca chiunque. Dopo le varie inculate prese per il Montale (secondo romanzo della mia trilogia degli alberghi) ho deciso che non manderò più un cazzo agli editori. Ho deciso che di Chiunque cerca chiunque saranno stampate duecento copie, numerate e dedicate (e basta). Non saranno mandate alla stampa né agli editori ma solo ai 200 lettori che ne avranno prenotata una copia. Molti di voi non sono su facebook ed ecco perché vi scrivo qui per raccogliere la vostra adesione.
Chiunque cerca chiunque andrà in stampa a novembre nella elegante edizione cartacea, una adelphiana rossa filo-refe, con pagina dedicata unica, della edition limited come dicevo di 200 copie. Il libro costerà 20 euro e sarà disponibile a metà novembre. Vivrà del respiro dei duecento lettori che giunsero fin qui. Merci mes camarades di scrivere a communistedandy@gmail.com in modo da potervi comunicare come fare e per avere i vostri indirizzi fisici.Il romanzo è scaricabile qui come pdf. [aggiornamento 7/9/2012: il pdf è stato rimosso dall’autore]
thanx à todos e todas
effeffe
ps
Segue l’ultimo capitolo scritto pochi giorni fa e la bellissima lettera che Valerio Evangelisti mi ha spedito concedendomi l’onore di farne la quarta di copertina.

Capitolo trentesimo
Una vecchia Remington

Poi non è che uno mette la parola fine. Mica è così. Tu le città te le porti dentro e fuori. solo che non le vedi e così fai sempre la faccia sorpresa quando la zingara sotto i portici di Place des Vosges ti apre la mano e la sovrasta con un dito. Che quella carte Michelin che è fatta di linee, impronte, fossette callose, tu ci hai impiegato una vita per farla mica niente. E infatti levando lo sguardo per farti la faccia feroce di chi sa tutto, la prima cosa che ti racconta è il passato. E dici cazzo se è vero, ma come l’avrà mai indovinato mo questa? Proprio come la femmina magrebina che manco avevamo varcato la soglia di casa della festa. da Giambattista e Marie, che mi aveva accompagnato Livia e fuori pioveva, e m’era piombata addosso sparando come un kalashnikov una serie di domande con una tale velocità che il fumo le usciva di bocca alla fine.
-Tu sei nato a sette mesi eh?

la pelle che abito

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di Nicola Ingenito

Sto per recensire l’ultimo film di Almodovar, quindi scordatevi ogni accenno alla trama, vi farei un grande torto. Insomma, si tratta di una pellicola a metà strada fra un melò e un noir: due generi che non meritano d’essere svelati. Ci sono però dentro: un chirurgo con progetti vendicativi che cade vittima del desiderio, una serva, uscita fuori da un feuilleton ottocentesco, madre di due fratelli pazzi e nemici, un corpo femminile bellissimo e flessuoso, un uomo tigre e i fantasmi delle donne amate dal chirurgo, tutte morte suicide, e un ragazzo scomparso.

Da Tutto su mia madre in poi, messo da parte Parla con lei, che è un film perfetto, Almodovar è riuscito a proporre personaggi e storie trasgressive, filtrate da una forte maturità personale e espressiva, che è riuscita a far arrivare le sue storie al grande pubblico così che i suoi film, per quanto non abbiano rinunciato a tematiche forti e spiazzanti, sono diventati sempre più accoglienti e un po’ buonisti.

