Lippi che stizzito calcia l’erba del campo da calcio; il presidente del Consiglio che afferma: l’opposizione ci invidia; il coro sul prato di Pontida che manifesta la sua disdetta; il Cardinal Sepe che dal pulpito parla di invidia e risentimento dentro la Chiesa. Spira oggi in Italia il vento secco del risentimento. Tutti risentiti, e spesso per motivi diametralmente opposti. Perché siamo arrivati a questo? Nella società contemporanea sempre più spesso i singoli provano un senso di animosità verso gli altri, o verso il mondo in generale, quale risposta a offese, affronti o frustrazioni che ritengono di aver subito. Risentimento e rancore sono sinonimi; rancore viene dal latino, rancor, “lamento, desiderio, richiesta”, e, come ricorda lo psicoanalista argentino Luis Kancyper, ha la medesima radice di rancidus, “astioso”, di “stantio”, ma anche di “zoppo”; risentimento significa invece: “sentire ancora”. È il ritornare incessante sul proprio stato emotivo senza possibilità di allontanare definitivamente l’offesa o il torto.
Una ‘quest’ claustrale
di Stefano Gallerani
A chiusura de La verità sulla morte di Carla (Gaffi, 2005), Raffaele Manica riconosceva all’autore di quei racconti, Andrea Melone, un «universo ossessivo» e una terna tematica in cui campeggiano, come araldi, «i luoghi, il mistero, la colpa». Quanto oggi torna, amplificato ed accresciuto dalla forma romanzo, in Giardini di Loto (sempre per Gaffi, nella collana “Godot”, pp. 283, € 14,80). La scrittura, intarsiata di arcaismi, ibridazioni e neologismi, condivide molti tratti con quell’esordio, ma le diverse possibilità strutturali ne accrescono potenza evocativa e capacità di suggestione. Ed è infatti come si segue uno spartito che si assecondano i diversi capitoli della prima parte del libro, affatto immersi in una dimensione claustrale in cui i personaggi sono prigionieri di spazi – fisici e psichici, in perfetta consonanza – angusti. Scarnificata, la trama corrisponde perfettamente alla morale sottesa: la ricerca di una persona scomparsa che non è mai esistita, e dunque l’affannarsi intorno a un’assenza (ovvero, la creazione di un mondo).
Confessioni sulla tratta Firenze – Boston: Io e Anne di Rosaria Lo Russo
di Marco Simonelli
Della statunitense Anne Sexton Rosaria Lo Russo è interprete italiana almeno su tre differenti livelli: ne ha tradotto i testi in tre fortunate edizioni (Poesie d’amore, Le Lettere, Firenze, 1996; L’estrosa abbondanza, Crocetti, Milano, 1997; Poesie su Dio, Le Lettere, Firenze, 2003), ha contribuito alla sua diffusione con alcuni saggi (si veda soprattutto La ragazza cristica, in Poesie su Dio, cit.) sottolineandone la dimensione auto-mito-biografica in relazione alla condizione della poesia femminile occidentale, se ne è assunta la corporalità vocale in vari reading-performance restituendoci la proporzione dinamica ed emotiva di una scrittura ad alta componente orale (la Sexton, nell’ultima parte della sua vita, si esibì in clamorose ed ipnotiche letture dando vita ad un’esperienza altra di fruizione del testo poetico).
Esce adesso Io e Anne – Confessional poems (d’if, Napoli, 2010), con cd audio contenente una suggestiva rendition dei più noti testi sextoniani, un concerto per voce ed elettronica (l’armonizzazione parola-suono, il melologo, per usare una definizione cara a Lo Russo, si avvale della collaborazione dei Mondo Candido). Si tratta (sarà bene chiarirlo subito) di uno sforzo esegetico e contemporaneamente artistico che procede nella direzione della coerenza estetica, piuttosto che verso una resa letterale della voce della Sexton: le traduzioni di Lo Russo, lungi dall’essere meri calchi linguistici dell’originale, sono elaborate operazioni di doppiaggio autoriale e attoriale concepite con precisa conoscenza della realtà storica e poetica dell’originale.
