Una mattina di marzo sono incappata in un disastro dovuto all’estrazione delle materie prime. Non ero in una miniera delle Ande, ma su un treno che collega Milano a Varese, Domodossola, Ginevra, Torino. Eppure è a causa del rame che siamo arrivati con tre, quattro, persino cinque ore di ritardo. Mancando appuntamenti, perdendo coincidenze, mezza giornata di lavoro. Un tassista di Gallarate mi ha raccontato che lo cercavano “fin giù da Magenta”. Ha caricato ogni genere di persona, persino una donna disposta a sborsare quasi cento euro pur di arrivare in tempo per rinnovare il permesso di soggiorno.
Gli scrittori Einaudi firmatari di questa lettera si associano alla protesta di gran parte dei cittadini italiani contro il disegno di legge “bavaglio” che intende limitare l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine, il diritto di informazione e la libertà di stampa nel nostro paese.
Questa legge, millantando di proteggere la privacy di molti, vuole salvaguardare l’impunità di pochi, stendere un velo di segretezza sulla criminalità organizzata e, contemporaneamente, reprimere ogni voce di dissenso.
Francesco Abate; Niccolò Ammaniti; Andrea Bajani; Eraldo Baldini; Giulia Blasi; Ascanio Celestini; Mauro Covacich; Giancarlo De Cataldo; Diego De Silva; Giorgio Falco; Marcello Fois; Anilda Ibrahimi; Nicola Lagioia; Antonella Lattanzi; Carlo Lucarelli; Michele Mari; Rossella Milone; Antonio Moresco; Michela Murgia; Aldo Nove; Paolo Nori; Giacomo Papi; Laura Pariani; Valeria Parrella; Antonio Pascale; Francesco Piccolo; Rosella Postorino; Christian Raimo; Gaia Rayneri; Giampiero Rigosi; Evelina Santangelo; Tiziano Scarpa; Elena Stancanelli; Domenico Starnone; Benedetta Tobagi; Vitaliano Trevisan; Simona Vinci; Hamid Ziarati; Mariolina Venezia.
di Antonio Sparzani
quali altre direte voi ma le altre sciagure del paese che quelle tre del titolo sono state scelte per sole ragioni di cronaca e le altre sono anche peggio le altre sbiagure volevo dire vedete come i refusi sempre in agguato tradiscono e deformano le parole però in ogni deformazione c’è forse qualche sottostante sorpresa starà alla fantasia enigmistica di ciascuno rintracciarla
è che un amico caro assai mi disse ieri ma come nazione indiana nulla dice di Ustica in questi giorni in cui tutti ne parlano persino il colle sì il colle per antonomasia che poi potrebbe essere il Palatino o perfino il Viminale che tutto sorveglia l’interno del paese e invece no è quel colle che dovrebbe garantire la costituzionalità di tutto quanto viene aggiunto sulle spalle del paese sempre nuove leggi e leggine a vantaggio degli uni o degli altri o sempre più a vantaggio degli uni dice la voce dei tanti altri sì persino lui il colle per antonomasia ha parlato di quella caduta di un DC9 nelle non limpide acque del Tirreno per dire che non ci vede chiaro in quelle acque ancora dopo anni trenta giusti giusti e allora nazione indiana perché no
mi viene subito da rispondere che nazione indiana non è un giornale quotidiano che ha come l’obbligo di ricordare a tutte le cittadine e a tutti i cittadini le scadenze e le ricorrenze tristi e le poche allegre del paese e del mondo staremmo freschi se ci sentissimo quest’obbligo ognuno di noi venti è una testa pensante direte poi voi se pensante bene o pensante male con una sana e completa autonomia e con i suoi gusti e propensioni come le tante e fieramente indipendenti tribù che popolavano quelle magnifiche pianure di boschi e di bisonti prima che dal di là del grande mare da dove sorge il sole arrivassero appunto tutte quelle altre sciagure ancora senza refuso allora e dunque ognuno di noi pubblica quello che le o gli urge di dentro e da dentro di più in quel momento lì come del resto sto facendo io
