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La responsabilità dell’autore: Emanuele Trevi

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[Dopo gli interventi di Helena Janeczek, Andrea Inglese, abbiamo pensato di mettere a punto un questionario composto di 10 domande, e di mandarlo a un certo numero di autori, critici e addetti al mestiere. Dopo Erri De Luca, Luigi Bernardi, Michela Murgia, e Giulio Mozzi, seguono le risposte di Emanuele Trevi]

1) Come giudichi in generale, come speditivo apprezzamento di massima, lo stato della nostra letteratura contemporanea (narrativa e/o poesia)? Concordi con quei critici, che denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea?

Secondo me, quando non si vede nulla all’orizzonte, il problema sta più nel proprio apparato percettivo che nella situazione esterna. Ogni volta che ci si interroga sullo «stato della nostra letteratura contemporanea» mi viene da pensare alla più imprendibile ed ambigua delle categorie, quella del presente. Ricordate l’inizio della Certosa di Parma ? Fabrizio, l’eroe di Stendhal, è ancora un adolescente, ma vuole misurarsi con la Storia, o con la Vita Vera, e parte per Waterloo, arrivando in tempo per prendere parte alla battaglia. La sua massima ambizione è vedere Napoleone. Ma i cavalli, col procedere della giornata, hanno sollevato un tale polverone che non è più possibile vedere nulla. A un certo punto, in realtà, Fabrizio ha una fuggitiva visione: il pennacchio degli elmi di una pattuglia di dragoni al galoppo. La scorta dell’Imperatore in fuga ? Chi lo sa. Ecco, questo è il presente: un polverone nel quale, per il fatto stesso di esserci immersi, non vediamo praticamente nulla. I miei fuggitivi «dragoni», per stare alla metafora di Stendhal, sono parecchi. Con alcuni ho condiviso molta strada, per altri si è trattato di un incontro momentaneo, con altri ancora si sono verificate rotture più o meno dolorose. Mi sembra che quei critici che citate, i quali «denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea», ammesso che esistano e non siano una figura retorica, siano semplicemente degli sfaccendati privi del coraggio di buttarsi nella zuffa.

LUNGO VIAGGIO DALL’OSCURITA’ – per Carlos Montemayor

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di Danilo De Marco

O probabilmente ci troviamo dentro la pagina bianca del suo viaggio/là alza le braccia e ci chiama/ siamo parte di quella festa che non finisce/ parte di quel lungo viaggio che/ continua a cercare e accogliere ciascuno di noi./ Lo scorgo laggiù, lontano./ Alzo la mano per salutarlo./ Pur sapendo che viaggia fra di noi.
Con queste parole Carlos Montemayor ricordava Tito Maniacco meno di un mese fa, mentre lui stesso era gravemente malato di cancro allo stomaco.
Quando mi presentai a casa sua nel 1996 a Citta del Messico, non servirono molte parole. Carlos Montemayor mi accolse come gli uomini accolgono gli uomini.
Raramente ho incontrato un uomo, un grande intellettuale, un poeta, uno scrittore più umile di Carlos Montemayor. Umile nel senso etimologico della parola,

Primo marzo : sciopero dei migranti!

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Opera di André Kertész
Per informazioni vedi le Pagine Corsare a cura di Angela Molteni

carta st[r]amp[al]ata n.6

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di Fabrizio Tonello

Al Capone? Un chierichetto. Bonnie e Clyde? Due dilettanti. I film di Quentin Tarantino? D’ora in poi li trasmetteranno nei programmi per bambini, al posto di Melevisione. Sì, perché la realtà supera di molte lunghezze la fantasia: secondo la Repubblica di giovedì scorso, negli Stati Uniti ci sono stati, dal 1 gennaio al 24 febbraio di quest’anno, 16.354 omicidi con arma da fuoco (più strangolamenti, accoltellamenti, botte in testa, annegamenti nella vasca da bagno e altro arsenico e vecchi merletti).

Mamma mia!

