di Arno Schmidt
traduzione di Domenico Pinto
(Clicca sull’immagine per ingrandire)
di Marco Rovelli
All’inizio sembra un sogno, uno di quei sipari che Schmidt alza nel corso della narrazione: un uomo solitario che vaga per boschi e strade di campagna deserti, solo scheletri umani a segnare il cammino. Dopo un certo numero di pagine, in cui sei “preso” nella fantasmagorica lingua di Schmidt, catturato nei suoi interstizi, nei suoi ritmi, ti accorgi che è invece tutto fantasticamente vero: una guerra, una bomba all’idrogeno, e l’ultimo uomo sulla terra, a osservare il disastro, a scrivere la fine. Un signor Nessuno, l’“Utys” omerico, vaga in una terra metamorfica, dove le vestigia scheletriche degli umani si confondono e trapassano in natura – senz’altro – dopo che “l’esperimento uomo, il fetente, è terminato”. Poi arriva una donna: ma non cambia nulla, ché in Schmidt non si trova la morale.

di Andrea Inglese
[La seconda parte dell’intervento, qui]
La negligenza, e quasi la cecità, della sinistra e della sua intellighentsia dinanzi a questo fenomeno deriva dalla situazione con cui hanno guardato alla cultura delle masse, che è stata considerata sempre marginale rispetto al potere presunto vero, cioè alla dimensione politica ed economica. Raffaele Simone
Essere spettatori di Videocracy è un’esperienza profondamente sgradevole. Durante la proiezione del documentario è percepibile un diffuso imbarazzo, che ogni tanto è rotto da qualche risata liberatoria. Ma quelle risate, appena risuonano, più che liberare incatenano maggiormente alla propria vergogna. Poi c’è lo schifo. Uno schifo da tagliare col coltello. E quindi la nausea di nervi, veri e propri crampi. E quando ti alzi e vedi gli altri spettatori come te, e sai già fin d’ora che se ne andranno come se niente fosse, come si esce ogni sera da un cinema, un po’ stralunati e un po’ eccitati, ti piomba di nuovo addosso la vergogna, quasi fossimo tutti quanti testimoni passivi e docili di un crimine detestabile, concluso il quale ognuno se ne va solitario, omertoso e impotente a casa propria. Strano effetto, davvero. Ma come? Non avevo io letto Anders, Debord, Baudrillard, Bauman? Non avevo letto Barbaceto, Travaglio, Perniola, la Benedetti, Luperini? Non conoscevo già tutta questa vicenda a memoria? Non avrei dovuto essere immune dallo shock? Non ho forse letto analisi e ascoltato dibattiti sul genocidio culturale, sulla rivoluzione mediatica degli anni Ottanta? Sul grande smottamento antropologico, cominciato con Drive in?
Quest’estate, per chi l’ha visto e per chi non c’era, ho proposto una rubrica, questa. Alcuni contributi sono giunti fuori tempo massimo ( ah le poste d’un tempo!) così, sperando di fare cosa gradita ai più, ve le propongo con il segreto sogno di portare un giorno in giro per l’Italia tutta la compagnia di ballo. effeffe
AIELLO CALABRO (COSENZA) – Avvelenare le terre è un business. Ci guadagnano i clan, le grandi industrie del Nord est, le imprese. Un giro di danaro difficile da quantificare. «Non basta una finanziaria per spiegare i soldi che ci sono dietro questi traffici. Un traffico che è più remunerativo anche della droga» ha svelato ad ottobre un ex boss della ’ndrangheta.
“Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza”.
L’8 Settembre in Italia
di Giaime Pintor
Testo e fotografie di Lorenzo Bernini

Dove ti trovavi l’11 settembre 2001? Io ero a New York. Alle 8.46, quando il primo aereo si è schiantato contro la torre nord del World Trade Center, stavo facendo colazione. L’impatto ha fatto tremare i muri del mio appartamento. Ho visto il crollo delle torri dalla mia finestra, come immagino tu lo abbia visto dallo schermo della tua televisione. A poca distanza da me sono morte 2.974 persone, dicono le stime ufficiali, di 90 diverse nazionalità. Più i 19 dirottatori. Sono tanti 2.993 esseri umani. Mi ci è voluto un po’ di tempo per capire la differenza tra avere assistito alla loro fine trovandomi così vicino a loro piuttosto che guardando la tv – oltre ad aver avvertito la forza d’urto, oltre alla paura.
dalle Coefore a Lorenzo Ghiberti
di Antonio Sparzani