però siccome a ruota di questa scadenza di Ustica arriva subito quella di Viareggio era proprio un anno fa e arriva con una analoga certezza di responsabilità per il cosiddetto incidente il caso non esiste trascurare la manutenzione e i controlli è uguale a sabotare la responsabilità dicevo è identica per i potenti che non vogliono mai ri-conoscere cioè approfondire le cause di nulla e poi arriva la modifica in appello della sentenza così attesa contro il così sentenziato Marcello e direte voi cosa c’entra e io dico c’entra e mi verrebbe voglia di dire io so e ho le prove
Esiste una specie di pensiero che potrebbe essere chiamato con piena verità il pensiero girovago. Ordinariamente si presenta ai monaci sulle ultime ore della notte e conduce la mente da una città all’altra, da paese a paese, da casa a casa. Questo pensiero girovago è una malattia che Evagrio Pontico, monaco egiziano del IV secolo, da cui ho tratto questa citazione, sa curare. Ma una volta vinto, dice: la vittoria ti lascerà una grande sonnolenza, una pesantezza alle palpebre, un senso di freddo, sbadigli e languore fisico, ma con la diligente preghiera allo Spirito Santo disperderai queste penose tracce. Mi domando se tutti i fannulloni e i buoni a nulla non siano le vittime di questa vittoria sul pensiero girovago.
Enrico Achilli è morto qualche giorno fa. Di un male incurabile. Avrebbe tra poco compiuto 65 anni. È possibile che questo nome a molti lettori non dica nulla. «L’Achilli» come lo chiamavano Danièle Huillet e Jean-Marie Straub era un operaio. Aggiustava macchinari per le officine. E c’era da sospettarlo, vedendo le sue mani gigantesche. Il lavoro di certe persone lo intuisci dalle mani.
Egitto Palestina Odessa Grecia Napoli Barcellona. La Storia? Ciò che ne resta: dei turisti sulla scalinata di Ejzenštejn e in crociera infernale dantesca titanic-a sulle sponde del Mediterraneo (di Pollet Méditerranée: dunque, come ne scrisse Daney, “egli non vede che rovine e vestigia”): interdizioni d’accesso, guerre civili, ovvero il lascito ‘democratico’ della civiltà Greca. Problemi greci: Hellas, Hell as, Hélas. Cose così (fra Gadda 1934 Il castello di Udine/Crociera mediterranea e de Oliveira 2003 Um filme falado).
Un titolo di un film o un titolo di borsa (o ancora semplice éloge de l’amour)? Più che in ribasso quelli del socialismo, hélas. D’altra parte, le azioni su cui specula il mondo e che mettono in ginocchio nazioni intere, al cinema sono altrettanto o semplicemente action. Un continente intero può essere messo in ginocchio senza particolari o molto visibili azioni (per questo “non bisogna parlare dell’invisibile, ma mostrarlo”). Povera Europa. Stretta fra sensi di colpa e un deserto che ne ha cancellato le pur minime ragioni, oggi è il maggior esportatore di crisi e demagogia e violenza. Cioè, in una parola, di democrazia. E così: “L’islam è l’occidente dell’oriente”, vittima di un virus molto simile, immemore soprattutto delle sequenze auree che invece un tempo erano strumento di conoscenza e di dialogo, come testimonia la vita del citato Fibonacci da Pisa, la cui aritmetica è tutta musulmana. A sua volta, la sala per una conferenza di Alain Badiou su un testo di geometria di Husserl, è e resterà vuota. Sarebbe il caso forse che i due vuotissimi recipienti, soggetti al medesimo risucchio, smettessero di fingere di ignorarsi. “La Palestine, c’est comme le cinéma, c’est chercher une farina ture”. La storia del cinema è una storia di innumeri Palestine: Cheyenne Autumn di Ford, Don Quijote di Welles (tutte le immagini, in attesa di quel montaggio utopico leggendario, sono indiani e palestinesi: senza casa). Walter Benjamin, Hannah Arendt, Jacques Derrida. Beethoven, Mina, Chet Baker. Jalla!
