Feltrinelli di Fiumicino, 30.12.2009
Foto di Andrea Raos (clicca per ingrandire)
riflessione notturna di Gianni Biondillo
In questi giorni di furibonde discussioni sulla legittimità o meno di credere che il senso di appartenenza ad uno schieramento politico-culturale sia obbligo morale o farragine del secolo scorso, in questo paese dove l’inciucio pare regnare supremo, dove “destra o sinistra sono tutti della stessa pasta”, del “Italia sì Italia no, se famo du spaghi”, del “volemose bbene”, de “la cultura non ha colore”, etc. etc., fortunatamente ci pensa la politica locale, quella di un consiglio comunale della grande metropoli padana, a rammentarmi, laddove l’avessi dimenticato, da che parte stare.
A Pieve Emanuele, periferia sud di Milano, l’alata discussione consiliare viaggia su livelli iperuranei. Per fare un esempio: a detta del capogruppo di Alleanza nazionale -PDL, “Saviano e Cavalli fanno business a spese nostre, visto che la scorta è pagata dai contribuenti”, anche per questo è giusto negare loro la cittadinanza onoraria.
Per saperne di più, qui.
Per riascoltare il vero inno nazionale italiano, qui.
L’effigie di Mussolini ci ammorba oscenamente da tempo: nelle stazioni di servizio se ne vendono i busti, nei tabaccai gli accendini come in memoria dei primi roghi appiccati all’indomani di piazza San Sepolcro, in ogni edicola campeggiano i calendari del Benito a guisa di velina trapassata per le fantasie inconfessabili di giovanissimi camerati, perfino nei bar le bottiglie di vino griffate Duce che a berle si rovescerebbe lo stomaco quasi fosse materica memoria di ricino dei bei tempi andati. E non aveva forse pubblicato qualche anno fa l’Espresso i discorsi del crapaapelata? Dunque se ora centoventi discorsi del Testa di Morto (ripristiniamo l’originale definizione gaddiana), audio e video insieme, sono scaricabili su Iphone, non si tratta d’altro se non di una naturale nuova declinazione di questa proliferante iconografia.
di Domenico Pinto
La sagoma gigantesca di Jakob attraversa un binario poi l’altro, scema, intorbidisce mano a mano che si avvicina alla cabina di controllo. Sulle linee dei binari che conosce come la propria mano, in una stazione della Germania dell’Est, molto probabilmente Dresda, il ferroviere onnisciente viene travolto da una locomotiva mentre tenta di evitarne un’altra. L’ipotesi che Jakob abbia commesso un errore si può segnare col carbone bianco. Si è trattato perciò di suicidio, di assassinio, forse?
di Marino Magliani
Quattro giorni per non morire è un romanzo uscito per Sironi nel 2006. E’ l’unico romanzo di cui posso dire: ecco, ricordo con precisione la genesi. Ero in Liguria, inverno, verso il tramonto, un momento che da quelle parti si usa chiamare verso merenda. Mi trovavo in campagna, alto quasi sullo spartiacque, per uno sterrato che risaliva dal fondovalle a un paese esposto di nome Valloria, esattamente sopra la fascia di terreni ulivati, in un punto di piccole vigne, non ancora abbandonate, ma sulla via buona.
La storia a cui pensavo si svolgeva in quel silenzio. A febbraio passano i migratori, la caccia è chiusa e i tordi zirlano senza spavento, in cielo e nei roveti gelati. Poi tornai in Olanda e scrissi. Avevo anche un paio di titoli. Allora quello che mi piaceva di più era Il volo del Colibrì. Colibrì era il protagonista, ligure, di una vallata del ponente. Da giovane, con un amico erano stati in Perù e in Bolivia alla ricerca di un disegno, e quasi senza accorgersene s’erano trovati in mezzo a profanatori di tombe e inseguiti dall’esercito peruviano.
Nell’estate del 2008, a Diano Marina, nella libreria del mio amico Andrea Costa, seppi che il disegnatore Marco D’Aponte, torinese, stava leggendo i 4 giorni.
