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La strage e la memoria

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di Giorgio Mascitelli

In un lungo articolo apparso alcuni giorni fa su The Guardian lo storico della shoah Raz Segal ha parlato di uso della memoria dell’Olocausto come arma da parte dei dirigenti politici israeliani in occasione della nuova guerra di Gaza. Fin da subito si sono avute dichiarazioni che tendevano a paragonare i massacri del 7 ottobre (un crimine contro l’umanità, che va perseguito come tale, ma che non autorizza a compierne altri per rappresaglia) con lo sterminio nei lager e che definivano la reazione militare israeliana una forma di una lotta al nazismo. Secondo Segal il fine di queste dichiarazioni è da un lato cancellare il contesto di tipo neocoloniale in un cui sono maturati quegli atroci eventi, senza prendere in considerazione il quale non è possibile immaginare un futuro differente, dall’altro eliminare qualsiasi freno inibitore nella reazione perché il richiamo al nazismo è il richiamo al puro male contro il quale ogni mezzo va bene. Non a caso i dirigenti israeliani hanno alternato a queste dichiarazioni sulla lotta al nazismo tutta una serie di lugubri uscite sul fatto che stanno combattendo contro animali da trattare come tali, che ogni cosa a Gaza vada rasa al suolo  e altre ancora di simile tenore per giustificare gli eccidi che stanno avvenendo in queste ore. Sebbene Hamas sia sicuramente un’organizzazione antisemita e integralista, non è possibile dal punto di vista storico paragonare la situazione attuale degli israeliani, unica potenza nucleare della regione dotata di un esercito tecnologicamente all’avanguardia, con quella degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, inermi civili in un territorio controllato da una potenza ostile.

D’altronde, come nota Segal e come era capitato anche a me di notare alcuni anni fa su nazioneindiana ( qui), il riferimento al nazismo e a Hitler per definire l’avversario è un elemento essenziale del discorso di guerra ed è stato usato via via per Saddam Hussein, Milosevic, Gheddafi fino all’Ucraina dove entrambe le parti si richiamano alla lotta contro il nazismo. Ed è un elemento essenziale in senso retorico perché indica la totale necessità della guerra e la sua inevitabilità, perché contro Hitler redivivo non c’è pacifismo che tenga o dubbio di sorta. Eppure la diffusione di un simile argomento, che è naturalmente una banalizzazione della Shoah e in generale della storia, non sarebbe nemmeno pensabile senza che ci fosse stato un cambiamento profondo, anche se lento e carsico nel nostro rapporto con la memoria di quegli eventi rispetto ai tempi in cui solo testimoni del livello di Primo Levi o storici specialisti o leader politici antifascisti erano autorizzati a prendere la parola su questi temi, quando questi avvenimenti erano naturalmente sentiti come un monito fondante per la società del futuro.

Talvolta mi è capitato di chiedermi cosa direbbe un Adorno redivivo della grande massa di opere narrative, cinematografiche e teatrali volte alla divulgazione della Shoah che circola sempre di più. Immagino che il filosofo che si pose radicalmente la domanda se fosse possibile continuare a scrivere dopo Auschwitz, resterebbe alquanto inorridito, date le sue posizioni elitarie, ma forse anche Gunther Anders, che pure riconobbe a suo tempo il ruolo positivo di una serie televisiva di intrattenimento come Olocausto nel porre i tedeschi di fronte alle loro responsabilità storiche, avrebbe qualche perplessità.

E’ possibile che naturalmente questo sforzo abbia reso più difficile quelle forme di negazionismo implicito o di riduzionismo che indubbiamente allignavano nell’Europa dei primi trenta o quaranta anni dopo il 1945, ma non posso negare il mio disagio l’ultima volta che sono stato a Cracovia, l’estate precedente al Covid, vedendo nelle agenzie turistiche reclamizzata la gita ad Auschwitz come ad Amsterdam si fa con il giro dei canali in barca o a Napoli con quello a Pompei o alle isole. Questa turisticizzazione della percezione della Shoah non può portare nulla di buono sul piano politico e culturale, perché di fatto comporta una sua banalizzazione. Ma c’è un altro aspetto che mi ha colpito a Kazimierz, il quartiere ebraico di Cracovia, accanto alla possibilità di visitare sinagoghe e altri luoghi legati alla storia ebraica della città si aveva anche quella di visitare i posti dove era stato girato Schindler’s list in una mescolanza pericolosa di realtà storica e sua riproduzione finzionale. Credo che chi abbia messo in relazione questa offerta culturale così abbondante, e non sempre rigorosa, con forme di anestetizzazione delle coscienze che finiscono con il favorire il discorso dell’estrema destra abbia più di una ragione. E non c’è dubbio che la demonizzazione dell’avversario tramite il ricorso al nazismo finisca con il favorire questo tipo di dinamica banalizzante, oltre a giustificare talvolta azioni di guerra che sono a loro volta crimini.

Ora negli attacchi del 7 ottobre è abbastanza evidente che Hamas ha fatto una sorta di scommessa politica sanguinaria, crudele e cinica e allo stesso tempo disperata: attaccare con crudeltà Israele, scommettendo che la risposta del governo Nethanyau sarebbe stata ancora più efferata, così da cancellare, perlomeno fuori dall’Occidente, il ricordo del fatto precedente di fronte a un numero di vittime civile notevolmente più alto tra i palestinesi. Questo tipo di scommessa si basa sul fatto che la parte occidentale non ha più il monopolio delle immagini e delle informazioni, grazie alla presenza di Al Jazeera, non a caso più volte criticata dal governo israeliano. Questo ragionamento ha una sua efficacia, se perfino un commentatore come Paolo Mieli, decisamente vicino al mondo israeliano e occidentale, ha dovuto ammettere sul Corriere della sera che “Il prolungato attacco a Gaza, accompagnato da immagini quotidiane di vecchi, donne e bambini che mostrano i loro lutti, non è «compensato» dalla notizia che è stato colpito questo o quel dirigente di Hamas.” Ciò su cui ha scommesso Hamas, finora con ragione, è quello di uno spettacolo planetario in cui una popolazione perlopiù civile viene massacrata, in una misura esponenzialmente superiore alle vittime israeliane, da una potenza che dichiara di agire in continuità con la lotta contro il nazismo nel nome della democrazia. Immaginiamoci l’effetto che farà non solo su popolazioni non occidentali ignare della storia europea, ma anche a quella parte maggioritaria della popolazione occidentale digiuna di storia e completamente depoliticizzata. Immaginiamo per esempio che tipo di ricezione possa avere la scelta dell’ambasciatore israeliano all’ONU di intervenire indossando la stella gialla, che i nazisti davano agli ebrei nei lager, nelle stesse ore in cui il suo paese sta bombardando senza sosta una zona densamente popolata senza possibilità di sfollamento per la popolazione. Nella migliore delle ipotesi essa diventa un simbolo vuoto, un significante senza significato, in quella peggiore il segno di un vittimismo sanguinario.

Eppure noi abbiamo bisogno di quei simboli, non solo per contrastare i rischi crescenti di antisemitismo, ma perché essi rappresentano l’insegnamento politico della seconda guerra mondiale, la certezza della civiltà che vince sulla barbarie. Il loro svuotamento contribuisce ad alimentare un processo di cancellazione dell’eredità politica della seconda guerra mondiale e del suo ruolo nella formazione di una nuova coscienza civile, che ci lascerà disarmati in tante circostanze.

 

Freud, la Coca-Cola e gli antidepressivi

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È da poco disponibile una nuova edizione del saggio di Laurent de Sutter Narcocapitalismo. Vita e psicopolitica nell’era dell’anestesia, pubblicato da Ombre Corte.

Ospito qui alcune pagine in anteprima.

 

5.Una pagina pubblicitaria

 Nel 1863, […] un farmacista còrso con sede a Parigi, Angelo Mariani, lanciava sul mercato un prodotto inedito[1]. Questo si presentava come un “vino tonico”, e consisteva nell’infusione di foglie di coca in un vino di Bordeaux – infusione che liberava gli alcaloidi contenuti nella foglia, tra cui, ovviamente, lo “stimolante” quale era la cocaina[2]. Se Mariani non fu il primo a commercializzare una tale bevanda, fu tuttavia un pioniere nell’uso dello strumento che ne assicurò il successo, rendendo il “vino Mariani” una delle bevande più famose ed elogiate della fine del xix secolo. L’epoca brulicava di ciarlatani che proponevano al pubblico prodotti più o meno adulterati attraverso le “réclame” che apparivano sui giornali, bisognava perciò inventare un metodo pubblicitario che si distinguesse da quello dei suoi concorrenti. Mariani fece in modo che le più grandi celebrità del tempo, tra cui diversi pontefici e capi di Stato, ricevessero in dono delle casse del suo vino, nella speranza di ottenere un complimento in cambio, che avrebbe poi utilizzato nel promuovere il suo prodotto. La strategia funzionò così bene che poté raccogliere le dichiarazioni dei suoi illustri patrocinatori in album illustrati dai più grandi artisti del suo tempo, e poi creare una serie di prodotti derivati e di eventi che assicuravano che non si smettesse di parlare del suo vino[3]. Come il successo di Merck, anche quello di Mariani attirò subito numerosi competitori – ma la qualità incontestabile del prodotto, unita all’irresistibile tecnica di marketing del còrso, impedì che diventassero dei concorrenti temibili. La progressiva adozione di leggi per combattere il consumo di alcol negli Stati Uniti, uno dei più importanti mercati per i produttori di “vino tonico”, non aiutò; lo stesso Mariani finì col risentirne – anche se la sua bevanda alla coca continuò a vendersi fino al 1920[4]. Alcuni, tuttavia, riuscirono a eludere i divieti di cui furono vittime Mariani e i suoi concorrenti; il più importante era un certo John Pemberton, produttore di un French Wine Coca, ad Atlanta, che finì per sostituire uno sciroppo al vino e a commercializzare la sua bevanda con il nome di Coca-Cola[5].

 

  1. The Coke Side of Life

 Come il vino Mariani, la Coca-Cola introdotta da Pemberton nel maggio 1886 conteneva l’equivalente di una decina di grammi di cocaina per litro e si supponeva avesse le stesse proprietà stimolanti e toniche di quello – era semplicemente priva d’alcol[6]. Invece di venderla come un medicinale, il farmacista decise di farne una “bevanda rinfrescante” che si poteva acquistare nei negozi di alimentari; il successo non arrivò, e Pemberton vendette la sua invenzione, prima di morire a causa della sua dipendenza dalla morfina[7]. Se il prodotto conobbe in seguito la fama che sappiamo, fu grazie al genio commerciale di Asa Candler, l’uomo d’affari che acquistò da Pemberton il nome e la formula della “Coca-Cola”, e stabilì la forma della bottiglia, divenuta un’icona, nel 1915. Nel frattempo, nel 1903, la Coca-Cola si era sbarazzata della cocaina che conteneva, anche se l’infusione di foglie di coca continuava – e continua, grazie a una eccezione fatta su misura, che compare nell’articolo 27 della Convenzione unica sugli stupefacenti delle Nazioni unite (1961) – a far parte della sua formula. Questa eccezione, che autorizzava The Coca-Cola Company a importare dalla Bolivia delle foglie di coca per uso proprio, godette del concorso di Harry J. Anslinger, una delle personalità più ambigue della storia della guerra alla droga condotta dagli Stati Uniti[8]. Primo capo dell’Ufficio federale dei narcotici, non smise di dare delle droghe, in particolare della marijuana, la peggiore immagine che ne sia mai stata data, ricorrendo a tal fine alle tecniche di disinformazione più spudorate – con il sostegno dei titoli dei giornali di William Randolph Hearst e del gruppo Dupont di Nemours. Scandali montati di sana pianta, associazione del consumo di droghe con le popolazioni “pericolose” (cioè non bianche) ecc., facevano parte dell’arsenale al quale Anslinger attingeva per giustificare il suo lavoro, e chiedere più fondi per il suo dipartimento. Anche se i suoi metodi avrebbero finito per interrompere la sua carriera, il presidente Kennedy lo nominò comunque, prima del suo pensionamento, rappresentante degli Stati Uniti alla Commissione delle Nazioni Unite sui narcotici[9]. Non era il minore dei paradossi che l’uomo della guerra alle droghe fosse anche quello con cui una delle più grandi industrie che traeva profitto dalla coltivazione della coca ha potuto continuare a fornirsi di materia prima – escludendo qualsiasi concorrenza. Eppure, a pensarci bene, questo paradosso era del tutto logico: si trattava di una dipendenza come un’altra.

 

  1. Introduzione alla farmacologia economica

 Dalla Merck alla Coca-Cola, passando per Mariani e i suoi imitatori, la cocaina ebbe, all’inizio dello sviluppo del capitalismo industriale, un ruolo simile a quello che avrebbe dovuto avere sui suoi consumatori: il ruolo del più potente degli stimolanti. Fu grazie a questa droga (e ad alcune altre della stessa famiglia) che la moderna industria farmaceutica potè iniziare a svilupparsi e che il mercato della lotta contro la nevrastenia divenne un’impresa così redditizia che fece scomparire i piccoli giocatori quali erano i vecchi imbonitori. Era evidente che un tale sviluppo non poteva avvenire senza che imbarazzanti zone d’ombra ne accompagnassero il movimento – e, in effatti, la cocaina si incrocia sempre là dove il capitalismo moderno è più soggetto a sospetti di corruzione, vale a dire nelle sue relazioni con i poteri pubblici. Che si tratti della funzione svolta dalle sostanze narcotiche durante la Seconda guerra mondiale (e, in generale, in tutta la storia delle guerre del xx secolo) o del modo in cui queste sostanze si sono nascoste, sotto altri nomi, nella farmacopea in tempo di pace, il lato oscuro della modernità è impensabile senza di esse. Il progressivo confinamento della cocaina ai margini della legalità non ha cambiato nulla: ancora oggi l’economia del mondo si regge sulla circolazione del denaro prodotto dalla estrazione, dalla trasformazione e dal commercio dell’alcaloide. Al momento della crisi dei subprime, nel 2007, fu anche il frutto del traffico di cocaina che permise alle banche, messe in difficoltà dalle loro stesse martingale, di sopravvivere, il tempo che gli Stati mettessero mano al portafoglio per toglierle dai guai. Per alcuni mesi, mentre gli investitori tradizionali ritiravano i loro soldi dalle banche, solo i trafficanti di droga continuarono a iniettare liquidità nel sistema – di cui essi avevano bisogno per dare a quest’ultime un aspetto legale[10]. Così come la cocaina aveva reso possibile il capitalismo industriale, ad essa era affidato il compito di salvarlo da se stesso, dopo essersi ubriacato della sua stessa potenza, dopo la svolta della finanziarizzazione – nata, da un altro paradosso, nello stesso periodo della War on Drugs. Ciò non poteva che ricordare gli argomenti di vendita avanzati da Merck quando la compagnia di Darmstadt cercò di persuadere i medici europei che la cocaina aveva principalmente lo scopo di trattare la dipendenza dalla morfina – cosa che, da un certo punto di vista, non era falso[11]. In ogni caso, si trattava di aspettarsi da un veleno che diventasse il suo stesso rimedio.

 

  1. All’alba sorgerò

 Le conclusioni delle ricerche di Freud erano inequivocabili: la cocaina era una sostanza il cui effetto principale era di rendere possibile un’attività che non lo era senza di essa – realizzando una sorta di allontanamento da ciò che lo impediva. In altre parole, la cocaina era un operatore di efficacia: quando un individuo soffriva di difficoltà associate a uno stato depressivo, o a disturbi fisici, la sostanza permetteva di sconfiggere questa sofferenza. Era in questo senso che poteva essere detta “stimolante” (o, come nel caso del vino Mariani, “tonica”): spingeva all’azione – rendendola possibile rimuovendo tutto ciò che resisteva alla stimolazione. Per “resistenza” bisognava intendere tutto ciò che era associato al freno che la materia può sempre porre – o meglio: il freno che la materia, per sua stessa natura e densità, non può impedirsi di costituire, come il corpo e i suoi organi. Grazie alla cocaina, il luogo dell’azione si spostava dal corpo motore alla pura volontà, all’esercizio delle facoltà mentali distaccate da ogni contingenza diversa da quella della propria potenza, come se fosse possibile che la materia non ne fosse nient’altro che la serva. Quando Freud sosteneva che la cocaina consentiva di ricreare l’“eccitazione” dove questa sembrava essere svanita, probabilmente intendeva dire che il prodotto che ordinava a prezzo d’oro alla Merck lo liberava da tutto ciò che gli impediva di agire – cioè da se stesso. La cosa più importante, tuttavia, non era il fenomeno di ablazione che osservava, ma il fatto che questo conduceva a una mobilitazione; la cocaina rendeva mobili, attivi, efficaci; consentiva di svolgere i compiti più difficili e urgenti senza il minimo sforzo. Insomma, la cocaina era il carburante del cervello – era ciò che permetteva al cervello di essere se stesso, quando il resto di sé (vale dire il corpo) era ignorato, in modo che esso potesse dedicarsi senza riserve al godimento del proprio funzionamento. Freud non arrivava a dire che l’assunzione di cocaina lo rendeva più intelligente o più chiaroveggente; non aveva ancora raggiunto lo stadio megalomaniaco del cocainomane – ma c’era tuttavia un po’ di questo nei suoi scritti sull’argomento. In realtà, era piuttosto nell’intimità della corrispondenza che intratteneva con la sua fidanzata, Martha, che dava libero sfogo alla descrizione lirica di ciò che la cocaina gli faceva fare durante le cene mondane – ma i suoi articoli scientifici non erano meno elogiativi[12].

 

  1. Della stessa materia dei sogni

 Che la cocaina costituisse un principio di efficacia soggettiva, e che questo principio assumesse la forma di una sorta di astrazione rispetto alla materia e al suo carattere di vincolo, era la principale lezione che si poteva trarre dai testi che Freud aveva dedicato alla sostanza. Ma i suoi rapporti con la Merck, così come il modo in cui la compagnia poteva servire da metonimia del funzionamento del capitalismo industriale, avrebbero già dovuto far sospettare che probabilmente c’era qualcosa di più. Ciò di cui si parlava, con la cocaina, era di una sorta di logica del distacco – una sorta di processo di dematerializzazione generale, che toccava tutte le dimensioni della realtà, tanto che si trattasse di quelle di un soggetto come di quelle di un universo sociale. La cocaina era il principio di efficacia di un mondo diventato fluttuante – mondo in cui più nulla contava, se non il libero dispiegamento delle potenze permesse dall’oblio di tutto ciò che poteva reprimerle, in qualunque campo. Del resto, questo è ciò che la storia del commercio della cocaina finisce per rivelare: non c’era alcun limite o regola che potesse opporvisi – oppure, se c’era, si poteva fare altrettanto bene come se non esistesse, dal momento che nessuno aveva un senso. Quando Richard Nixon lanciò la sua War on Drugs, in una conferenza stampa nel giugno 1971, sapeva benissimo che sarebbe stata una guerra senza speranza, poiché ogni nuovo tentativo di contenere il commercio della cocaina lo avrebbe visto sfuggirgli ancora di più[13]. Del resto, forse questo era il suo scopo: fare in modo che fosse attuato una sorta di movimento di lotta astratto, la cui esistenza e consistenza fosse solo puro flusso o pura forza – puro gesto di decisione senza alcuna relazione con la realtà che doveva combattere. Sintomaticamente, fu sempre nel 1971 che Nixon decise di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, decidendo così sia la fine degli accordi di Bretton-Woods, che avevano più o meno stabilizzato l’economia mondiale, sia quella di ogni rapporto della moneta americana con il suo standard di riferimento[14]. Improvvisamente, il sistema economico mondiale si trovò immerso in una specie di plastica follia, il cui primo effetto fu il dispiegamento della finanza, gigantesca macchina per produrre denaro che non ha altro riferimento che il proprio valore. Così come la guerra alla droga ebbe come unica conseguenza l’evaporazione di ciò che restava di materialità nel commercio della cocaina, la fine degli accordi di Bretton-Woods sancì l’ingresso del capitalismo nell’era della sua dematerializzazione.

 

  1. Zero, zero, zero

 Nella terrificante inchiesta sui meccanismi mafiosi dell’economia della cocaina, che pubblicò nel 2013, Roberto Saviano propose un’ipotesi ancora più radicale – secondo la quale quella che poteva sembrare essere solo una coincidenza era in realtà una natura comune[15]. Il ruolo svolto dal commercio del coke nella storia dello sviluppo industriale, e poi il modello che ha costituito la sostanza nella svolta verso la finanziarizzazione, avrebbero dovuto far sospettare che con il capitalismo si trattava di qualcos’altro della semplice amoralità. Piuttosto che come un sistema che accompagna (e anche, in larga misura, sostenuto da) la polvere che tanto affascinava Freud, il capitalismo deve essere considerato come interamente innervato da essa – poiché costituisce la sua energia, la sua sostanza, il suo scopo e il suo modello. Non solo la finanza internazionale è inseparabile dal commercio della droga, ma tutto si svolge come se fossero la stessa cosa – come se fosse impossibile distinguere le due cose, come già testimoniavano le manovre di Nixon. C’è solo capitalismo della cocaina – così come c’è cocaina solo in quanto richiede un sistema economico adeguato alla sua volatilità, alla sua illegalità, alla sua assunzione e alla sua immaterialità, cioè un sistema nervoso astratto diventato perfetta eccitazione. Ogni capitalismo è, necessariamente, un narcocapitalismo – un capitalismo in tutto e per tutto narcotico, la cui particolare eccitabilità non è che il rovescio maniacale della depressione, che non cessa di originare, pur presentandosi come suo rimedio. In realtà, non si tratta di un rimedio, ma solo di un oblio – di quella rimozione della sensazione degli organi sottolineata da Freud, e che finisce per trovare la sua forma ideale nell’anestesia praticata ogni giorno sui milioni di consumatori di antidepressivi. Del resto, non è certo un caso che la maggior parte degli antidepressivi disponibili sul mercato condividano con la cocaina molto più della loro natura di prodotto sintetico e dell’effetto anestetico derivante dal loro consumo. A rileggere Freud, quello che ci si aspettava dalla cocaina era proprio quello che gli abitanti stressati delle rovine del capitalismo globalizzato sperano di ricavare dalle pillole che inghiottono tutto il giorno: non sentire nulla – soprattutto il loro stomaco. Il narcocapitalismo è il capitalismo della narcosi, il sonno forzato nel quale gli anestesisti immergono i loro pazienti per liberarli da tutto ciò che impedisce loro di essere efficienti nell’ordine del presente – cioè di lavorare, lavorare, e lavorare ancora.

[1]             Aymon de Lestrange, Angelo Mariani. 1838-1914. Le vin de coca et la naissance de la publicité moderne, Intervalles, Paris 2016, p. 29 ss.

[2]             Ivi, p. 30.

[3]             Ivi, p. 70 ss.

[4]             Ivi, p. 138 ss.

[5]             Cfr. Mark Pendergast, For God, Country & Coca-Cola. The Definitive History of the Great American Soft Drink and the Company that Makes it, Basic Books, New York 2013, p. 20 ss. Per un resoconto più polemico, si veda William Reymond, Coca-Cola. L’enquête interdite, Flammarion, Paris 2006, p. 44 ss., che aggiunge tuttavia qualche elemento inedito al racconto di riferimento di Pendergast.

[6]             Pendergast, For God, Country & Coca-Cola, cit., p. 53 ss.

[7]             Ivi, p. 43.

[8]             Su Anslinger, leggere John C. McWilliams, The Protectors. Anslinger and the Federal Bureau of Narcotics (1930-1962), University of Delaware Press, Newark 1990.

[9]             Ivi, p. xx.

[10]           Questa almeno era la tesi del difensore di Antonio Maria Costa, Direttore dell’ufficio delle Nazioni unite sulle droghe e la criminalità, in una intervista pubblicata il 13 dicembre 2009 da “The Observer”. Cfr. Rajeev Sival, Drug Money Saved Banks in Global Crisis, Claims UN Advisor, in “The Guardian”, 13 dicembre 2009. A oggi, le prove di cui Costa pretendeva di essere in possesso non sono ancora state rese pubbliche. Si veda Joras Ferwarda, The Effects of Money Laundering, in Brigitte Unger e Daan van der Linde (a cura di), Research Handbook on Money Laundering, Edward Elgar, Cheltenham-Northampton 2013, p. 40.

[11]           Cfr. H. Richard Friman, Germany and the Transformations of Cocaine, cit., p. 90.

[12]               Freud, Sulla cocaina, cit., p. 109 ss.

[13]           Cfr. Johann Hari, Chasing the Scream. The First and Last Days of the War on Drugs, Bloomsbury, London 2016. Sulle conseguenze della War on Drugs nelle Ande, cfr. Frédéric Faux, Coca! Une enquête dans les Andes, Actes Sud, Arles 2015.

[14]           Sulla storia e l’importanza della fine del sistema di Bretton-Woods, cfr. Yanis Varoufakis, I deboli sono destinati a soffrire? L’Europa, l’austerità e la minaccia alla stabilità globale, trad. it. di L. Matteoli, La nave di Teseo, Milano 2016; Peter Sloterdijk, Aprés nous le déluge. Les Temps modernes comme expérience antigénéalogique, trad. fr. di O. Mannoni, Payot, Paris 2016, p. 178 ss.

[15]           Roberto Saviano, ZeroZeroZero, Feltrinelli, Milano 2013.