Ma certo la democrazia non è una scienza esatta, molto più a suo agio con ciò che d’autorità esclude o che autoritariamente giudica eversivo, in cieco abbordaggio di navi umanitarie e in perenne estroflessione di voci non allineate: flessione senza estro alcuno, che impedisce a un bambino e a una giovane ragazza, fratello e sorella, di vincere le elezioni, e non sarà la troupe televisiva meticcia a raccontare la verità: che le statue parlano e che il loro programma politico si chiama Balzac, Je vous salue, Marie, Jean Renoir, Viaggio in Italia, Michelangelo Antonioni.
La cosa più difficile? Fare film, non parlare di dispositivi.
Addio Pietro,
tu tragico eroe strampalato.
Oggi è stato nominato
il Grande Fratello sbagliato.
Franz Krauspenhaar
Nota per un ragazzo guerriero
di Aldo Grasso
sul Corriere
Uno schianto da guerriero, uno schianto dove fatalmente si mescolano l’uomo con il personaggio, la realtà con la finzione, il coraggio con la malasorte. Forse una manovra sbagliata ha provocato la caduta di Pietro Taricone. Lui che si vantava delle manovre «sbagliate», del suo procedere sfrontato e senza paracadute, dopo che la prima edizione del Grande Fratello gli aveva regalato una notorietà smisurata e insperata.
Non aveva vinto (la vittoria era andata alla bagnina Cristina Plevani, detta Tristina, la ragazza da lui sedotta in diretta), ma era uscito dalla Casa come il vincitore morale. Si era presentato come «’o guerriero» e fin dalla prima puntata aveva messo in mostra i suoi muscoli da palestrato, la sua aria sbruffona, ma anche la sua ironia e intelligenza, proponendo un personaggio insolito, in mezzo a quella insolita compagnia che erano i ragazzi del GF Uno.
Tullio Avoledo, L’anno dei dodici inverni, 2009, Einaudi, 369 pag.
È un freddo gennaio del 1982 quando una giovane coppia, Emilio ed Esther, riceve a casa un uomo, Emanuele Libonati. Un vecchio che fa loro una curiosa proposta: verrà a trovarli una volta all’anno, per seguire le fasi della crescita della loro bambina, Chiara, nata da poco, il giorno di Natale. E di anno in anno i due genitori si scopriranno invecchiare, ammalarsi, patire la vita, mentre quell’uomo sembrerà ai loro occhi sempre inquietantemente identico a se stesso. Ma questo è solo l’inizio de L’anno dei dodici inverni, romanzo che ha una trama piena di salti temporali, fra passato, presente e futuro.
Alla domanda cosa vuoi fare da grande, non ricordo di aver mai risposto. Avevo la sensazione che era meglio non sognare che lavoro fare da grande, per non rimanere delusa. Forse sembravo una con le idee poco chiare, che non si impegnava abbastanza, invece ero semplicemente una bambina concreta.
Alla scuola elementare, i miei pensierini facevano emozionare le insegnanti, e i miei erano contenti, non perché iniziassero a vedere in me chissà quale dote, ma perché, andando bene a scuola, gli levavo un pensiero nella gestione della vita quotidiana. Se ho mai pensato di fare la scrittrice? Macchè, figuriamoci. Da piccola imparavo che scrivere e lavorare sono due cose molto lontane. Certo, sapevo bene che leggere e scrivere correttamente mi avrebbero aiutato ad affrontare i pensieri di tutti i giorni, ma non che il solo fatto di scrivere potesse darmi da vivere. Al massimo poteva darmi qualche soddisfazione: al ritorno dal Campiello Giovani, mia mamma mi disse che c’era il concorso alle poste.
Sono cresciuta in una famiglia che mi ha sempre fatto notare i miei limiti. Non avrei mai osato pensare che a quello che avrei scritto sarebbe corrisposto del denaro. Non sto dietro ad annoiarvi con i particolari della mia infanzia, questa introduzione mi serve per farvi capire una cosa: che con quella formazione lì mi sono ritrovata fra le mani il mio primo contratto editoriale.