You boil it in sawdust: you salt it in glue:
You condense it with locusts and tape:
Still keeping one principal object in view –
To preserve its symmetrical shape.
(Lewis Carroll, The Hunting of the Snark, Fit the fifth)
Questi versi già erano l’esergo di un capitolo di un testo di base di teoria quantistica dei campi (nella quale, come in tutta la fisica, la simmetria riveste un ruolo essenziale), assai celebre all’inizio degli anni sessanta. È lì che ho appreso, tra le altre cose, l’esistenza di questa piccola meraviglia – ritmicamente incalzante di giambi e anapesti – che è la caccia allo snark, di Lewis Carroll (pseudonimo del reverendo Charles Lutwidge Dodgson), che lo scrisse negli anni 1874-75. . Sono state fatte varie traduzioni italiane, io trovo che tenga molto bene il ritmo quella di Lucio Mazzi, La caccia allo Snark, Moby Dick, Faenza 1992), che ad esempio traduce così i versi citati (p. 62): «Puoi farlo bollire nella segatura / puoi farlo salato in colla assai pura / puoi farlo anche in brodo con nastri e con grilli / purché non dimentichi ch’è basilare / la sua simmetria poter conservare».
Da corrispondenza emotiva a categoria estetica a perfezione geometrica, si muove il termine simmetria nelle trame della lingua naturale, per invadere una rete di significati dai contorni sfumati.
di Sergio Pasquandrea
Carmen Miranda è per un brasiliano quel che spaghetti-pizza-mandolino è per un napoletano: uno stereotipo irritante, e allo stesso una marca identitaria da esibire con orgoglio. Il personaggio, con la sua commistione di autenticità popolare e di lustrini ad uso dei turisti, può in effetti rischiare di ricadere interamente nel kitsch: ma le cose non sono così semplici.
Innanzi tutto: la cantante che è diventata uno dei simboli internazionali del Brasile non era nata in Brasile.
Maria do Carmo Miranda da Cunha, questo il suo vero nome, vide la luce il 2 febbraio 1909 a Várzea da Ovelha, un villaggio nel nord del Portogallo. La famiglia emigrò dall’altra parte dell’oceano poco dopo la sua nascita e “Carmen”, come era soprannominata fin da bambina, crebbe a Rio de Janeiro, nel quartiere popolare di Lapa, dove il padre aveva aperto una bottega di barbiere.
Fu costretta a lasciare presto la scuola per lavorare prima come sarta e poi come commessa in un negozio di cappelli. Dava anche una mano nella pensione gestita dalla famiglia, e proprio lì cominciò ad esibirsi cantando sambas, choros e maxixes che aveva imparato dalla viva voce degli interpreti di strada. Venne notata dal compositore Josué de Barros, che le fece firmare un contratto radiofonico. Nel 1930 arrivò il primo successo, intitolato “Ta Hi!”, e nel decennio successivo Carmen divenne rapidamente una star di fama nazionale, interpretando anche una serie di fortunatissimi film musicali.

di Andrea Inglese
Qui non mi può raggiungere la forma interna della città, la sua anomalia di riflessi, tutti metallici, con l’azzurro del cielo in transito, in continuo sfogo verso il nord e l’oceano, qui la configurazione intima si è allentata, la morsa del tredicesimo, la sua monotonia di acacie e grate metalliche per terra, qui le cancellate del liceo, la scale mobili che non si arrestano neppure di notte, nel tempo morto, qui i giocatori di pallone nel campetto di cemento, qui Max, l’alcolizzato colto, il senza casa, qui non mi possono raggiungere, i fumatori costretti ad appoggiarsi alle vetrine, all’esterno, qui i carrelli di tela cerata da cui sbucano i sedani non arrivano, la mappa mentale, che Parigi ha costruito per strappi continui, per trafitture, per piccole ustioni sentimentali, come un pirografo, qui no, non sopra i bastioni di Castel Sant’Elmo (la fortezza di tufo sopra i resti della chiesa di Sant’Erasmo),

di Chiara Valerio
La perdita dell’abitudine a ritrovarsi e confrontarsi in piazza, al bar,
dal parrucchiere
è uno dei molti motivi che rendono la nostra democrazia
un guscio vuoto.
La rivoluzione non è una festa letteraria e questa non è una recensione. Le piazze del sapere di Antonella Agnoli (Laterza 2009) è un libro che una parte di me vorrebbe mettere all’Indice se ancora esistesse, o comunque vorrebbe bruciare. Perché una parte di me, che vive nell’immaginario bellepoque dell’intellettuale settario di sinistra, appena conformista, utopista, elitista, e tanti altri –ista che nemmeno voglio elencare, oltre che snob e la-miseria-del mondo-mi straccia-il-cuore quindi me ne sto fuori a bere finché non piove, suppone, anzi sa, che Le piazze del sapere possono mutarsi in roghi del sapere e soprattutto sono posti dove facilmente, per parafrasare Saramago, il rametto d’ulivo di Pasqua (leggere tutti) diventa la prima frasca per la pira del supplizio (leggere cosa?). Quando ho letto Le piazze del sapere ho sentito molto odore di bruciato.