Post modem: Livio Borriello
di
Livio Borriello
Quest’abisso assoluto cos’è?
è che le cose esistono.
continuare a guardarlo, come si guarda il palazzo di fronte o un cane che passa. continuare a resistere
un punto qualsiasi della mia vita.
l’ho vissuto.
questo punto è là, costruito da me come un oggetto, riempito da me come un oggetto. questo punto è un rudere abbandonato in un’area molto lontana da qui. gli sterminati punti contenuti forse in 33 anni della mia ( di tutte ) le vite ci separano.
in questo punto ci sono alberi di pino (una pineta), auto che passano. questo punto, era fatto di questa sostanza . (ora, di che sostanza?). era una sostanza maggiormente verde, escresciuta, fissatasi in forme dendritiche. sparsi, in quella sostanza, c’eravamo noi, mobili, con gli io.
Maledetti i Zorzi Vila!
di Chiara Valerio
Zio Cesio in Libia, zio Treves che dalla Francia era passato in Russia insieme a mio zio Turati, zio Temistocle (…) che dalla Grecia era passato in Jugoslavia, mio cugino Paride tra la Dalmazia e l’Albania nella milizia portuaria e i fratelli del Lanzidei tutti in guerra pure loro (…) mio cugino Ampelio, era con la marina in Cina, pensi lei, su un incrociatore in Manciuria. Non c’era una parte del mondo in cui non ci fosse gente dei Peruzzi che si stesse giocando la pelle. Il tono è quello di chi ti sta raccontando una storia. Apri gli occhi e ascolti. Resti fermo, impettito un poco, concentrato, con la schiena ritta, perché la storia è una scomoda e spinosa storia patria, dove c’è da ammettere, ad ascoltarla bene, che ognuno ha le ragioni sue, che Per la fame. Siamo venuti giù per la fame, altrimenti non si sarebbe mosso nessuno. Canale Mussolini (Mondadori, 2010) di Antonio Pennacchi è la storia della famiglia Peruzzi, che è nessuna famiglia, e quindi tutte, che dalla pianura ferrarese, e da chiari impeti marxisti, passa all’agro pontino, e a scuri indumenti d’orbace. Ma non è una storia che avanza per idee, per generali astratti, per masse, per processi economici e industriali. È una saga che lega persone, esitazioni, inimicizie giurate e nate per un pallone da bambini e che continuano, assolute come amori, per tutta una vita. È anche una storia di amore.
Sing goddamm
- Sumer is icumen in,
- Lhude sing cuccu!
- Groweþ sed and bloweþ med
- And springþ þe wde nu,
- Sing cuccu!
- Awe bleteþ after lomb,
- Lhouþ after calue cu.
- Bulluc sterteþ, bucke uerteþ,
- Murie sing cuccu!
- Cuccu, cuccu, wel singes þu cuccu;
- Ne swik þu nauer nu.
- Pes 1:
- Sing cuccu nu. Sing cuccu.
- Pes 2:
- Sing cuccu. Sing cuccu nu.
La gioia dell’essere insieme
[Luigi Di Ruscio mi ha mandato questo frammento ritrovato, pubblicato in Poesie operaie. Da rileggere, in tempi in cui, per ricostruire reti solidali, dovremmo forse tornare a quella virtù esperita da Di Ruscio come collante delle differenze. Dedicato, anche, alla difesa dei diritti fondamentali dei lavoratori attaccati a Pomigliano. m.r.]