Questo accadeva a Palermo appena qualche mese fa (il 12 dicembre 2009), all’assemblea del Popolo delle Agende Rosse convocato in Via d’Amelio…
di Evelina Santangelo
Se sia lecito a un intellettuale di sinistra collaborare con un giornale di destra è una questione, visti i tempi, che ha il sapore delle innocue quaestiones assegnate come esercitazioni agli studenti nelle antiche scuole di retorica (si doveva o no fare la guerra per Elena?), o dei casi di coscienza (è lecito mangiare di grasso il venerdì?) su cui si accapigliavano nel diciassettesimo secolo gesuiti e giansenisti: roba vecchia. Troppo mutati i termini, troppo lontana una certa idea di intellettuale come rappresentante dell’universale obbligatoriamente schierato dalla parte giusta, da troppo tempo defunta ogni pretesa e speranza di un’egemonia culturale della sinistra (concetto mal compreso, peraltro: chi ne parla oggi cita Gramsci ma in realtà ha in mente Paolo Mieli.
a cura di Antonio Sparzani
proseguendo una mia minima esplorazione della straordinaria qualità della scrittura di Cristina Campo (nome d’arte di Vittoria Guerrini, Bologna 1923 – Roma 1977), scrittrice, traduttrice e interprete, iniziata qui, trascrivo ora una sua introduzione all’opera del poeta statunitense William Carlos Williams (Rutherford, N.J. 1883 ‒ 1963) e la sua esemplare traduzione della poesia Pioggia (Rain), quale appare nel prezioso libretto di traduzioni campiane con testo a fronte: W. C. W., Il fiore è il nostro segno, pubblicato in edizione numerata nel 1958 da All’insegna del pesce d’oro e dedicato da Cristina Campo e dall’editore stesso Vanni Scheiwiller al settantacinquesimo compleanno del poeta.
Ecco il testo della Campo:
SU WILLIAM CARLOS WILLIAMS
constant in its swiftness
as a pool.
«Un’antologia di William Carlos Williams (sia pure piccola, sia pure quasi privata) è una cosa assai difficile da comporre. L’intera opera del poeta si configura infatti come un lunghissimo e minuzioso diario cosmico: composto giorno per giorno, segmento per segmento, in quel ritmo caleidoscopico di crollo e ricomposizione da lui stesso definito in una celebre lettera:
«“La vita” scrive Williams “è soprattutto sovvertitrice della vita stessa, quale era un attimo prima:
di Tommaso Giagni
Arrivo alla Nuova Fiera di Roma, dopo aver attraversato chilometri di campi e cantieri sulla Portuense in direzione Fiumicino, pochi minuti prima che vengano aperti i cancelli. Questo enorme Centro fiere da poco inaugurato è un gigante di quattordici padiglioni, scintillante al sole, in mezzo al niente: uno strano punto di riferimento tra la città e il mare, creato secondo lo stesso principio di edilizia selvaggia che ha tirato su il complesso residenziale e commerciale di Parco Leonardo.
Davanti all’ingresso Est, accalcata sul marciapiede intorno a me, c’è effettivamente l’Italia reale che sono venuto a cercare: l’Italia degli stivali di pelo bianco, dei tacchi di vernice, l’Italia dei colpi di sole, delle sessantenni con gli ombretti violacei fino alle sopracciglia, l’Italia delle gomme ciancicate. Una ragazza con narici spanate da cocaina, mettendo e togliendo e rimettendosi gli occhiali da sole, con l’altra mano si trascina dietro un trolley rosa.
Un sopravvissuto di Varsavia
oratorio per voce recitante, coro maschile e piccola orchestra
Testo e Musica di Arnold Schoenberg
op. 46 [ 11 – 23 agosto 1947 ]
Video di Saskia Boddeke & Peter Greenaway
I cannot remember everything.
I must have been unconscious most of the time.
I remember only the grandiose moment
when they all started to sing, as if prearranged,
the old prayer they had neglected for so many years
the forgotten creed!
But I have no recollection how I got underground
to live in the sewers of Warsaw for so long a time.
Non posso ricordare ogni cosa
Devo essere rimasto privo di conoscenza il più del tempo.
Ricordo soltanto il grandioso momento
quando tutti cominciarono a cantare,
come si fossero messi d’accordo prima,
l’antica preghiera trascurata per così tanti anni
il credo dimenticato!