Intrecci di vite e di opere

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di Pasquale Vitagliano

“Ne sono rimasto molto addolorato ma penso che i suoi ultimi cinque anni o sei anni siano stati molto felici”. Questo dice James Joyce alla Weaver quando viene a sapere della morte di Italo Svevo. Rendere felice un amico: questo è il senso del sostegno che mai gli fece mancare. È anche la firma di un rapporto umano e letterario intricato e generativo. La vita dell’altro. Svevo, Joyce: un’amicizia geniale è il racconto di questa relazione. Enrico Terrinoni ricostruisce l’inedita amicizia tra questi due “mostri” della Letteratura del Novecento. Joyce, in fuga dall’oppressione politica e culturale che a Dublino non gli permette di vivere, insegna inglese a Trieste. Svevo inizia a frequentarlo come allievo. Lo sosterrà economicamente, ricevendo in cambio un sincero sostegno al suo talento letterario.

L’intreccio delle loro vite e delle loro opere, che si scambiano, apprezzandole reciprocamente, costruisce una rara connessione, quasi un entanglement quantistico, tra biografie, tratti letterari, luoghi e coincidenze numeriche. Per esempio, l’ironia è un passaggio cruciale nell’incontro delle loro arti. “Riguardo all’Ulisse”, scrive Terrinoni, “possiamo esser certi che sarà proprio l’ironia l’architrave dell’Ulisse”. Ed ha ragione Brian Moloney, che fa risalire questo carattere proprio a Svevo, al suo modo di comportarsi e di scrivere. Un altro punto di contatto è la città: Trieste e Dublino, con le loro aree misteriose in cui la “distanza tra il corpo l’anima si dissolveva, e le contraddizioni tra la vita diurna e quella notturna si ricomponevano in un’unica esistenza fluida, nascosta e sognante”.

Ha ragione la moglie di Svevo, Livia, quando afferma che attraverso la conoscenza della sua vita si può penetrare maggiormente il suo mistero d’artista. Nessuna interpretazione dell’opera di questi due giganti può prescindere da una ricerca dentro la loro esistenza privata. Né sarà mai possibile inoltrarsi fino a svelare il segreto più intimo e riposto che costituisce il nesso profondo tra finzione e realtà, rappresentazione e vita vissuta. Anche perché “nel farsi vita narrata, una vita di sublima e si modifica”. Ci vengono svelati insieme due tra gli scrittori più autobiografici di sempre, autori non di narrative ma di “narravite”, come scrive Terrinoni, l’una la cartina di tornasole dell’altra.

Attraverso la narrazione di questi eventi, resoconti, impressioni, incroci, e simultaneità, questo libro ci accompagna dentro il mistero stesso della letteratura che germoglia oscuramente dentro le esistenze umane. Le vite e le opere di Joyce e di Svevo di riflettono le une nelle altre rimandandoci all’infinito il riflesso sorprendente di due esperienze uniche. Come lettori, per un verso, partecipiamo ad un’intensa e autentica storia d’amicizia “tra due geni di grande cuore”, la cui natura continua a mantenere per noi una natura segreta. Per altro verso, proviamo la sensazione di aver raggiunto il limite estremo delle possibilità conosciute fino ad allora. Ma superate queste colonne d’Ercole scopriamo che il mondo non è finito. Anzi, siamo approdati alla Modernità.

 

Mots-clés__Sonno

2
Bill Viola, "The Sleepers", 1992 (https://macm.org/en/collections/oeuvre/the-sleepers/)

 

Sonno
di Ornella Tajani

Philip Glass, Les enfants terribles (The Somnambulist) -> play

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Bill Viola, “The Sleepers”, 1992 (https://macm.org/en/collections/oeuvre/the-sleepers/)

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Da: Sándor Márai, Il sangue di san Gennaro, a cura di Antonio Donato Sciacovelli, Adelphi, 2012 (edizione digitale).

A mezzogiorno, a metà maggio, una sorta di fatalità alberga nella luce del sole che si libra tinta d’oro e d’azzurro. Il mare è immobile, di un blu profondo. A Napoli, in questo momento, centinaia di migliaia di persone stanno dormendo, a metà maggio, intorno alle due di pomeriggio. Dormono tutti vestiti nei bassi, sull’unico letto, dormono con le bocche spalancate e sembrano colti da svenimento. Dormono in riva al mare, sulla passeggiata di Posillipo, sul ciglio delle recinzioni di pietra, e nel sonno mantengono incomprensibilmente l’equilibrio, senza precipitare già dalle recinzioni, verso l’abisso. Dormono nel bel mezzo dei marciapiedi, e i passanti scavalcano con indifferenza i dormienti. In qualsiasi altro luogo un uomo che giaccia privo di sensi al centro del marciapiedi, in pieno giorno, sarebbe considerato la vittima di un incidente. Ma non a Napoli, dove è solo un uomo che dorme. Il sonno si impadronisce di loro come un impellente bisogno fisico, alla stregua della fame, della sete o della passione carnale. All’improvviso si addormentano, subito, senza che nella loro vita vi sia soluzione di continuità tra la veglia e il sonno.

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[Dopo quasi cinque anni, con questo mot-clé la rubrica cessa di avere una cadenza mensile fissa; d’ora in avanti i nuovi contributi saranno pubblicati occasionalmente, sempre nella prima domenica del mese. Grazie a tutte/i coloro che hanno partecipato fin qui: è stato interessante vedere come, da un gioco di associazioni semplice in apparenza, siano spesso stati costruiti imprevedibili percorsi di senso. Tutti i mots-clés pubblicati sono accessibili cliccando sul tag qui sotto: enjoy. ornellatajani]

Marcel ritrovato, di Giuliano Gramigna

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[Per Il ramo e la foglia edizioni è stato appena riedito Marcel ritrovato, terzo romanzo di Giuliano Gramigna, con una nota critica di Ezio Sinigaglia. Ne pubblico un estratto. ot]

 

di Giuliano Gramigna

La scala cominciava dietro una porta a vetri rossi e blu piombati, fatta o rifatta da poco, di legno lucido e grasso; al primo piano, un corridoio con due e due porte ai lati, una specie di moquette abbastanza strappacchiata; al secondo, stesso corridoio a quattro porte, con numerini di biacca dipinti sopra a mano. Arrivava da qualche parte il gorgoglio di uno sciacquone, la musica di una radio o giradischi e una voce che ci mugolava sopra distrattamente. L’otto era in fondo al corridoio sulla sinistra. Una porta si aprì, venne fuori un giovanotto alto, grosso, dai capelli tè chiaro tagliati cortissimi fin quasi alla cotenna, che aveva addosso soltanto una maglietta bianca da base-ball attraversata sul petto da un «Giants» bello rosso. La maglietta arrivava all’ombelico, lasciando scoperti fianchi e gambe muscolosi da sportivo e un sesso enorme e pigro, dai riflessi madreperlacei. Il giovanotto mi guardò un momento mentre richiudeva dietro di sé la porta senza affrettarsi: aveva occhi verdi, del tutto tranquilli, imperturbabili; poi, ancora senza fretta, camminò attraverso il corridoio, portando via quel suo trofeo verso un’altra porta che fronteggiava diagonalmente quella da cui era uscito, aperse dolcemente, scomparve. Il sole che veniva dalla finestruccia in fondo al corridoio aveva non so che polverizzazione azzurrognola, forse per il riverbero delle facciate di pietra e dei tetti d’ardesia del cortile. Camminando (non so perché) in punta dei piedi andai alla porta numero otto, girai la maniglia: non era chiusa a chiave. La stanza era quadrata, non molto grande, con pochi mobili d’acero, chintz a fioroni alquanto sudicio inchiodato dentro cornici pure di acero dietro il divano-letto e il lavabo, chissà con che intenzione, ormai perenta, di ricercatezza. Sul solito sgabellino a X c’era una valigia, un’altra in cima all’armadio. Non le riconoscevo certo, come non avrei saputo identificare vestiti e biancheria che contenevano, ma il cartellino alla maniglia portava il nome di Marcello Galimberti e dentro una delle valige, proprio in cima alla pila d’abiti, una cartella piena di carte, ancora con il suo nome e l’intestazione a stampa della sua fabbrica. Curiosai un poco: sulla mensola del lavabo il flacone appena cominciato di lozione Yardley, il sacchettino di tela grezza Rose-Manchester ma non la bottiglia; non trovai rasoio e il resto. Sul tavolo, una Dunhill di un bel colore bruno rossiccio, che annusai: per quel che me ne intendevo, ci aveva fumato Capstan. Guardai anche nel cestino della carta straccia, vergognandomi un po’ di questa mossa da cattivo segugio: non c’era nulla, del resto. Non so che cosa mi aspettassi dal sopralluogo, salvo la conferma che proprio lì Marcello aveva abitato per un paio di settimane, dopo aver lasciato il Georges cinq: il cercatore di tracce aveva finito, per ora. Mi voltai per uscire e c’era una ragazza dentro il rettangolo che la porta semiaperta ritagliava sulla luminosità diversa del corridoio. Aveva un’aria di solidità-stolidità, mi chiesi oziosamente come avrei fatto a spostarla per passare se lei non si fosse tirata spontaneamente da parte. Intanto lei stava piantata lì, con dei pantalonacci scuri e un maglione largo e informe color antracite che parevano una divisa messa su con noncuranza o dispetto; teneva la mano sinistra davanti alla bocca, gesto che avevo giudicato teatrale, di sorpresa o terrore: ma arrivato più vicino mi accorsi che stava semplicemente masticando le pellicine intorno al bordo dell’unghia del pollice, con grande concentrazione e di tanto in tanto con uno scatto secco dei denti[1]. Dietro quella mezza maschera il viso era in qualche modo immacolato, fatto con poche linee molto pure, intense e nello stesso tempo distratte; due rughette verticali fra i sopraccigli riprendevano la scanalatura accentuata del labbro superiore. La guardavo in faccia come attraverso una lente d’ingrandimento. Pensai di domandarle addirittura se conosceva l’occupante di quella stanza, se sapeva dove trovarlo; ma in quale lingua parlarle? italiano, francese, inglese eccetera erano certo inadeguati non meno del sarmata o del medo per comunicare con lei: forse occorreva trovare l’equivalente di quel mordicchiare pellicine, un gesto o un semplice suono organico. Difatti adesso la ragazza muoveva gli occhi con familiarità paziente intorno alla camera, inglobandovi ma senza arresto né meraviglia anche me che mi ero fermato a due passi di distanza; poi fece un suono che posso trascrivere pressappoco come: “ghe”, emesso più con le interiora che con le corde vocali, girò su se stessa adagio e scomparve dal riquadro della porta. Mi chiusi l’uscio alle spalle, scesi e trovai la donna dietro il banco apparentemente nella stessa posizione in cui l’avevo lasciata; le dissi che se voleva poteva mandare le valige dello scomparso al mio albergo; non aspettai che desse segno di consenso o dissenso e lasciai il Râtelier.

Finii la mattinata in boulevard Raspail alla libreria Gallimard che mi piaceva perché dalla vetrina pioveva dentro il verdolino chiazzato di sole dei tigli e dei lillà, poi dopo il pranzo tornai all’albergo per scrivere a Roberta una prima relazione delle mie ricerche. Dirle tutto? ma che cosa era poi tutto, finalmente? fatti pochini, semmai il contorno delle ipotesi, delle interpretazioni, ma avevo il diritto di metterlo in carta? ma Roberta non aveva il diritto di sapere? ma io stesso nei suoi confronti il dovere di essere franco, di riferire oggettivamente non soltanto i fatti, anche quelle deduzioni che sembrava inevitabile ricavarne, a costo del mio sentimento di amicizia e lealtà verso Marcello? et patati et patata. Tutto gonfio di questa bella parte, accennai alla spedizione al Georges cinq, all’incontro con i brasiliani «certamente conoscenze occasionate dalle necessità professionali, però non direi proprio quel tipo di persone che ci si aspetterebbe di trovare con Marcello o che dovrebbero piacere a Marcello» («almeno come lo conosco io» aggiungevo parenteticamente); poi al passaggio di Marcello dall’albergo alla stanza del Râtelier «un posto che tu ed io potremmo perfino trovare divertente per un’oretta ma non abitarci senza disagio» e alla successiva scomparsa. «Io credo di poterti tranquillizzare senz’altro da un punto di vista materiale. Voglio dire che, sebbene non sappia ancora dove sia adesso, sono persuaso che non gli è capitato nulla di male cioè che sta bene e tornerà presto a farsi vivo. Qualche idea improvvisa, qualche curiosità, metti il fascino di certo ambiente (sebbene il nostro Marcello non si sia mai lasciato incantare; ma chi può dire cosa succede a un bel momento? non parlo di demone meridiano, farebbe ridere per Marcello, non fosse altro per l’età, troppo giovane; comunque) magari basta a spiegare questa scomparsa temporanea.» Aggiunsi, con molti altri incisi e parentesi, che avrei continuato a darmi da fare ma che non era proprio il caso di allarmarsi. A buon conto non ritenevo si dovesse mettere di mezzo la polizia. «Perché creare uno scandalo che non c’è?» Sorrisi fra me tirando fuori questo fleur-de-lys di una cautela borghese ormai superata: figuriamoci se adesso gli spiace uscire su quotidiani e settimanali, anche se non proprio per i balletti verdi; biffai la frase e scrissi: «Del resto, una volta che si è convinti, come lo sono io, che Marcello non corre fisicamente nessun pericolo, una certa cautela nelle mosse sembra ragionevole. Nessuno può dire di conoscere davvero un altro: neppure tu, cara Roberta, se vuoi essere sincera, puoi giurare di sapere tutto di Marcello. Viviamo spesso in uno stato di semiconfusione, di semignoranza accanto alle persone alle quali vogliamo bene e proprio la vicinanza impedisce di vedere. Anche in questo caso, la precipitazione potrebbe avere effetti spiacevoli e imbarazzanti non solo per Marcello ma anche per te e per tutti noi che gli siamo affezionati». Aggiunsi che naturalmente non pensavo affatto che un cambiamento di luogo, certi incontri occasionali potessero trasformare un uomo («non Marcello») e che in ogni caso escludevo una indegnità d’ordine morale (espressione alquanto oscura); ma per ora la cara Roberta doveva aver fiducia negli amici come me «che non cambiano i loro affetti». Ci misi un’ora a scriverla e avrei potuto continuare per un altro paio. Appena l’ebbi finita andai a imbucarla alla Gare de Lyon, perché partisse subito[2].

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[1] Donde sarà mai scappata fuori questa siluette così malritagliata, goffa e soprattutto detta dagli altri? L’autore ammette che nessuna delle parole del ritrattino gli appartiene e che l’intero pezzo gli dà, non meno che al lettore, la sensazione di un dettato buttato giù di malavoglia, trasentendo e trascrivendo male per la fretta e la noia, le frasi suggerite. Il guaio è che dietro le parole prese in prestito non si sa bene da chi non c’è nulla ossia il vuoto dell’imbecillità che dà, dopo una mezzoretta, la pillola di sonnifero o quello assai più penoso, fatto tutto di grattamenti senza fondo, della memoria incapace di ritrovare un nome, una data, una citazione. Dunque un bell’esempio di nevrosi espressiva, in cui alla totale incapacità si accompagna la totale e frenetica urgenza di esprimersi. L’a. crede di poter paragonare il disagio che ne viene a quei dolori di denti freddi, subdoli, vagamente vergognosi per i quali non si sa indicare al dentista la localizzazione; oppure allo string-process vulgo sindrome della corda di violino, che stira in tutto il corpo i nervi dell’ossessivo coatto quando la sera prima di andare a letto controlla per la ventesima volta che il gas sia spento, e che può culminare tanto nel collasso fisico quanto nell’ascesi mistica.

[2] Abbozzo di una variante non utilizzata: sensazione di sazietà un po’ repugnante alla fine, come per il “troppo dolce” (?). Bruno soddisfatto scende la scala dell’albergo cantarellando con la lettera chiusa in mano eccetera…; poi di colpo si vede in una vetrina – volto compiaciuto di diavolo meschino (trovare di meglio) – e ha disgusto di sé.

Tu, muori

2

di Ilaria Parlanti

Tu, muori

24 operazioni chirurgiche. 3 vertebre toraciche malformate. 2 coste e mezzo mancanti. 24 cicatrici sulla schiena. 1 polmone ipoespanso e non funzionante. 42° Cobb di curvatura toracica. 2 ganci uncinati alle lamine vertebrali. 46° Cobb di curvatura lombare. 30% scarso di capacità vitale respiratoria. 1 barra di Harrington. 1 ciste siringomielica nel midollo. 2 arti con disfunzioni neurologiche. 38 chilogrammi di peso. 1 lesione midollare. 156 centimetri di altezza. 1.18 litri di aria a espansione forzata polmonare.

Anni: 26.

Mutazione del gene DLL3

La disostosi spondilocostale autosomica recessiva (ARSD) o sindrome di Jarcho Levin è una malattia rara dovuta alla mutazione del gene DLL3.

(Sito ufficiale Orphanet)

Non posso avere ricordi della nascita e dello spazio perinatale che ho occupato nel mondo. So soltanto le storie che mi hanno tramandato le donne di famiglia. Mio padre ancora oggi non mi dice niente, a riguardo: si è sempre mostrato scosso.

Era un venerdì di aprile del 1997, faceva freddo. Che la mia situazione fosse grave si percepì subito dall’insufficienza dei decibel del mio pianto e dalla postura innaturale che aveva assunto la mia colonna: la spalla destra incurvata fino a toccare le ossa dell’anca. Eppure nelle trentadue settimane di gestazione non si erano registrate anomalie, solo un certo presagio di tragedia scuoteva le notti di mia madre.

“Morirà in tre giorni” dissero i medici una volta che fui ripulita dai liquidi della placenta e attaccata ai tubi dell’incubatrice.

Mi concessero settantadue ore per vedere il mondo, ingabbiata in un ospedale. Poteva accadere – la mia morte – per un semplice arresto circolatorio, per l’elisione dell’esofago o per soffocamento. Stava a me decidere.

Di quei giorni non so altro, se non cose che ho scoperto poi, origliando. Pochi si erano arrischiati a venirmi a trovare. Qualcuno aveva detto che ero un piccolo mostro. “È senza collo” fece notare un altro, soffocando un sorriso. La sterilità dell’ambiente, la stanchezza della rianimazione neonatale, le procedure di sicurezza igienica avevano fatto il resto.

La turbolenza della nascita ha istigato terremoti emotivi anche negli anni formativi.

“Non ride mai di gusto” mi disse il chirurgo agli inizi della nostra conoscenza, presso l’Hôpital Saint Vincent de Paul allora a Parigi.

Gli devo dare il merito di aver detto una verità. Sono così seria e contrita; ironica solo quando avverto l’irrefrenabile impulso di screditarmi. Molto dipende da quel giorno di aprile, quando mi tolsero dall’abbraccio materno e mi comandarono, occhi negli occhi: “Tu, muori”.

Distrattore costale

Il distrattore spino-costale è un sistema utilizzabile in presenza di limitazioni della crescita del polmone e scoliosi grave e progressiva. Il sistema è stato messo a punto specificatamente per i bambini molto piccoli.

(Sito dell’Istituto Ortopedico Rizzoli)

Ho subito bullismo in tutte le sue forme. Eppure non sentivo la solitudine della malattia. Negli ospedali osservavo con meticolosità le malattie degli altri bambini e comprendevo che noi – i bambini malati – non eravamo soli, ma un gruppo ristretto di persone sfortunate. Quello era l’unico gruppo cui appartenevo.

Ero in quarta elementare. Raggiunsi i compagni con il mio grembiule nero svolazzante, i capelli legati in una coda alta e il bustino che rendeva ogni movimento più meccanico e artificioso. Proposi una variante del gioco. Nessuno mi rispose, anzi nessuno alzò nemmeno la testa per guardarmi. Pensai non mi avessero sentito e ripetei la proposta con un tono più alto. Niente.

Soltanto una bambina, alle mie grida di protesta e supplica, si alzò dal cerchio e mi venne incontro.

“Non vogliamo la tua malattia. Tu ci fai solo pietà”.

Eccola la parola: pietà.

La odiai, nel modo immediato e assoluto che è virtù degli infanti. E per metonimia, estesi la sua malignità a tutti i bambini, passati e futuri.

Credo che sia nata così la mia incapacità di legarmi, la mia totale mancanza di interesse a creare un punto di contatto con loro. Li odiavo – li odio – tutti, i bambini: indistintamente.

Davvero ci si avvicina a me solo per pietà? Le mie relazioni sociali, affettive e sessuali saranno solo di questo tipo? Sarò l’amica disabile o l’amante disabile o quella con cui si scopa perché non la scoperebbe nessun altro?

Harrington modificato

L’asta Harrington è un sistema strumentale di acciaio inossidabile utilizzato in bambini e più spesso in adolescenti per il bloccaggio della colonna vertebrale, ovvero l’intervento di artodesi.

(www.ior.it)

Mi ricordo che al suono di quella parola – mi fece schifo sul momento, un ribrezzo come poche volte ho provato nella vita – scostai subito lo sguardo in direzione di mio padre.

Non solo provai una grande rabbia nei confronti del dottore, ma anche un certo moto di fastidio per aver accostato al mio comportamento di liceale ubbidiente e inattaccabile un’azione tanto crudele – per la me di allora – come l’atto sessuale completo. E che mio padre sentisse, sapesse che a diciassette anni io non avevo mai fatto sesso, che non avevo nemmeno un briciolo di esperienza. E che si parlasse apertamente non della possibilità che io ne facessi in futuro – i malati e i disabili il sesso non lo consumano, pensavo all’epoca – ma della certezza premeditata che sarebbe accaduto.

Mi sarei voluta alzare in piedi con tutta la mia fragile bassa statura e gridare che io il sangue delle mestruazioni lo avevo sempre voluto – sempre sempre sempre! – e che l’avevo ottenuto a quindici anni e tre mesi con la sorpresa di tutti, anche del chirurgo. Avevo dimostrato che non era vero che sarei rimasta una bambina per tutta la mia vita, il mio corpo aveva risposto alle radiazioni di quegli anni con un grumo rosso scuro che mi era colato tra le gambe durante l’operazione del giugno 2012.

Ma accoppiarsi avrebbe significato la rottura dell’imene. E quello mi era necessario: serviva a non mescolare il mio dolore a quello del mondo.

Quando finì il trattamento chirurgico la pneumologa mi disse: “Puoi tornare in Italia pensando al futuro. Se le cose rimanessero così a livello respiratorio, sarebbe difficile sostenere una gravidanza, ma non impossibile. Se le cose peggiorassero, come la patologia comanda, allora è il caso di rivalutare”.

Io risposi solo: “Non voglio figli”.

Codice Orphanet: 2311

Orphanet gestisce la nomenclatura delle malattie rare di Orphanet, strumento essenziale per migliorare la visibilità delle malattie rare nei sistemi informatizzati della sanità e della ricerca: a ciascuna malattia in Orphanet viene attribuito un identificativo univoco e stabile, il ORPHAcode.

(www.orpha.net)

La mia maturità sessuale ha avuto inizio in ritardo, come molte delle tappe della mia vita: avevo ventidue anni.

A un certo punto mollai tutto: la mia ambizione, le mie amicizie, la scrittura, la lettura, tutto ciò che mi aveva sempre dato gioia, soltanto per ricercare quel fine ultimo ed estremo, che come tutti agognavo non senza una certa ignoranza: il sesso.

Mi legai a un amico della mia compagnia, al quale piacevo da un po’. Che cosa pensai, io, in quel momento, di lui? Che fosse un pazzo masochista, che avesse scelto me per punirsi. Lui mi diceva tante cose, io non gli credevo minimamente: che mi amava, che lui ascoltava il cuore e non la mente. Io il cuore non lo ascoltai mai. Mi dissi che sarei stata una vigliacca se mi fossi persa questa opportunità di normalità e, ingoiando i sentimenti, quell’urlo interno che mi consigliava di aspettare – romanticamente: di innamorarmi –, mi buttai.

Detti il mio primo bacio con una tachicardia che sentì anche lui, ma a me interessava altro. L’atto sessuale completo.

Di quella prima volta ricordo soltanto il dolore. E la macchia su un lenzuolo che andai subito a gettare nella discarica in fondo alla strada.

Durante avevo solo un pensiero fisso, una preghiera a quell’Altissimo nell’atto del peccato estremo: fa’ che sia come per gli altri, fa’ che la disabilità non si noti. Mi aspettavo che da un momento all’altro qualcosa ci impedisse di andare fino in fondo. Il mio corpo storpiato, la mia colonna curva, i miei polmoni fatiscenti. Non ci fu nessun impedimento. In venti minuti avevo perso la verginità e quello che ricordo fu il mio tetro mutismo.

Ci pensò lui a ricordarmi quanto fossi diversa.

“Pensavo tu non potessi” mi disse, steso accanto a me a letto, a casa mia.

Ho avuto relazioni con uomini che mi piacevano, con ragazzi che credevo giusti per altre qualità.

L’amore non l’ho mai sentito, ma sul sesso ho vissuto esperienze di libertà che mi sono conquistata passo passo, almeno sul piano fisico. Su quello mentale, causa il mio disturbo ossessivo compulsivo, è stato un massacro.

Ho sempre avuto il timore di rimanere incinta, pur prendendo la pillola e facendo usare il preservativo. Ho rispettato la posologia del medicinale: con una sveglia interiorizzata da miti e paure reali, ho contato i minuti che passano tra la sua assunzione e una possibile scarica diarroica o episodio di vomito, ho smesso di prendere gli antibiotici più adatti ai batteri che mi colpivano per sostituirli con quelli che non avessero interazioni, ho avuto quattro o cinque blister di scorta intatti nella vetrinetta della mia camera, ho tartassato ginecologi dei presidi ospedalieri nelle notti festive per chiedere se corressi il rischio o meno dopo un rapporto con preservativo bucato: “Ma se prende la pillola, è coperta!” mi dicevano. Contattavo un altro ospedale della zona, tanto per essere sicura.