di Luigi Di Ruscio
Improvvisamente sul tram quotidiano ho capito che il lato positivo dell’antologia Poesia e Realtà di Giancarlo Majorino è quell’essere insieme, gli atei insieme ai credenti, gli analfabeti con i bene alfabetizzati, quelli della rima e quelli della contro rima, i viscerali con i cerebrali, i nuovissimi con i vecchissimi che muoiono anche a cent’anni, quelli che si sono suicidati e quelli che vivono molto bene, gli ammogliati e gli strozzati, gli avanguardisti e i retroattivi, gli italiani e i sanfedisti, i seri e quelli che irridono anche la croce rossa con tutto il pappalardo, tutti insieme con le “ali illuminate” perché è questo essere insieme la prova dell’epoca, devono riuscire a vivere insieme gli albani con i serbi, i turchi con i curdi, i palestinesi con gli ebrei, devono smettersela di vivere in un massacro continuo, devono imparare ad accettarsi così come sono perché è vero quello che mi diceva nonna analfabeta “siamo tutti figli di madri”, le nostre diversità contano meno di tutto quello che abbiamo in comune, quei cuori del manifesto Benetton saranno di neri o di bianchi però i cuori sono tutti uguali, i nostri cervelli simili. Quell’essere insieme come quando ero in quel reparto io italiano insieme a tutti i norvegesi, quasi la pecora nera tra i biondi e gli azzurrati eppure eravamo insieme e fummo insieme per diecine d’anni continui. Ero insieme a tutti voi con le nostre tutte, con gli ingenui vestiti della domenica, li ricordo uno ad uno ora che sono quasi tutti morti. Però ogni tanto tra la folla sento un urlo, vengo chiamato urlato in tutti i modi con nome e cognome che qui sono indicibili in maniera corretta, uno sopravvissuto a tutte le pesti, a tutte le polveri arsenicali e dei metalli pesanti, metallurgiche a tutte le sudate continue mi chiama, mi abbraccia. Eravamo insieme diversi in tutto ma eravamo insieme nello stesso disprezzo per i padroni, insieme quando abbiamo sabotato e scioperato, insieme nei sotterfugi operai, ridevamo insieme e sudavamo insieme senza neppure accorgerci di questo miracolo, l’essere diversi però fraternamente insieme.
bgmole’s prêt-à-porter
La notizia è che da un paio di settimane esistono le t-shirt di bgmole. So che non vedevate l’ora di presentarvi all’aperitivo, a una serata all’ESC o a un improbabile concerto degli Humpty Dumpty con la vostra bella maglietta bgmoliana, mostrando la cristallina percezione dello stato delle cose che vi distingue dagli altri. Grazie a Ostix ed alla bravura di Davide Bignami, adesso tutto questo è possibile e potete vedere i modelli disponibili cliccando qui.
Le ragioni per cui mi sono buttato sull’easy fashion sono diverse ma, oltre a un’adolescenza irrimediabilmente segnata dagli Anni ’80, direi che quelle fondamentali sono due: una, il tentativo di esplorare quel meccanismo del grand master che segnalavo qui e le terre di confine tra etica ed estetica che la moda e il brand occupano ormai da anni; due, il fascino che provo per i palinsesti effimeri (capi di abbigliamento, post, adesivi, etc. etc.) e la fruizione dei testi sfuggenti, interrotti, anodini che vi si possono trovare.
Radio Kapital: Sergio Bologna (come un’invettiva)
Grêveries
di
Sergio Bologna
Com’è bello sentire il cuore del “popolo di Sinistra” pulsare così forte per gli operai di Pomigliano, inalberare ancora la bandiera dell’art. 1 della Costituzione, ergere il petto contro gli attacchi al diritto di sciopero! Che spettacolo di virtù civiche e di democrazia! Poi ci viene un dubbio: ma dove cazzo eravate in questi ultimi quindici anni? Davanti ai videogiochi? Non vi siete accorti che il diritto di sciopero non esiste di fatto per più di un milione di precari e lavoratori autonomi da un bel po’ di tempo? Quelle migliaia di giovani laureati che lavorano gratis nei cosiddetti tirocinii, hanno diritto di sciopero quelli? Messi insieme fanno dieci Pomigliano. C’è un’intera generazione che è cresciuta senza conoscere diritto di sciopero, né Cassa Integrazione, né sussidio di disoccupazione, niente. “Bamboccioni” li ha chiamati un Ministro (di centro-Sinistra ovviamente).
Ma tornate davanti alla tele a guardarvi Santoro! Raccontatevi barzellette su Berlusconi, leggetevi “Repubblica” come la Bibbia, che altro in difesa della democrazia e del lavoro non sapete fare!