Ma non ho memoria di come riuscii sotto terra
a vivere nelle fogne di Varsavia, per un tempo così lungo.
Pubblico a partire da oggi e per altri quattro giovedì, gli interventi di poeti italiani sul cinema, raccolti per la manifestazione SGUARDI A PERDITA D’OCCHIO. I poeti leggono il cinema, svoltasi nella primavera del 2009 a Bergamo e curata da Corrado Benigni, Luciano Passoni e Mauro Zanchi. Gli scritti sono successivamente apparsi sul numero 13 della rivista A+L. Quella che segue è l’introduzione di uno dei curatori.
di Corrado Benigni
La creatura, quali siano gli occhi suoi, vede/ l’aperto. Soltanto gli occhi nostri son/ come rigirati, posti tutt’intorno ad essa,/ trappole ad accerchiare la sua libera uscita.
R.M. RILKE, ELEGIE DUINESI
di Andrea Inglese
Il mio punto di partenza è sempre un senso di partigianeria, un senso d’ingiustizia. Quando mi accingo a scrivere un libro io non mi dico: “Voglio produrre un’opera d’arte”. Lo scrivo perché c’è qualche bugia che voglio smascherare, qualche fatto su cui voglio tirare l’attenzione, e il mio primo pensiero è quello di farmi ascoltare.
George Orwell
Se non puoi dire la verità – taci.
Guardati dalle mezze verità.
Danilo Kiš
C’è qualcosa di male se, nell’Italia di oggi, uno scrittore che si ritiene di sinistra pubblica su di un quotidiano come “Il Giornale” o come “Libero”? Piuttosto che sopportare il silenzio, si può anche cominciare una discussione con una domanda brusca. Intorno a questa domanda, dapprima in rete, nella forma del frammentario dibattito per commenti, e poi in contesti più tradizionali e codificati, si è avviato un dibattito pubblico intorno a una vecchia questione, quella della responsabilità dello scrittore. Si è partiti dalla notizia della collaborazione di Paolo Nori a “Libero”, ma le occasioni di porsi certe domande sono state diverse. Un articolo di Tiziano Scarpa proposto a un giornale di sinistra e mai da questo pubblicato, che finisce anch’esso su “Libero”. Ma anche le scelte di coloro, come Berardinelli, che già da anni scrivono per giornali quali “Il Foglio” o“Il Domenicale”. Nonostante molte persone – scrittori, giornalisti o semplici lettori comuni – siano ormai convinti che qualsiasi forma di dissenso, scontro d’idee, discussione critica equivalga ad un puro attacco alla libertà individuale, riprendere in mano la questione della responsabilità dello scrittore, partendo da situazioni così concrete, può essere molto più fecondo che lanciare un astratto dibattito sull’impegno dell’intellettuale o sul rapporto tra lo scrittore e la realtà. Per me si tratta di un’occasione importante per chiarire innanzitutto le mie posizioni, cercando di dissipare un po’ di malintesi e confusioni. Il confronto critico con le posizioni altrui non è tanto mirato a distribuire colpe, quanto a mostrare la bontà di posizioni alternative.
di Massimo Rizzante
Eravamo agli inizi della decade scorsa. In Italia quasi nessuno si era accorto di Bolaño, sebbene molti suoi libri fossero stati pubblicati da Sellerio. In Spagna e in Francia l’autore era già molto noto. Nella primavera del 2007 «Nuova prosa» (46), diretta da Luigi Grazioli, pubblicò un volume dedicato alla nuova narrativa latinoamericana. Oltre a Bolaño (di cui si presentava lo scritto postato qui sotto e che ora si trova nella raccolta di scritti saggistici Tra parentesi, in uscita in questi giorni da Adelphi), appaiono molto nomi di sicuro valore: scrittori già classici come Sergio Pitol e Ricardo Piglia, i più giovani Volpi, Fresán, Angel Palou, Paz Soldán…
Nel maggio del 2005, nel quartiere sufi di Granada, io e il «mio solo fratello» Miguel Gallego Roca leggevamo Bolaño e scoprivamo un’altra America Latina che stava reinventando l’Europa del XXI secolo, o almeno la sua tradizione romanzesca. Poi, la radiografia del mondo di Bolaño si trasformò improvvisamente in una sala operatoria dove un chirurgo si dilettava in esperimenti di crudeltà. Ci fu l’incontro con Osvaldo Lamborghini e la sua opera, di cui si dirà fra un po’ di tempo…
Granada, 13 maggio 2005
[…]
Massimo Rizzante: Quando ho letto i romanzi di Alan Pauls, Rodrigo Fresán, Jorge Volpi e di altri scrittori latinoamericani (spesso esuli volontari in Spagna, in Europa o negli Stati Uniti) mi sono detto: «Finalmente degli interlocutori!». «Finalmente degli scrittori-lettori che non hanno paura del passato, che dialogano con tutta la tradizione letteraria, europea, americana e latinoamericana, da Rabelais a Borges, da Dante a William Gaddis!».