Anna Maria Merlo, corrispondente a Parigi del Manifesto e amica da oltre un decennio mi ha segnalato un articolo pubblicato qualche tempo fa sul blog FranciaEuropa, da lei curato, a proposito dell’ultimo libro di Elisabeth Badinter. (effeffe)
“Sii madre e allatta” Elisabeth Badinter si rivolta contro la donna-natura
di Anna Maria Merlo
La Francia è il paese europeo con il più alto tasso di natalità. Ed è anche quello dove le madri lavorano di più fuori casa e dove l’attività viene ripresa in modo massiccio dopo il periodo del congedo maternità. Questo grazie a una politica di asili nido e di aiuti vari. Ma, poco per volta, negli ultimi anni un discorso fa la sua strada nella società: si insinua il dubbio che l’asilo nido non sia il posto ideale per dei neonati (qui li prendono a partire dai due mesi, dalle 7,3 del mattino fino a sera). Un decreto del ’98 (ministro della sanità Bernard Kouchner) ha proibito la pubblicità del latte in polvere nelle maternità pubbliche. Le neo-mamme sono spinte ad allattare. L’obiettivo del ministero è che da quest’anno il 70% delle mamme allattino quando sono nel reparto maternità. Chi non vuole viene colpevolizzata.
La filosofa Elisabeth Badinter, trent’ani dopo L’Amour en plus, pubblica in questi giorni Le conflit. La femme et la mère (Flammarion) , un saggio di denuncia di questa situazione, che definisce una deriva reazionaria. “Ho constatato un rovesciamento dei valori – afferma – qualcosa che minaccia la libertà delle donne”. Il libro fa polemica.
Mica facile. No, sul serio: la vita dei giornalisti delle pagine culturali è un inferno. Uno va in redazione la mattina e si propone di scrivere su qualche tema semplice semplice, come “Dio e l’Uomo”, “Chiesa e Stato”, “Autorità e Libertà” o magari “Capitalismo e Democrazia”. Il caporedattore neppure vi bada, il direttore è chiuso nella sua stanza, e fino alle sei del pomeriggio vi tocca fare un solitario sul computer, telefonare agli amici della testata concorrente per scambiare un po’ di gossip e, alla fine, consultare il sito di Nazione Indiana. Meglio fare il cronista di nera: un omicidio è un omicidio mentre l’epistemologia chissà cos’è.
[Si pubblica i primi due capitoli del romanzo di Paolo Zanotti, Bambini bonsai, Ponte alle Grazie 2010.]
di Paolo Zanotti
1.
Sofia, so che ormai è tardi. È finita l’infanzia, sono passate le tempeste. Eppure mi sorprendo sempre a tornare a quegli anni, testardo come un’ape che batte i campi verso l’arnia lontana e insieme soffocato da uno di quei sensi di colpa enormi, completi come mondi, che si possono provare solo da bambini.
È tardi, ma vorrei comunque provare a spiegarti quel che è successo allora, quando il cielo era diverso, allora, quando, almeno per un istante, abbiamo avuto la fortuna di abitare lo stesso tempo, di vivere la stessa pioggia. Tu nella tua gabbia protetta, io disperso nei vicoli inondati, confuso tra i fantasmi ma bene attento a raccogliere tutti i segnali che mi lanciavi dal tuo sonno: un giocattolo, un disegno, la carta di una merendina o anche solo un pianto registrato. Per decifrarli ci voleva una gran pratica della lingua disarticolata dell’infanzia.
Il week-end piazza Santo Stefano era solita riempirsi di una girandola di anticaglie, chincaglie di ogni tipo in una riproduzione retrò di un mercatino rionale. Un mercato a spirale che convogliava verso il centro oggetti e ninnoli di ogni epoca, stampe e rilegature datate 1916, contenitori Campbell, mobili carichi di tarme, copricapo reduci dalle due guerre, feticci della grande madre Russia che probabilmente sarebbe piena di vergogna e, allo stesso tempo, di fierezza per la sua nipotina attuale.