Ero e sono terrorizzata dalla medesima cosa ma per ragioni diverse: non voglio rimanere incinta.

Prima ragione: pensavo in assoluto di non volere figli. Seconda ragione: se fossi rimasta incinta, con tutte le contraddizioni e il buon senso del caso, quel figlio probabilmente lo avrei tenuto.

Ed è questo pensiero – o meglio, sentimento – che non mi spiego.

Ho ricercato la normalità in un’esperienza – l’atto sessuale – che sebbene sia un evento sempre uguale a sé stesso nella sua meccanica, reca in sé un lato empirico difforme per fisicità, emotività, psicologia, oltre che per fattori sociali, culturali e ambientali.

Mi scopro così: schiava dei miei istinti biologici.

Utero retroverso

La retroversione dell’utero è una anomalia di posizione dell’organo che si presenta deviato all’indietro anziché inclinato in avanti.

(fondazioneveronesi.it)

Ultimamente sogno spesso di essere madre. Non c’è niente di razionale, in queste mie fantasie, me ne rendo conto. Immagino il momento felice, tenendo per mano il mio compagno – che non ho –, mentre annuncio alla mia famiglia di aspettare una bambina. Non è mai un maschio. Nei miei sogni aspetto una bambina.

Le ecografie le eseguo con ansia: “La bambina ha la sindrome? È malata?” I medici mi dicono di stare tranquilla, che sta bene ed è una portatrice sana.

Poi, il giorno stabilito del parto, ciò che era un sogno condiviso, diventa la mia personale tragedia.

Ovviamente, non posso creare un dipinto che non sia mio, quindi ben venga lo spazio per la tecnologia medica. Ecco allora apparire la cannula dell’ossigeno che mi pizzica il naso, imporsi un’immobilità assoluta dal secondo mese – questi sono i momenti in cui mia madre mi coccola e si trasferisce da me per aiutarmi – e un’induzione del parto all’ottavo mese, senza epidurale perché la curva scoliotica non lo permetterebbe. So affrontarlo, il dolore: questo mi dico.

Non l’ho stabilito io che la storia è un ciclo continuo di corsi e ricorsi; che io, e mia madre prima di me, e così mia nonna, facciamo parte di un progetto più ampio, un cerchio infinito di tempo che trascende la morte.

Forse, per la mia malformazione genetica che già aveva marchiato i miei avi, dovrei parlare di una figura meno perfetta: un’ellisse, magari.

Infine ho la certezza attesa.

La bambina ha la sindrome di Jarcho Levin, una forma tutta diversa dalla mia, che oltre alla colonna vertebrale, al costato e ai polmoni, ha neutralizzato l’apparato urogenitale. E poi, somma della somma, i livelli di ossigeno che mi hanno somministrato per tutta la gestazione sono stati troppo bassi e così lei ha subito un’anossia con relative conseguenze per le capacità cognitive.

Di chi è la colpa, madre? Di chi l’ha voluta, madre!

Dei miei polmoni, del mio utero inospitale, dei miei tentativi impossibili di far nascere una vita da una vita che avrebbe dovuto andarsene dopo solo tre giorni.

Da quel momento iniziano i test, le risposte sommesse, i dubbi, le paure, e io mi danno perché nonostante conoscessi la mia condizione ho voluto cedere all’egoismo.

La bambina non muore precocemente, rappresenta la mia punizione: il ricordo costante che sono stata io a chiamarla a me, a crearla, per i miei desideri di strega cattiva.

Il sogno va anche oltre. Io, che conosco la patologia, so già di dover portare mia figlia all’estero e quanti soldi servono.

Lei non mi può dire la locazione del dolore, non muove un passo e mi costringe a costruire una casa adeguata alle ruote della sua sedia a rotelle. Io resto impigliata ai doveri di genitore. Dopo ciò a cui l’ho condannata, mi amerà ugualmente come si amano le madri o mi odierà come si odiano i nemici?

Non ho nemmeno il tempo di formulare una risposta, perché intanto la malattia è tornata a tormentarmi.

La lascio alle cure del padre – c’è ancora un padre? – sono libera di sparire – una sparizione precocemente annunciata, diranno –, ma mai libera dai miei peccati e dalla paura di lasciarla sola su questo mondo che è un luogo cattivo.

Sono stata dalla ginecologa per un’ecografia al seno, come ogni anno. Mi sono stesa sul lettino, ho tolto maglietta e reggiseno, mi sono sdraiata, ho sentito il gel freddissimo e poi l’ecografo sotto l’ascella. Non ho osservato il monitor, non ho guardato la dottoressa.

L’esame è durato un quarto d’ora, a dire tanto, e il medico – Martina, leggo sulla targhetta – mi ha assicurato che non ho noduli sospetti. Poi ha fatto una pausa, ha puntato gli occhi sul mio viso contratto ed è esplosa in una risata gioiosa.

“Il seno ha un sacco di ghiandole mammarie, prevedo un fiume di latte per i tuoi figli!”

Non ho risposto. Mi ha mostrato come fare l’autopalpazione di routine e sono uscita veloce dalla stanza.

Le sue parole mi sono entrate in testa. Cosa significa tutto ciò? È questo il momento?

Ci ho pensato a lungo, ho dibattuto con tutti e su tutto.

La sola verità è che io sono malata. Ho la sindrome di Jarcho Levin, una patologia genetica recessiva con un tasso di mortalità del 99% nel primo anno di vita. Non si fa ricerca perché i casi sono pochi. Non si sa niente riguardo al futuro che mi aspetta.

*fotografia di Mariasole Ariot

Da “Paraiso”

6

di Laura Giuliberti

“La poesia è questo. All’improvviso, vedere qualcosa.”
L. Zukofsky

“questa nuova apertura d’un luogo”
A.-M. Albiach (Etat)

Aria (sillabario della terra # 18)

1

di Giacomo Sartori

Noi inconsciamente pensiamo che nella terra ci siano soli i morti e le marcescenze e le rovine dei passati polverosi, pensiamo che nella terra si soffochi. E invece la sua pancia è un colabrodo di pori, canalicoli e cavità: un sistema di aerazione più o meno efficiente che ossigena il formicolare di attività e di vita. Le radici respirano, i lombrichi e gli insetti respirano, i batteri respirano, tutto il pigia pigia di organismi presenti ha bisogno d’aria. Deve farlo vivere, per lei è primordiale.

Non bisogna quindi immaginarsi uno zoccolo di roccia, ma piuttosto qualcosa come i ridondanti corridoi di un centro commerciale, con i loro saliscendi e curve e meandri non sempre comprensibili, il loro utilitario o forse anche in parte capriccioso portare da qualche parte. Nessuno soffoca, nei corridoi di un centro commerciale, nessuno sta in apnea. Certo poi magari la sera del sabato l’aria risulta bella pesante, richiamando quella di un cinema pienissimo, un cinema con strati sovrapposti di poltrone fino al soffitto, se tutti respirano e ci danno dentro, e se l’umidità trasuda dalle pareti, nessuno però stramazza.

Quando camminiamo sulla terra camminiamo sull’aria, o insomma su una gruviera costituita per una metà d’aria, è per quello che i nostri piedi tendono a sprofondare. Se non affondano è perché ci sono tante radichette che rinforzano e sostengono la terra, un po’ come succede con i materassi a molle, e perché le particelle di questa sono riunite in grumi ben costituiti e ben solidi. Non è un caso che su un prato si ha l’impressione di calpestare un soffice tappeto, e vengono tante belle idee riposanti. La terra buona è un materasso fresco e ben areato, che si presta ai sogni più incoraggianti.

I problemi nascono quando i trattori passano e ripassano sulla terra senza difese, nuda come Dio non l’ha fatta. I trattori e gli altri marchingegni meccanici sono sempre più pesanti, e la strizzano, fanno collassare i suoi preziosi grumi, occludendo i pori e le cavità. Sotto il peso degli pneumatici il suolo da spugna si trasforma in muro impenetrabile, senza più un briciolo di aria. È per quello che poi ha bisogno di essere arato e sbriciolato, la terra dei boschi non ha nessun bisogno di essere smossa dall’uomo. Con le arature e le scarificature riappaiono fessure e crepe, l’assembramento di organismi tira il fiato. Non sono più belle e solide cavità, l’ospitale intrico di grotte e cunicoli, sono frammenti taglienti, come palazzi squassati da un terremoto, dove l’aria non può irradiarsi dappertutto. Ma insomma è sempre meglio che niente.

È un rimedio solo apparente, perché ai primi nuovi passaggi si è daccapo. E anzi la terra è adesso fiaccata, si difende peggio: si compatta ancora di più, diventa ancora più dura e impenetrabile. Adesso sì che assomiglia al cemento armato. E non parliamo di cosa succede in superficie quando piove: non potendo penetrare in profondità l’acqua provoca ruscellamenti che si portano via tutto. Gli addetti dei campi, che non sono più contadini, e non capiscono più la lingua della terra, la rompono e la spezzettano allora ancora e ancora con i loro potenti mezzi, sempre più potenti, senza accorgersi che così facendo bruciano la poca sostanza organica che resta, che è la colla che tiene assieme i grumi, e che nutre tutti gli organismi. Vanno avanti così, come portando le bombole di ossigeno a un malato terminale. Bombole che subito finiscono, mentre l’aria non arriva.

La terra non vuole essere lacerata dall’acciaio inossidabile, ambirebbe a essere lasciata in pace, a potersi affidare ai lombrichi e agli altri esserini che la abitano e la lavorano, dei quali sa che si può fidare. Già attaccati dai pesticidi, loro sono però sempre meno pimpanti, sempre più in difficoltà, sempre meno abbondanti, e lei si sente sempre più esausta. Non ha proprio la forza per resistere al peso di quei pneumatici duri e pesantissimi.

In Inghilterra si è trovata una soluzione palliativa, che negli ultimi decenni si è diffusa molto negli Stati Uniti e ancor più massicciamente in Sud America (meno in Europa). Invece di lavorare i suoli li si innaffia generosamente di erbicidi, in modo che malerbe e i resti delle colture precedenti secchino. Il che permette di seminare direttamente in mezzo ai seccumi, senza lavorazioni, o con leggerissime rastrellature.

Agricoltura di conservazione, viene chiamata. Negli ultimi tempi viene decantata a destra e a manca, presentandola non sempre in buonissima fede come una panacea ecologica, e questo crea molte confusioni. Davvero per molti aspetti ha permesso di arginare le devastazioni dell’erosione e il flagello delle perdite di sostanza organica, paradigmatiche dell’agricoltura industriale, lasciando una terra ariosa, è un suo risultato importantissimo. Non si può però in nessun modo assimilarla alle pratiche agroecologiche: i diserbanti e i composti che si formano dalla loro degradazione sterminano gli organismi del suolo e avvelenano l’ambiente, è poco onesto negare o minimizzare il problema. Certo, l’aria nella terra è fondamentale, ma ci vuole anche che sia buona.

(la fotografia: Santerre (Somme, Piccardia), terreni preparati per la semina delle patate, maggio 2020)

Un ritratto di Renato Barilli

0

di Leonardo Canella

1.

Ti dico che è così. Impattante. Qualcosa di impattante. La fiocina che arriva ed è già arrivata. Entra e arpiona. Fra il lancio della fiocina e la carne arpionata un attimo. Forse neppure un attimo. È il tempo di uno scatto mentale.

2.

Renato Barilli è questo scatto mentale. È suo, è lui. Trovi in lui questo scatto mentale dagli anni Cinquanta. Barilli ce l’ha da subito. Un nucleo di energia forte fortissimo. È vita che fiocina fuori col tempo di uno scatto mentale. L’avversario è placcato da vicino: ‘Dimostrami che non ho ragione’ gli dice di continuo. L’avversario è fiocinato. Sempre. Negli anni gli ho visto fare uscire sangue da chi avesse fatto fede in un qualche metodo analitico. Che è spesso come dire noia, morte.

3.

Luciano Anceschi ha percepito per primo questo scatto mentale. 1956, il Verri, 21 anni (Barilli è del 1935). Subito la rubrica di arte. Ma anche prima. E prima Francesco Arcangeli è a Los Alamos (l’ho letto da qualche parte…). Ho sentito brillare su di me/dentro di me la prima bomba atomica. Lo dice a Renato. È il tempo dell’Informale, del risveglio delle avanguardie storiche. C’è una bomba di energia dentro di noi.

4.

E tu la bomba non la vedi, la senti addosso con tutti i sensi, testa inclusa. Il tempo di uno scatto mentale. Sentire con tutti i sensi testa inclusa è la lezione numero uno di Renato. Vivi!! sembra dirti di continuo. Guardati attorno! Senti!! Me lo dice di continuo anche quando mangiamo insieme, in silenzio.

5.

Lezioni, conferenze, interventi, libri dicono altro: equilibrio, metodo, ragionamento. Tu dici calcolo, precisione, freddezza. Ma se leggi e ascolti bene, vedi due ruote che macinano asfalto e staccano il gruppo. C’é una fortissima componente creativa in Barilli (a volte terribilmente belle le sue similitudini, anche quando sanno di strappo sulla pelle). Se glielo chiedi, ti dice infatti di estati in solitaria sulle strade della Romagna. Barilli è stato ciclista.

6.

Poi c’é il Gruppo 63. In rete trovi una foto tutti belli insieme, pure cravattosi e pettinati. Sanguineti Balestrini Porta Guglielmi… (cercala quella foto). Sono tanti e aggressivi. Barilli è sulla destra. Mi piace molto quella foto. Sei dentro un gruppo e catturi tutti con lo sguardo. Se ti metti di lato lo puoi fare. E quelli tutti insieme nella foto sono la neoavanguardia italiana, una scarica potente di vita. La mia generazione ha ancora addosso quella scarica. Quando sento che sto morendo dentro, mi metto sulla pelle gli elettrodi del Gruppo 63. Non so se mi sento meglio, ma sono più vivo. E me lo ricordo: la prima volta che ho sentito sulla pelle gli elettrodi del Gruppo 63 è stato nel 1990, a lezione. Barilli ci diceva che arte in greco si dice techne. Era novembre.

7.

Ecco. Barilli è uno che ti dà scariche addosso. Uno che ti fiocina. Magari ti fa anche male. È lo scatto mentale di cui ti ho detto sopra. Scatta e fiocina. È un cacciatore dietro il cespuglio a caccia del nuovo, Barilli. E il nuovo ce l’hanno più spesso in mano i giovani. A RicercaBO, il laboratorio di ricerca sulle nuove scritture, Barilli è così ancora a caccia del nuovo (lì sono spuntati un giorno Giovenale, Inglese, Canella, Zaffarano…).

8.

Adesso ti dico una cosa. Ci sono autori con un sacco di energia dentro, lo sai. Bombe di energia. E fuori non vedi niente, o solo qualcosa. Tanta normalità, ma una normalità che a tratti si inceppa. Leopardi era uno che si inceppava. Mica abile come gli altri lui nella vita. Si inceppava, troppa energia dentro. Talvolta Renato lo dice di sé. Non usa il verbo inceppare ma il sostantivo inetto. Chi lo conosce da vicino può capire. Io ti consiglio di leggere i suoi testi, da poco è uscito Poetiche ed estetiche in Italia. Da Dante al postmoderno (Manni 2023). E’ anche un autoritratto.

9.

Chiudo con Giovannino Pascoli. Io sono maniaco di Giovannino Pascoli. Poemi conviviali, poemi latini. Ecco, secondo me anche Barilli è un maniaco di Giovannino Pascoli. È qualcosa di indefinibile, di impalpabile che quasi non puoi capire. Quando lo leggi senti che Giovannino è più bravo. Cinque di mattina caffè cucina e Pascoli sono parte del mio stile di vita. E secondo me anche per Barilli cinque di mattina caffè cucina e Pascoli sono parte del suo stile di vita. E so di non sbagliare.

Fine

Sepsi

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di Francesca Gentile

 

Cinque sei sette otto. Chi l’ha detto che bisogna cominciare a contare dal numero uno? I ballerini iniziano dal cinque. Cinque sei sette otto. E uno e due e tre e quattro. Otto passi, avanti e indietro per questa stanza. Nessun armadio, né sedia, né tavolo. Hanno paura che ci riprovi ancora. Certo che ci riproverò. L’ho già fatto.

Oppure potrei iniziare con milleuno, milledue, milletre, millequattro. Se arrivo a milledieci sono sicura che sono trascorsi esattamente dieci secondi. Tre notti sono passate. Vedo farsi buio dalla piccola finestra in alto. Ora il cielo è grigio scuro: cozza con il biancore della stanza. Ma almeno dà un po’ di colore. Ecco, perfetto! Adesso s’è messo pure a tuonare. Forse tra poco la Madonna piangerà: mi diceva sempre così, mia madre, quando pioveva.

“Grazie Maria”, dico a voce alta.

“Chi è Maria?”

“La Madonna.”

“Vede la Madonna?”

Rido sguaiatamente.

“No… è che sta per piov… Lasci stare.”

“No, no, mi dica. Sono qui apposta”, mi incita.

Scuoto la testa e torno a camminare. A contare. A fare le giravolte. Poi un plié. Lo guardo torvo. Non mi sta simpatico. Però è un bell’uomo. Se non fosse per Bruno…

“Ora le faccio un arabesque”. Mi metto sulle punte dei piedi e mando una gamba all’indietro, sto per sollevare le braccia, ma perdo l’equilibrio. Riesco a non precipitare a terra. Ci riprovo: niente da fare.

“È brava!”

“Non ho rispettato la sequenza”.

“Da quanti anni studia danza?”

È chiaro: mi prende per il culo. Decido di ignorarlo e mi stendo sul pavimento. Porto su le braccia a altezza occhi e fisso i polsi legati. È per questo: sono sbilanciata. Restiamo in silenzio a lungo. Non misuro la durata del nostro mutismo. Non mi va più di enumerare cifre.

“Va bene, allora a domani” dice ed esce dalla stanza immacolata.

Mi precipito sul battente blindato e inizio a menare colpi con i pugni.

“Resti”, piagnucolo. “Non mi lasci”.

Non mi ascolta. Sento i suoi passi allontanarsi. Mi mordo la lingua. Sento dolore e sapore ferroso in bocca. Umetto le labbra con la saliva intrisa del mio stesso sangue e prendo a baciare la porta. Stampo piccole impronte rosse. Non so perché lo faccio. Forse Bruno lo sa. Come vorrei che fossi qui, Bruno. E che foste qui tutti. Vi implorerei di farmi capire. Vi tempesterei di perché. Come: perché pensate che sia un’arrivista? Perché credete che io non possa essere la nuova Carla Fracci? Ah, lo so cosa pensate: che non ho la grazia della Fracci nemmeno per cagare. E tu, Bruno, come fai a difenderle? So per certo che è così. So per certo come la pensate tutti: sono diventata un segugio: ho rizzato le orecchie e aguzzato la vista. Sono diventata così affamata non di quello che mostrate, falso come Giuda, ma di quello che non dite, della verità che pensate e che mi è così chiara come la luce del Sole. Visionaria. Me l’hai detto tu, Bruno: “sei visionaria. T’immagini cose che non ho mai detto o fatto”. Come se non sapessi che vuoi lasciarmi. Ma tu non vai da nessuna parte mio caro Bruno. E poi perché sei così lontano da me? A vivere, ridere, mangiare, dormire, masturbarti senza di me. A stare bene senza che quel bene sia io a procurartelo. Non lo sopporto. Non devi fare queste cose senza di me. Se non posso farti bene allora vorrei che soffrissi per mano mia. Vedi, Bruno, a cosa mi riduci? Cosa sono in grado di pensare?

Mi incanto a fissare l’ultima immagine delle mie labbra: è solo un contorno: pare una piccola voragine o una delle figure di Rorschach. Poi di nuovo mi ricordo di piagnucolare, di fare pietà a chiunque ci sia dietro questa porta. Lo so che ci siete.

Visionaria. Sembra una malattia tipo la legionaria. Ha tutta l’aria di essere un’infezione, un baco che penetra nella testa e si moltiplica sotto forma di congetture che finiscono per diventare opportuniste. Patogene. Causando danni grossi. Irreversibili.

Se gli altri davvero non mi sopportassero. Se provassero invidia, gelosia nei miei confronti. Se davvero mi detestassero e facessero di tutto per evitarmi, per mettermi i bastoni tra le ruote… Se tutto questo fosse vero – e sarebbe terrificante – cosa potrei fare? C’è una sola cosa che potrei fare: convincervi che vi sbagliate. Che sono una brava amica. La compagna perfetta della vostra vita – a partire dalla tua, Bruno, perché non mi credi? –. Un’ottima collega nonché una meravigliosa étoile.

Potrei convincervi. Devo convincervi che sono simpatica e che mi amate. Dovete amarmi. Voi siete la mia forza e io sono così stanca di tutto questo tramare. Sono stanca di stare qui da giorni – quanti erano?! Trenta o solo tre? –. Sono stanca di pensare. Di attribuire un potere quasi regale, di riverenza e sottomissione agli altri. A tutti voi. Chi cazzo siete? Solo persone che entrate e ve ne andate dalla mia vita. Interscambiabili. Sì, Bruno, anche tu: oggi ci sei, domani no e allora – che tu sia maledetto! –, me ne troverò un altro!

Mi appoggio al muro e strofino la schiena. Prude. In un punto imprecisato che non riesco a beccare. Strofino ancora di più, il calore si diffonde fino alle gambe. Forse sto prendendo fuoco. Non mi fermo. Mi piace pensare di essere un bastoncino di legno che s’incendia. Saprei che questa volta ci sono riuscita. Che ce l’ho fatta. Il calore e il dolore ora sono acuti, ma continuo finché sento il tessuto del camice impregnarsi di un liquido. Forse sto sanguinando. E brucia tutto.

Mi trascino a letto e prendo a fissare il soffitto. Il dolore mi tiene viva e lucida. Sì, sono ben cosciente di quanto questa specie di malattia si stia trasformando in una vera e propria sepsi: so che se non smetto di impiegare il mio tempo, le mie energie, in fantasie che io stessa creo, finirò male. Devo smetterla di architettare storie in cui una strega malvagia se ne sta in agguato e attende paziente di farmi la pelle. Non posso davvero credere che le persone che conosco – e anche quelle che non conosco – vogliano fottermi. Questo significa avere manie di protagonismo. Essere una specie di dio onnipotente alla mercé del suo popolo. Questo significa non avere alcuna fiducia nell’altro. E cercare di ottenere l’amore, l’approvazione, dagli stessi di cui non mi fido nemmeno per sbaglio, non è sano.

Di nuovo mi mordo la lingua e di nuovo prendo a sanguinare. Questa volta bagno l’indice e mi acquatto sul pavimento. Scrivo: devo poter morire. Morire è sbiadito, quasi illeggibile.

Sì, ora ho capito perché questa stanza è tutta un candore: è così che mi immagino la morte: bianca, placida. Una via lattea contaminata da linee rosse. Incerte come la mia mano e sicure come i miei pensieri. Ora so. Gratto il pavimento con i polpastrelli. Di nuovo tutto brucia, tutto s’incendia. Ora so: il mio sangue è diventato l’inchiostro di questa pagina intonsa che mi accoglie. Mi aspetta. Lasciatemi morire, scrivo ancora. Morire, scrivo più sotto. Morire, urlo. E continuo a grattare. Strofinare. Mordere. Rosso e bianco. Cinque sei sette otto.

Un fulmine lacera le nubi nere. Poi un tuono. E la Madonna prende a singhiozzare.

 

Come in cielo

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di Marco Candida

I solchi d’erosione nel calcare e nelle marne argillose sembrano delineare labirinti. Nives e Ascanio da un costone vi si perdono a rimirarli. Ricordano a entrambi i percorsi incerti delle loro vite. Perdipiù, l’intreccio finisce a picco in un rio. Il cielo è argenteo. Spira il grecale di una giornata maggiatica sui generis. La temperatura è novembrina. L’atmosfera ottobrina. La nebbia si distende a chiazze dense sotto un cielo nereggiante. L’aria è odorosa di vegetazione ancora umida d’acquerugiola. I piccioli e le stipole Anteprima (si apre in una nuova scheda)delle foglie di castagni e robinie gocciolano. Un castagno va defogliandosi, sebbene fuori stagione, ma trovandosi in zona siccitosa. Le lenticelle traverse dei fusti sono fradice d’acqua piovana. I fiori crema d’acacia imperlati di condensa. Circondati da boschi di robinie e castagni, Nives e Ascanio sostano in un tratto di nervatura dorsale, ciascuno avendo ricordi affioranti dagli orridi. Ricordi di vita insieme. Quei calanchi simboleggiano molte cose. Gli Orridi del Monte Marcellino a picco sul Rio Fossone.
Vi sono arrivati partendo da Torrazza Coste, traversando la strada per Castellano Boffalora e superando il ponticello sul Rio Brignolo. Arrivati a Codevilla hanno fatta sosta davanti all’Oratorio di Santa Maria del Pontasso. L’Oratorio del Pontasso, dipendente dalla Parrocchia di Torrazza Coste, era aperto. Nives e Ascanio ne hanno visti gli affreschi interni, commissionati dai feudatari Giorgi-Beccaria nel XIV secolo, rammentandosi per similitudine del tempo trascorso nell’Eremo di Sant’Alberto di Butrio. Hanno fatto soste nei paesi di Cadelazzi e Nebbiolo. Infine, intrapresa la salita, piena di tortuosità e asperità, degli Orridi di Sant’Antonino, superando un cartello mezzo storto, marroncino con scritte bianche. Da un costone hanno rimirate le forre; e dai burroni ecco i ricordi.
Anzi, i bilanci.