Nota di effeffe
Dopo il primo commento di Jacopo Galimberti ho chiesto a Sergio Bologna di accettare la sfida con una replica. Quella che segue è la risposta alla domanda : Come si fa a difendere la democrazia?
José de Sousa Saramago
di Massimo Rizzante [a cura di antonio sparzani], originariamente apparso qui.
Pomeriggio di giovedì 8 ottobre [1998, n.d.c.]. Rientrato a casa, dopo il lavoro all’università, squilla il telefono. È il direttore de L’Atelier du Roman, una rivista francese con cui collaboro da alcuni anni. Da Parigi, tutto contento, mi annuncia che José Saramago ha vinto il Premio Nobel per la letteratura. Dopo un respiro profondo gli rispondo: “Finalmente è arrivato”. Mi spiega poi che secondo le ultime indiscrezioni giunte da Stoccolma via Varsavia (i polacchi in questi ultimi tempi, vedi Milosz e Szymborska, poeti premiati con il Nobel rispettivamente nel 1980 e nel 1996, devono essere degli specialisti) Saramago ha dovuto battere addirittura la concorrenza di un suo compatriota, anche lui tra i cinque finalisti, Antonio Lobo Antunes.
Insomma quest’anno il Nobel per la letteratura è stato un affare di famiglia, della grande famiglia di lingua portoghese e lusofona che annovera tra una sponda e l’altra dell’Atlantico, tra Portogallo e Brasile (senza dimenticare le isole Azzorre, Capoverde e le varianti creole africane) circa duecento milioni di parlanti e solo in questo secolo almeno una dozzina di scrittori di valore assoluto in campo internazionale. Per il Portogallo bastino i nomi di Pessoa, Miguel Torga, Vergilio Ferreira, Agustina Bessa-Luís, José Cardoso Pires, José Saramago, Antonio Lobo Antunes, João de Melo; per il Brasile mi vengono in mente, tra quelli tradotti anche in Italia, i nomi di Machado De Assis, Clarice Lispector, João Guimarães Rosa e Jorge Amado.
Legge bavaglio, scenari per blog e Nazione Indiana
di Jan Reister
La cosiddetta Legge Bavaglio (vedi la dettagliata analisi degli articoli di Guido Scorza) che sta suscitando le proteste della società democratica ( qui un’ottima iniziativa di Paolo Gentiloni, Matteo Orfini e Pippo Civati) potrebbe entrare in vigore presto, inalterata. Tra le conseguenze devastanti che avrà per la democrazia, la legalità e la libertà di espressione, ve ne sono alcune che riguardano direttamente i siti informatici. Anche se spero che la legge non venga mai promulgata, è ragionevole prepararsi ad affrontare concretamente il futuro che aspetta blog, siti web ed attività in rete.
Sex in the Cité
Brano tratto da
“il delta di Venere” di Anaïs Nin, Bompiani, Traduzione di Delfina Vezzoli;
“Caro collezionista, noi la odiamo. II sesso perde ogni potere quando diventa esplicito, meccanico, ripetuto, quando diventa un’ossessione meccanicistica. Diventa una noia. Lei ci ha insegnato più di chiunque altro quanto sia sbagliato non mescolarlo all’emozione, all’appetito, al desiderio, alla lussuria, al caso, ai capricci, ai legami personali, a relazioni più profonde che ne cambiano il colore, il sapore, i ritmi, l’intensità.”
“Lei non sa cosa si perde con il suo esame al microscopio dell’attività sessuale, con l’esclusione degli aspetti che sono il carburante che la infiamma. Componenti intellettuali, fantasiose, romantiche, emotive. Questo è quel che conferisce al sesso la sua struttura sorprendente, le sue trasformazioni sottili, i suoi elementi afrodisiaci. Lei sta rimpicciolendo il mondo delle sue sensazioni. Lo sta facendo appassire, morir di fame, ne sta prosciugando il sangue.”
