di Antonio Sparzani

Tutto perché Ecuba, mia madre, appena m’ebbe partorito sognò male; chissà cosa le prese, magari aveva mangiato quei pescetti grassi e fangosi dello Scamandro che solo a lei piacciono, non so, fatto sta che sognò di avere partorito una fiaccola ardente. Subito tutti, e soprattutto mio fratello Esaco, il maggiore, che caro fratello ‒ forse ero troppo bello perché lui tollerasse la mia vista, a interpretare il sogno come pareva a loro, il figlio, il figlio appena dato alla luce sarà la rovina di Troia, a causa della nuova creatura cadranno le porte Scee, la potenza di Priamo si perderà, e dunque ‒ ci si mise anche un’esagitata sacerdotessa di Apollo accesa del sacro fuoco ‒ sbarazziamoci di questo piccoletto, pur così bello com’è, esponiamolo alle fiere che popolano i monti boscosi dell’Ida. Neppure un nome mi diedero allora, il peggiore degli insulti.
Ma il tabù dei piccoli fortunatamente pervade qualche volta anche i cuori degli umani, nessuno ebbe il coraggio di uccidermi a sangue freddo, neppure Agelao, il pastore cui Priamo in persona l’aveva imposto, osò, e preferì lasciarmi nei prati dell’Ida e portare a Priamo come prova dell’esecuzione una lingua di capretto.
Quando poi Agelao vide che un’orsa mi prese tra le sue zampe delicate e mi diede il suo latte denso e caldo,