Fine della fiction

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di Helena Janeczek

In piazza stavano girando un film con Fabio Volo. Hanno aggiunto una pista di bocce, hanno piazzato una finta panchina davanti a quelle vere. I pensionati che di solito vi siedono, si erano appostati dall’altro lato per vedere cosa avrebbero fatto i due attori che impersonavano il loro ruolo. In abito nero, capelli impomatati e baffetti, il protagonista sarebbe stato quasi irriconoscibile, se uno della troupe non lo avesse seguito con un ombrello rosso per impedire che il trucco si sciogliesse al sole anomalo. Al ciak, Volo si siede sulla panchina, apre un vassoio di paste e ne offre ai due vecchietti con la coppola. Una ragazza elegante si affaccia per un tiro di bocce. Applausi. Fine della scena. Fine della metamorfosi della piazza di Gallarate in piazza da fiction italiana. Smontato il set, restano la chiesetta, i bar con i tavoli all’aperto, i pensionati tornati a occupare le loro postazioni. Tutto sembra quasi uguale, anche se dalla Sicilia da cartolina si è rientrati nel centro di una città lombarda. Però a pochi passi cominciano i vetri imbrattati dei palazzi appena costruiti, le agenzie interinali, i “tutto a un euro”. Segni di un cedimento progressivo che imparenta ogni città italiana a Venezia con le sue fondamenta erose.

Foto di gruppo con scrittore

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[Si riprende il testo pubblicato su germanistica.net. Consiglio anche la lettura di un importante saggio su Jahnn. DP]

di Michele Sisto

Che cosa è successo negli ultimi vent’anni alla letteratura di lingua tedesca? Fatti salvi pochi scrittori tradotti in italiano con una certa continuità – W. G. Sebald, Durs Grünbein, Ingo Schulze – e i due recenti premi Nobel Elfriede Jelinek e Herta Müller, si ha la sensazione che, dopo la scoperta negli anni ’80 di Thomas Bernhard e di Christa Wolf, sia tornata ad essere terra incognita: hic sunt leones. Questo dipende non solo dall’aumento (enorme) della produzione letteraria o dall’assenza (reale o presunta) di grandi autori, ma anche dal fatto che sono cambiati i termini del discorso sulla letteratura (e con essi, forse, la letteratura stessa): se in Italia sono quasi scomparsi i saggi panoramici e le antologie, che periodicamente contribuivano ad aggiornare il quadro, anche in Germania mancano le opere di sintesi, e quelle che ci sono hanno in genere il carattere eteroclito delle collettanee; la germanistica si è specializzata al punto da negarsi, quasi a priori, la possibilità di studi d’insieme, e del resto la crisi della critica storicistica l’ha privata degli strumenti che l’avrebbero consentita.

1967. Roma. Viale Parioli

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di Tessa Rosenfeld

Nonna Genia possiede il raro dono della mimica.

Imita chiunque, dalla cameriera storpia che in un accesso d’ira ha rinchiuso in un armadio al gastroenterologo tutto inamidato che spunta ciclicamente a casa nostra per tastare il mio fegato sofferente.

La mimica di Nonna è un pretesto per scaricare le mille ansie che la tengono in un perenne stato di febbrile esaltazione.

Mon Dieu! Fa che smetta!” mormora mia madre in preda a frustrazioni ben più cupe ma alla fine scoppia a ridere e dunque autorizzata dalla sua risata cristallina mi metto a ridere anch’io. Bisticciano come furie giorno e notte; ogni pretesto è buono per scatenare l’uragano. Le prime parolacce che imparo sono quelle che si scagliano in Russo; parolacce dal suono ricco e gutturale: Sfolitch! Drian! Shto on sdoh, graziosamente tradotte in: Cogliona! Fessa! Che tu possa crepare!

Se ne sparano anche altre sopratutto in Inglese e Francese, visto che essendo upper class sparalocciare in un solo idioma non basta.

Viviamo ai Parioli zigzagando da un indirizzo all’altro.

“Perché cambiamo sempre casa?” chiedo

“È semplice!” risponde Nonna. “Perché tua madre è un Imbecille”

Di chi è la colpa?

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di Gianni Biondillo

Di chi è la colpa? Di primo acchito mi viene da dire che è colpa di C.S.I., la fiction americana, così fiduciosa delle prove oggettive, dei riscontri scientifici, delle magnifiche sorti e progressive, da non ammettere dubbi: il caso si risolve sulla scena del crimine, il processo è quasi un orpello, la tecnologia vince sulle impalpabili teorie umane.
Magari fosse così semplice!