di Marco Belpoliti
“Il segreto sta nel nucleo più interno del potere”, scrive Elias Canetti in Massa e potere. I detentori del potere cercano sempre di vedere a fondo, di scandagliare le intenzioni altrui, senza tuttavia mai lasciare intravedere le proprie. Il segreto è la fonte stessa del potere: c’è chi sa e chi invece ignora. Il potente cerca di conoscere i segreti degli altri, li persegue, li ascolta, li registra, li scheda. Questo è il “segreto offensivo”, contrapposto al “segreto difensivo”, che consiste nel semplice atto di non far conoscere i propri segreti agli altri. Il potente esercita entrambi, mentre gli uomini comuni hanno a disposizione solo quello difensivo o passivo.

di Ginevra Bompiani
Eracle, la testa mezzo nascosta dalla pelle del Leone Nemeo,
nemmeno se ne accorse.
Per Minosse quel toro era la sua vergogna. Perciò aiutò Eracle a catturarlo. Interessava più a lui che a Euristeo che l’eroe se lo portasse via. Al paese l’animale aveva fatto due doni infami: la follia amorosa e il Minotauro, entrambi scavati nel grembo di Pasifae, regina imbestiata.
di Stefano Gallerani
Poco più che adolescente non trovai di meglio, per costringere mio padre a lasciarmi andar via da quella piccola città, che convincerlo della mia vocazione al sacerdozio. Sul momento, la mia risoluzione non ebbe che l’effetto di scatenare il suo disappunto: pareva volesse strapparmi dall’anima un segreto. A me!, che quell’anima volevo (o dicevo di volere) votare a uno scopo ben maggiore che non fossero gli angusti confini del nostro paesino. Ma niente, lui voleva ugualmente strappare quel germoglio maligno. A sua discolpa, un residuo di obiettività mi impone di precisare alcuni aspetti della mia indole filiale: certe volte riuscivo davvero a essere orribilmente meschino, il che sarebbe stato, però, veramente abietto da parte mia se solo l’abiezione della mia crudeltà, come d’altronde la sporadica magnificenza della mia bontà, non fossero stranamente prive di peso. Non vere. Finte. Irreali (in quanto embrione mi dichiaro innocente sia nella virtù che nel peccato).
“Immediatamente mi sento il calore della comunità operaia e proletaria, tutte le volte che mi calo il passamontagna”.
Toni Negri, Dominio e sabotaggio
Qualche tempo fa riflettevo su come nell’immaginario collettivo, spesso, restino impresse poche cose dell’intera vita e opera di un intellettuale, e di come quelle “poche cose” possano diventare argomento a sostegno di una tesi e di una posizione generalmente contro corrente e a modo suo originale rispetto alle idee dominanti. L’immagine è ferma e per quanto ingiallita sembra precedere sempre di una spanna ogni nuova cosa, pensiero, opera che l’intellettuale in questione, lo scrittore, il personaggio pubblico disse o scrisse “quel famoso giorno”. Decontestualizzata dal momento storico e dalle circostanze che ne furono all’origine quella frase, dichiarazione era diventata ormai uno slogan il cui successo veniva testimoniato essenzialmente dal fatto che permanesse nella memoria. ” Il passamontagna di Toni Negri” sembrava inciso nella memoria collettiva allo stesso modo del “Lava più bianco del bianco” , “Gigante pensaci tu”, ” Peroni e sai cosa bevi”. ( immaginario collettivo pubblicitario anni settanta, ovviamente). La riflessione in realtà prende spunto da due polemiche che hanno coinvolto, negli anni settanta e ottanta, intellettuali che mi stanno molto a cuore, Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia e che ogni qualvolta se ne presenti l’occasione riaffiorano come una mauvaise conscience. Prima di entrare nel merito della questione vale forse la pena rileggere quelle parole che a distanza di diversi decenni ancora “disturbano” il sonno di molti, e si tratta da una parte, della poesia pasoliniana dedicata agli scontri studenti polizia, a Valle Giulia, e dall’altra dell’articolo sul Corriere della Sera che lo scrittore siciliano dedicò ai professionisti dell’antimafia.
[Pubblico il saggio di un teologo dell’ebraismo apparso sull’ultimo numero della rivista Qui. Vi si toccano questioni importanti, come la guerra civile interna ai monoteismi, tra la religione costantiniana – la religione dell’impero – e la religione della comunità. Di questa guerra civile, in Italia pare che non ci sia traccia. In ogni caso, essa dovrebbe interrogare anche i non credenti, così come il concetto di martirio, il più estraneo dei concetti per una persona che, come me, non crede se non nell’unica vita. A I]
Una riflessione ebraica nel 26° anniversario del martirio dell’arcivescovo Oscar Romero
di Marc H. Ellis
Ogni mattina inizio la giornata pregando: un’eclettica serie di versetti tratti da preghiere tradizionali ebraiche. Concludo con lo Shema, l’affermazione che gli ebrei, che io, abbiamo udito la parola di Dio e Dio è uno. “Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo.”
Lo Shema è la cosa più vicina a un credo che gli ebrei abbiano; si trova in Deuteronomio 6,4-9. È un testo a fondamento dell’offerta dell’alleanza; sigilla l’alleanza nella memoria e nell’abbraccio. Come la maggior parte degli ebrei, lo recito da quando ero bambino. E oggi la mattina, quando i miei figli si svegliano, lo recito di nuovo con loro:
“Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte.”