I 60 anni di Filmcritica (I)

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[Ricorrono i 6o anni della rivista «Filmcritica», per chi voglia abbonarsi il modulo si trova qui. DP]

Esce per Le Mani di Genova un’antologia sui sessantanni della rivista Filmcritica, dal titolo Senso come rischio (a cura di A. Cappabianca, L. Esposito, B. Roberti, D. Turco, prefazione di E. Bruno). Nata nel 1950, fondata e diretta fino a oggi da Edoardo Bruno, Filmcritica ha sempre costituito un unicum all’interno della storia culturale d’Italia. Ancor prima e forse più dei Cahiers du cinéma, poi ampiamente appoggiati dalla rivista, si è posta la questione filosofica del rapporto fra immagine e parola, fra l’occasione del film e l’onda anomala del cinema. Quasi mai interessata a informare (e completamente disinteressata a stroncare), si è occupata e si occupa delle sole opere che – tendenziosamente (spesso in contro-tendenza) – rientrassero, cortocircuitandolo, nel rapporto poetico e politico prescelto (e non solo i  film).
Per tutti questi motivi, fin dall’inizio, idealmente tra i fondatori, e poi via via autentico nume tutelare, fu Roberto Rossellini, la cui opera, che a un certo punto rivendica il superamento del cinema in quanto tale, si organizza attorno a un progetto didattico obliquo e ubiquo, capace di occuparsi in un solo colpo di tutta la Storia e di tutta la storia delle immagini. La rivista, molto vicina a questo tentativo, non ha mai smesso di darne conto e di discuterlo. Il testo antologizzato mostra bene il metodo di lavoro rosselliniano, attraverso la sua introduzione per un film, rimasto inedito, sulla vita di Karl Marx e un estratto dalla sceneggiatura, con la famosa scena del bricco di caffè, pensata da Rossellini per spiegare il rapporto fra Marx e Engels.
Il pezzo è tratto dalla prima sezione dell’antologia: Rossellini/Ancora (a cura di D. Turco), pp. 12-15.
(Lorenzo Esposito)

Introduzione al Marx
Roberto Rossellini
n. 289/290, dicembre 1978

Il marxismo ha diviso il mondo in due.
Una parte di esso considera Karl Marx la guida che condurrà l’umanità verso un avvenire migliore; l’altra parte, un demone, il nemico della civiltà. Gli uni lo considerano il genio ed il campione del riscatto e della libertà; gli altri uno schiavista, un tiranno liberticida.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona: la damigella di Shalott

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di Antonio Sparzani

(qui un’altra esecuzione un po’ meno incompleta nel testo)

Perfino l’anonimo autore del Novellino, noto anche come Le Cento novelle antiche, ultimi anni del Duecento, ne aveva sentito parlare e cantare. Ne cantavano i trovatori medioevali, ne scrivevano le storie di Chrétien de Troyes e dei vari narratori del ciclo bretone; è la sfortunata damigella di Shalott: un castello su un’isola non lontana da Camelot (qui la storica illustrazione del Doré di Camelot):

Le strane cose di Raul Montanari

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di Mauro Baldrati

Esistono dei romanzi che seguono un percorso apparentemente obbligato, che neanche l’autore – talvolta identificabile col conduttore di una diligenza lanciata lungo un itinerario da lui stesso stabilito – riesce a modificare. Vanno avanti per i fatti loro, perché così sono stati iniziati, indirizzati. I motivi posso essere diversi: certe caratterizzazioni di personaggi molto forti, più forti del loro creatore, che vede ridursi sempre più i margini di manovra sulle loro vite e i loro destini; trappole morali, o etiche, o ideologiche, per cui alcune “sterzate” risultano impossibili senza cadute nei sentimenti bassi. Sono i cosiddetti romanzi pericolosi, perché l’autore rischia di ridursi a un semplice portavoce, ostaggio delle regole che lui stesso ha applicato alla storia e ai personaggi, scegliendo quel determinato impianto, quella struttura o sovrastruttura.

Libero di scrivere balle

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di Marco Rovelli

Philip Roth, in un’intervista a Paola Zanuttini per il Venerdì di Repubblica, ha scoperto che Libero aveva pubblicato un’intervista in cui lui stesso, sì, proprio lui, criticava pesantemente Obama. Ma lui quelle cose non le aveva mai dette, né quell’intervista aveva rilasciato. Vale la pena di rileggere il brano dell’intervista in cui Roth manifesta la sua stupefazione e scopre la bufala.