La vetrina è piena di pane bruciato. In principio Ascanio ritiene sia pane nero preparato usando farina di segale. Lui ha una fissa per il pane nero dell’Alto Adige o quello di Valtellina, malgrado abiti in Piemonte. Aveva mangiato Vinschger Paarl nell’Abbazia di Monte Maria, sopra Burgusio, nel comune di Malles. Un amico, sapendo la sua passione, gli aveva fatto dono del Schüttelbrot di ritorno dalla val d’Isarco. E sempre lo stesso, di ritorno dalla val Pusteria, del Pusterer Breatl. Anche se la sua preferita resta la Brazzadéla. Per il pane di segale all’anice Ascanio persino capace di arrivare in macchina in Valtellina nella Valle di Poschiavo. Adesso, però, appressandosi meglio alla vetrina, non può non accorgersi: quello è pane bruciato. Quasi prova orrore. Su ogni ripiano c’è un esemplare di pane nero come carbone. Un miccone bruciato. Un cestino di biove bruciate. Non abbrustolite o bruciacchiate. Nere. Nere come la legna riarsa in un camino. A conferma, manco ci fosse bisogno, un odore intenso di bruciato. Ascanio rimane per un poco a rimirare lo spettacolo. Ancor più assurdo è trovarlo, il pane, disposto ordinato sulle mensole della vetrina. Si passa una mano sulla faccia e poi sulla nuca. Strizza pure gli occhi. Non riesce a credere alla sua vista. Ha fatto nottata di bagordi e ecceduto con l’alcol. Ha tirato anche di marijuana. Sono le tre di notte. Forse alcol e stanchezza gli danno allucinazioni. Magari, quello sugli scaffali in vetrina non è pane bruciato. Sono pagnotte di un grano particolare. Una ricetta nuova e sperimentale. Si giustifica così, Ascanio, mentre varca l’uscio del negozietto. Ha fame. Forse è fame chimica dovuta all’hascisc, anche se gli sembra improbabile. Vuole solo un pezzo di focaccia da sbocconcellare tornando a casa. In più, adesso, lo punge curiosità di sapere cosa stia succedendo lì dentro. D’accordo la ricetta sperimentale; ma la puzza di bruciato è inequivocabile.
Entrando l’orrore aumenta.
In apparenza sembra un vocabolo un po’ forte: orrore. Ma questo prova, Ascanio, nel vedere le cassette del fornaio straboccanti di pane bruciato. In un lampo, si domanda cosa penserebbe sant’Autberto di Cambrai, il santo patrono dei panificatori. Quel pane bruciato è un sacrilegio. Desta orrore. Il puzzo è nauseabondo. Attraverso le vetrine d’esposizione del bancone ci sono biscotti su biscotti bruciati. Baci di dama neri, pressoché irriconoscibili. Sembra una collezione di pietre. I grissini sono anneriti da un’estremità all’altra. Senza una sola macchiolina chiara. Pure le lingue di suocera, e Ascanio quelle puntava ad acquistare, sono nere come la lingua del Diavolo. Le ciabatte scure come i grissini, all’estremità come in mezzo. Ascanio rivolge particolare attenzione al pane pugliese. La sua caratteristica forma tondeggiante è ora deforme. A bozzi e protuberanze: un crostone di nerume dall’aspetto imperforabile. La rosetta, invece, a differenza del pane pugliese, ha forma intatta: ma è nera e brillante, come ebano. Corvine invece sembrano le baguette. Ovunque pane bruciato. Un orrore. Del resto, il pane evoca l’ultima cena di Nostro Signore. Betlemme significa “casa del pane”. Il pane è alimento sacro. Quanto ha davanti agli occhi, Ascanio lo considera pertanto un sacrilegio. Un orrore.
In mezzo all’orrore, tuttavia, ecco Nives. Questa è la prima volta. Ascanio non l’ha ancora vista. Mai incontrata per le vie della cittadina dove abita. Mai incrociata dalla corsia di un supermercato. Mai notata in un gruppo in un luogo di svago. Nives è bellissima. Ha i capelli biondissimi, quasi albini, spuntano a ciocche dal cappello da fornaio. La fronte è una mezza luna messa in orizzontale abbagliante. La pelle è così lattea da costringere Ascanio a chiedersi se non l’abbia spalmata di crema per il viso. Forse ha usato, Nives, un unguento. Le sopracciglia sono lunghe e rotonde, cespugliose, benché biondissime. Gli occhi sono azzurri come cianite. Sono occhi dove affogare. Rimanerci dentro come preda di un maelström. Ascanio non si capacita di riuscire a staccarsi da quegli occhi proseguendo a scrutare il viso di Nives. Il naso alla francese. Piccolo e all’insù. Morbido. Sembra un dolcetto da cogliere e assaporare. Le narici sono simmetriche e piccole. Vien quasi da chiedersi se vi passi ossigeno a sufficienza. Come riesca, Nives, a respirare. Ammesso quella figura così eterea abbia bisogno di compiere un gesto tanto grossolano come respirare! La bocca sembra una fioritura di rododendro. Una rosa delle Alpi. I peduncoli fiorali sono le labbra. Ne ha due, e non cinque, lo stesso mantiene forma campanulata e stretta. Ad Ascanio vien da descrivere così quella bocca aliena, socchiusa. Il biancore dei denti è abbacinante. Chiude il viso il mento, rotondo, senza sporgenze e senza segni. Un avorio levigato. Come avorio l’ovoide del viso. Non ci sono sporgenze di zigomi, asperità. Ogni lineamento è morbido e dolce: nondimeno, accattivante. La camicia da fornaio candida nasconde le forme, tradite dal collo lungo e affusolato sinonimo di eleganza. Quel collo da cigno promette seni enormi su un corpicino dai fianchi di donnola.
Ascanio ora non sa se sia senza fiato per la bellezza di Nives o per l’orrore tutt’in giro.
«Vorrei…»
Ascanio ha un tentennamento. Vorrebbe dire “focaccia”, ma all’improvviso gli sembra una parola orribile da dirsi in presenza di un angelo. Il cuore gli prende a battere nel petto e sente vampe d’emozione sul viso. Crede, Ascanio, nel colpo di fulmine? Possibile Nives, pur nella sua tenuta da lavoro, sia così abbagliante? In ogni caso, ripiega su un vocabolo più musicale, scegliendo “pizza”. Se la farà bastare, malgrado Ascanio sia un amante della focaccia. Per lui di superiore esiste soltanto la farinata bianca di Savona.
«Vorrei…»
Ascanio sta per dire “trancio”, ma d’improvviso, difronte a Nives, anche “trancio” ha suono poco musicale. Troppo aggressivo. Trancio di pizza o trancia di pizza. Gli sembra di evocarle scene di violenza e non vuole turbarla. Del resto, “pezzo di pizza” è un impiccio di suoni. “Porzione” non è musicale. “Fetta” non gli pare si addica a una pizza, ma piuttosto a una torta. Non vuol dar l’impressione a Nives, se possibile, di essere un asino. Di faciloneria: questo o quello, che importa! All’improvviso le prime parole di Ascanio a Nives, sono fondamentali. Perfino “pizza” adesso gli sembra fuori luogo. Se non fuori luogo, trovandosi in un panificio, inadatto. Come svelare un gusto il quale lo incaselli. Pizza. Ad Ascanio piace… pizza. Così, la lingua gli si frena, quasi gli si arrota in bocca, nel cercare il vocabolo.
«Vorrei…»
Si risolve per un lemma vago e indefinito.
«… cibo»
Nives crolla in un pianto. Così, ex nihilo. Giustificato, tuttavia, dato il contesto. Ascanio non prova stupore. Ha piena comprensione. Le lacrime scendono dagli occhi di Nives luccicando come fili di vetro. L’azzurro delle iridi si fa ancor più inteso. Adesso, umide di pianto, par davvero di annegarci. Ascanio quasi deve dominarsi per non muovere le braccia come chi cerchi di non affogare. Magari, invece, dovrebbe farlo, per strapparle un sorriso. Ascanio non si sente importuno nel chiederle che succede. Gli viene naturale. Forse può essere d’aiuto. Magari, Nives ha bisogno di soccorso.
«Che succede?»
«Mio marito… è matto»
Ascanio impallidisce. Il cuore aumenta i battiti. La lingua gli secca ancor più nel palato. Sentimenti di attrazione e scorno, amore e terrore, si rimescolano in lui. Sono le tre di notte. In che situazione si è infilato? La presenza eterea di Nives adesso più che a uno spirito celeste gli fa pensare a un lemure. Ascanio ammutolisce. Vorrebbe proferir parola, ma non occorre. I petali della rosa delle Alpi si dischiudono, molli, e note di flauto vi fluiscono fuori in una melodia affatturante, ancorché densa di significazioni arcane e orribili…

 

NdR Questo testo è l’incipit del romanzo di Marco Candida “Come il cielo”, recentemente pubblicato (ottobre 2023) da I libri di Mompracem – Betti Editrice.

Islario fantastico argentino

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di Salvador Gargiulo e Gonzalo Monterroso

Introduzione (Salvador Gargiulo)

La nostra toponimia insulare, opportunamente studiata, ci sorprenderebbe per il suo pessimismo. Le isole, come gli esseri umani, portano il nome che si meritano, e molte di esse certificano lo stupore che provocarono ai loro primi visitatori, cioè coloro che le hanno battezzate. Desolación (Desolazione), Soledad (Solitudine), Peligrosas (Pericolose), Inaccesibles (Inaccessibili), Decepción (Delusione), sono alcuni dei nomi sopportati dalle nostre isole più onorate, le quali, stando a certi illustri marinai, “non parlano e non capiscono il linguaggio degli esseri umani”. Affermazione che contiene in sé una verità abissale che ben potrebbe applicarsi a molte delle nostre isole: la loro indifferenza.
Contrariamente ad altre geografie più accomodanti, dove il semplice fatto di gettare un seme viene ricompensato nella primavera dell’anno seguente, in molte delle nostre isole questo patto non viene osservato. Ricoveri di uccelli e di lupi, aperte alle inondazioni, scoscese, circolari, sterili, desertiche. Tutti aggettivi che sembrano escludere l’essere umano, allontanarlo con tutti i mezzi di cui si avvale la natura. Isole indomite, selvagge, che anche nei secoli XX e XXI sembra che esigano il diritto di passaggio a chi vuol posarvisi il piede.
Il mito, la sua disposizione al fantastico, si tesse a partire da queste condizioni. Non c’è niente di più propenso alla leggenda che una casa abbandonata in mezzo a un’isola deserta. Niente è più suggestivo di un faro decrepito sulla cima più alta di un’isola assediata dalla nebbia. Gli esilii più crudeli hanno il sapore di queste afflizioni. La ragione pretende anche una certa dose di cinismo quando considera che le isole sono anche diretti sinonimi del Paradiso.
L’Eden è un’isola, Saint Marteen, Margarita, e tutte le isole che formano l’arco del mar dei Caraibi sono paradisi.
Paradisi ardenti e inferni gelati. D’altronde, nell’immaginario argentino le isole quasi non esistono. Per noi non ci sono isole, tutto si riduce a pampa e montagna, a fiumi senza sponde, a deserti in altitudine e in pianura. Non si dovrebbero aggiungere le isole a questo inventario, perché, in realtà, non esistono. E questa è la misura in cui cresce il loro paradosso e si afferma il loro mistero. Su molte di esse si può arrivare solo affittando un battello. In altri casi, per sbarcare si richiede uno sforzo del quale può dar conto solo un marinaio sperimentato. In tanti parlano di quanto sia bella l’Isla de los Estados, ma nessuno, o pochissimi, la conoscono. Ci sono isole occulte, bracci di terraferma che si dicono isole, paesi insulari di pianura, ma le isole propriamente dette sono poche. Alcune sono abbandonate, miserrime parenti di leggendari paradisi turistici, germogli di terra in mari infami, alcune sferzate dal vento, altre minute ed ermetiche. Isole di clausura, orgogliose della loro mezza paginetta di storia. Di esse si sa poco o niente: sono tacche su un planisfero fisico, senza un toponimo che le tenga a battesimo. Isole perdute, lontane, proibite, funeree. Oppure con un loro simbolo impresso, come le Malvine. Ed ecco che un islario di terraferma – con la pampa come succedaneo del mare – può essere considerato anche più reale di quello che riguarda esclusivamente le nostre acque.
Dunque, un islario argentino potrà ridursi all’evocazione di viaggiatori illustri o sfrontati, a un inventario faunistico monotono e prevedibile, a un’ispezione della flora cespugliosa, a uno scartafaccio sulle rocce sedimentarie o, nel migliore dei casi, all’elenco di ruderi che a suo tempo furono fabbriche di guano, depositi, nascondigli. E fari. Forse questi ultimi, vivi e morti, sono i più illustri abitanti delle isole. Dopodiché il quadro è completato dall’abbandono e dalla solitudine. Un islario argentino è dunque ancora da scrivere. Si tratta di storie minime: le isole rifuggono dalle frasi concatenate: preferiscono le parole isolate per intonare la loro triste canzone. Per questo abbiamo scelto di abbordare ciascuna isola in punta di piedi e interrogarla a bassa voce per ascoltare i suoi segreti, la sua squallida biografia. E non abbiamo lesinato su toni e registri: ci troverete citazioni di viaggiatori, dialoghi fortuiti, chiacchiere, materiali d’archivio, documenti e notizie pescate in vecchi libri, abbordaggi metodici ed eleganti sbandate. Ma è inutile spingere tali ricerche oltre queste pagine. Su ciò che non fu mai scritto non si può mentire. Perciò in queste pagine non tutto è vero e non ci sono menzogne. Le leggende hanno da guadagnare dalla fantasia, ma soltanto a partire da qualcosa di radicalmente vero. Tutte queste isole compaiono nelle carte, ma quel che accade nei loro territori cavalca tra verità e menzogna, fra testimonianza e buona fede. Un buon lettore saprà capire cosa intendiamo.

 

Isola del Cerrito (Salvador Gargiulo)

L’isola del Cerrito è la storia biblica raccontata a rovescio. All’inizio fu la discordia. Poi il paradiso. Prima la civiltà, poi la foresta. Come un quadro di Piranesi o una piramide Maya divorata dalla selva.
Il primo uomo bianco che raggiunse l’isola fu Alejo García, nel 1521. Sopravvissuto della spedizione di Juan Díaz de Solís, risalì il Paraná cercando la Sierra de la Plata (i Monti dell’Argento). Giunto alla confluenza con il fiume Paraguay, si prese qualche giorno di riposo nel Cerrito, ma in seguito trovò la morte per mano degli indios Payaguaes.
Due secoli più tardi Cerrito fu una base operativa nella guerra della Triplice Alleanza, la più dura e sanguinaria di cui si abbia memoria nel nostro Paese.
Peraltro, un tocco fantastico è stato posto dalla fondazione, nel 1926, dell’ospedale modello Màximo Aberastury, per malati di lebbra. Come una specie di “Montagna incantata”, l’ospedale e le sue dépendances furono costruite nella zona più alta dell’isola, mentre le adiacenze furono occupate dagli alloggi per i familiari. Cerrito divenne così un chiostro su un’isola, la ridotta di una società maledetta da Dio e dagli uomini.
Il lebbrosario funzionò dal 1926 al 1967. Alcuni abitanti del posto lo ricordano come una colonia arcana e fosca, con guardie e cimitero privati. Rodolfo Walsh passò qualche giorno nel Cerrito e lì scrisse il suo reportage “L’isola dei risuscitati”.
Nel 1967, dopo aver guarito più di cento pazienti, l’ospedale chiuse per sempre le sue porte. Rimasero nel passato chimere, battaglie e lebbrosi. La vegetazione tornò a impadronirsi di quanto l’uomo aveva usurpato. Oggi l’isola del Cerrito non ha niente da invidiare a un paesaggio di Rousseau. “Destinazione preferita dai pescatori e spiagge di sabbia bianca” ripetono con insistenza i cartelli promozionali del turismo. Come se la morte non l’avesse mai toccata. Come se fosse fuggita lontano, stanca di devastare l’isola.

 

Isole dell’Iberá (Gonzalo Monterroso)

Si è sempre immaginato che anticamente il fiume Paraná seguisse il corso dell’Iberá e, dopo averlo abbandonato, abbia lasciato una sequela di lagune, pantani e paludi che nella stagione delle piogge straripano in tutte le direzioni verso boschi e giuncheti, dando origine ai fiumi della provincia di Corrientes. Nell’immensa pianura sommersa certe piante galleggiano e sembrano isole: l’aguapé (pontederia), l’irupé (piattone acquatico) il vistoso vassoio rotondo che D’Orbigny elogia come parente della ninfea francese. Gruppi di pontederie solidificate intorno a una malta di terra e radici diventano spesso grandi zattere che navigano alla deriva spinte dalla corrente. Per questo motivo Martin de Moussy annotò nel suo Atlante: “Reunion de lacs, de marais e d’Iles noyées quelques unes sont flottantes”. (Insieme di laghi, paludi e isole inondate, alcune delle quali sono flottanti). Il suolo leggermente convesso verso sudovest convoglia le acque dell’Iberá come anticamente avrebbe indirizzato il Paraná. Il diplomatico e commerciante Woodbine Parish ritiene che qualche collegamento sotterraneo riempia le lagune dell’Iberá in corrispondenza con le periodiche piene del Paraná. Le sue esplorazioni conducono a supporre l’esistenza di una etnia di pigmei che, secondo la tradizione, avrebbe vissuto sulle isole che si trovano al centro della laguna (etnia che il viaggiatore inglese vorrebbe mettere in relazione con certe prodigiose formiche che costruiscono nidi conici a prova di acqua).
La presenza di un’isola inaccessibile nel ginepraio acquatico dell’Iberá è condivisa anche da D’Orbigny. Nell’estate del 1826, il naturalista francese – contrariamente alle informazioni di Azara, che egli ritiene di seconda mano – esplora una parte dell’Iberá attrezzandosi con una carovana di carri anfibi. Gli indios delle vecchie missioni che accompagnavano la carovana ritenevano impossibile raggiungere il centro della laguna, dove credevano ci fosse terra asciutta, e che l’unico individuo che ci era riuscito aveva raccontato che l’isola era popolata da animali selvatici. Dicevano che durante le prime guerre delle Missioni alcune tribù guarany avevano attraversato le paludi e avevano popolato le isole dell’Iberá, da dove intraprendevano spedizioni di saccheggio nelle vicinanze di Corrientes.

 

NdR: i testi che precedono, rispettivamente di Salvador Gargiulo e Gonzalo Monterroso, sono tratti (il primo è un frammento dell’introduzione) dall’opera a otto mani “Islario Fantastico Argentino” (gli altri autori sono Alejandro Winograd e Alberto Muñoz), pubblicato recentemente dall’editore Tarka, nella traduzione di Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi, e curata da Alessandro Gianetti.
Utili informazioni sull’opera si possono trovare, oltre che nei due prologhi, anche qui:
” … Siguiendo el modelo de los antiguos bestiarios –hasta en la elección tipográfica de su impecable edición-, Islario describe en su primera parte cada isla del territorio argentino, las del mar como las de los ríos, las del presente y las que se cayeron de los mapas, las islas ínfimas, las buscadas sin éxito, las soñadas, las proyectadas. Y en la segunda, ofrece registros y relatos expedicionarios sobre el Delta del Paraná. Saber de una isla es, en definitiva, una invitación a emprender un viaje para encontrarla, o para dejar atrás la que habitamos como cualquier Robinson. Ese albur es conocido por los autores de Islario, Alejandro Winograd, Gonzalo Monterroso, Alberto Muñoz y Salvador Gargiulo, cuatro como los puntos cardinales y los vientos, que tiran a la suerte la brújula para que algún lector se anime a perderse en su propio mapa. …” 

Emanuele Franceschetti: «sei memoria del non accaduto»

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Diabàllo di Emanuele Franceschetti è il nuovo titolo dei Cervi Volanti, la collana di scritture poetiche che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

«Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata, consegnati interamente agli autori e alle autrici, che ne gestiscono liberamente il transito (esoeditoria); libri evidenti nella loro invisibilità, indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.»

Pubblico qui alcune pagine in anteprima. Le partiture visive sono di Giuditta Chiaraluce.

Non c’è più nulla. C’è un universo di parole che non riconosci. Progettualità, riqualificazione, grande investimento, triangolazione. Tavola rotonda. Campagna elettorale. Responsabilità. Comunità. Nuove tecnologie. Devi conoscere le regole. Devi abitare l’ingranaggio. Non sai farlo. Racconta una storia. Una storia di tutti. Così che possano leggerti. Non sai farlo. Tu stai nella fulminazione, nel trapasso, nel segreto. Non hai durata né sviluppo. Sei forma breve. Non hai il coraggio di Giuda: il tuo nodo è intonso, in bella vista. Sei memoria del non accaduto.

***

Il coro degli altri. Le voci di tutti. Nomina ciò che vedi, ciò che ascolti. La stessa panchina, un metro tra te e lei. Guarda il figlio che gioca, lo maledice, scatta foto. Trucca la raggelante solitudine. Tu non hai un figlio che ti riconosca. Non hai una figlia che ti chieda dove va la luna quando è giorno. Allora perdona il cedimento dei corpi, documenta i fenomeni. Sfiora la superficie. L’opera non esiste. Nessuno dice niente. Guarda il geco che punta la falena. Risale la grondaia, sente l’attimo, fallisce, ricomincia. Benedici la regola del mondo. Non esiste il destino. Esiste il maremoto, esiste la cancrena.

***

La California brucia, come il travertino e come le lucertole che bruciano al sole. Nessuna somiglianza tra le immagini. Le forme ti oltrepassano. Conserva la vergogna della faccia che ti guarda. La bocca che maciulla un peccatore che non c’è. La furia dei proiettili, la peste nel deserto. Il cane testimone, quattro pietre. Ecce vexilla regis nelle fosse, tra i palazzi, nel veleno degli uomini, flammis acribus addictis. Sei quello che hai tradito. Scomparirai in anticipo, prima della partenza. Sarai mano costretta all’arcolaio.

 

Le diverse ragioni del silenzio. Lettera ad Andrea Inglese…

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Giuseppe A. Samonà è uno scrittore che ho stimato prima di conoscere di persona, ed è oggi un amico, anche in ragione di una comune condizione di espatriati a Parigi. Ed è un amico di “Nazione Indiana”, avendo già contribuito alla vita del blog con interventi importanti. Il giovedì 19 ottobre, mi ha inviato una breve mail, dove tra l’altro scrive: “All’aeroporto di Atene, dove abbiamo fatto scalo, c’erano alcune giovanissime donne israeliane in fuga con bambini piccoli verso Parigi, mentre Gaza cominciava già a essere in fiamme: e ho pensato, chissà cosa pensa A. di questo ulteriore impazzimento dell’umanità. Fino a ieri ho lavorato come un pazzo per recuperare il ritardo, stamattina ho aperto NI e ho visto il tuo articolo. Di getto questo pomeriggio ho scritto una risposta. La lascio dormire su word, incerto se mandartela come breve articolo o lunga risposta, o non mandartela affatto, e parlarne a voce.” Prima ancora che me la inviasse e la leggessi, ho pensato che la sua riposta avrebbe potuto avere un interesse pubblico. Per due motivi. Quando ho scritto il mio pezzo del 17 ottobre percepivo – non so se a torto o ragione – uno strano silenzio, non tanto sul piano dei mass-media ma delle conversazioni private e degli scambi su social. Naturalmente il silenzio era per molti versi comprensibile, ma io penso che troppo silenzio faccia male, e veniamo tutti da un lungo silenzio sulla situazione tra Israele e i palestinesi. Il secondo motivo riguarda la possibilità d’instaurare con l’amico Giuseppe un dialogo che non è basato su una sorta di accordo preventivo o ipotetico, ma su affetti e stima personali che ci dovrebbero mettere al riparo dal peggiore dei vizi del dibattito pubblico: la tendenza a screditare la persona piuttosto che a confrontarsi, e magari dissentire, con le eventuali idee che difende. Non so ovviamente se questo dialogo porterà a qualcosa, ci aiuterà entrambi a capire meglio ciò che sta accadendo, ma forse il nostro “modo” potrebbe essere, nel migliore dei casi, un’indicazione su come uscire dal silenzio o dalla pura rabbia. Insomma, ovviamente con il suo accordo (e un titolo), ecco qua “pubblica” la lettera che mi aveva inviato Giuseppe. Andrea Inglese

di Giuseppe A. Samonà

Caro Andrea,

ho come altre volte letto con grande attenzione e interesse il tuo articolo, tanto più che il titolo individua una prospettiva che mi trova completamente d’accordo. E sento il bisogno di risponderti, su un punto in particolare, ma non so ancora, nel momento in cui inizio a scriverti, se pubblicherò questa lettera o se te la invierò in forma privata: la prima cosa che mi interpella nel tuo pezzo è infatti il silenzio che lo circonda, a parte Francesco F., con 3 (tre!) parole neutre, nessuno ha osato veramente intervenire, eppure immagino che molti, se non tutti quelli che gravitano intorno a Nazione Indiana siano come te, come me, invasi da quel che è successo e sta succedendo. Questo silenzio – parto da me, immagino che sia così anche per altri – ha sicuramente a che fare con l’impotenza, la paralisi di fronte all’orrore, la sensazione che qualunque parola risulti, di fatto, inadeguata. Ma – e parto sempre da me – questo silenzio viene da più lontano, e ha a che fare sempre con le parole: che di necessità avvicinandola semplificano la realtà, almeno dal punto di vista di chi le legge, e in una realtà come quella medio-orientale, o più precisamente israelo-palestinese, che ho imparato essere paradigmaticamente complessa, ciò rischia di farle torto. Di fronte a questa complessità le discussioni finiscono quasi sempre per ridursi in formule: “sto con gli Israeliani” / “sto con i Palestinesi”: che spazio può trovare – ma di nuovo impiego una formula semplificatoria (!), che non rende del tutto giustizia a come percepisco le cose, nella mia avversione di fondo per tutte le forme di nazionalismo – chi “sta con entrambi”, vede le ragioni (e i torti) di entrambi? Nel passato ho bruciato alcune amicizie in discussioni sterili e violente con persone dell’uno come dell’altro “io sto con…”, e ho finito con lo sposare appunto il silenzio, al di fuori di coloro di cui già conosco una sensibilità vicina alla mia. Inoltre, ed è forse il silenzio più sofferto, ci sono alcuni amici direttamente implicati, israeliani o esuli palestinesi, persone splendide e aperte, ma comprensibilmente à vif in un momento come questo, di fronte ai quali ogni parola, tanto più se pubblica, che non sia di semplice solidarietà, affetto, mi sembra di troppo, o troppo facile, monca, e dunque possibilmente blessante, e tutto vorrei oggi salvo ferire. È come se questa situazione fosse una bolla incandescente che non si riesce ad avvicinare da nessuna parte. Ma ecco, mi colpisce il senso di responsabilità, la ragionevolezza – nel senso del “ragionare”, di cui c’è tanto bisogno, al di fuori del “tifo” – con cui hai scelto di intervenire, e d’altro canto mi dico che non si può restare muti di fronte all’orrore, anche per quello che si prepara da noi (penso fra altre cose, oltre ovviamente alle tensioni comunitarie, alla stretta sull’immigrazione già in programma): la parola, il dialogo, magari proprio su punti in cui si è meno d’accordo, sono il primo, se non l’unico strumento che abbiamo. Ci provo, con te, ci sto già provando: vedrò, vedremo insieme cosa farne.