La piazza era cautamente costruita da pietre incastonate, con una leggera pendenza verso il centro dove la sera erano soliti radunarsi centinaia di ragazzi in inconsapevole impossibilità di intifada.
Paolo e Luca gironzolavano senza prestare particolare attenzione ai prodotti.
Quando ero bambino, ho avuto molti giocattoli, ma non ero mai contento di loro. Ho sempre abbellito e ampliato il loro repertorio con appendici fatte di fil di ferro, di rame e di altri materiali.
In California avevo un amico con cui costruivamo armature e armi di lamiera e di bosso, scudi, corazze, elmi, spade, lance. Io avevo persino un vecchio paio di guanti di mia madre coperti di placche di latta. Lui era sir Lancillotto e io ero sir Tristano. Noi credevamo di fare dei duelli (amichevoli), ma lui era molto più agile di me e una volta mi diede un colpo sulle chiappe con il lato piatto della sua spada (di legno) e così mi ritirai dai tornei per sempre.
Poi avevo dei cavalli di cuoio imbottiti di segatura – alti 25 centimetri – una ferrovia meccanica di metallo con vagoni alti 7 centimetri ed ero molto arrabbiato quando i miei vicini venivano a giocarci, tutti assieme.
Poi avevamo alcuni ferri per marchiare che avevamo riscaldato sopra una candela. Il ferro era diventato troppo caldo e i cavalli si bruciarono troppo e la segatura fuoriuscì.
Mia sorella ha avuto non poche bambole e con del filo di rame fine, raccolto per strada, quando saldavano i cavi elettrici, e con delle perline, abbiamo fatto gioielli straordinari. Le filoferriste
Più avanti ho giocato un po’ con giocattoli più complicati e meccanizzati.
Il primo anno che ero a Parigi (1926-27), ho incontrato un serbo, che sosteneva di essere nel commercio dei giocattoli e mi assicurò che ci si poteva guadagnare da vivere inventando giocattoli meccanici. Poiché non avevo molti soldi, questo mi interessava.
Ho cominciato subito usando il fil di ferro come materiale principale e aggiungendo ogni sorta di cose: cordicelle, cuoio, tessuto, legno. Il legno combinato con il fil di ferro (con cui facevo le teste, le code e le zampe degli animali, così come le loro parti articolate) era diventato il mio standard. Un amico mi suggerì di fare dei personaggi interamente di fil di ferro e fu allora che iniziai a fare quella che ho chiamato “Scultura di fil di ferro” e a Montparnasse, hanno cominciato a chiamarmi “Il Re del Fil di Ferro.”
Il mio serbo era sparito da molto tempo, ma io ero ormai lanciato nei giocattoli e mi decisi a costruire un intero circo. Avevo già studiato il grande circo Barnum&Bailey e Ringling Brothers durante le sue tappe a New York, le due ultime primavere prima che partissi per la Francia e così gli animali nei giardini zoologici.
Le clown
Il mio primo acrobata fu un saltatore che aveva gambe fatte di filo di acciaio, mani di piombo, il corpo rivestito di velluto giallo e una testa fatta da una pezzetto di tappo con capelli e baffi dipinti ad acquerello. Lo si lasciava cadere dalla parte dei piedi e dopo molte giravolte e avendo fortuna, lui ricadeva sulle mani. Lo trovai molto riuscito quando un’amica mi disse che assomigliava a suo padre.
Così ho fatto dei trapezisti con le mani e i talloni a forma di uncini. I trapezisti naturalmente erano di fil di ferro, tirati con fili di cotone. Farli avanzare era molto facile. Ma ho tentato una modifica affinché la donna saltasse veramente da un posto a un altro, per essere poi riacciuffata fra le braccia del suo compare. Il risultato: lei saltava nel senso opposto a quello che mi aspettavo. Ma tutto ciò che dovetti fare fu di mettere il signore nella posizione opposta.
