
di
Paolo Fasce
Il tema del precariato è piuttosto delicato e la stessa parola è ambigua perché include molte sottocategorie piuttosto diverse. Sarebbe molto interessante, e temo doloroso, affrontare in primis la questione del precariato degli assistenti, tecnici e amministrativi (ATA) e dei collaboratori scolastici (bidelli) le cui percentuali sul totale dei lavoratori che oggi abitano le nostre scuole raggiunge spesso il 50%, ma Leopardi scrisse “Il più certo modo di celare agli altri i confini del proprio sapere è di non trapassarli” e voglio quindi attenermi alle sue indicazioni.
Restando nell’ambito del precariato degli insegnanti, quelli di cui posso parlare per conoscenza diretta sono gli “insegnanti secondari”, cioè i professori delle scuole medie e superiori, mentre soprassiedo sugli insegnanti della scuola primaria, i maestri o, più democraticamente, per manifesta superiorità numerica, le maestre. Esistono due grandi categorie di insegnanti precari: gli abilitati e i non abilitati. I primi si dividono in tre tronconi, in grande parte sovrapposti. I “concorsisti”, i “sissini” e gli “ope legis”. I primi sono mediamente i più anziani (spesso ci si riferisce a loro con l’etichetta di “precari storici”), hanno infatti conseguito l’abilitazione in un durissimo concorso nazionale le cui date più recenti sono il 1999 e 1990. I secondi si sono abilitati a seguito di una selezione in ingresso alle Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario, dopo due anni di studi universitari post laurea orientati all’insegnamento della propria disciplina. I terzi, la stragrande maggioranza dei quali ha conseguito abilitazioni secondo i percorsi appena illustrati, sono quegli insegnanti che si sono abilitati a seguito di un “corso riservato”, soddisfacendo criteri di anzianità di servizio.