Condivido, ti dicevo, il bisogno di contestualizzazione: solo che sulla sua strada, sulla strada della narrazione, bisogna avere la pazienza, il coraggio di andare sino in fondo, perché una contestualizzazione lasciata a mezza via non funziona, anzi, acquista lo statuto di menzogna, soprattutto in quella regione del mondo, dove appunto – per chi senza pregiudizi ideologici abbia voluto studiarla – la storia dei torti e delle ragioni, degli errori, appare maledettamente intricata, complessa, e questi – mi verrebbe da aggiungere, dietro l’evidenza della ragione e del torto diciamo “originali” e sempre più attivi – ben distribuiti, aggrovigliati attraverso le due parti (e su questa “distribuzione”, su questo “groviglio”, c’è purtroppo una terribile ignoranza, soprattutto a sinistra, in alcune sue frange spesso pronta a sposare una visione manichea della questione, con una volontà di “giustizia assoluta” che la storia ci dimostra diventare inevitabilmente pericolosa, e sostanzialmente ingiusta, se non terrificante  – e anche solo questa frase, se pubblicata, mi varrà furiose rimostranze di diverse persone a me care…). In realtà è come se nella regione israelo-palestinese (come vogliamo chiamarla?) la contestualizzazione fosse infinita, e dovessimo semplicemente disporci in questa prospettiva di apprendimento continuo, aperto, prendendo atto che una soluzione “di parte” non c’è: solo il dialogo, la via della pace per tutti ha senso, è possibile – anche se oggi sembra tragicamente impossibile… Non me la sento qui, nello spazio di una risposta, di riprendere i diversi aspetti che sollevi e che, a mio avviso, andrebbero approfonditi, ma sarò lieto, se ti andrà, di parlarne a voce. Sento però di commentare, e completare, almeno una tua affermazione: “è davvero troppo pericoloso farsi guidare in un conflitto da un partito di estrema destra.”, etc. Giusto, con una precisazione, forse scontata: nel passato di Israele sono stati a volte proprio alcuni politici di destra – certo di una destra meno “estrema” e corrotta, e più pragmatica – a tentare alcuni passi verso la pace. Bisognerebbe meglio dire dunque: da questo governo di estrema destra, la destra più estrema che abbia mai governato Israele, chiazzata se non dominata dal razzismo e dal fondamentalismo religioso e territoriale, e per di più la più corrotta, cinica. La verità è che oramai il conflitto è sfuggito alla politica. Ma soprattutto, appunto, vorrei accennare a un “completamento”: questa tua giusta, magari da precisare, osservazione dev’essere applicata anche dall’altra parte. Inorridisco quando qua e là sento, nelle diverse piazze occidentali che manifestano “per la Palestina e la sua liberazione”, inneggiare a Hamas, o lo leggo su qualche blog, su qualche bacheca Facebook, magari non direttamente, ma più soavemente, semplicemente sminuendo, giustificando, relativizzando i suoi crimini (come a suggerire che certo, quelle cose là non si fanno, ma gli ebrei un poco se la sono cercata…). Quale “liberazione” può essere rappresentata da tali efferatezze? E soprattutto, politicamente, come si può, da sinistra, inneggiare a un gruppo di estrema destra (!), fanaticamente integrista, che ha combattuto e in buona parte liquidato tutto quel che c’era di sinistra e progressista nel campo palestinese? E ancor più soprattutto: l’obiettivo di Hamas non è la “liberazione” della Palestina, ma la “guerra santa” con la distruzione di Israele e la costruzione di uno stato teocratico etc. Hamas in questo senso tiene in ostaggio, oltre ad alcuni israeliani, anche l’intera sua popolazione, i cui soggetti si ritrovano doppiamente vittime: di Israele e dei propri cinici, spietati dirigenti. Certo (quispiam dixerit…), Hamas è stato inizialmente “aiutato” da alcune politiche governative israeliane proprio con lo scopo di dividere i palestinesi e indebolire la sinistra; certo, Hamas ha sfruttato lo spazio creato dal cronico fallimento della politica per la Palestina; certo, Hamas ha prosperato nella mancanza di Stato e servizi, con un insediamento di tipo caritativo ma ancor di più mafioso – e potrei continuare: ma di nuovo per capire com’è stato possibile che la più laica cultura araba della regione si sia avvitata dentro il più fanatico degli integrismi religiosi non basta guardare fuori, bisogna entrare, con pazienza, con coraggio, dentro alcuni nodi complessi della storia palestinese, e della contigua galassia arabo-musulmana. (E certo, c’è anche un significativo gioco di rispondenze fra la “destrizzazione” e la “fanatizzazione” in senso religioso delle due società che meriterebbe un’attenta analisi: sono ben più intrecciate di quel che si crede, queste due società). Ma questa è solo l’indispensabile (per me) anche se troppo breve premessa, e forse avrei invece dovuto saltarla, perché non è di politica che volevo parlare, magari lo faremo a voce – il motivo per cui ho sentito il bisogno di risponderti è un altro: è la questione umanista, prima che politica, che mi opprime, mi annoda lo stomaco, e che è importante capire, sciogliere, per poter tornare a parlare e fare politica (e solo la politica potrà costruire una soluzione, un itinerario per porre fine a questa violenza insensata), e che non trovo neanche nelle tue righe, o meglio, la trovo ma è implicita, sottotono, e deve invece essere secondo me al centro del nostro pensare: sono ovviamente, come te, come molti, sgomento, raccapricciato per quel che si sta scatenando su Gaza (e certo e va detto il governo israeliano ne è responsabile, ma anche Hamas, che proprio questo perversamente e astutamente cercava, cioè il martirio della propria popolazione da utilizzare ai propri fini: i nemici dei palestinesi sono due… – e poi andrebbe anche detto che certo, la guerra deve fermarsi, ma da ambo le parti…); ma anche ero e resto profondamente inorridito dall’attacco del 7 ottobre – e mi dà pena, mi toglie voglia persino di parlare, l’indifferenza con cui una parte della sinistra ha accolto quel massacro, che non ha nessuna possibile giustificazione: Grossman, critico implacabile di Netanyahu e della “leadership corrotta” alla testa del paese prima e dentro questa guerra, da sempre in prima fila per i diritti dei palestinesi, evoca a proposito di quel 7 ottobre il concetto di “gerarchia della malvagità”, questo fa riflettere, ci dovrebbe parlare. (Già, me ne rendo conto scrivendoti, il mio e di altri silenzio è anche una reazione all’indifferenza, a quell’altro, pubblico, selettivo silenzio…) Anch’io come te non ho suggerimenti “positivi” da dare agli israeliani, come potremmo? – ma ne ho timidamente da dare a noi stessi, ai miei amici, a sinistra, qui in Europa, in Occidente: se non siamo capaci di provare orrore e compassione a 360 gradi, se non siamo capaci di esprimerlo, separando drasticamente la “liberazione” della Palestina da Hamas, se anzi non siamo capaci di capire che certo, Hamas è nato e ha prosperato sul fertile terreno del fallimento pluridecennale di una soluzione al problema palestinese, ma che quel massacro di civili non come danni collaterali, ma proprio perché civili, proprio perché donne, proprio perché bambini (la logica genocidaria…) non è un prodotto del conflitto per la terra (questo è il punto! ), né dell’espansiva, odiosa e ingiusta occupazione, con l’aggressiva moltiplicazione delle colonie – perché, ho bisogno di dirlo? ritengo che la dominazione di Israele sui palestinesi sia odiosa, ingiusta, e debba cessare –   ma affonda le sue radici in un odio che li precede (l’occupazione, il conflitto), un odio non dettato dalla collera, ma freddo e ragionato, a priori, preparato, un odio antico, ecco, se non capiamo tutto questo, se non siamo capaci, anche, di rompere l’ignoranza, i pregiudizi che in una zona della sinistra “propalestinese” impediscono questa compassione (terribile, il “da una parte e dall’altra”, questo tifo da stadio, per quando una sinistra “pro-umanità”…?), allontanandoci da coloro che nei loro pregiudizi ci vogliono restare, perché in realtà sono anch’essi antichi e riflettono qualcosa che con la sacrosanta causa palestinese non ha nulla a che vedere, insomma, se non ci addossiamo questo compito, se non favoriamo questa comprensione, questa empatia integrale, uscendo dalla perversa logica della concorrenza dei dolori, en se renvoyant en continuation l’ascenseur come si dice in Francia, non possiamo da intellettuali, da semplici umani, batterci per la pace, per la giustizia, non possiamo rivolgerci né agli israeliani né ai palestinesi, né a tutti quelli che patiscono di questa situazione. Laggiù per altro, da una parte e dall’altra, sono comprensibilmente troppo pieni dei propri lutti, della propria paura, per poter pienamente abbracciare i lutti e i dolori degli altri: noi, più distanti, abbiamo il dovere di farlo. (E per Dio, vorrei tanto che dal campo palestinese, pur appunto nella comprensibile fase di bollente emotività e sofferenza, delle voci si elevassero forte in questa direzione, per fare chiarezza, quindi per individuare altre vie, altre guide… Mi sono a volte ritrovato a pensare che di Gandhi, o anche Mandela, ne nasce uno ogni cent’anni, e lì – sognavo – ce ne vorrebbero due, uno per parte… Ma oggi, vedendo, sentendo le capitali di molti paesi arabi esplodere di odio e di rabbia, constatando anche qui, da mille segni, l’esistenza di una diffidenza bilaterale, di un odio profondo, mentre laggiù impazzisce la spirale di guerra, mi sembra impossibile persino sognare. E nel mezzo di tutte queste urla, di questi slogan, riemerge la tentazione del silenzio, e un intimo senso di solitudine…). Ne parleremo insieme.

Ti abbraccio. G.

[19 ottobre 2023]

Buche (sillabario della terra # 17)

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di Giacomo Sartori

Fin dall’inizio del Novecento gli studiosi hanno constatato che nella terra possono riconoscersi livelli orizzontali diversi, che sono stati chiamati orizzonti. Questi si sono differenziati nel processo di gestazione del suolo, al contatto con l’atmosfera, e con il contributo di radici e organismi di vario tipo, partendo dal materiale minerale, roccioso o sciolto. I tempi delle complesse alterazioni e metamorfosi che conducono alla formazione della terra sono lenti, rapportati alla scala umana, ma pur sempre molto più brevi di quelli della geologia. Ogni orizzonte ha in genere uno spessore di trenta-settanta centimetri, per intenderci, anche se ne esistono di molto sottili e di molto spessi.

L’orizzonte superiore è più ricco di sostanza organica, e quindi più scuro, e di vita, mentre in quello soggiacente dominano in genere le colorazioni del ferro, da rosse a giallastre, a seconda dei climi e degli ambienti. Spesso è presente più in basso un orizzonte di transizione alla roccia, o insomma ai materiali minerali di partenza. A seconda della natura di questi, del clima, della vegetazione, i tipi e i loro caratteri sono però diversissimi. In ogni caso sono sempre presenti una frazione organica, anche se minima, radici e organismi viventi: qui sta differenza con il regno minerale.

In mancanza delle inappellabili particolarità anatomiche di ogni specie vegetale o animale, in mancanza insomma di meglio, tutte le classificazioni pedologiche utilizzano come criterio principale la tipologia e la successione di orizzonti. Ogni classe di suoli ha una data sequenza di orizzonti con date caratteristiche. Alcune di queste sono legate a impoverimenti, o al contrario in arricchimenti, a seguito anche di traslocazioni di sostanze e di elementi operati dall’acqua che drena nel suolo.

La prima cosa che facciamo noi pedologi, una volta aperta una buca che ci permette di avere davanti tutta la sezione verticale della terra, è vedere quanti orizzonti ci sono, e di che sorta. A parte i colori, le differenze riguardano caratteri visibili a occhio nudo, quali la porosità, l’organizzazione spaziale e la quantità di pietre, o anche rilevabili al tatto, quali la consistenza. Anche l’abbondanza e l’andamento delle radici fornisce utili informazioni. Poi naturalmente le analisi di laboratorio effettuate sui campioni prelevati permettono di andare molto più in profondità.

Certe volte gli orizzonti si riconoscono molto facilmente, in particolare quando hanno colori molto contrastati. In quel caso un’occhiata è sufficiente per definire il tipo di suolo, e non possono esserci dubbi. Altre volte invece le colorazioni nella sezione sono molto simili, e anche gli altri caratteri non mostrano a prima vista differenze. Bisogna osservare allora da vicino come stanno le cose, aguzzando la vista e punzecchiando la terra servendosi del coltello che ogni pedologo ha sempre con sé. Un po’ alla volta si constata insomma che quella che sembrava una superficie indistinta ha una stratificazione, con livelli diversi. La sezione che si ha davanti va comunque ripulita per bene, con una scopettina o un coltello: anche il miglior specialista non vede nulla, se rimane sporca.

Per definire i colori usiamo le tavole Munsell. Ogni pedologo ha con sé questo libretto plastificato con le pagine irte di tassellini di tinte diverse, ciascuno corrispondente a una data sigla. E lo custodisce gelosamente: i raggi del sole o peggio ancora qualche goccia possono rovinarlo per sempre. Prendiamo un pezzettino di terra, lo inumidiamo, cerchiamo il colore che più si avvicina, e annotiamo il relativo codice. Ma naturalmente la percezione dei colori varia da persona a persona, anche senza considerare i daltonici, quindi questa definizione non è al cento per cento oggettiva. In alcuni Paesi avanzati si usano dei colorimetri elettronici, ma pure quelli danno parecchi problemi.

Diversi altri caratteri vengono ponderati con metodi altrettanto empirici. Per quantificare la porosità e la percentuale di pietre, due elementi fondamentali, si usa una stima visuale, che vale quello che vale. Si potrebbero impiegare mezzi infinitamente più precisi, che esistono, ma sarebbero molto costosi, per il tempo e/o per le strumentazioni che richiedono. Nella pratica è impensabile un loro utilizzo corrente, ci si accontenta di un dato approssimativo.

La stessa identificazione degli orizzonti non è poi così certa, quando le differenze di colore e di aspetto sono minime, o anche i limiti che li separano invece di essere netti sono sfumati. Io ho posto il confine tra due orizzonti a tanti centimetri dalla superficie, ma un collega potrebbero metterlo più su o più giù, o addirittura considerare un solo orizzonte quelli che per me erano due orizzonti. In tanti casi si tratta di una graduale variazione, più che di una netta stratificazione, a dispetto della nostra griglia interpretativa, che ci obbliga a mettere da qualche parte dei limiti.

Certo, le analisi di laboratorio danno invece risultati molto precisi, e lì non è in gioco la soggettività umana. E anche l’attività biologica, e in particolare dei vari microrganismi, può adesso essere misurata con grande esattezza, avendo i fondi necessari. Il problema qui è la grandissima variabilità di ogni parametro, anche a distanza molto ravvicinata: a far bene bisognerebbe avere pletoriche misurazioni, in modo da ottenere affidabili valori medi. Nella pratica, visti i costi del campionamento e ancor più delle analisi, i dati disponibili sono sempre ridicolmente pochi.

La nostra conoscenza dei suoli, che sono una delle componenti principali dell’ambiente e dei sistemi ecologici, se non quella in assoluto più centrale, dipende quindi da procedure che hanno grossolane incertezze. O anche sono molto impegnative in termini di tempo e costi, e quindi sono utilizzate di rado. Siamo convinti che la nostra arma invincibile, la Scienza, possa sviscerare qualsiasi segreto, ma i suoli sono conosciuti molto male. Rimangono sostanzialmente un buco nero.

Come lo rimane però gran parte della natura, a ben vedere. Avremmo tutto quello che occorre per studiarla nei dettagli meno accessibili, correndo dietro alle sue infinitissime e spesso stravaganti volubilità, ma dobbiamo limitarci a ciò che ci è più vicino o che per le ragioni più svariate riteniamo più importante. Schiere di biologi e naturalisti si danno da fare, ma ci vorrebbe ben altro. Occorrerebbero infiniti tecnici, infiniti mezzi, ottenuti anch’essi con enormi impatti ambientali, infiniti quattrini. E il vantaggio, anche senza limitarsi a un bilancio strettamente economico, sarebbe forse relativo. Con il nobile intento di limitare i nostri danni, distruggeremmo ancora di più.

Le goffe buche mediante le quali i pedologi cercano pateticamente di parare alla nostra ignoranza dei suoli, così vicini a noi, così esiziali, diventano quindi una metafora. Dell’impossibilità di sapere tutto del mondo vivente al quale apparteniamo, della inerente parzialità di ogni approfondimento, della sua beffarda casualità, della distruzione che accompagna ogni forma di conoscenza. Ci fatica ammetterlo, ma siamo limitati, come sono limitati gli strumenti, spesso a doppio taglio, spesso distruttivi, che ci costruiamo.

 

Il gentiluomo e la fortuna (opinioni di un disadattato)

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di Giorgio Mascitelli

Il lettore di Boccaccio che vedesse la versione cinematografica della novella Andreuccio da Perugia girata a suo tempo da Pasolini, come d’altronde lo spettatore di Pasolini che riprendesse in mano la versione originale del racconto, non potrebbe fare a meno di notare che, tra le numerose e in definitiva ovvie diversità, l’Andreuccio pasoliniano lascia sensibilmente meno spazio al ruolo della fortuna rispetto alla novella. In particolare la trave della latrina che scostandosi causerà la caduta del protagonista nella stessa è nell’originale medievale casualmente schiodata e nella versione novecentista segata apposta, inoltre Pasolini elimina del tutto l’episodio in cui Andreuccio è calato dai due ladri di tombe nel pozzo per lavarsi e viene accidentalmente tirato su dalle guardie della ronda notturna, spaventandole involontariamente e mettendole in fuga senza avvedersene. Queste differenze sembrano essere più una motivata concessione al gusto moderno che l’espressione della poetica pasoliniana che rilegge Boccaccio nell’ambito della trilogia della vita, nella quale  sono centrali la nostalgia per quei mondi in cui il ruolo della fortuna è rilevante e il senso della perdita antropologica che si collega allo loro scomparsa.

Nulla di sorprendente: uno dei capisaldi ormai stabiliti dalla critica che si occupa di storia del romanzo o meglio di storia della narrativa è il lento ma inesorabile affrancarsi di questa nell’età moderna da quei modelli e stereotipi del racconto magico, entro i quali la fortuna comprensibilmente gioca un ruolo decisivo, dapprima presentandoli in forma secolarizzata e storicizzata e poi, con Flaubert, uscendo del tutto dal perimetro della rappresentazione narrativa del mondo, anche se secondo Jameson essi sopravvivono nel modernismo tramite il fantastico in letteratura o l’epifania joyciana[i]  senza però avere un ruolo di codificazione dell’esperienza narrativa. Questo processo è un riflesso in chiave letteraria di quella weberiana razionalizzazione del mondo che si accompagna alla nascita e allo sviluppo del capitalismo. Uno dei segni più evidenti di questo processo è la trasformazione delle qualità che servono per  sfruttare al meglio la fortuna che cessano progressivamente di essere l’astuzia e il tempismo a vantaggio della laboriosità e della metodicità che consentono a tutti quei personaggi di accumulatori borghesi, di cui Robinson Crusoe è il capostipite, appunto di ‘fare fortuna’, come attestato anche nella lingua inglese dal cambio di significato del termini ‘industry’ che nel Cinquecento significava ‘destrezza, abilità, ingegno’ per poi assumerne un secondo ossia ‘diligenza, applicazione assidua’[ii] .

La categorie magiche sopravvivono nella fase romantica, secondo quanto nota Jameson a proposito del personaggio stendhaliano di Julien Sorel[iii]  come categorie psicologiche dell’individuo: esse, cioè, non sono oggettive articolazioni del reale, ma sue percezioni soggettive. E’ interessante notare a questo punto che anche la categoria della fortuna si muove all’interno di questa svolta psicologica; ce ne fornisce un esempio interessante un testo del modernismo che segue di circa un secolo Il rosso e il nero, ma si nutre della stessa visione autoespressivista del soggetto, come Gioco all’alba di Arthur Schnitzler. L’ufficiale dell’imperialregio esercito Willy è condotto in una dapprima vittoriosa e poi rovinosa domenica di gioco d’azzardo, sulla quale s’innesta un secondo gioco d’azzardo nell’attesa che un’ex amante acconsenta a concedere il denaro per liquidare il creditore salvandogli vita e onore. La stessa scelta di affidarsi alla fortuna appare compiuta dentro una dimensione psicologica di fragilità: Willy si siede al tavolo da gioco con la motivazione di guadagnare quei soldi che un collega e amico gli ha chiesto in prestito avendoli sottratti alla cassa del reggimento, ma Willy una volta raggiunta quella somma ritornerà a giocare, perdendone una ben maggiore, in un cammino autodistruttivo che rivelerà al lettore e allo stesso personaggio la pretestuosità del primo motivo, la sua fragilità e in definitiva la fragilità del mondo a cui appartiene. Così, in una prospettiva di disincanto in cui il mondo è razionale in quanto è reale, la sfida alla fortuna è già segno di debolezza e non può avere che una conclusione negativa perché è solo lo strumento con cui il protagonista percepisce la sua vacuità. Non solo, ma si potrebbe affermare  che la fortuna acquista un ruolo nella vita di Willy quando il suo mondo sociale perde di significato ossia per dirla con De Martino quando Willy vive la sua apocalisse culturale. Anche nella vicenda del classico personaggio pirandelliano Mattia Pascal il ruolo della fortuna, sotto forma di vincita al casinò e dell’errore nel riconoscimento del cadavere nella palude vicino al paese, sarà solo l’occasione per un velleitario e fallimentare tentativo di uscita dalla propria realtà sociale, che si rivelerà fallace proprio perché frutto di un colpo della fortuna non riducibile  alla struttura razionale della società. Il capitalismo, che all’inizio del Novecento ha ormai conquistato, ossia razionalizzato tramite il lavoro e la tecnica,  e disincantato il mondo, non può che respingere tra le vecchie cose di cattivo gusto l’avventurismo del cercatore di fortuna. La coscienza del personaggio e dell’artista può entrare in conflitto con le regole della società, perfino con quelle funzionali al modo di produzione, ma non può accettare di rappresentare i propri drammi entro uno scenario in cui la fortuna sia imperatrice del mondo.

Il ridimensionamento  del ruolo della fortuna prosegue anche nell’epoca contemporanea e diventa una sua completa rimozione come forza agente dell’azione narrativa. Per esempio nel romanzo di Houellebecq Serotonina Aymeric Harcourt, discendente di una famiglia aristocratica che ha scelto di dedicarsi all’allevamento in una prospettiva quasi romantica di continuità della tradizione casearia francese, vive la sua rovina professionale e personale come effetto di sistema. Il finale negativo della sua esistenza, morirà in uno scontro con le forze dell’ordine nel corso di un’azione di protesta degli allevatori, non è frutto in nessun modo delle circostanze o degli errori personali, persino la scelta di una moglie che lo abbandona nel momento più difficile viene ricondotto al mortifero sistema individualista della globalizzazione che annienta ogni forma di vita alternativa e sia nella coscienza del diretto interessato sia in quella dell’amico e protagonista Florent-Claude non c’è nessun dubbio su questa spiegazione. Ma se questo infondo è comprensibile in quanto Houellebecq è uno scrittore sia pure sui generis d’opposizione e perdipiù espressione letteraria di un capitalismo perdente nella competizione della globalizzazione come quello francese, è interessante allora prendersi in considerazione un romanzo come Cosmopolis di Don De Lillo.