“Per caso, è insoddisfatto anche da Barack Obama? Da un’intervista a un quotidiano italiano, Libero, risulta che lo trova persino antipatico, oltre che inconcludente e assopito nei meccanismi del potere.”  “Ma io non ho mai detto una cosa del genere. E’ grottesco. Scandaloso. E’ tutto il contrario di quello che penso. Considero Obama fantastico. E trovo che l’attacco che gli stanno sferrando i repubblicani è molto simile a quello subito da Roosevelt al suo primo mandato. E’ la destra più stupida mobilitata da Sarah Palin. Agitano la bufala dell’atto di nascita che dimostrerebbe che è nato in Kenya. E trovano ascolto. Sotto c’è il problema della razza, della pelle. Sono molto seccato per queste dichiarazioni che mi vengono attribuite: non ho mai parlato con questo Libero. Smentisca tutto. Ora chiamo il mio agente.” Chiama il suo agente, che gli filtra tutti i contatti: nell’agenda delle interviste passate e future non risulta nè Libero nè il nome dell’intervistatore. Roth attacca e poi chiede cosa vuol dire Libero in inglese. Traduco. “Vuol dire che questi sono liberi di fare tutto quelli che gli pare?”

Vale la pena di notare anche che Pierluigi Battista si era come suo solito accodato scondinzolante, esattamente come avrebbe fatto poi accettando supinamente l’impostazione balenga che Libero stesso aveva dato della querelle nata qui su nazione Indiana. Anche lui, evidentemente, nella sua tenace battaglia per rivendicare il non conformismo degli intellettuali, rivendica la libertà di dire balle. (Il suo pezzetto, per chi volesse sfiancarsi, si trova qui)

Le balle ormai fanno scuola, segnano una stagione del giornalismo italiano. E’ di ieri la mega-balla del Tg1, che vende la prescrizione del reato di Mills come assoluzione. E prima la reprimenda a Maria Luisa Busi, la conduttrice del Tg1 rea di aver ammesso, in mezzo alle macerie aquilane, che sì, la verità non era stata raccontata. Non siamo più in presenza solo di una manipolazione, fatta di mezze verità, a costruire falsità. Qui la falsità diventa elemento atomico con cui lavorare ai fianchi un esprit public sempre più immemore e immerso nelle tenebre.

Di seguito, l’intervista originale di Tommaso Debenedetti, che Libero ha fatto scomparire dalla rete ma che esiste ancora, grazie al dio-cache (e grazie a Alberto Cane che ha scovato la cache, qui). A futura memoria, a imperitura testimonianza della creatività della menzogna. Del resto, lo si è detto allo sfinimento, da queste parti: è tutta una questione di stile.

La responsabilità dell’autore: Giulio Mozzi

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[Dopo gli interventi di Helena Janeczek, Andrea Inglese, abbiamo pensato di mettere a punto un questionario composto di 10 domande, e di mandarlo a un certo numero di autori, critici e addetti al mestiere. Dopo Erri De Luca, Luigi Bernardi, e Michela Murgia, le risposte di Giulio Mozzi]



Come giudichi in generale, come speditivo apprezzamento di massima, lo stato della nostra letteratura contemporanea (narrativa e/o poesia)? Concordi con quei critici, che denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea?

Non mi risulta che vi siano dei critici che «denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea». Forse sono poco informato. Posso avere una  bibliografia?
Quanto alla letteratura contemporanea: sta bene, grazie, come al solito.

…e i francesi che si incazzano!

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Le Canard enchaîné du 24/02/2010 )
(traduzione di effeffe) A 91 anni, salta fuori l’ex giornalista d’estrema destra François Brigneau . Dimenticato da tutti, torna alla ribalta grazie a un tale chiamato Jean François Platet, nuovo proprietario delle éditions Baleine che ha appena ripubblicato il suo romanzo “Paul Monopaul” con il nuovo titolo ” Bisogna accopparli tutti”. L’opera, scritta a Fresnes nel 1947 dove l’autore era stato imprigionato a causa del suo arruolamento nella Milice, è un Polar dalle stesse tonalità delle idee del suo autore, eppure Platet lo considera come un capolavoro! Immediatamente, uno degli autori faro della casa editrice, Didier Daeninckx è insorto contro la pubblicazione di Brigneau presso un’edizione a vocazione antifascista. Di colpo altri quaranta autori vogliono annullare il loro contratto con l’editore… dei librai hanno rispedito al mittente il libro di Brigneau. Jean François Platet, editore che si dice “affranto” e “avvilito” da queste reazioni, precisa : ” a titolo personale non sono un fascista, ma a titolo professionale detesto la censura” E a titolo d’editore altre buone idee in vista?

Nota
Serge Quadruppani nel suo blog insorge a sua volta contro Didier Daeninckx soprannominandolo Didier Dénonce.

Cento di questi giorni!