Miguel Gallego Roca.: E poi, quando hai letto i racconti e i romanzi di Roberto Bolaño, ritenuto da costoro un fratello maggiore e un maestro, che cosa è successo?
M.R.: Nei confronti dell’opera di Bolaño non provo soltanto ammirazione, ma quella felicità attiva grazie alla quale ti senti sciolto da ogni obbligo morale, professionale, e perfino intellettuale. La vera letteratura ti mette le ali. Ti rende più coraggioso.
di Mauro Baldrati
Chi ama Proust, chi ha letto la Ricerca e ne è rimasto affascinato, o impressionato, spesso ama anche le sue cose, gli oggetti, le notizie della sua vita. E’ come se da questo romanzo immenso, abissale, si sprigionasse un fascino che coinvolge il suo autore, l’angelo notturno, la macchina di scrittura totale che fonde la vita con la letteratura, tanto che, con Kafka, potrebbe affermare, e di fatto afferma: “Io sono letteratura.”
Se la sinistra perde, è anche perché non ha compreso come funziona la mente umana. In Pensiero politico e scienza della mente (Bruno Mondadori, 2009), George Lakoff, uno dei più eminenti linguisti americani, torna a invitare la sinistra ad articolare un proprio linguaggio piuttosto che inseguire la destra sul suo terreno. Secondo Lakoff questa rincorsa ha segnato negativamente il destino dei liberal americani nei confronti dei repubblicani – ma viene naturale riportare il suo discorso anche alle derive politiche italiane.
Il fatto è che per vincere occorre comprendere l’inconscio cognitivo, il sistema di concetti che organizza la nostra mente, strutturata da “frame”, cornici concettuali metaforiche di cui per la maggior parte siamo inconsapevoli ma che orientano in maniera decisiva la nostra interpretazione dei temi e dei discorsi politici. Questi frame sono indipendenti da noi, è circuiteria neurale che si è formata fin dai primi anni della nostra vita, è “esperienza incorporata”.
di Fabrizio Tonello
Martedì sera vado tranquillamente a dormire e mercoledì mattina penso che il mondo continui come sempre: Obama alla Casa Bianca, i paracadutisti della 101° divisione a Haiti, il salmone affumicato di Barney Greengrass a New York sempre in testa alle classifiche mondiali. E invece no. Apro, dopo aver compiuto opportuni riti purificatori, l’edizione on line di Libero e leggo: “il dato veramente rilevante è che l’elezione di Brown fa perdere a Obama la maggioranza in Senato”. Ostia!, come diceva mio nonno quando pensava che mia nonna non lo sentisse.

Antiquum Oratorium Passionis- Basilica di S. Ambrogio, a Milano.
28 gennaio, giovedì, alle 18.30
Da strato a strato è il titolo di un libro e di una mostra.
Raccoglie 21 immagini di quadri e 21 stanze di un poemetto di Biagio Cepollaro. Testi e immagini nate contemporaneamente, parole che si sono coagulate sulla pagina e parole che hanno dialogato con i materiali della pittura, diventando segni tra segni.
Le parole della poesia sono leggibili, stampate in un libro: possono essere lette ad alta voce chiamando chi ascolta al significato, le parole che sono diventate segni possono in un certo senso essere viste per quelle che sono: tracce su legno o su tela di movimenti della mano e della sua intensità nell’insieme di altri gesti e di altre tracce.