In quest’opera il ventottenne miliardario Eric Packer, genio delle speculazioni finanziarie, trascorre la sua giornata in limousine perché ha deciso di andare a tagliarsi i capelli dal barbiere di fiducia dall’altro capo della città, nonostante sia una giornata di visita del presidente alla città che fa impazzire il già folle traffico newyorchese. La giornata non è persa perché ovviamente l’attraversamento della città con una macchina lussuosa e attrezzata come un ufficio comporta una serie di incontri e vicende lavorative e personali. In particolare egli ha indirizzato tutte le considerevoli risorse che gestisce in un attacco speculativo contro lo yen, che invece nonostante tutte le aspettative continua a crescere, ma benché la sua consigliera finanziaria gli faccia presente che è ancora possibile uscire di scena limitando le perdite, egli persevera e invia il suo analista a studiare e a scoprire gli errori nei modelli matematici che stanno seguendo. La discussione con la consigliera avviene in macchina, mentre Packer sta effettuando la sua visita medica di controllo quotidiana non perché sia malato ma perché desidera monitorare in tempo reale la propria salute non lasciando nulla al caso, ed è intervallata da alcune considerazioni di carattere erotico e psicologico sulla sua dipendente. Nessuno di queste attività registra il reale coinvolgimento emotivo di Packer che tratta con lo stesso grado di partecipazione la possibilità di perdere gran parte delle sue risorse economiche, il suo prossimo matrimonio con un’ereditiera, la scelta di andare a farsi tagliare i capelli dal vecchio barbiere di suo padre nonostante il traffico, l’acquisto di un Rothko nonché una serie di copule con donne avvenenti. L’approccio multitasking del protagonista alla sua giornata è naturalmente uno strumento nella costruzione narrativa di De Lillo per rappresentare il delirio di onnipotenza e la noia del personaggio, ma è evidente che tale atteggiamento è possibile perché nella coscienza di Packer il caso è stato abolito. Nel suo successo, esattamente come all’estremità opposta nell’insuccesso di Aymeric, nulla è stato lasciato alla sorte, almeno nella prospettiva dei diretti interessati. Nel personaggio statunitense la forza che ha abolito il caso è la scienza che viene recepita in un’accezione che probabilmente farebbe inorridire numerosi scienziati, ma è quella dell’ideologia dominante, in cui un po’ di algoritmi ha abolito per sempre la fatalità e il fatto di calcolare una probabilità significa ipso facto metterla sotto controllo allo stesso modo che in certe tradizioni iniziatiche o cabalistiche il possesso di alcune parole segrete determina il controllo di una situazione o di un essere. La risposta di Packer al suo giovane analista matematico, che per spiegare la situazione sullo yen vuol ripercorrere quello che è successo in passato per vedere se vi è qualcosa di attinente, è “Non c’è nulla di attinente. Ma qualcosa c’è. Rientra nei diagrammi. Vedrai”[iv] è una formula quasi religiosa, logicamente non troppo diversa da Credo in unum Deum patrem omnipotentem ecc.

La critica ha giustamente messo in risalto che Cosmopolis anticipa le dinamiche culturali e antropologiche della crisi del 2007-08, basti pensare che il romanzo è ambientato in una giornata dell’aprile del 2000, quando scoppiò la bolla della new economy. La cosa più notevole del testo però non consiste nelle sue presunte qualità previsionali, in fondo se si ha a che fare con il capitalismo finanziario prevedere che prima o poi da qualche parte scoppierà una bolla non denota certo il possesso di qualità profetiche eccezionali, ma nell’indicare il soggetto protagonista della crisi in un individuo che ha un rapporto fideistico con la realtà che sorge dalla convinzione di avere un dominio razionale del mondo tramite il ricorso a  determinate procedute sentite come scientifiche, ma in realtà di carattere essenzialmente rituale.

Arjun Appadurai, in un libro dedicato alla crisi finanziaria e in particolare alla forma derivato che ne è stato il detonatore, ha messo in luce come il ricorso a questo particolare strumento finanziario per la complessità delle previsioni che richiede  non sia ormai tanto spiegabile in termini quantitativo- matematici, quanto piuttosto con categorie del pensiero antropologico, particolarmente tramite il concetto di effervescenza collettiva elaborato da Durkheim nell’ambito della sua indagine sulle forme elementari della vita religiosa. Se riprendiamo la definizione di Durkheim di sacro esperito nella ritualità degli aborigeni australiani come qualcosa che “non era che una forma esteriorizzata della forza che la società esercitava sulla loro interiorità morale”[v] e sostituiamo a società il termine mercato, sostiene Appadurai, possiamo individuare la presenza del sacro ( in questa particolare accezione) nel mondo contemporaneo. L’effervescenza collettiva è nella lettura di Durkheim quel particolare stato d’animo con il quale gli indigeni partecipano efficacemente al rituale che mette in scena sia l’incertezza che minaccia la vita ordinaria sia la certezza che esista un ordine sociale inclusivo e superiore di questa stessa incertezza[vi]; secondo Appadurai la finanza contemporanea funziona come un rituale caratterizzato da effervescenza collettiva in cui le aspettative di un certo tipo di esito di un’operazione vengono presentate in un’adeguata veste algoritmica, ma di fatto sganciato da ogni reale calcolo delle probabilità, e confermate in forma rituale tramite “il senso di appartenenza a una forza potente e astratta, al tempo stesso estatica e regolamentata, la cui autorità si irradia sui momenti, sugli spazi e sui contesti secolari di cui è fatta la vita sociale quotidiana al di fuori della sfera rituale”[vii]. Vorrei sottolineare che l’importanza di questa analisi non è tanto nel sottolineare un legame tra capitalismo e religione, cosa che è stata fatta spesso in questi anni da autori legati alla teoria critica sulla scorta di Benjamin e anche da autori di formazione teologica cristiana, ma una precisa corrispondenza funzionale tra un determinato momento del sacro diciamo ‘primitivo’ e una determinata figura della finanza contemporanea.

E’ probabile che nella coscienza di un personaggio ricco, annoiato e potente, quasi un equivalente postmoderno dei soprani der monno vecchio di belliana memoria ( “io so’ io e vvoi non zete un cazzo”) quale il Packer di De Lillo, questa complessa costellazione simbolica e antropologica si manifesti tramite l’abolizione della dimensione della fortuna come categoria reale e anche psicologica. Mentre personaggi moderni come il Willy di Gioco all’alba o Mattia Pascal scelgono di darsi alla fortuna sfidando più o meno consapevolmente l’articolazione razionale della società, Packer la abolisce o meglio crede di averla abolita perché si fa visitare tutti i giorni da un medico e ha un matematico al proprio servizio.

E’ chiaro che proporre come tratto rilevante della narrativa contemporanea l’occultamento o la perdita di percezione del ruolo della fortuna nella coscienza dei personaggi significa proporlo come sintomo di una scissione tra un mondo in sé, nel quale evidentemente la fortuna ha un suo ruolo per quanto marginale, e un mondo esperito dal personaggio nel quale tutto è calcolato e monitorato. Questa scissione è però irrimediabile per i personaggi vincenti perché percepire la casualità o la sorte, seppure, ripeto, nella forma limitata che una razionalità moderna le può assegnare, significa rientrare nel mondo storicizzato della modernità nel quale si registra il cambiamento, in una certa misura imprevedibile, e non la pura innovazione tecnologica volta all’accelerazione dei processi sociali esistenti[viii] e questo a sua volta comporterebbe l’accettazione della propria transitorietà come individui e come classe. Insomma ci troviamo di fronte a una forma di autoinganno che potrebbe essere trattata con le categorie ben note di ideologia e soprattutto di alienazione, ma vi è un dato differente rispetto alle teorie che hanno fatto ricorso a queste categorie nella fase postmoderna: per citare la maggiore di queste teorie, la nozione debordiana di società dello spettacolo implica una contemplazione estatica del mondo delle merci da parte delle masse ( e un’azione da guastatori di una piccola avanguardia di artisti e di militanti), mentre qui l’autoinganno riguarda innanzi tutto le èlite, le figure vincenti di oggi o di ieri, come nel caso del personaggio di Houellebecq. Paradossalmente chi intrattiene un rapporto con la dimensione della fortuna sono i perdenti, le figure residuali e gli inetti di vario tipo e genere, insomma il popolo degli acquirenti del gratta e vinci, non in virtù di una loro particolare forma di coscienza di classe o di altro genere, ma perché sono fatalmente costretti dalla precarietà della loro condizione a fare i conti con questa dimensione. Insomma la  pochezza della loro condizione impedisce l’entrata nel mondo magico e allucinatorio dove il caso è stato abolito, essendo costretti a mantenere un rapporto con la realtà. C’è però un effetto di ironia storica in tutto questo, un’ironia postmoderna potremmo definirla anche se forse i creatori di questo concetto non si troverebbero d’accordo a chiamarla così, e cioè il richiamo alla fortuna, che nella rappresentazione delle classi subalterne della modernità è una accecamento ideologico per non vedere le ragioni strutturali del loro sfruttamento, qui diventa l’unico barlume di rapporto con la realtà, in una cultura dominante che ha fatto dello spettacolare e dell’artificiale il proprio elemento fondante. Non è un caso che il termine ‘fortuna’ giochi un qualche ruolo nella serie di reportage che Vollman ha dedicato ai poveri dei nostri giorni[ix], mentre in contesti più elevati si troverà al massimo un riferimento ai giochi, che tramite l’apposita teoria sono stati ormai simbolicamente strappati alla sfera dell’alea e portati in quella della scienza. Non si tratta evidentemente di proporre allora una variante della stucchevole retorica della letteratura impegnata nella forma già vista del rudie can’t fail, ma di cercare in una letteratura periferica e provinciale ( non necessariamente in senso geografico) il luogo della contraddizione vitale della cultura del nostro tempo. La cultura del nostro tempo, che per comodità potremmo ancora chiamare postmoderna, è quella di un mondo senza vie di fuga possibili; certo non si tratta di chiedere alla letteratura o all’arte di trovare una via d’uscita, ma di rompere e mettere in discussione i riflessi condizionati che determinano le rappresentazioni simboliche di questo tipo di mondo, nelle modalità varie che le individualità dei singoli scrittori e artisti sapranno creare.

 

 

[i] Fredric Jameson L’inconscio politico, trad.it. Milano 1990, pag. 163 e segg.

[ii] Franco Moretti Il Borghese, trad.it. Torino, 2017, p.27

[iii] Jameson, ibidem, p.161

[iv]Don De Lillo Cosmopolis, trad.it, Torino 2006 p.34

[v] Arjun Appadurai Scommettere sulle parole, trad.it. Milano 2016, p.68

[vi] Cfr. Appadurai, op.cit. p.91 e segg.

[vii] Appadurai, op. cit. p.104

[viii] Mi riferisco qui alle teorie di Hartmut Rosa in particolare espresse in Accelerazione e alienazione, trad.it. Torino 2015.

[ix] William T.Vollmann I poveri, trad.it Roma 2020

( questo testo è apparso in Machina aprile 2021)

Vent’anni contro ogni ventennio

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Immagini di una festa “fragile” raccolte da Gianni Biondillo

(e da qualche altro indian* e amic* di Nazione Indiana)

Prima di tornare alle nostre faccende quotidiane voglio condividere alcune immagini dalla festa appena conclusa di Nazione Indiana.

Sono state dette molte cose, molto belle e molto interessanti. Peccato per chi non c’era :-). Verranno sicuramente sviluppate, scritte e mi auguro condivise anche qui sul nostro lit-blog (non ricordavo neppure più queste definizione, è riemersa come un reperto archeologico in questa due giorni di festa).

Fragilità degli ambienti urbani: l’evoluzione della città vista da scrittori e architetti

Stefano Casciani, Andrea Inglese, Davide Borsa e Gianni Biondillo

Io, già affranto, medito la fuga :-)

 

Davide Borsa, architetto e ricercatore, esplicita in una immagine il tema della gentrificazione.

 

Dall’ispirazione alla sostituzione: la scrittura letteraria di fronte all’IA

Nicola Ludwig, Giorgio Mascitelli, Emanuele Bottazzi, e, in collegamento, Silvia Pareschi e Giacomo Sartori.

A detta di Laura e Pietro (mia figlia e il suo fidanzato, che hanno curato i collegamenti on line, le luci, l’audio e verificato che nessuno fosse rimasto chiuso in bagno prima di chiudere) un panel di grandissimo interesse.

 

Compagni indiani, forza con l’attacchinaggio!

 

Ho il sospetto che questo cartello appeso all’ingresso di via Mosso – per l’appuntamento serale – ce lo siamo dimenticati lì. Tutti gli altri, distribuiti nel parco del Trotter come Pollicino, li dovremmo aver portati via.

 

A un certo punto, alle feste indiane, con i vecchi e nuovi amici di Nazione Indiana, ci si mette intorno al tavolo, muniti di bicchieri (per il momento) pieni.

 

Un pubblico davvero variegato e inclusivo si prepara ad assistere alle letture ed escandescenze indiane della serata.

 

 

Gianluca Codeghini & Andrea Inglese ce le hanno suonate & cantate per bene!

 

Giorgio Mascitelli & Gianni Biondillo: le note escandescenze indiane

 

Domenica mattina, 20 anni di NI.

Ne parlano Jan Reister, Antonio Moresco Helena Janeczek e in collegamento Francesco Forlani e Davide Orecchio.

 

Antonio si scusa per il ritardo. (aveva camminato con un gruppo tutta la notte e gli era passato di mente). Poi fa un intervento inteso che giustifica ogni ritardo.

 

Jan, dopo gli stimoli di Davide sulla conservazione del nostro enorme archivio, raccoglie la sfida e racconta come si potrebbe fare.

E per finire

inaspettatamente

dalla memoria di un vecchio cellulare di Francesco

Una foto – delle mille fatte e perdute – della prima festa indiana, a Fosdinovo in Lunigiana. Era il 2010. Esistevamo da sette anni e ci sembravano già tantissimi. Alcuni redattori hanno preso altre strade, altri ne sono arrivati. Lo spirito rimane lo stesso. Quello di essere “una nazione composta da molti popoli orgogliosamente diversi e liberi”. Decentrata, orizzontale, rizomatica, anche un po’ caotica, anarchica e individualistica. Pronta però a condividere ogni battaglia.

Tradurre “Carpentaria” di Alexis Wright. Intervista ad Andrea Sirotti

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a cura di Margherita Zanoletti 

Nato a e residente a Firenze, Andrea Sirotti è un traduttore letterario specializzato in letterature inglesi e postcoloniali. Dalla metà degli anni Novanta ha curato e tradotto in italiano per vari editori antologie e raccolte poetiche di autori come Emily Dickinson, Margaret Atwood, Carol Ann Duffy, Eavan Boland e Arundhathi Subramaniam. Ha inoltre tradotto testi narrativi di Lloyd Jones, Ginu Kamani, Hisham Matar, Hari Kunzru, Aatish Taseer, Chimamanda Ngozi Adichie, Alexis Wright e Ian McGuire, presentandoli per la prima volta al pubblico italiano. Con Shaul Bassi ha co-curato il libro Gli studi postcoloniali. Un’introduzione (Le Lettere, 2010).

Nel 2008, a meno di due anni dalla pubblicazione dell’opera originale, in collaborazione con Gaetano Luigi Staffilano Sirotti ha tradotto in italiano il romanzo Carpentaria di Alexis Wright, scrittrice australiana appartenente al popolo Waanyi. L’opera, edita da Rizzoli con il titolo I Cacciatori di Stelle, non raggiunse mai il successo commerciale sperato: fu infatti un flop di vendite, e da anni la traduzione italiana del romanzo è praticamente introvabile.

Questa intervista retrospettiva, recentemente pubblicata dalla rivista francese Motifs e qui riadattata in italiano, è stata condotta tra il 2021 e il 2022. Attraverso una serie di ricordi e considerazioni, la conversazione con Sirotti evidenzia il duplice ruolo dell’autrice come narratrice e portavoce dei popoli dell’Australia e, in parallelo, richiama l’attenzione sul ruolo dei traduttori come lettori, interpreti, mediatori e coautori, offrendo spunti di riflessione sulle dinamiche del settore editoriale.

 

Parte 1. Il contesto

Margherita Zanoletti: Partiamo dall’inizio. Come è nato il progetto di tradurre Carpentaria in italiano?

Andrea Sirotti: Tutto è iniziato alla fine del 2007, quando sono stato contattato da una redattrice della Rizzoli (casa editrice con cui non avevo mai lavorato prima) che mi chiedeva la disponibilità a partecipare come co-traduttore alla edizione italiana di un «romanzo aborigeno australiano, una bella storia familiare ambientata nel Queensland». La ragione per cui occorreva più di un traduttore non stava tanto – come si potrebbe immaginare – nella difficoltà del testo, quanto piuttosto nella necessità di fare uscire il romanzo in tempo utile per il Salone del libro di Torino del maggio 2008. Infatti, ricordo che avremmo dovuto, per la consegna, rispettare la scadenza del 31 marzo, vale a dire tre mesi di lavoro che, tenuto conto della complessità del romanzo, è un tempo decisamente risicato, benché fossimo in due a lavorarci, il collega Gaetano Luigi Staffilano e il sottoscritto. I tempi, poi, si sono dilatati, ma non per nostra responsabilità. Non so perché si siano rivolti a me. Forse ha giocato la circostanza che mi ero già fatto un po’ le ossa sulla traduzione di narrativa cosiddetta “postcoloniale” (anche se le mie altre esperienze di letteratura downunder si limitavano, al tempo, alla traduzione di Mr Pip di Lloyd Jones).

MZ: Generalmente, prima di tradurre un’opera letteraria i traduttori si dedicano a una fase preliminare di studio e ricerca. Per Carpentaria, quanto tempo ha richiesto questa fase?

AS: Questa fase propedeutica dovrebbe durare a lungo, per il tempo necessario ad acquisire familiarità con l’universo di riferimenti culturali dell’autrice e della sua storia. Dico dovrebbe, perché non sempre ciò è possibile. Nel caso di Wright, ricordo di avere passato alcuni giorni frenetici a raccogliere online quanto più materiale possibile sull’autrice e sul contesto geografico e culturale. Il resto, ahimè, non resta che verificarlo in corso d’opera, soprattutto quando la conoscenza di una specifica caratteristica diventa essenziale per la plausibilità della traduzione.

MZ: Nonostante la fama internazionale, in Italia Alexis Wright risulta essere ancora un prodotto di nicchia. Come è stata accolta la traduzione italiana di Carpentaria?

AS: Penso che sulla recezione di Carpentaria abbia pesato un equivoco di fondo. Ho sempre avuto il sospetto che l’editore avesse acquisito il libro nella speranza di replicare il successo di alcuni romanzi di ambientazione diciamo così “esotica” usciti negli anni precedenti. Ad esempio, quello del celeberrimo Il cacciatore di aquiloni (The Kite Runner) di Khaled Hosseini di cui, tra l’altro, il libro italiano scimmiotta il titolo. È ovvio che un lettore che si trovi ad acquistare un libro così intitolato, con quella copertina e con quella presentazione delle librerie, si aspetta un prodotto completamente diverso rispetto a Carpentaria. Questo potrebbe spiegare, almeno in parte, le ragioni del limitato successo di vendite del romanzo. Ho avuto personalmente riscontri di amici che hanno acquistato il volume sicuri di trovarvi certi “ingredienti”, per poi scoprire che si trattava, invece, di un libro complesso, ambizioso, e di lettura tutt’altro che facile.

MZ: In Italia la letteratura indigena australiana è – salvo pochi nomi – ancora poco conosciuta. La traduzione italiana di Carpentaria ha contribuito al riconoscimento di Wright e della letteratura australiana delle First Nations?

AS: No, penso con rammarico che l’edizione italiana del libro abbia avuto un’eco assai ridotta in Italia, tranne forse in certi ambienti accademici, pronti e predisposti a cogliere e ad apprezzare la portata e il valore letterario dell’opera. Insomma, un’occasione persa.

 

Parte 2. Le scelte pratiche del traduttore

MZ: In Carpentaria, la scrittura di Alexis Wright è una miscela di mito e invenzione, politica e farsa. Nel comporre una sorta di epopea di un popolo, l’autrice inventa una lingua artificiale: un inglese primitivo ma vigoroso, quasi biblico. Questa lingua è in netto contrasto con l’inglese volgare e impoverito parlato dalla comunità bianca locale e con l’inglese standard utilizzato dagli altri personaggi bianchi provenienti da diverse zone dell’Australia. Quali sono state le sfide maggiori nel tradurre questa polifonia linguistica?

AS: Carpentaria è un romanzo che fonde epopea e quotidianità, e che dà voce a tre distinte comunità che risiedono a Desperance. Due gruppi di aborigeni rivali (che vivono nelle baracche rispettivamente del Westside e dell’Eastside) riuniti intorno alle rispettive figure archetipiche e carismatiche di “capo” (Norm Phantom e Joseph Midnight); a cui va aggiunta la comunità dei bianchi che vivono nelle linde case di Uptown. Malgrado le apparenze, i volgari e materialisti abitanti di Uptown, i “senza storia”, pur abitando nella zona nobile della cittadina, sono i veri marginali nel contesto del romanzo. Il loro sterile perbenismo, il loro gretto materialismo, il razzismo a volte violento, altre volte paternalista sembra essere il vero “peccato capitale” in quel mondo.

Non che gli aborigeni siano immacolati ed esenti da vizi, tutt’altro. Tuttavia, i protagonisti nativi ci appaiono sempre a tutto tondo, in un certo senso eroici – e se cadono, lo fanno grandiosamente, come i protagonisti dell’epica. Se paragonati alle mezze figure della comunità bianca, i vari Norm Phantom, Mozzie Fishman, Will Phantom, Angel Day svettano nell’economia del romanzo come giganti.

È evidente che il cercare di ricostruire tutto questo in italiano presenta notevoli problemi, anche perché non si può correre il rischio (sempre dietro l’angolo) di offrire una caricatura degli aborigeni attraverso una lingua infarcita di solecismi o anacoluti. Si può tentare, invece, di “involgarire” in vari modi la lingua della comunità bianca, anche se è in apparenza più vicina allo standard.

MZ: Un esempio testuale tratto dal libro?

AS: Come esempio testuale proporrei l’incipit della lunga “tirata” di Joseph Midnight, contenuta nel sesto capitolo, che riferisce dell’arrivo a Desperance dei cronisti dalle città del sud:

Every day, never miss, the white city people started to metamorphose themselves up there in Desperance, and they were asking too many questions, millions maybe, of the white neighbours. Will Phantom was that popular. A big troublemaker but nobody had a photo of him. Got nothing to give, for the white people – too insular.

What they got to know? Got nothing. You could see they were city people who were too plain scared to go about, and come down there in the Pricklebush and ask the Aborigine people sitting at home in their rightful place. They looked, Oh! this side, or that side of town. No, not going, they must have said about the Pricklebush. Waiting and waiting instead. Those reporter types hung around town not knowing what to do, then they all looked outside of the fish and chip shop, and guess who? One old blackfella man, Joseph Midnight now, white hair jumping out everywhere from he head, he was sitting there. Him by himself: Uptown. He looked over his shoulder at those city newspaper people and saw they’d even got a Southern blackfella with them. A real smart one, educated, acting as a guide. He got on a tie, clean white shirt and a nice suit. He goes up to old man and called him, ‘Uncle,’ and he says: ‘What kind of person you reckon, older man, you say Will Phantom?’ Old Midnight he looked back for awhile, and he says: ‘Who’s this?’ He was thinking now for must be two minutes before he was squinty eyes, still saying nothing, and then he speaks back, ‘Well! You, you, say, I never, and I never believe it. You say I am your Uncle, then listen to this one, boy.

Ogni giorno, immancabilmente, i bianchi di città cominciavano a metamorfizzarsi lassù a Desperance, e facevano troppe domande, forse milioni, ai paesani bianchi. Will Phantom era così popolare, ma nessuno aveva una foto di quel gran piantagrane. «Nulla da dare,» a bianchi come loro… che mentalità chiusa.

Cosa scoprirono? Nulla. Si vedeva che era gente di città che aveva una paura fottuta di andare in giro, di scendere nel Pricklebush a domandare alla gente ab origine seduta all’interno del loro legittimo posto. Guardavano, oh se guardavano! da una parte, o dall’altra del paese. «Ma non ci andiamo,» devono aver detto, intendendo nel Pricklebush. Lunghe attese, invece. Quelle facce da cronisti che ciondolavano per la città senza sapere cosa fare. Poi guardarono tutti fuori dal negozio del fish and chip, e indovina un po’? Un vecchio blackfella, Joseph Midnight in persona, capelli che gli spuntano fuori dappertutto dalla testa sua di lui, era seduto là. Lui da solo: a Uptown. Guardò di sottecchi quei pennivendoli di città e vide che si erano portati dietro perfino un blackfella del sud. Uno intelligente, istruito, che faceva da guida. Aveva su la cravatta, una camicia bianca pulita e un bell’abito. Va dal vecchio e lo chiama «zio», poi gli fa: «Che tipo di persona mi dici che è Will Phantom?» Il vecchio Midnight lo squadra per un po’, poi dice: «E tu chi sei?» Ci pensa per un paio di minuti, poi strizza gli occhi, ancora senza dir nulla, alla fine gli fa: «Be’, tu… dici? Io mai e poi mai ci credo. Dici che sono tuo zio, allora ascoltami bene, ragazzo.

Nella traduzione si possono riconoscere esempi di lingua alta e solenne mescolata con idioletti specifici. Una modalità espressiva che si è cercato di rendere senza elementi che suonino involontariamente caricaturali. Quello che abbiamo tentato di restituire, anzi, è la fiera padronanza della lingua da parte dei protagonisti aborigeni in genere, che si fanno beffe di chiunque (bianco o asservito ai bianchi) cerchi di annacquare o edulcorare le proprie espressioni. Da notare, in grassetto, l’inglese storpiato adottato dal giornalista nella presunzione di farsi capire meglio dall’anziano nativo.

