[eccovi il primo capitolo di un bel libro di un autore che, in un certo senso, è nato proprio su queste pagine virtuali. Il romanzo si intitola L’invenzione di Palermo, Giulio Perrone editore. G.B.]
di Giuseppe Rizzo
PiEmmeBi. Oppure: PmB. Insomma: Porcaminchiabuttanazza. Pensavo che questa si sarebbe venduta come niente. Semplice veloce leggera. Non come le solite maleparole schife che si sentono ancora oggi a Palermo. I palermitani non ci sanno fare con le parolazze. Non le sanno dire. E non le sanno inventare. Prendiamo per esempio arruso. A meno che uno non passi il tempo a leccare più libri che gelati, non arriverà mai a scoprire che arruso sta per finocchio. (A me, per dire, piacerebbe di più che li si chiamasse popòsessuali, ma quella è questione di gusti). Che porcaminchiabuttanazza di parola è arruso? E negghia? E puippu? E metello? Nah, non servono, non arrivano, non si capiscono. Sono, beh, ecco, sono false. Vengono dalla pancia, come i rutti, e io non ho mai sentito dire a qualcuno: signori, è arrivato il momento che io vi dica la verità: e giù rutti, ehr, ehr, ehr.
Comunque.
Porcaminchiabuttanazza mi uscì fuori quando papà arrivò a casa con la notizia che mamma non sarebbe più tornata. Se n’è partì, disse.
Eravamo seduti in cucina, piegati sul braciere per acchiappare un po’ di calura. Erano le sei, e dicembre aveva già colorato il cielo di nero. Restava attaccata a qualche nuvolone grigio la minaccia di una nevicata. Aspettavamo che mamma tornasse da lavoro per mangiare e ficcarci sotto le coperte. Teresina era piuttosto impaziente:
«Ci porterà qualcosa?»