Terra! – Emanuele Crialese

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di
Teo Lorini

(Le note della canzone dei Noir Désir, qui nella magnifica interpretazione di Sophie Hunger, commentano alcune scene di Terraferma)

La carena di una nave solca la superficie del mare, una rete scende e si allarga gradualmente fino a avvolgere nelle sue maglie il blu dello schermo e allo stesso tempo l’occhio dello spettatore. Non sembra azzardato leggere una dichiarazione di poetica nella immagine (letteralmente) irretita che apre Terraferma. Rispetto alle accensioni oniriche e visionarie che innervavano il sublime Nuovomondo infatti, Crialese appare qui più trattenuto e intento a un lavoro – altrettanto efficace – di distillazione.
Terraferma (Premio Speciale della giuria all’ultima mostra di Venezia) si apre infatti con un passo narrativo più lineare, concentrato – come già Respiro e Nuovomondo – sulla vita di una famiglia.

Come è andata a finire “Carta batte forbice”

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[Per chi volesse conoscere l’esito dell’assemblea pubblica convocata alla Biblioteca Nazionale di Roma l’11 ottobre]

di Nicola Lagioia

Ieri pomeriggio, a Roma, Castro Pretorio, intorno alle 17.00, una signora di circa sessant’anni, impermeabile beige e sigaretta mezzo consumata tra le dita, ripeteva stupefatta: “mi ricordo gli scontri degli anni Settanta, ma i poliziotti che chiudono la Biblioteca Nazionale non li avevo ancora visti”.

Continua qui.

Per un uso (forsennato) poetico di Kubrick

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14 ottobre 2011, ore 21.00

Libreria Popolare
via Tadino 18, Milano

Alessandro Broggi e Paolo Giovannetti
presentano:

Quando Kubrick inventò la fantascienza.
Quattro capricci su 2001 Odissea nello spazio

di Andrea Inglese

(La camera verde, Roma, 2011)

Sarà presente l’autore.

Nuovi autismi 6 – Andare in vacanza uccide

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di Giacomo Sartori

Sono anni, decenni, che la gente mi augura “buone vacanze!”. Ora se c’è uno che odia le vacanze, e che è visceralmente e ideologicamente contrario alle vacanze,  sono io. Io non vado mai in vacanza, e me ne vanto. Credo che le vacanze siano nocive alla salute e minino l’equilibrio mentale delle persone. Andrebbero vietate, o comunque, in vista di una loro graduale eliminazione, caldamente sconsigliate. Come sui pacchetti di sigarette: “NUOCE GRAVEMENTE ALLA SALUTE FISICA E MENTALE”, “ANDARE IN VACANZA UCCIDE”. Questi lugubri ammonimenti andrebbero affissi sugli aerei, nelle vetrine delle agenzie turistiche, sulle pubblicità, ma anche nelle scuole e per le strade. Meglio se corredati di foto di bruciature solari, melanomi, amputazioni da squalo, liquami dissenterici, rottami di aerei precipitati, coccodrilli con brandelli umani tra le fauci, ingorghi e stragi stradali, ostaggi tra rapitori armati fino ai denti, ingrandimenti di pungiglioni di insetti, grafici delle emissioni di CO2, e ogni sorta di orrori ascrivibili in qualche modo alla nocività vacanziera. La gente mi augura però lo stesso

Le condizioni della luce

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Luca Minola

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Per mancanza ha ragione nel tempo
di essere altro nel tempo

se sbaglia ad inanellarsi la vita
dentro le macchine, è un quintale
di musica e coito

in quel tubo, in quell’istante segnato
fra bordi e tapparelle

a filo linee di miele sugli occhi.

 

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Nello spazio preciso, muoversi in lei
di nuovo goccia. Dentro è sciolta

se si tiene nell’aria come appesa

(ganci che fanno pareti)

riflessi per la tensione.

Ippocrate e Antigone

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di Antonio Sparzani

Purtroppo viviamo in un mondo nel quale ormai fa ridere ripetere che non s’ha da sparare sulla Croce Rossa o anche solo ricordare il giuramento d’Ippocrate. Qualcuno però si ostina a non ridere e a denunciare pervicacemente gli orrori, pochi su probabili tanti, di cui viene a conoscenza. L’ultimo in ordine di tempo è passato via il più liscio possibile, quello delle dure condanne ai medici del Bahrain, che hanno prestato cure alle persone sbagliate.