Stregature: Antonio Pennacchi
Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Mondadori, pp. 460, € 20
Gli editori del Bel Paese sono ossessionati dal “grande romanzo italiano”. Lo cercano, lo stampano, lo propagandano, come nel caso del pessimo Acciaio della Avallone, caso editoriale coltivato in batteria. Forse deve ancora nascere il romanziere che ci dia il nostro Tamburo di latta, oppure qualcosa come I figli della mezzanotte. Intanto ci accontentiamo di questo Canale Mussolini dello scrittore ex operaio Antonio Pennacchi. Non è un cattivo libro, anzi, ha molti meriti: si fa leggere, è scorrevole, ha momenti davvero riusciti, unisce le storie di ieri con quelle di oggi.
TRISTI MONTAGNE (guida ai malesseri alpini): 2 parte
di Christian Arnoldi
[il passo riportato, come i due precedenti, è tratto da Tristi montagne (guida ai malesseri alpini) di Christian Arnoldi, Priuli & Ferlucca, 2009]
La montagne maudite
Il lavoro di selezione e di integrazione di immagini appena visto ha avuto come effetto l’esclusione e la rimozione di taluni elementi interpretativi e di talune visioni alpine che per tutto il periodo romantico erano andate di pari passo con quelle della belle montagne. La poetica del sublime percepiva le Alpi come un ambiente incontaminato e quindi anche selvaggio, minaccioso, rischioso, pericoloso. Esse erano per eccellenza il luogo sia della meraviglia, sia del terrore. Ricordiamo per esempio le impressioni riportate da Chateaubriand in occasione del suo viaggio sul Monte Bianco nel 1805. Egli ne rimase profondamente deluso e turbato tanto da scrivere, nel suo Voyage au Mont Blanc, che le descrizioni delle montagne apparse nella letteratura di quegli anni travisavano oltremodo la realtà. Egli descriveva le Alpi e in particolare il massiccio del Bianco in tutt’altra chiave:
Note per un libretto delle assenze
E allora? Già, non te n’eri accorto, e forse nemmeno lo immaginavi che potesse accadere, capitare a te di ritrovare delle cose viste, ma tanto tempo prima, l’anima, il colore fino ad allora annegato in un mare di toni scuri, in centinaia di foto in bianco e in nero, una vastità di grigi, con scale appena percettibili, gli occhi del colore dei capelli e delle scarpe, come se il bianco avesse fatto assalto al nero o questi avesse attentato alla purezza, immacolata della carta, o forse né l’uno né l’altro, perché tra quello che era e si vedeva, perché certo si vedeva per come era, naturale, roseo, i capelli radi sulla fronte, il sorriso delicato come le mani, il volto, non v’era più nulla al passaggio dell’occhio alla camera oscura. Come per la sacra sindone incline al sacrificio del dettaglio, a fare di rosso sangue, grumi di colore denso e nero, e nessun rosa, giallo, nemmeno un’unghia sul telo imbrattato, qui, però al contrario, dalla icona senza colore venivano fuori le pieghe degli occhi, le rughe del tempo. Allora ecco, ora cedi alle tensioni dello sguardo, e le corde dell’anima lasci che suonino insieme ai ricordi qualcosa di simile a una canzone già sentita, per consapevolezza di essere stato felice, anche tu un giorno come quell’uomo nella fotografia.
IL CASTELLO (3 parte)
di Giacomo Sartori
…
Il secondo giorno mi sono alzato, e ho cominciato a aggirarmi per il castello ancora silenzioso. A quanto pare i fantasmi erano già andati a letto, mentre gli scrittori veri o posticci che fossero non si erano ancora alzati. Le solite sale con le solite armi appese alle pareti, i soliti quadri, le solite profonde finestre con i soliti cortili interni e bastioni, i soliti saloni affrescati, i soliti corridoi e disordinati scalini. Adesso non avevo più paura di perdermi, sapevo che bene o male ce se ne veniva sempre fuori. Bastava avere pazienza, non lasciarsi prendere dal panico. Il problema piuttosto era la colazione. Camminavo e camminavo, e neanche l’ombra di un locale con qualcosa anche solo lontanamente alimentare. Si sarebbe detto che il castello fosse assediato da anni, e le scorte fossero ormai finite da un pezzo.