Avevo fatto un cavallo in legno che galoppava e volevo farlo girare in cerchio. Al centro di una pezzo di cartone avevo fissato un frullino per sbattere le uova, che si muoveva al contrario per mezzo di una manovella di fil di ferro messa al di sotto del cartone, da cui spuntava di lato. La vecchia manovella di questa macchina modesta era stata rettificata e prolungata con fil di ferro e così ho potuto far camminare il mio cavallo in cerchio.
Le culbuteur
Dopo questo ho fatto un acrobata con le gambe divaricate a semicerchio e piedi pesanti e un trampolino che lo lanciava in aria. Il numero consisteva nel far andare il cavallo con la manovella e nel lanciare l’acrobata, tirando un filo che liberava il trampolino, affinché atterrasse in groppa al cavallo.
Ho fatto anche una danzatrice del ventre con una specie di elica, che attraversava il suo corpo longitudinalmente e girava, sollecitata dalla stessa specie d’ingranaggio.
Ho fatto un cane con tubi di gomma, con tre fili a ogni lato per equilibrare la coda. Andava a fare i suoi bisogni sotto un lampione a gas, quindi rientrava in scena galoppando.
Più tardi Paul Fratellini l’ha visto da me e mi ha chiesto di farne uno più grande per lui. Venne chiamato Signorina Tamara e Albert Fratellini l’ha trascinato per anni nei suoi spettacoli.
Le dompteur
C’era anche un domatore di fiere e il suo leone. Il leone, che aveva un corpo in filo di ferro e una testa di stoffa arancione, faceva molte acrobazie e poi, seduto su una base, mollava 2 o 3 castagne, che io coprivo rapidamente con della segatura. Volevo aggiungere gli odori. Andai per comperare del profumo, di muschio, ma era troppo caro, così mi vendettero un tubo di crema depilatoria (siccome aveva un pessimo odore). Me lo sono preso, ma, quando l’ ho aperto, mi sono rapidamente deciso a lasciar perdere gli odori.
Avevo “Il Selvaggio West” con un cowboy che era molto abile con un lazo e che catturava un toro che galoppava in cerchio.
C’era anche un “lanciatore di coltelli” e la sua “prima favorita” che veniva finalmente ferita e tolta dalla pista da due barellieri e che rientrava immediatamente sulla pista come “seconda favorita.”
Le chef du piste
Naturalmente c’era un direttore del circo in alta uniforme fatto con un tappo e un pezzo di cartone e vestito in frac. Aveva un fischietto per fermare la musica, per fare gli annunci e una fisarmonica a bocca come tromba, quando c’era qualcuno d’importante.
Cambiavo i tappeti a colori vivaci quasi ad ogni numero perché fossero complementari ai colori con cui erano fatti i costumi degli artisti, che portavano spesso gioielli splendidi di Woolworth. In tutto ci sono circa 20 numeri, con un intervallo, e noccioline, e la musica esotica del grammofono, diretto da mia moglie, che è un superbo direttore d’orchestra e i rumori d’un tamburo, dei piatti, un tubo di cartone per far parlare il leone e se amate il Circo in grande, forse amerete il mio.
[ trad. di Orsola Puecher]
Voici une petite histoire de mon cirque
par Calder
testo e disegni da Permanence du Cirque
Revue Neuf Paris
[ 1952 ]
[ delizioso e prezioso libro illustrato – ricomparso da un certo scaffale – ora assai squinternato – come si vede – da successivi passaggi fra manine sporchicce – appicicosette e distruttrici di generazioni di bambini – che vi hanno sognato – e segnato – sopra – come solo si sogna su alcuni libri – prima ancora di imparare a leggere – imprimendo indelebilmente nel DNA del proprio immaginario le loro figure ]
Oggi il database di Nazione Indiana si è guastato ed ho ripristinato un backup delle 9.00 di stamattina. Tutti gli articoli e commenti inseriti tra le 9 ed ora sono andati persi. Mi scuso coi lettori per il disagio. – Jan Reister
Sono molti e diversi i motivi per cui Brancher ministro dovrebbe accendere rigurgiti insopportabili e non sopportati da un Paese che ha perso il gusto del risveglio: la storia di Brancher, innanzitutto, è un sentiero di ombre che mette le radici nelle pieghe di quella Prima Repubblica che è stata “riciclata” piuttosto che essere confiscata e riassegnata ad uso sociale.