di Francesca Genti
lungo la statale da Pavia a Broni,
la primavera mi entra nei polmoni
e nella testa nascono pensieri:
ultraviolenti, desadiani, neri.
Il lato tenero della mia persona,
l’attitudine gioviale-venusiana
a tollerare qualsiasi crudeltà
(più per pigrizia che per vera bontà),
lascia posto alla voglia di vendetta,
al lato oscuro, plutonico-notturno,
a Taxi Driver, al Canaro, a Nerone.
E mi abbandono a pensieri di abiezione.

una riflessione di Raul Montanari
Bene.
Boffo si è dimesso dalla direzione dell'”Avvenire”. E’ stato centrato e affondato da Vittorio Feltri, che ha rivelato la sua omosessualità (un grosso problema, a parte altre considerazioni, per il direttore dell’organo della Conferenza Episcopale Italiana) e una condanna patteggiata anni fa per aver molestato al telefono la moglie di un uomo del quale era innamorato. Conoscendo Feltri, non credo che questa notizia in sé sia infondata; penso che sia la verità. Poi vedremo se questo è o non è il punto. Prima ancora delle dimissioni, i commenti del Centrodestra erano riassumibili più o meno così: “Chi la fa l’aspetti. L’Avvenire ha attaccato Berlusconi sul piano privato e etico, ecco dimostrato che chi parlava aveva a sua volte delle magagne”. Pari e patta.
di Chloe Dallacqua

[ricevo e molto volentieri pubblico un altro testo, con originale in figura, di poesia cinese classica, che la mia cara amica Chloe Dallacqua mi permette di pubblicare qui; la sua precedente traduzione era apparsa qui, dove si può trovare anche qualche notizia più dettagliata sui nove canti. a.s.]
Caro Antonello,
ecco qua la traduzione del “Signore delle Nubi”, un’altra delle poesie che costituiscono i Nove Canti. Yun zhong jun (letteralmente “Il signore in mezzo alle nubi”) è la poesia ideale per cominciare l’avventura della traduzione dei Nove Canti – infatti per prima l’avevo tradotta, anche se non sottoposta alla tua lettura: è breve, non presenta grosse difficoltà interpretative e io la trovo bellissima, naturalmente.
Per meglio gustarla, suggerisco di guardare prima qualche drago (magari qui, qui e qui ): nell’immaginario cinese il drago, guardiano dell’Oriente, è un lungo serpente armonioso che fa danzare sfere dorate, è acqua, pioggia, tuono e fulmine, e in ogni caso è sempre benefico e beneaugurante. (Per completezza d’informazione aggiungo che per qualche strana ragione è collegato all’elemento del legno, e non a quello dell’acqua, che la testuggine nera del Nord gli ha sottratto a tradimento, secondo me…), Chloe.
Mi sono bagnata con infuso d’orchidea – hsi..
Ho lavato i capelli con acque profumate – hsi…