MZ: Anziché normalizzare e appiattire la lingua, tu e Staffilano avete conservato e addirittura accentuato il riferimento al discorso orale: eppure lo Straniero non viene mai ridicolizzato. A questo proposito: Alexis Wright ambienta il suo romanzo nella zona del Golfo di Carpentaria, nel Queensland nordoccidentale, che è la patria del suo popolo: i Waanyi. Attinge non solo alla topografia della zona, ma anche a una visione del mondo essenzialmente non europea. Come emerge questo aspetto?

AS: Nel mondo visionario e al tempo stesso concreto di Wright, fatterelli e dicerie locali convivono con le leggende del Tempo del Sogno, miti ancestrali e storie sacre trattate con tono dissacrante e a volte tragicomico in un linguaggio originalissimo e paradossale, sublime e quotidiano, tradizionale e innovativo. Tutto questo è sicuramente un mélange abbastanza inaudito da noi. Un romanzo, quindi, che si compiace anche di ardite ricerche linguistiche, nella continua giustapposizione di punti di vista, nella presenza di parti decisamente classificabili come “monologo interiore”, nella ricerca su un inglese (soprattutto quello usato dai protagonisti aborigeni) che suoni contemporaneamente autoctono e straniero, colloquiale ma solenne, quotidiano ed epico, con un uso a volte idiosincratico di certi termini “alti”. Come se all’autrice interessasse molto la definizione tutta letteraria e intellettuale di un codice comunicativo utile a contro-colonizzare, forzandola, la lingua dei colonizzatori (come nella nota formula di Rushdie «the Empire writes back»).

MZ: Il romanzo contiene personaggi singolari: dai sovrani della famiglia, la regina della discarica Angel Day e il re del tempo Normal Phantom, a Elias Smith, Mozzie Fishman, Bruiser, il capitano Nicoli Finn e Will Phantom. Con chi hai empatizzato maggiormente?

AS: Tra i personaggi, ricordo di essere stato molto colpito da Elias, “l’uomo senza memoria” arrivato dal mare, che non a caso – pur essendo bianco – è un outsider, uno che si perderà proprio nel momento in cui dovrà scendere a compromessi coi bianchi. Il suo ruolo, tuttavia, rimane in qualche modo centrale anche da morto, con Will prima e Norm poi che si prenderanno cura e dialogheranno con il suo cadavere mummificato.

MZ: Quale pagina o episodio ricordi come più emozionante?

AS: Tra i brani più intensi del romanzo, citerei quello in cui Angel Day, l’indomita, sensuale e individualista moglie di Norm, quella che si costruisce il necessario e il superfluo riciclando i rifiuti dei bianchi, scopre in discarica una statua della Vergine per poi ridipingerla “a propria immagine e somiglianza”, come una popolana del Pricklebush. Un episodio che è in sé una rivisitazione coloniale della religione degli oppressori:

The Virgin Mary was dressed in a white-painted gown and blue cloak. Her right hand was raised, offering a permanent blessing, while her left hand held gold-coloured rosary beads. Angel Day was breathless. ‘This is mine,’ she whispered, disbelieving the luck of her ordinary morning.

‘This is mine,’ she repeated her claim loudly to the assembled seagulls waiting around the oleanders. She knew she could not leave this behind either, otherwise someone else would get it, and now she had to carry the statue home, for she knew that with the Virgin Mary in pride of place, nobody would be able to interfere with the power of the blessings it would bestow on her home. ‘Luck was going to change for sure, from this moment onwards,’ she told the seagulls, because she, Mrs Angel Day, now owned the luck of the white people.

[…] This was how white people had become rich by saving up enough money, so they could look down on others, by keeping statues of their holy ones in their homes. Their spiritual ancestors would perform miracles if they saw how hard some people were praying all the time, and for this kind of devotion, reward them with money. Blessed with the prophecy of richness, money befalls them, and that was the reason why they owned all the businesses in town.

The seagulls, lifting off all over the dump, in the mind-bending sounds they made seemed to be singing a hymn, Glory! Glory, Magnificat.

 

La Vergine aveva una veste dipinta di bianco e un mantello azzurro. Teneva la mano destra alzata in perpetua benedizione, e con la sinistra reggeva un rosario dai grani dorati. Angel Day rimase senza fiato. «È mia», sussurrò, incredula di quanta fortuna le fosse capitata in quella mattina qualunque.

«È mia», ripeté a voce alta al gruppo dei gabbiani in attesa attorno agli oleandri. Sapeva benissimo di non poter lasciare lì la statua, altrimenti l’avrebbe presa qualcun altro, e adesso doveva portarsela a casa, perché era consapevole che con la Madonna a proteggere il posto, nessuno avrebbe potuto interferire con la forza delle benedizioni che la statua avrebbe concesso alla sua casa. «D’ora in avanti la sorte cambierà di sicuro,» disse ai gabbiani, perché lei, la signora Angel Day, adesso possedeva la stessa fortuna dei bianchi.

[…] Era quella la differenza tra la povera gente del Pricklebush e quella di Uptown. I bianchi si erano arricchiti mettendo da parte abbastanza soldi da poter guardare gli altri dall’alto in basso perché tenevano in casa le statue dei loro santi. I loro progenitori spirituali avrebbero fatto miracoli ascoltando tutte quelle preghiere, e tale devozione l’avrebbero ricompensata in moneta sonante. Consacrati dalla profezia della ricchezza, sono benedetti dal denaro, era per quello che gestivano tutte le imprese in città.

Sembrò che i gabbiani che svolazzavano sulla discarica avessero accordato i loro stridi penetranti a intonare un inno: Gloria! Gloria, Magnificat.

MZ: Come suggerisce la lettura del testo in inglese e della traduzione italiana, la sfida per i traduttori non si limita al livello linguistico, ma comprende anche il piano interculturale. Il traduttore agisce come un mediatore culturale, che interpreta ed esprime storie e temi poco conosciuti dai lettori al di fuori del contesto australiano. Da questo punto di vista, la traduzione letteraria è sempre un atto politico. I testi che vengono selezionati per essere tradotti danno forma al mercato letterario e alle relazioni interculturali e i modi in cui un’opera viene tradotta riflettono ed esprimono un’interpretazione della fonte e una posizione (semio)etica. Quali sono, a tuo avviso, gli aspetti politici, ermeneutici ed etici sollevati dal processo di traduzione di Carpentaria?

AS: Tradurre Carpentaria porta con sé problemi etici in quanto l’autrice lo pubblica come testo di riferimento per tutta una nazione negletta e per la sua lingua. Nelle parole di Alexis Wright in un recente articolo retrospettivo uscito sul Guardian:

One of the most frequent questions authors are asked is, “Who are you writing for?” The audience I had in my mind while writing Carpentaria was the ancestors of our traditional country. I concentrated on the way our people speak to country and each other. In that way, it always felt as though I was writing a story to the old people about the complexities and bravery of our world today but also, by linking the past and the present in this way, I was bringing the ancestral realm into a story of all times (Guardian, 7 settembre 2017).

Pur senza sapere tutto questo (o meglio, imparandolo più tardi, in corso d’opera) devo dire che sin dalle prime pagine del libro Staffilano e io abbiamo intuito che quello che ci era stato affidato era un romanzo importante, che ci imponeva scelte radicali e coraggiose, anche se eravamo consapevoli che il margine di azione che avevamo non era illimitato. Il che significa che abbiamo dovuto difendere le nostre posizioni e anche accettare alcuni compromessi.

MZ: Nella pratica traduttiva, di che compromessi si è trattato?

AS: In qualche caso abbiamo accettato la proposta della redazione di snellire le aggettivazioni e limare qualche ripresa anaforica, ma per il resto credo che la traduzione renda un buon servizio all’autrice e all’opera. In generale penso di poter dire che siamo riusciti a non appiattire lo stile, conservando il tono paradossale e mock-epic, rispettando i registri linguistici e gli scarti lirici.

MZ: Come avete tradotto i realia in Carpentaria?

AS: Lo staff editoriale ci ha invitati a far sì che alcuni termini non inglesi venissero tradotti o spiegati nel testo. Da me chiamata a dirimere la questione, Alexis Wright è stata lapidaria a riguardo. Ha sottolineato che le parole e le frasi in lingua aborigena nella pubblicazione originale australiana e britannica non comprendevano alcuna traduzione. Pertanto, per coerenza, a suo avviso, la pubblicazione Rizzoli avrebbe dovuto essere simile. La lingua aborigena avrebbe dovuto rimanere tale e quale nel testo.

Per quanto riguarda le scelte di fondo, Staffilano e io abbiamo concordato un modo univoco per tradurre le caratteristiche idro-geo-morfologiche e culturali del territorio, lasciando intradotti molti dei termini più ricorrenti, come ad esempio claypan/saltpan, bush, Pricklebush, Blackfella, Outback, Abo. In alcuni casi si è preferito inserire nel testo una spiegazione, poi lasciarli in originale, in corsivo.

MZ: Gli editor hanno cercato di normalizzare lo stile di Wright? È stato necessario “proteggere” la vostra traduzione?

AS: Abbiamo dovuto più volte rintuzzare qualche tentativo di normalizzazione e diversi appelli alla “fruibilità” e alla “leggibilità” che ci pervenivano dalla redazione. Non è stato così ovvio far capire che certe apparenti asperità o difficoltà di lettura erano parte integrante delle scelte stilistiche dell’autrice a cui sentivamo di rimanere fedeli.

MZ: Come traduttore, utilizzi note a piè di pagina, introduzioni, appendici, glossari per facilitare i lettori? Te lo domando perché questi apparati sono assenti nell’edizione italiana di Carpentaria.

AS: Come traduttore, faccio abbastanza spesso ricorso a note di chiusura, glossari, appendici allo scopo di chiarire alcuni aspetti del testo senza che gli apparati interferiscano troppo nella fluidità della lettura. Soprattutto quando si è trattato di tradurre poesia post-coloniale, la predisposizione di questi apparati mi è sembrata utile e doverosa. Nel caso di Carpentaria, però, ci era stato comunicato che le note non sarebbero state previste.

MZ: Sempre a livello paratestuale, la trasformazione del titolo da Carpentaria a I cacciatori di stelle e il design della copertina sono state scelte da voi o dall’editore? Anche le parti in carattere maiuscolo all’inizio di ogni capitolo sono state cancellate nell’edizione italiana. Queste scelte sono state dettate da ragioni commerciali, estetiche, comunicative?

AS: Da quanto ti ho risposto in precedenza, emerge chiaramente che tutte le scelte a cui accenni non sono ascrivibili ai traduttori (cosa che peraltro raramente succede), ma all’editore, e in particolare al suo ufficio commerciale o ai consulenti di marketing. Carpentaria è un nome geografico che deriva dal cognome di un governatore generale olandese, Pieter de Carpentier, è quindi un toponimo dalla tipica derivazione neolatina che alla fine suona… quasi italiano! Io lo avrei lasciato così, aggiungendo, magari, un sottotitolo più catchy. Desta ancora più perplessità il confronto tra le due copertine. Da un lato (nel libro italiano) è raffigurato un ambiente tropicale idilliaco e armonico, con tanto di graziosa casetta in stile simil-Tudor, dall’altro l’inquietante copertina originale su cui campeggia il “serpente ancestrale” sullo sfondo di un paesaggio brullo e inospitale. Sembrano in tutto e per tutto due libri diversi, pressoché antitetici. Ricordo che la stessa autrice, che ho avuto la fortuna di conoscere nella primavera del 2009 nel corso del suo tour italiano dopo la pubblicazione (prima a Venezia per la rassegna “Incontri di civiltà”, poi a Prato alla Monash University) mi confessò di essere piuttosto contrariata per le scelte dell’editore. Per quanto riguarda le parti liriche tutte in maiuscolo all’inizio dei primi due capitoli, noi traduttori avevamo rispettato l’intenzione originale. Evidentemente la scelta finale è stata quella di non mantenerle. Ma non mi è chiara la ragione.

MZ: Come hai collaborato con Gaetano Luigi Staffilano, in termini pratici? Avete tradotto insieme tutti i capitoli?

AS: Dopo aver discusso insieme le scelte di fondo, ci siamo divisi i capitoli sui quali realizzare una prima stesura, poi abbiamo scrupolosamente rivisto la parte dell’altro cercando di armonizzare lo stile, usando la funzione di ricerca di word per uniformare i traducenti di alcuni concetti chiave.

MZ: In una recente intervista, hai raccontato: “Nella mia esperienza, il confronto con gli autori (per e-mail, Skype o, in alcuni casi fortunati, anche di persona) è stato spesso molto fertile e arricchente. Così come lo è, generalmente, il confronto e lo scambio con il revisore incaricato dalla casa editrice, soprattutto se è anche traduttore e quindi in grado di cogliere appieno le difficoltà del lavoro e le caratteristiche dello stile da riprodurre.” Anche nel caso di Carpentaria?

AS: Devo dire che i tempi sono stati troppo stretti perché io e Staffilano riuscissimo ad avere un fertile confronto con l’autrice “in corso d’opera”. Verso la fine del lavoro, abbiamo presentato due liste di dubbi all’autrice. La prima attraverso la redazione (in alcuni casi gli editori non concedono ai traduttori i contatti privati degli autori, ma preferiscono fare loro da tramite), la seconda – una volta riconosciuta l’urgenza – per via diretta. Wright è stata molto collaborativa, lusingata che la sua opera venisse tradotta in italiano e curiosa di “sentirne” gli esiti.

MZ: Avete coinvolto altre persone durante il processo di traduzione? E quali strumenti tecnologici avete utilizzato?

AS: A parte Staffilano e me (e la redattrice) nessun’altra persona è stata direttamente coinvolta nella traduzione. È vero, comunque, che durante il lavoro mi sono più volte rivolto all’amica traduttrice statunitense Johanna Bishop (ricorro spesso per le mie traduzioni ai pareri di colleghi anglofoni) a cui ho sottoposto alcune parti controverse o alcuni specifici termini in contesto per capire bene la risonanza che essi avevano a un orecchio madrelingua. Un paio di capitoli (ricordo il primo e l’ottavo) sono poi stati oggetto di analisi durante altrettante mie lezioni al Master di traduzione postcoloniale all’Università di Pisa. Quanto agli strumenti tecnologici, nient’altro se non qualche dizionario online (anche uno di inglese australiano) e un programma di sintesi vocale per la lettura. Al tempo andava per la maggiore un agile programma open source chiamato Read please. Oggi, come si sa, è tutto più semplice, essendo il lettore sintetico già incorporato in Word.

 

Parte 3. Riflessioni

MZ: I traduttori sono lettori, interpreti, mediatori, coautori. Quale definizione, secondo te, Andrea, descrive meglio l’atto del tradurre?

AS: I traduttori possono svolgere, a seconda dei casi, ognuno di questi ruoli (e anche altri). A me piace pensare al traduttore soprattutto come a un lettore molto attento. Uno che si documenta, si pone delle domande, non si abbandona alla superficialità o alla pigrizia di una prima impressione. Solo così la traduzione può fondarsi sull’interpretazione profonda necessaria perché si stabilisca quel rapporto di comprensione e di empatia necessario per aderire al testo di partenza.

MZ: In una passata intervista hai detto che “tradurre è un modo di tornare a casa, più ricchi, dopo il lungo viaggio nel testo”. L’esperienza di tradurre Carpentaria in che modo ti ha arricchito? Ritieni che il traduttore e il lettore percorrano la stessa distanza?

AS: Quando mi capita di tenere una lezione di traduzione, Carpentaria figura spesso tra gli esempi che faccio. È il classico caso di un’opera, come amo dire, “tradotta per differenza”. Due uomini bianchi, europei, dalle abitudini di vita più o meno stanziali, si ritrovano per varie circostanze a tradurre l’opera di una donna per metà aborigena, proveniente dall’altra parte del mondo. Proprio perché le differenze sono così marcate, occorre tanta umiltà. Serve mettersi in ascolto e cercare di abbandonare il più possibile i rassicuranti schemi mentali della quotidianità, e del mestiere, che permettono di tradurre, per così dire, “col pilota automatico”, opere culturalmente affini. Il viaggio, quindi, c’è ed è lungo e denso di ricompense. Sia per il lettore che per il traduttore. Si torna arricchiti a casa perché abbiamo imparato a «farci risuonare dentro» realtà e punti di vista che neppure immaginavamo esistere. Per scoprire, magari, che sono più vicini di quanto immaginavamo al nostro modo di sentire.

MZ: Nella postfazione alla tua traduzione italiana delle poesie di Emily Dickinson, scrivi che la tua è “una traduzione che aspira a farsi portatrice di una fedeltà”. Traducendo Carpentaria, quali sono le caratteristiche “dominanti” della poetica di Wright a cui hai voluto essere fedele?

AS: Sicuramente la tensione letteraria della lingua, la sua solennità e a volte la sua liricità. Ci sono molti momenti in cui sembra di tradurre poesia per la particolare attenzione dell’autrice a componenti quali il ritmo, la sonorità, la prosodia. Le vicende dei protagonisti sono sempre raccontate in uno stile sovrabbondante e paradossale, larger than life per così dire. Uno stile bizzarro, paradossale, stravagante, eccessivo, assolutamente imprevedibile. Bisogna cercare di riprodurre tutto questo e, come appare evidente, siamo agli antipodi (geografici ma anche traduttivi) rispetto a una traduzione addomesticante o normalizzante.

MZ: Tradurre Carpentaria ha comportato un coinvolgimento emotivo?

AS: Mi è difficile rispondere a questa domanda a tanti anni di distanza. Anche rileggendo parti del libro oggi non riesco in tutta sincerità a “rievocare” le emozioni provate nel corso della lettura e della traduzione. Posso dire che al tempo mi ero trovato molto d’accordo con quello che aveva affermato l’antropologa australiana Nonie Sharp a commento del romanzo:

Why does this book move me deeply? Because it stirs up feeling on how one might live in tune with the ecology of place, the cycles of the cosmos? A parable about how, if we don’t live in this way, nature and her beings – ‘the elements’ – make retribution? James Lovelock and other world scientists see this in their own way: as The Revenge of Gaia. But for them too an elemental sense of being stirs at this late moment of history. Upon this larger canvas Carpentaria, a work of magic realism in Westerners’ language, becomes a powerful allegory for our times: the Earth’s retaliation in Gaia-like fashion, responding to the deep tramping marks of our footprints on the climate, on the places of both land and water.

Un commento sempre più attuale oggi, nel cosiddetto “antropocene” così come è attualissimo, per molti aspetti, il romanzo di cui stiamo parlando. D’altra parte è lo stile stesso di Wright a essere estremamente emotivo, con un alto grado di coinvolgimento personale. L’autrice mette nell’opera molto di sé, un «personale» che, nello stile della scrittura, si fa decisamente «politico». Nella narrazione si riconoscono le sue frustrazioni, le ansie, le profonde convinzioni. Alexis Wright non è affatto una writer’s writer interessata solo a questioni stilistiche e narratologiche, ma l’emozione dell’autrice traspare anche nelle parti più sperimentali, nei più arditi giochi intellettuali, nello stream of consciousness di alcuni personaggi. Non vedo in lei l’occhio «neutrale» della ricercatrice distaccata, oggettiva. Wright ha certamente un’agenda politica, quella di dare voce ai diseredati, agli oppressi, ma il suo approccio è comunque emotivamente carico, magmatico, passionale. Questo processo è a mio parere innanzi tutto la ricerca della propria identità e del proprio ruolo, come donna e come narratrice. Con questo stile interstiziale, in dialogo con sfere sensoriali diverse e acroniche, l’autrice mette in discussione sé stessa e la propria autorialità. La voce dei personaggi nativi è indubitabilmente anche la sua. Non c’è uno sguardo distaccato, analitico, ma un completo coinvolgimento. La ricerca del linguaggio diventa anche un percorso doloroso e faticoso di ricerca interiore. Le vicende narrate, per quanto strampalate, straniate, paradossali, sono sempre connotate emotivamente. Richiamano un certo tipo di vissuto. Battaglie personali e forse accademiche di una donna con sangue aborigeno che si oppone a secolari prevaricazioni e paternalismi.

MZ: Tu non sei solo un traduttore, ma anche un insegnante di inglese. Queste due attività sono collegate? I tuoi studenti di letteratura inglese hanno letto Carpentaria?

AS: Nel mio lavoro di insegnante di liceo mi è capitato più volte di utilizzare i testi che traducevo per proporre lezioni di letteratura o di traduzione. I ragazzi sono in genere molto curiosi di conoscere storie di mondi lontani e non molto conosciuti. Spesso li ho accompagnati a “visitare” l’India delle poetesse anglofone contemporanee, la Nigeria di Chimamanda Adichie, o la Libia di Hisham Matar, oppure l’isola di Bougainville di quella splendida riscrittura dickensiana che è il Mr Pip di Lloyd Jones. Con Carpentaria ho esitato, forse perché l’inglese usato è effettivamente un po’ troppo letterario e complesso per essere proposto senza troppi sforzi ermeneutici a livello di scuola superiore. Il discorso è diverso per i master e le scuole di traduzione per cui, indubbiamente, il romanzo di Wright è fonte quasi inesauribile di esempi didattici.

MZ: Chiuderei con un’ultima domanda. In termini intersemiotici, in cos’altro, secondo te, potrebbe essere tradotta Carpentaria? Un film? Un’opera musicale? Poesia? Un ciclo di dipinti? Un sito web? Un remake letterario? Un fumetto? Un videogioco?

AS: Sono tutte interessanti suggestioni, le tue, ma l’ipotesi a cui mi viene più naturale pensare è l’adattamento cinematografico (o magari a una serie televisiva) che prenda spunto dalla vicenda narrata e dai suoi protagonisti. Le potenzialità visive e cinematiche dell’opera sono evidenti, anche se Carpentaria è nell’insieme un romanzo più di parole che di immagini, e qualsiasi adattamento che non tenesse conto di questa realtà porterebbe giocoforza a un’eccessiva semplificazione.

Mi incuriosisce anche l’ipotesi di un musical, o magari di un concept, come si usava dire una volta, basato su questa storia e questi personaggi. Chissà se qualcuno in Australia o altrove ci sta pensando. D’altra parte, c’è molta musica in questo romanzo. Musica classica, Handel su tutti, ma anche la presenza incongrua e paradossale di un gorgheggiante tenore italiano (un minatore) che canta «ma per fortuna è una notte di luna» in quel remoto avamposto di civiltà. E poi il country and western, colonna sonora costante della carovana del fanatico religioso Mozzie Fishman. Un genere reinventato e reso quasi irriconoscibile dal guru di quella mitica terra originaria, come in questo contesto sono reinventati e ridisegnati altri elementi culturali.

 

I poeti appartati: Enzo Campi

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Da quando lo conosco, da più di trent’anni, ho sempre percepito nella “manifattura creativa” di Enzo Campi, che si trattasse di teatro o di poesia, il tentativo di dialogo tra la mano che fabbrica e quella che pensa. La selezione di poesie tratte dalla sua silloge, Sequenze per cunei e cilindri  conforta, credo, quella mia percezione dell’origine. effeffe

 

Poesie

di

Enzo Campi

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La “Testa anatomica”: vittoria postuma di Filippo Balbi

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foto di Cristina Bianchini

Foto di Cristina Bianchini

di Tarcisio Tarquini

La Testa sembra sospesa nel vuoto e i corpi che ne rappresentano i muscoli e le ossa si protendono in rilievo dando l’impressione di trovarci di fronte a una scultura sorretta da fili invisibili, invece che – come in realtà è – a un dipinto su tavola di pino, dalle dimensioni piuttosto ridotte (59×47), frutto di una geniale intuizione figurativa, di una straordinaria perizia artistica e di un’approfondita conoscenza dell’anatomia umana, assorbita nell’accurato apprendistato delle accademie artistiche napoletana e romana della prima metà dell’Ottocento.

Il titolo del quadro è “Testa anatomica”, ne è autore Filippo Balbi, conosciuto per sua stessa volontà come “pittore storico”, vocato cioè alla composizione di tele e teleri raffiguranti personalità della storia o episodi della secolare vicenda dell’ordine dei monaci certosini, suoi protettori e committenti, che possono ammirarsi, prevalentemente, in alcune grandi basiliche romane e nella piccola chiesa settecentesca della Certosa di Trisulti, alle pendici dei monti Ernici nel comune di Collepardo, in provincia di Frosinone.

“La Testa anatomica” è ora esposta – e lo resterà fino al prossimo 29 ottobre – nel refettorio di questa antica abbazia medievale, prima certosina poi cistercense e oggi tornata nella piena disponibilità dello Stato, dopo l’oscuro interregno di una Fondazione ispirata al fondamentalismo, politico più che religioso, di Steve Bannon e della variegata ciurma dei suoi sodali europei.

Foto di Cristina Bianchini

La Mostra (Il Corpo e l’Idea. La Testa anatomica di Filippo Balbi), curata dal pittore e storico dell’arte Mario Ritarossi (che del quadro aveva scritto in un saggio del 2006 su “Capitolium Millennio, la rivista d’arte del comune di Roma), promossa e organizzata dall’Associazione Gottifredo di Alatri, ha registrato un successo inaspettato con un flusso incessante di visitatori che scoprono, insieme, un monumento nazionale di rara suggestione e un capolavoro misterioso, un “unicum” nella pittura europea del XIX secolo ma anche nella personale produzione dell’artista che l’ha concepita e composta.