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Mancano ormai poche ore alla fine di un esperimento in rete assai interessante e di cui abbiamo già parlato qui. Si parla spesso di nuove voci ma poi si fa fatica a sentirle. Spero allora che la voce di Cristina vi giunga, chiara e forte. effeffe

Del rosso e del mille novecento e novanta e due
di
Cristina Galhardo

No no e no.

Lo diceva in classe, faccia rossa, come rosso era l’inchiostro che ha dettato la sentenza nell’esame. La maestra, non con lo chignon o gli occhiali, invece con i jeans e la tunica, esplodeva di esasperazione. E diceva NoCom’è possibile. Ti sei sbagliato a scrivere la data, vero? È questo, certamente. Ma come fai a sbagliarti allora in continuo, come ti permetti, dopo che ti ho corretto in classe, a ripetere in scritto queste barbarità nell’esame?

Gli altri studenti si dividevano fra la risata e gli occhi spalancati di stupore per le sciocchezze del compagno.

Metti questo in testa, una volta per tutte, non tollero più  balordaggini. Ma tu lo sai benissimo, lo fai soltanto per annoiarmi. Ma ti costerà caro. Guarda bene: è fi-ni-ta nel mil-le no-ve-cen-to e no-van-ta e du-eeeeeee. Novanta e due! Eri appena nato! Guarda intorno a te. La vedi ancora, per caso? Senti bene, e apriva ancora di più gli occhi, come fossero questi la fonte dei suoni stridenti, il tre d’agosto del no-van-ta e du-e, accentuando tanto il numero pari, per poi ripetere come un nastro registrato la versione dei libri di storia, l’esercito della Repubblica ha finalmente fatto un assedio efficiente alla guerriglia e ha catturato il capo dei ribelli, correttamente giudicato e giustiziato. Cosa pensi altrimenti che festeggiamo, in quel giorno? La liberazione dai pidocchi? Domani, fai attenzione, leggerai per tutta la classe un testo dove, una volta per tutte, capirai bene la realtà. Che con questa non si gioca. Non stiamo parlando di un qualsiasi Paese là lontano. Gioca con la guerra soltanto chi non la conosce.

Bogdan, o Doran

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di Chiara Pasin

L’insegna “Villa delle Ninfe” troneggia accattivante sulla parete gialla scrostata del ristorante. Sembra un bel posto, visto da qui. Dentro lì non ci sono mai stato. Io mangio nella trattoria “Bel Paese” ogni domenica, da quando avevo sei anni. Amici.

Quando ho visto la polizia lì davanti, l’altro giorno, ho pensato subito che fosse stato avvelenato qualcuno. Sì, avvelenato. Sono passati sotto l’insegna senza guardare, con una faccia tesa e i denti schiacciati, e io dico che se avessero alzato gli occhi, la scritta li avrebbe messi tranquilli, perché è accattivante, ti dico, su quelle pennellate crepate di giallo. Sono entrati come se avessero avuto paura di perdersi qualcosa. Con l’obiettivo già lampeggiante negli occhi. E, infatti. Si sono portati via il Potenza. Lui si teneva la testa chiusa dentro il petto. Non so cosa pensasse. Un poliziotto lo fece salire in auto. Un altro si voltò verso di me. Io non so niente. Io non so niente.

Sotto l’intercessione di Pasolini

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Pubblico l’ultimo intervento della manifestazione Sguardi a perdita d’occhio. I poeti leggono il cinema. L’introduzione e gli altri si possono leggere qui, qui qui e qui.

di Valerio Magrelli

I. Prologo

Tra le tante iniziative che nel 2005 hanno accompagnato l’anniversario della scomparsa di Pasolini, una in particolare mi ha colpito. Mi riferisco a una mostra tenutasi a Roma con il titolo “Pasolini: ultimo atto?” e composta da 110 foto, in gran parte inedite, scattate da Dino Pedriali nel 1975. Si tratta di immagini impressionanti per il loro valore documentario, oltre che artistico, in quanto scattate poche ore prima che il regista venisse massacrato. Esse lo ritraggono in varie situazioni, mentre scrive o legge nella sua torre a Chia, nei dintorni di Viterbo, oppure, in qualche caso, completamente nudo, nell’integrità del suo corpo non ancora martoriato, come si legge nelle note di accompagnamento.

