ovvero
Il senso dell’ovvio: come mai Omero non è Wu Ming.
di Daniele Ventre
“Il realismo è la ricerca di una rappresentazione per quanto possibile “oggettiva” del mondo, vicina al (tangibile, materialissimo) “compromesso percettivo” chiamato “realtà”; presuppone quindi un lavoro sulla denotazione, sui significati principali e condivisi. Quando descrivo una scena di miseria avvilente, e cerco di trasmettere con precisione tale avvilimento, sto gettando un ponte verso il lettore, mi rivolgo a quella parte di lui – quella parte di noi tutti – che trova avvilente la miseria. L’epica è invece legata alla connotazione: è il risultato di un lavoro sul tono, sui sensi figurati, sugli attributi affettivi delle parole, sul vasto e multiforme riverberare dei significati, tutti i significati del racconto. Al lettore sto gettando un altro ponte, qui mi rivolgo al suo desiderio, desiderio di spazio, di scarti e differenze, di scontro, sorpresa, avventura”.
Così suona l’ormai famosissima distinzione fra realismo ed epica, instaurata da Wu Ming 1 (alias Roberto Bui) nel suo New Italian Epic: una distinzione non certo rigida, per due ovvie ragioni addotte da Wu Ming stesso, visto che esiste, nel cinema come nella letteratura, un realismo epico, e visto che la spontanea tendenza (neurologicamente radicata) del linguaggio umano a essere metafora e connessione archetipica rende di fatto impossibile, in principio -e forse, almeno in certi casi, di principio-, la denotazione pura, come si evince dalle analisi condotte da Furio Jesi sul meccanismo mitopoietico (1) -e se dovessimo portare all’estremo le conseguenze del ragionamento, se ne dovrebbe inferire, con Goodman più che con Derrida (2), che la realtà non è tanto un compromesso percettivo, quanto piuttosto la sommatoria di costruzioni nominal-metaforiche “opportune”, cioè operativamente funzionali o in qualche modo “trincerate” nel sistema di un sentire comune primario, di specie (3).