Come da regolamento, sono stati esclusi dalle votazioni i libri di Massimo Gezzi (L’attimo dopo, Luca Sossella Editore) e Guido Mazzoni (I mondi, Donzelli) per la Poesia; La strada di Levi di Marco Belpoliti-Andrea Cortellessa-Davide Ferrario (Chiare Lettere) per le Altre Scritture.
NARRATIVA
1) Helena Janeczek, Le rondini di Montecassino, Guanda p. 45
2) Paolo Zanotti, Bambini bonsai, Ponte alle Grazie p. 32
3) Gabriele Frasca, Dai cancelli d’acciaio, Luca Sossella Editore p. 28
4) Michele Mari, Rosso Floyd, Einaudi p. 25
5) Carlo D’Amicis, La battuta perfetta, minimum fax p. 20
6) Emanuele Trevi, Il libro della gioia perpetua, Rizzoli p. 19
7) Davide Longo, L’uomo verticale, Fandango Libri p. 16
8) Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Mondadori p. 12
9) Fabio Geda, Nel mare ci sono i coccodrilli, BCD Editori p. 11
10) Dante G. Munafò, Ologramma con gatto nero, Editrice Zona p. 11
Anche in Italia, nel 2009, è ormai arrivata all’orecchio del lettore avvertito la notizia che Danilo Kiš è uno dei massimi romanzieri europei della seconda metà del secolo scorso. Per questo motivo Adelphi può finalmente pubblicare un’antologia della sua opera saggistica apparsa durante l’ultimo decennio della vita di Kiš, morto nel 1989. In Francia, un’operazione simile è stata fatta da Fayard nel 1993, a due anni dallo scoppio del conflitto nella ex-Jugoslavia. Come l’edizione francese afferma esplicitamente, tale tempestività era motivata dalla grande attualità delle riflessioni di Kiš, che ruotano intorno al rapporto tra ideologia e letteratura. Grazie a un ritardo quasi ventennale, da noi queste riflessioni possono ora giungere impregnate di quella inattualità, che è l’ingrediente tipico delle proposte editoriali di Adelphi. Sennonché, leggendo alcuni dei saggi di Kiš sul provincialismo letterario e sul nazionalismo, emergono inquietanti similitudini tra l’Italia attuale e la Jugoslavia socialista degli anni Settanta e inizio Ottanta.
Se siete in Italia e non riuscite ad accedere a Facebook, le mail che spedite spariscono nello spazio profondo del web e su Amazon vi sono alcuni libri che non è possibile ordinare, da oggi in poi non dovrete più prendervela con il governo di Roma.
La colpa, piuttosto, è degli squilibrati che usano Facebook per incitare al reato, dei sovversivi come voi che complottano nascosti dietro lo schermo di un pc e dei ricercatori che riempiono i loro libri di falsità tese a rovinare l’immagine dell’Italia. Sono loro, e non l’Italia, a limitare la vostra libertà di espressione ed il vostro diritto di informazione. In realtà tutti godono del diritto di usare internet, della libertà di espressione e della libertà di informazione. I diritti e le libertà però non sono illimitati, e non possono essere goduti a proprio piacimento. Non è possibile usare Facebook, i blog o i quotidiani online per incitare all’odio verso gli stranieri, al cambiamento del sistema politico o al sovvertimento della democrazia. L’esercizio dei propri diritti deve avvenire nel rispetto dei diritti degli altri membri della società, e della sovranità della Repubblica Italiana.