Luce, buio. Didi-Huberman

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UNA ALLEGORIA POLITICA RISCHIARATA DALLE LUCCIOLE

di Isabella Mattazzi

Nel 1975 Pier Paolo Pasolini scrive per il Corriere della Sera una pagina diventata in seguito famosa come L’articolo delle lucciole. Le lucciole, racconta, metafora del sottoproletariato nell’Italia del Centro-Sud degli anni ’60, non esistono più, annichilite dalla luce abbagliane dei fari del “neofascismo dei consumi”, umiliate da un conformismo che ne ha distrutto ogni tratto peculiare.

Oggi, più di trent’anni dopo, Georges Didi-Huberman, storico dell’arte tra i più autorevoli della nostra contemporaneità, risponde alla provocazione pasoliniana con un’altra provocazione. Non sono le lucciole a essere scomparse, ma è lo sguardo disilluso di buona parte della nostra cultura filosofica ad aver perso il dono di vederne la sagoma evanescente, non sapendo più riconoscere, nel bagno di luce violento e massivo imposto dalle nuove “società dello spettacolo”, ogni forma, pur tenue, di speranza.

Abbiamo incontrato Didi-Huberman a Roma, in occasione della sua conferenza di stasera a Villa Medici per il ciclo di proiezioni “Pasolini/De Martino: scienza dei gesti e danza dei conflitti”, e abbiamo discusso con lui del suo ultimo libro (che uscirà in aprile da Bollati Boringhieri con il titolo Come le lucciole. Una teoria della sopravvivenza), e di questa nuova apertura del suo pensiero critico.

Danilo De Marco: R/ESISTENZE

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testo di Erri De Luca

il partigiano “Cid”

la partigiana “Dorica”

AMBIENCE – Laboratori d’ascolto sul tema di musica e ambiente

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Secondo incontro dei Laboratori d’ascolto!

Die Schachtel, O’ e Sincronie
presentano:
AMBIENCE
Laboratori d’ascolto sul tema di musica e ambiente

giovedì 25 febbraio, ore 19.15
presso O’, via Pastrengo, 12 Milano

“György Ligeti visto da Lontano”

Il secondo incontro sviluppa il tema di musica e ambiente dal punto di vista di un grande della musica del Novecento: György Ligeti”.
Nel corso della serata verranno presentati due lavori “storici” del compositore ungherese: “Continuum” per clavicembalo e “Lontano”, brano per orchestra utilizzato da Stanley Kubrick nella colonna sonora di “Shining”.

ingresso libero

per maggiori informazioni: info@sincronie.org | info@o-artoteca.org

Gli anarchici

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di Marco Rovelli

Gli anarchici, a Torino, sono un elemento di disturbo. Forte. Un virus inoculato nelle arterie della città, che mostra l’esistenza di una società non pacificata. L’accanimento nei loro confronti, perciò, non stupisce. E’ facile immaginare un sospiro di sollievo all’interno delle stanze della politica – di tutto l’arco politico, indistintamente. Essi rappresentano, e sono, il rimosso che affiora: scomodo, inopportuno. E non gentile. Il rimosso che affiora non è, né puoi mai esserlo, gentile.

Gli atti contestati agli arrestati sono risibili in quanto capi d’accusa tali da meritargli un soggiorno alle Vallette in isolamento. Non possono leggersi se non come rifiuto di una militanza politica la cui grammatica non è accettata né accettabile. Due degli arrestati – Andrea Ventrella e Fabio Milan – lo scorso anno avevano subito la misura, genealogicamente fascista, della sorveglianza speciale, per la loro “pericolosità sociale”.

Aladaaaaaar!

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Ecco un brano da Il pianeta a due dimensioni, un episodio del cartone animato ungherese La famiglia Mezil (Mézga család). La famiglia Mezil era una serie di avventura e fantascienza, oggetto di culto per chi ancora se la ricorda e prodotta tra la fine degli anni ’60 ed i primi ’70. Seguiva le vicende di una famiglia normale alle prese con casi per nulla normali. Tra i vari personaggi, spiccava Aladar, una bambino prodigio in grado di trasformare una vecchia radio in un dispositivo per comunicare con il futuro, e parlare ad un lontanissimo pronipote, come anche di costruire un’astronave gonfiabile per viaggiare tra le stelle.
È proprio a bordo di quella astronave che Aladar raggiunge il pianeta a due dimensioni, dove interviene per salvare un maestro che sostiene che il “linguaggio debba essere arrichito e sviluppato” e per questo motivo viene perseguitato dal re. Si noti che nella versione originale (http://www.youtube.com/watch?v=5ye4Jy7E9TM) la modifica del linguaggio è veramente sottile (e forse per questo ancora più insidiosa): non si tratta di aggiungere delle parole, come nella versione italiana, ma di introdurre due nuove vocali (la “o” e la “u”) in una lingua che possiede solo la “e”. Perec l’avrà vista questa puntata?
Gherardo Bortolotti