La premessa di tutto è che lo stato del Bahrain, sostanzialmente un arcipelago, che esiste formalmente indipendente dal 1971 ‒ prima era protettorato britannico ‒, è la sede della quinta flotta degli Stati Uniti, e soprattutto in quanto tale non deve essere turbato da alcuna turbolenza, né molestato da alcuna molestia. La cosiddetta primavera araba non deve entrare nei suoi confini,

Wien – Mitte

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di Giovanni Catelli

Tu credi ancora, lo so, di poter un giorno ritornare, a quella stanza della F.Strasse, a quei mattini, a quella musica, quasi che le cose, la luce, la stagione, ti potessero aspettare, immutabili, sospese, nella perfezione innaturale del ricordo, nella pace del tempo che non fugge, come in quei giorni a primavera, in lieve anticipo su tutto, in quell’attesa leggera di partenze, d’ogni cosa misteriosa del futuro.

Non avevi ancora biglietti, treni, appuntamenti, nessuna cifra s’incideva, nera, sulle carte del domani, Praga ti aspettava, in una lontananza tenue, familiare, in ogni leggera foschia serale oltre la Westbahnhof, in ogni brauner bevuto solo al Kleines Cafe, dove lei già non si vedeva, già mancava senza risposta, silenziosa scavava un vuoto tra le cose, separava sottile i tuoi gesti dal passato, ti cedeva ignaro alle vie fredde, ancora luminose nel crepuscolo.

In giro per Città del Messico, “paradiso” per rabdomanti

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Da “il Reportage” numero 8, ottobre-dicembre 2011, nelle librerie dal 15 ottobre.

di Alessandro Raveggi
Il viandante dell’antichità, a seguito di faticosi valichi esistenziali, per riaversi dal cammino assegnato dal fato o dalla propria comunità, avrebbe voluto forse trovare ristoro in una fonte dell’eterna giovinezza, come quella celata nelle terre del Prete Gianni o nella Florida di qualche secolo successivo. Il viandante d’oggi, poco avvezzo a soglie e sacrifici del viaggio arcaico, si ristorerà più volentieri in fonti effimere: nell’acqua tonica di uno smunto frigobar in un Holiday Inn della California, oppure nella minerale di un bar veneziano, tanto fresca da illudersi d’acclimatarsi col solo sorso, per poi venir beffati dalla zampata dello scontrino. Per non parlare del sollievo di una doccia bollente a Berlino, dopo deragliamenti notturni al freddo di strada, o di quello di togliersi quell’indefinibile patina, sostanza aristotelica con attributi di più scomparti, nazionalità attigue, salviette, contenitori di cibi, che lasciano sulla pelle i voli intercontinentali, appena arrivati dopo un lungo viaggio in direzioni australi. Le acque, da antico principio bifido di rigenerazione e catastrofe, di purificazione e annientamento, paiono sempre più acque inscatolate, plasticate, intubate, eterne quanto gli scatti di un gettone sul lungomare.

“Carta batte forbice – contro i tagli alla cultura – per le biblioteche come bene comune – per una rivolta del sapere”

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[Dal sito di TQ]

Martedì 11 ottobre, dalle cinque alle dieci di sera, un’assemblea pubblica è indetta alla Biblioteca Nazionale di Roma.

In una crisi politica e sociale ogni giorno più clamorosa, un’indifferenza feroce, una rabbia contro il valore stesso dello studio e della conoscenza, colpisce le biblioteche, le scuole, le università, l’editoria, i lavoratori della cultura, dello spettacolo, gli studenti, e tutti coloro che ritengono fondamentale la cultura per una comunità che vuole dirsi tale.

Per questo da mesi in Italia stanno sorgendo centinaia di iniziative tra studenti e lavoratori della conoscenza per chiedere non solo la difesa dei propri diritti, dell’articolo 3 della nostra costituzione (dove si scrive che l’istruzione è il motore fondamentale dell’inclusione sociale), ma per immaginare tutti insieme una grande cittadinanza attiva capace di pensare un futuro diverso.