intervistatore: Si tratta della società dello spettacolo, con tutto quel che può avere di delirante, quello che ci è stato offerto? Alain Finkielkraut: Ah no, credo si tratti proprio della società, la società dello spettacolo, all’occorrenza, non c’entra per niente. Veniamo a sapere, atterriti, di certo non sorpresi, dell’aggressione verbale di inaudita volgarità commessa da Nicolas Anelka e il capitano della squadra viene a dirci, qualche ora dopo, che il problema non è tanto l’aggressione, non il suo autore ma la spia che lo ha denunciato. Questo equivale ad avere la prova spaventosa che la nazionale francese non è una squadra ma una banda di teppisti che conosce una sola morale, quella della mafia. Se la squadra della generazione Zidane ci ha fatto sognare, viene quasi da vomitare con questa generazione Caillera (nelle periferie francesi si parla il Verlan, ovvero l’Anver, l’Inverse, una lingua che si costruisce invertendo le sillabe. Così racaille, la feccia, la chiavica, diventa caillera, ndt ). Bisognerà ripartire con un’altra squadra, un’altra generazione e credo che questo sia possibile. Ho ascoltato un giocatore che non era stato selezionato per questi mondiali, Jean-Alain Boumsong, alla televisione, richiamarsi, in una lingua ache risuonava elegante, impeccabile, alle virtù dell’umiltà. Non è più tempo di affidare il destino della squadra a dei teppisti arroganti e inintelligenti ma di selezionare dei gentlemen. Visibilmente ce ne sono, Jean-Alain Boumsong ne è un esempio, ce ne sono altri ed è verso questo tipo di scelta che bisognerà orientarsi. Quando lei dice, società dello spettacolo, non ne sono poi così certo, al contrario ho l’impressione che la Francia sia invitata a guardarsi in questo specchio, uno specchio assolutamente terribile e qui contempla lo spettacolo della sua mancanza di unità e il suo inesorabile declino. Forse tutto questo scuoterà le coscienze e sarà una cosa certamente salutare.
“Il gigante è in ginocchio. Steso dal nervo sciatico, un dolore violento e improvviso, una scarica elettrica che parte dalla schiena e scende lungo la coscia. Gianluigi Buffon è fermo ai box, come una Ferrari che perde olio dal motore. Malinconico e arrabbiato” scriveva Alessandro Bocci sul Corriere della Sera del 16 giugno (p.48). Eh già, Buffon perde olio dal motore malgrado l’accurata manutenzione effettuata in tutti questi anni.
Il portiere della Juventus sembra aver stimolato i cronisti inviati in Sudafrica alla ricerca di eroi: il Mattino di Padova, per esempio, scriveva il 20 giugno, che “Gigi Buffon ha voluto riunire tutti i compagni per abbracciarli forte, uno a uno. «Non vengo perché ho dolore – ha confidato loro – ma lottate anche per me»”. Un saluto degno dei re spartani alle Termopili, dei gladiatori che entravano nel Colosseo, di Enrico Toti prima di andare a lanciare la stampella contro gli austriaci. Peccato che l’effetto retorico fosse un po’ rovinato dal seguito dell’articolo: “«Sono sicuro che farete una grande partita»” Certo, cos’era la difesa di Stalingrado dai nazisti in confronto alla sofferenza di dover guardare la partita in tv?
L’indisposizione di Buffon ha risvegliato un grande interesse qui a Nazione Indiana: ci sembrava che la stampa italiana non avesse indagato a sufficienza su quel “male subdolo”, sul “dolore violento e improvviso” che ha colpito il bravo portiere. Possibile che la sciatica colpisca anche in giovane età? Buffon ha risposto in televisione a Ilaria D’ Amico, nel corso di Sky Mondiali Show, citando il caso della compagna Alena Seredova: “Anche la gravidanza dà questi problemi, [il nervo] si infiamma a seconda di come si posiziona il bambino, ora non possiamo fare un’ esegesi del nervo sciatico, però sono informazioni che servono”. Mmmmmmh, “ora non possiamo fare un’ esegesi del nervo sciatico”, cosa mai vorrà dire?