Fiero del mio sognare
Nel 1972 Guccini ha trentadue anni. È già distante dai miti di quell’epoca, che del resto si incamminano lentamente per conto proprio verso il tramonto. Verso la fine di quell’anno scriverà un testo come quello di “Canzone delle osterie di fuori porta”, che celebra proprio la fine del flower power e la fosca irruzione del terrorismo:
son caduti i fiori e hanno lasciato solo simboli di morte.
Come avrebbe chiosato Woody Allen, “Dio è morto, Marx è morto e anche io non mi sento tanto bene”.
Poco tempo prima di questo passaggio, il cantautore – “la montagna nel cuore” – licenzia un Lp come RADICI. Lo stacco rispetto alla contemporaneità è forte e netto. Dice in proposito: “In un periodo in cui molti volevano fare tabula rasa del passato, io invece cercavo questo passato per capire che cos’ero, avevo bisogno di trovare qualcosa che mi appartenesse, e quindi le radici”. Forse è anche il risultato di successivi sradicamenti subiti (sebbene non tutti avversati): da Pàvana a Modena, da Modena a Bologna. […]
carta st[r]ampa[la]ta n. 19
di Fabrizio Tonello
Quando erano più piccole, le mie nipotine pesaresi adoravano far impazzire i grandi che le interrogavano sui numeri: “Quanto fa 10 più 10?” chiedeva, melenso, l’adulto sorridente. “Undici”, rispondeva implacabile Teresa. “Ma no, sono sicura che lo sai, 10 più 10, come le dita, quanto fa?” “Quindici”. “Su, non fare la sciocchina”, sospirava la nonna, “guarda le due mani: quante dita ho”? “Quattro” era la risposta. Di solito, il benevolo esame finiva lì e si andava comprare il gelato (fuori casa i piccoli mostri capivano perfettamente la differenza tra “2 palline”, “3 palline” e “4 palline con panna”).
Qualcosa del genere succede probabilmente anche al Giornale dove, il 9 giugno, Feltri ha lanciato la sua campagna per tagliare i fondi alle associazioni come l’Anpi, commissionando un articolo intitolato “Pochi fondi agli ex soldati: fanno incetta solo i partigiani”. Qualcuno potrebbe magari obiettare che i partigiani erano soldati, visto che il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia era un organismo riconosciuto non solo dal governo dell’Italia liberata ma anche dalle potenze alleate, che mandavano armi, uomini e istruzioni. Il comandante
militare era Raffaele Cadorna, generale dell’esercito regolare italiano. Ma forse è troppo chiedere che “Littorio” Feltri (come lo ha soprannominato Marco Travaglio) si sia accorto di queste cose a soli 65 anni dal 25 aprile 1945 e a 62 anni dall’approvazione della Costituzione (che il suo datore di lavoro vuole cancellare perché è “un inferno”).
Carta canta
di Helena Janeczek
Premessa:
Un piccolo libro contro Roberto Saviano edito dal “Manifestolibri” ha scatenato una discussione sulle pagine del “manifesto” e altri giornali, trovando un’ampia eco, prevedibile e positiva, sulla stampa di destra. Alessandro Dal Lago, l’autore di Eroi di Carta, e il suo editore Marco Bascetta hanno rivendicato il diritto di criticare Saviano da sinistra, mentre molte altre firme, inclusa la stessa direttrice del “Manifesto” Norma Rangeri, hanno difeso l’opera e l’autore di Gomorra. Non mi interessa, in questa sede, difendere Saviano perché sta pagando un prezzo personale alto, perché lo hanno più volte minacciato i Casalesi, perché sta decisamente antipatico al capo del nostro governo fresco di legge-bavaglio che è anche il suo editore e il mio datore di lavoro. Voglio soltanto mostrare com’è fatta quella che Bascetta definisce un’analisi “seria, rigorosa, e diffusamente argomentata”. Analizzando a mia volta un testo, lavoro che, se gli argomenti e riscontri sono validi, resta tale anche se fossi la mamma di Saviano o l’amministratore delegato della Mondadori.