Metropoli locali

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    di Adelelmo Ruggieri
 
    È fatto di 8 reportages-racconti e 99 foto Il mondo in una regione, l’ottavo volume della collana “Carta bianca” (Ediesse , Roma, 2009). I racconti sono di Angelo Ferracuti, le foto di Daniele Maurizi. Fa da prefazione un dialogo degli autori con Mario Dondero che si chiama “L’arte dell’avvicinamento”. Questa locuzione – ‘l’arte dell’avvicinamento’ – viene fuori da una domanda ‘sulla fotografia’ [in particolare sulla differenza fra il bianco e nero con quel che “di poetico” che il b/n aggiunge alle foto, e una immagine ‘a colori’, ma priva “di qualsiasi valore aggiunto”] che Maurizi rivolge a Dondero, e alla quale egli risponde: “Le cose che riguardano la tecnica fotografica sono secondarie rispetto alla sostanza, che poi è l’arte dell’avvicinamento. Il senso più grande è introdursi in mondi che per noi sembrano impenetrabili.” In coda alla conversazione Ferracuti ricorda la prima delle epigrafi del libro: “Come epigrafe del libro ho messo una frase di Max Frisch che ti ho sentito citare tante volte.” E allora Dondero dice: “Aspettavamo delle braccia, e invece sono arrivati degli uomini”. E Ferracuti dice: “Proprio quella”. “Il mondo in una regione” si “avvicina” e ci racconta – benissimo – molte cose che ci allietano e insicurezze drammatiche, individuali e comuni. E forse è proprio per questo che a pag. 74 Ferracuti trascrive queste parole di Robert Castel: “Una società di individui non sarebbe più, propriamente parlando, una società ma uno stato di natura, cioè uno stato senza legge, senza diritto, senza costituzione politica e senza istituzioni sociali, in preda a una concorrenza sfrenata degli individui tra di loro, alla guerra di tutti contro tutti.”

La responsabilità dell’autore: Michela Murgia

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[Dopo gli interventi di Helena Janeczek, Andrea Inglese,  abbiamo pensato di mettere a punto un questionario composto di 10 domande, e di mandarlo a un certo numero di autori, critici e addetti al mestiere. Dopo Erri De Luca e Luigi Bernardi, le risposte di Michela Murgia]


Come giudichi in generale, come speditivo apprezzamento di massima, lo stato della nostra letteratura contemporanea (narrativa e/o poesia)? Concordi con quei critici, che denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea? Ti sembra che le pagine culturali dei quotidiani e dei settimanali rispecchino in modo soddisfacente lo stato della nostra letteratura (prosa e poesia), e quali critiche faresti?

Aver scritto un paio di libri non mi dà licenza di commento sullo stato della letteratura italiana contemporanea più di qualunque altro lettore forte, anche se il mio «forte» significasse qualcosa di più dei  dodici libri all’anno della media italiana della categoria. In diversa proporzione ho letto libri ottimi e libri che mi hanno lasciato solo il rancore per i soldi spesi, ma ci vuole altro per vedere la produzione letteraria italiana come un corpo collettivo con uno stato di salute generale da verificare. Se si è critici o se del critico si ha l’inclinazione all’anamnesi, la si può (e si deve) leggere anche così; solo non è il mio mestiere. Avrei piuttosto qualcosa da dire sulla difficoltà di trovare qualcuno che il critico lo faccia ancora, al di là di marchette, anticipazioni, recensioni della quarta di copertina o sassolini dalle scarpe in terza pagina firmati non da critici, ma da scrittori con qualche conto di rabbia da regolare. Anche su Libero, perché no.

carta st[r]amp[al]ata n.5

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di Fabrizio Tonello

C’era una donna di temperamento e di passioni non consumate in vitro giovedì sera a San Remo, scrive Marinella Venegoni su La Stampa. Una donna che ha cavalcato il ‘900 a muso duro e non ha smesso di essere attenta alla vita, sempre in viaggio tra emigranti solidali… Oggi, grazie a preziosi documenti, siamo in grado di rivelare la verità, appena sfiorata dal reticente articolo del quotidiano torinese. La storia della donna che ha cavalcato il ‘900 è ben più affascinante di quanto reso pubblico fino ad oggi.