Alcune singolari circostanze hanno gettato una luce imprevista sulla tavola di Balbi, una serie di coincidenze troppo curiose per essere casuali: più realisticamente, forse, il manifestarsi di una congiuntura in cui tutti gli astri benevoli al pittore, quasi a risarcimento suo che in vita non ne aveva mai potuto godere, si fossero allineati creando una corrente ascensionale propizia per riportare lui e la sua opera all’altezza del merito, finalmente riconosciutogli con consenso unanime e in modo definitivo.

Alcune di queste circostanze sono legate a immagini, foto, fotogrammi vaganti captati nell’etere della comunicazione.

La prima è un’immagine televisiva, un servizio sull’apertura al pubblico di un’ala della Galleria degli Uffizi dedicata agli autoritratti degli artisti: in una delle dodici sale in cui si sono volute raccogliere queste pitture (omaggio ai maestri che in esse si sono rappresentati ma anche al Museo al quale sono state affidate, perché se ne celebrasse la gloria di “Memorial” dei più grandi di tutti i tempi) spicca per dimensioni e per la posizione in cui è collocato l’autoritratto di Balbi, ripreso dai telegiornali e da lì scivolato nelle prime pagine di tutti i quotidiani. La figura è la stessa che vediamo in una foto scattatagli da un fotografo di nome Rainaldi nello studio della casa di Alatri, dove il pittore soggiornò dal 1864 fino alla morte avvenuta il 27 settembre del 1890. C’è Balbi con accanto, incorniciata da un cavalletto, la sua Testa anatomica, come se il quadro fosse la sua carta di identità, il segno riconoscibile della sua arte, l’esemplare da tramandare ai posteri e da tenere sempre con sé perché racchiudente l’anima della sua opera.

Rainaldi: Il pittore Filippo Balbi

Un’immagine ancora più pervasiva è un fotogramma del film premiato a Venezia, nello scorso settembre, con il Leone d’oro. La si scopre con stupore, persa dentro un vorticoso mulinello di allucinate citazioni artistiche (tale, per lo meno, è sembrato nel trailer che precede l’uscita italiana del film nel prossimo gennaio). In “Poor Things” di Yorgos Lanthimos, a dilatare l’urlo del sempre straordinario Willem Dafoe nella parte di nuovo Frankenstein costruttore in laboratorio di corpi umani da avviare alla vita, compare per un attimo la Testa anatomica, quella “Testa anatomica” che la Mostra di Trisulti ha riproposto restaurata allo sconcertato godimento di tutti.

Nella storia narrata da Lanthimos si parla della crescita di un corpo non “sincronizzato” con la mente, di una sorta di dolorosa e comica divaricazione che si ricompone alla fine facendo esplodere in tutta la sua totalità la bellezza della protagonista, dal suo creatore nominata Bella, a incidere subito la finalità e l’esito del suo progetto creativo, ma anche la sua tenerezza di padre senza figli.

E, in effetti, la Testa anatomica è una “povera creatura” che è riuscita a ricomporre la sua unità “corpo-mente”, per volontà dell’artista e della proporzione geometrica su cui il quadro è disegnato, scoperta con il lungo studio preparatorio del curatore della Mostra. Rivela così in modo inequivocabile l’allusione a una crisi che solo l’arte riesce a risolvere, riconducendo la tensione del molteplice alla compostezza irenica, astratta e indifferente, dell’unità.

La presenza della “Testa” in un’opera cinematografica, che segnerà l’anno venturo (che è anche quello del centosettantesimo anniversario del dipinto) con i suoi prevedibili successi, suona conferma di una intuizione di cui la Mostra di Trisulti, e del modo in cui essa è stata realizzata, è in un certo senso il risultato. La percezione di un’energia del quadro ancora non spenta e capace, perciò, di generare nuova arte ha portato non solo all’originale e suggestiva collocazione della “tavola” in una nicchia all’interno di una sorta di “camera delle meraviglie” costruita replicando il rapporto tra le sue misure, ma anche alla produzione di nuove opere d’arte da parte di giovani artisti formatisi nella sempre generosa fucina del Conservatorio di Frosinone.

Francesco Marsili: Testa anatomica

Le opere multimediali da loro installate, infatti, si pongono come fossero un fermento, alimentato da linguaggi d’arte contemporanei, dell’immaginario di Balbi: quella parte che egli ha tenuto congelata, in un angolo della sua attività creativa prima e dopo il biennio cruciale della composizione (1854) e del battesimo all’Esposizione Universale di Parigi (1855) e che, dopo un lungo percorso sotterraneo, sembra oggi essere arrivata ai creatori d’arte delle nuove generazioni che ne hanno riproposto la dirompente modernità.

Insieme con le visioni che passano sui grandi schermi posti nella “camera delle visioni” (dove è ospitata la multimedialità) irrompe, per esempio, dentro gli oculus, rigonfia di tutte le suggestioni provocate da un viaggio compiuto in realtà immersiva e mosso dall’intelligenza artificiale, una lunga teoria di corpi che reclamano la loro autonomia, si staccano dall’universo in cui fluttuano, si avvicinano allo sguardo di chi li osserva, gli protendono la mano e, se sono toccati dalla proiezione di quella dello spettatore che riconoscono umana, pronunciano oscure e inquietanti sentenze prima di dissolversi ancora nel nulla, sconfitte nella loro disperata ricerca di individualità, che resta tutta consegnata a noi chiamati a scuoterci dall’irrigidita dimensione della nostra misera realtà.

È la vittoria postuma di un artista orgoglioso e scontroso che, per vivere, dopo essersi allontanato dalla Roma papalina di cui sentiva l’imminente caduta, fece disegni, ritratti di monsignori, nature morte, pitture murali a olio dalla composizione che ancora nasconde i suoi segreti, e che tutto provò a vendere tranne la “Testa anatomica” che probabilmente gli avrebbe dato da mantenersi con maggiore agio. Preferì portarla con sé, custodita in una solida cassettina di legno, in ogni suo spostamento. Quel quadro, secondo lui non sufficientemente apprezzato a Parigi nel suo esordio internazionale, non apparteneva al presente: doveva essere affidato al futuro.

Collettivo Keiron: Ludicranzia onirica

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LA MOSTRA
“Il Corpo e l’Idea. La Testa anatomica di Filippo Balbi” è una Mostra dell’Associazione Gottifredo con la collaborazione del Museo di Storia della Medicina dell’Università La Sapienza di Roma, custode del quadro, e grazie alla concessione degli spazi da parte della Direzione dei Musei del Lazio. La curatela è di Mario Ritarossi, la direttrice esecutiva è Silvia Moretti, il comitato scientifico è composto, oltre che dallo stesso curatore, da Maria Conforti, docente e direttrice del Museo di storia della Medicina della Sapienza, Alessandro Aruta, conservatore dello stesso Museo, Marco Bussagli, docente di anatomia artistica dell’Accademia di Belle Arti di Roma.

Il Catalogo è edito dalle edizioni Gottifredo, si può trovare in Mostra o direttamente all’Associazione (0775440105) e sulle maggiori piattaforme di vendita di libri. Contiene saggi di Mario Ritarossi, Alessandro Aruta, Michele Campisi, Ettore Del Greco, Giovanni Fontana,  Natalia Gurgone, con appendici di Maria Gabriella Combusti e Sara Sarandrea (l’allestimento), Luca Salvadori (la trama sonora), Valerio Murat (la realtà virtuale), Alba Lisa Mazzocchia (la traduzione tattile), la cura redazionale è di Eugenia Salvadori. Il sito www.mostregottifredo.it

Inaugurata il 5 agosto, resterà aperta fino al 29 ottobre alla Certosa di Trisulti, Sala del Refettorio e Foresteria. La Mostra, a ingresso libero, è un “progetto comunitario” che si è realizzato grazie al lavoro volontario e gratuito dei soci dell’Associazione Gottifredo che vi hanno partecipato coprendo tutte le mansioni, compresa quella della sorveglianza, alle aziende e ai cittadini che lo hanno finanziato con le loro donazioni, agli enti, alle università e alle accademie che hanno concesso il loro patrocinio non oneroso, ma di prestigio, agli studenti e ai docenti delle scuole e degli Istituti di Alta formazione che hanno preso parte alla progettazione e a fasi della realizzazione, agli artigiani e ai professionisti che hanno ideato e operato. La Mostra, a due settimane dalla chiusura, ha registrato oltre quattordicimila visitatori, provenienti da ogni dove e di ogni condizione sociale. Indubbiamente attratti, oltre che dalla vastissima eco dell’iniziativa amplificata da giornali cartacei e su web e dalla segnalazione, con un lungo servizio sul magazine “Art e Dossier” come una delle grandi mostre dell’anno, anche dalla circostanza che si è trattato della prima iniziativa “all’altezza del luogo” dopo la “riconquista” della Certosa all’uso pubblico e alla sua vocazione spirituale e culturale – per breve tempo compromessa da un’illegittima appropriazione – consacrata da una sentenza dei tribunali della nostra Repubblica, per cui tanto si sono prodigate le associazioni – tra cui la Gottifredo organizzatrice della Mostra – oggi riunite nella Rete Trisulti Bene Comune. (T.T)

Les nouveaux réalistes: Davide Gatto

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L’onda ti ha preso e ora tu sei morto

di

Davide Gatto

 

L’onda è invisibile, l’onda uccide, è disciolta nell’aria e nessun ostacolo la può fermare, passa con gli spifferi sotto porte e finestre, penetra impercettibile tra le particelle dei materiali più duri, l’onda vola invisibile e si insinua dappertutto, è nelle case, è negli uffici, scorre da un’antenna all’altra e dentro i cavi, hanno inventato l’onda per ucciderci.

Dicevano che era iniziata più o meno così, un tizio o una tizia che la mattina presto stava percorrendo lo stesso scampolo di tragitto a piedi che la sera precedente aveva percorso di ritorno dal lavoro – un impiegato di banca o una giornalista, una giovane regista o un elettricista-antennista, le versioni erano contrastanti – aveva intravisto da lontano sull’asfalto nero una specie di riquadro più chiaro, poteva sembrare la tipica rasoiata di luce del primo sole quando si getta pancia a terra sotto le fronde degli alberi, ma il colore diventava passo dopo passo più bianco che luminescente, il pensiero intanto faceva a gara con lo sguardo per arrivare primo a decifrare l’arcano, Avranno segnalato con una mano di pittura l’area di scavo per gli operai dell’acquedotto? Oppure si tratta di una nuova segnaletica orizzontale, per una pista ciclabile per esempio, o per un itinerario turistico?, ma mentre la mente passava in rassegna tutte le ipotesi verosimili di questo mondo erano stati gli occhi spalancati per lo stupore a riconoscere nel riquadro un cartiglio perfettamente squadrato di parole scritte con la vernice bianca, le lettere erano in maiuscoletto e sembravano quasi stampate sulla lavagna nera del marciapiedi, ora che il tizio o la tizia si era avvicinato abbastanza poteva leggere nitidamente l’ultima riga e il suo folle contenuto, Hanno inventato l’onda per ucciderci.

Non c’era tempo di fermarsi in quel momento della giornata, le strade cominciavano a affollarsi di traffico e di persone che in pochi minuti sarebbero scivolati dentro l’imbuto di qualche passaggio obbligato e avrebbero bloccato tutto, certo non si poteva arrivare in ritardo a timbrare il cartellino o all’appuntamento programmato ma quell’avvertimento stampato su un vialetto pedonale di grande transito come fosse la pagina di un libro meritava comunque una piccola sosta, sparuti capannelli dunque continuamente si facevano e si disfacevano dopo quel primo tizio o quella prima tizia, accigliate e frettolose le persone leggevano, si lanciavano l’un con l’altra ammiccamenti di compatimento e di sollievo per non essere loro come quello squinternato là, mentre già riprendevano di slancio la loro rotta feriale ordinaria si concedevano il veleno di qualche battuta che quasi sempre però si perdeva solitaria nell’aria, Bisogna proprio non avere un cazzo da fare e da pensare, Lo manderei dove so io questo scemo, così vede se è l’onda o sono le bombe di quei terroristi là a uccidere, Hanno voluto chiudere i manicomi ed ecco cosa succede, fortuna che questo usa il pennello e le parole invece di un coltellaccio da macellaio, da quello che si racconta e dai successivi sviluppi della vicenda appare chiaro che tra i molti che ebbero la ventura quella mattina di assistere in prima persona a quell’evento dovette esserci qualcuno meno istintivo e più avveduto che tirò fuori lo smartphone e scattò tre quattro fotografie, aveva pensato forse che l’Amministrazione avrebbe fatto cancellare quelle parole e lui voleva invece rileggerle e rifletterci meglio, più probabilmente voleva intestarsi lo scoop su tutti i social e magari anche su qualche giornale, fatto sta che notizia e iscrizione cominciarono a circolare di bocca in bocca e di display in display fino a penetrare in ogni casa e in ogni coscienza, è così a volte che avvenimenti che neppure meriterebbero un trafiletto sul giornalino della scuola media curiosamente scatenano vere e proprie indagini collettive.

Il solito nemico del progresso e per giunta complottista!, è nell’ordine delle cose che quando ci si interroga su qualcosa deve sempre spuntare fuori un saputello che sale in cattedra e impartisce la lezione, pare dunque che anche in questo caso uno studente fuori corso di ingegneria che faceva nome Tommaso e che si aggirava con il cappello e l’impermeabile alla Heisenberg sulle stesse tratte dei pensionati avesse preso a catechizzare tutti i derelitti che incontrava, Ma per favore, ma quale onda assassina!, avete idea di quante persone si sono salvate grazie alle onde di una TAC o di una PET?, avesse saputo prima questo Tommaso quello che si sarebbe saputo solo qualche giorno più tardi sarebbe stato forse più prudente nell’affrontare la questione, e invece sferragliava spedito e tutto soddisfatto lungo i binari delle sue certezze, Non avremmo TV né radio senza le onde elettromagnetiche, non avremmo il cellulare e il computer, e neppure i radar e il forno a microonde, e dopo aver dichiarato scandendo e sillabando che l’autore di quell’insulto scritto al decoro della città e all’intelligenza umana non poteva che essere un I-GNO-RAN-TE, molto teatralmente puntava il dito e gli occhi verso il sole finalmente un po’ stanco di ottobre e licenziava la sua classe improvvisata, Anche il sole ci riscalda con le onde elettromagnetiche, forse qualcuno sta cercando di ucciderci fin dalla notte dei tempi anche con il sole?

Non sarà stato magari un mostro di simpatia questo Tommaso con tutte le arie che si dava, che anzi si diceva che anche i vecchi più sgangherati quando lo vedevano arrivare tiravano su le loro quattro ossa dalla panchina e biascicando bestemmie cercavano di allontanarsi, ma diceva cose così vere e così sperimentate da tutti che alla fine in città ogni bocca non faceva che ripetere sulla questione i suoi stessi argomenti, Ca chistu è scemo, a me con l’onda mi hanno visto una pietra accussì nel rene e con l’onda l’hanno fatta polvere polvere, e di rinforzo forse un altro compare di acciacchi e di panchina che se ne stava tutto curvo e con il sorriso beffardo a scrollare lo schermo del cellulare – non avesse parlato poteva sembrare uno di quei ghignanti mostriciattoli scolpiti della chiesa cattedrale -, Ma va in mona lu’ e l’altre ‘gnoranti com’a lu’, che qui con l’onde ghel disen chiaro chi l’ha ‘niziata la gherra e chi se defende, cossa gh’è giusto e cossa gh’è sbagliato, non c’era storia dunque e poteva sembrare che la partita in qualche modo aperta da quel messaggio d’allerta graffito sul marciapiedi fosse già chiusa, non fosse stato per le notizie che avevano cominciato a circolare sull’identità dell’anonimo graffitaro, girava voce infatti che parole e concetti come quelli che a vernice bianca si erano trovati stampigliati davanti agli occhi ancora assonnati i lavoratori più mattinieri da un pezzo venivano ripetuti a cantilena da un giovane che sporco e trasandato bazzicava la zona del parco, se ne parlava diffusamente pare ma con un misto di rispetto e di commiserazione perché quel giovane era molto conosciuto, aveva avuto innanzi spianata la strada dell’università ed era dunque tutt’altro che ‘gnorante o I-GNO-RAN-TE.

 

Si sentiva dire che a passeggiare per i viottoli del parco poteva capitare di vederlo uscire dalla cortina di fronde pendule del grande carrubo con la risoluzione di un messaggero che avesse finalmente intravisto il destinatario designato, la persona in questione naturalmente si spaventava a vederlo avvicinarsi con il bianco degli occhi che scoppiava fuori da un casco folto e riccio di capelli che sembrava Caparezza o Lenny Kravitz, impietrito non poteva fare altro che ascoltare con le avvisaglie di un sudore freddo sulla fronte e una corrente sottile lungo la schiena il messaggio che suo malgrado gli veniva recapitato, L’onda è invisibile e ci mette niente a entrarti nel cervello e a spappolarlo, come poteva non sentire uno strazio senza rimedio chi a un certo punto lo aveva riconosciuto e constatava che brutta fine stava facendo quel ragazzo studioso e di assai belle speranze?, non c’era voluto poi molto a quanto pare perché diventasse di pubblico dominio la nomea di piccolo genio che fin dalle elementari si era guadagnato, sempre tra i primi della classe, massimo dei voti alla maturità e poi messo sotto l’ala del famoso prof. all’università, era proprio vero che a studiare troppo si finiva per sbarellare, il brillante dottor Alberti matematizzava gli enigmi più sfuggenti della natura e ora eccolo lì, a spaventare a morte il malcapitato di turno con quegli occhi sbarrati di un pazzo, L’onda ti ha preso e ti ha ucciso, l’onda ti ha preso e ora tu sei morto.

Colpiva in particolare nel racconto che circolava che il dott. prof. Alberti si era occupato con successo nel suo ateneo proprio di fisica delle particelle e di meccanica quantistica, spiegava chi un po’ se ne intendeva che erano queste le discipline che più avevano a che fare con le onde incriminate e così dicendo aveva probabilmente fatto venire a qualche sfaccendato il capriccio di andare al parco e di sentire con le sue orecchie quante e quali fesserie potessero uscire dalla bocca di uno altrimenti destinato a guardarti dall’alto in basso e a dire l’ultima parola su ogni questione, sembra però che neppure nell’ampio spazio circolare chiuso come una casamatta dalle foglie e dai rami del carrubo centenario ci fosse la minima traccia del giovane fisico impazzito e del suo presunto bivacco, chi era andato alla caccia aveva piuttosto incontrato molti che tra le panchine e al chiosco dei gelati non la finivano più di riferire dettagli e parole deliranti che però anche a loro stessi erano stati riferiti, partiti dunque con un ghignetto di scherno prestampato sulla faccia se ne erano tornati con un discreto bagaglio di aneddoti secondari e con una certa inquietudine nel cuore, si era venuto a sapere allora che l’esperto di onde non a caso si era rifugiato nel bunker vegetale del carrubo e si era fatto crescere intorno alla testa una zazzera corrispondente, che aveva fissato con la sua leggendaria precisione di calcolo la distanza di sicurezza da antenne e da ripetitori, che usciva a volte urlando come un forsennato e con i suoi stracci da spaventapasseri al vento per allontanare gente al telefono o con il tablet sottobraccio, che forse alla fine aveva abbandonato la sua postazione magica nel parco per rifugiarsi dentro i più sicuri cunicoli sotterranei delle fogne o, a fantasticare un po’ più in largo, in qualche profonda grotta sotto le montagne.

Sì, va bene, ma cosa l’ha fatto impazzire?, quello era uno scienziato delle onde e forse ha scoperto cose che noi gente semplice neppure riusciamo a immaginare, chi invitava alla riflessione l’andirivieni pigro ma in realtà molto ben disposto di avventori nel suo locale pare fosse una certa Mary che attirava ogni giorno nell’Antico forno sciami di uomini e donne, gli uni con la sua bellezza procace di pasta bel lievitata, le altre per la sua testa fina e per il suo punto di vista sempre originale, di lei si diceva che nel tempo libero dipingeva tele con un unico soggetto, dalla superficie piatta degli squallidi casermoni popolari dove abitava faceva partire con i suoi pennelli strade che di notte si snodavano all’insù tra stelle vicine e galassie lontane, ebbene questa Mary aveva dato la stura a commenti e sentimenti che forse se ne stavano ammucciati per la soggezione davanti all’impermeabile di Heisenberg ma che il buon profumo del pane e il tepore del forno contribuivano a liberare, A me il pensiero che ci sono ‘ste cose nell’aria che passano attraverso i vestiti e la pelle e entrano nel corpo e nel cervello mette proprio i brividi, diceva forse un sessantenne ancora prestante per fare colpo sulla bella fornaia, parlava magari con gli occhi involontariamente incollati ai capezzoli sfrontati di lei questo tizio mentre lei con i suoi bucava le sue pupille e scendeva in profondità, avesse saputo il sessantenne cosa lei aveva visto là in fondo se ne sarebbe scappato faccia a terra per la vergogna e non si sarebbe fatto vedere mai più.

Incoraggiati dunque da tutte le buone cose semplici che si offrivano là dentro ai sensi con tutta la loro consistenza – le pesanti volte di tufo che comprimevano all’altezza delle narici il profumo della focaccia con le cipolle e del pane caldo, la confidenza e le braccia nude e morbide della giovane femmina al bancone -, donne pensionati e persino qualche lavoratore di passaggio sembravano aspettare solo il momento di passare dall’Antico forno per dare sfogo alle loro paure irrazionali, chissà come qualcuno di cui con il passaparola si era smarrita l’identità pare che una volta avesse raccontato un incubo ricorrente di quando era bambino, Giravo di sera per queste strade e non c’era nessuno, poi ho visto dietro di me una luce che mi seguiva sul marciapiedi e non proveniva da nessuna parte, io correvo e lei dietro, e ancora più forte correvo con il cuore in gola perché sapevo che nessun muro o nascondiglio l’avrebbe fermata, da un racconto così che come avrebbe insegnato Tommaso “Heisenberg” una connessione evidente con l’onda ce l’aveva potevano scatenarsi catene associative davvero imprevedibili, È brutto quel ripetitore e mi fa paura, tutte quelle antenne tonde e biancastre sembrano tante zecche sul pelo di un randagio, Là fuori è pieno di cose schifose che ci vogliono entrare dentro, ci sono microbi, virus, batteri, e l’altra sera ho visto in TV che a un esploratore in Africa mentre dormiva sono entrati degli scarafaggi nell’orecchio per farci il nido, insomma sotto gli occhi di Mary attenti ma anche a tratti persi forse nelle lontananze di quelle sue strade stellari sopra i tetti avventori stabili e occasionali potevano avere l’impressione che l’introvabile dottor Alberti con tutta la sua pazzia non doveva essere stato in partenza granché diverso da come erano loro.

Era accaduto poi a qualche giorno di distanza dal rinvenimento del primo cartiglio pennellato a stampa sull’asfalto che proprio davanti al ripetitore e non molto lontano dall’Antico forno comparisse un secondo riquadro scritto, l’uno e l’altro sembravano a questo punto due capitoli dello stesso libro come chiunque poteva verificare confrontando tratto grafico, tema e ossessione psicotica dell’autore, stranamente infatti l’Amministrazione di solito efficiente non aveva ancora provveduto a mandare i suoi operai e a fare cancellare quella prima bruttura, oltretutto questa seconda iscrizione a pennello aveva tipica del capitolo di un libro anche la progressione e una più precisa messa a fuoco del contenuto che nel caso specifico finì però per spiazzare tanto Tommaso “Heisenberg” e i suoi seguaci quanto la cricca sempre più compiacente che si incontrava nella panetteria di Mary, L’onda entra nel cervello e lo svuota dei suoi pensieri, l’onda cancella  e poi subito riscrive, e non smette mai di parlare e di dettare l’onda, non lascia nel cervello interlinee, margini o spazi bianchi, l’onda ripete, e ripete, e ripete cosa è giusto e cosa è sbagliato, se ti raggiungono con l’onda tu non ci sei più, certo si sentiva dire che erano le parole di uno che aveva sbiellato e non si poteva pretendere che una persona normale capisse bene come virus e batteri potessero scrivere nel cervello cos’era giusto e cos’era sbagliato, almeno però era chiaro ed evidente che il fantomatico dottor Alberti non ce l’aveva affatto né con la luce del sole né con la radioterapia.

Raccontavano piuttosto che già dalla mattina del ritrovamento chi era entrato al solito nell’Antico forno come si va alla messa o a quelle sedute di alcolisti anonimi che si vedono in televisione aveva subito percepito una nota stonata, la fidata Mary che aveva fino ad allora presenziato silenziosa e comprensiva al rito della confidenza e della complicità era diventata di punto in bianco molto loquace e aveva negli occhi la luce brillante di chi ha appena fatto un’importante scoperta, ora una ora l’altra avevano ripreso con la consueta spontaneità il filo sospeso delle chiacchiere sulle proprie e sulle altrui ossessioni a commento dell’impresa del graffitaro pazzo, Bella mi’, dammi mezza pagnotta, ma lo sai quanto sapone e quanto disinfettante stiamo usando a casa?, e di rincalzo magari l’altra che aveva chiesto un panzerottino per il nipote che teneva per mano e che per conto suo non staccava gli occhi dal cellulare, nonna e bambino quasi irriconoscibili dietro grandi mascherine che li facevano sembrare rapinatori per scherzo o turisti giapponesi, L’aria è piena di germi, noi quasi quasi neanche a casa ci togliamo la mascherina, ma Mary stavolta era impaziente, diceva Sì, sì, insaccava e faceva il prezzo, Sei euro, ecco il resto, tagliava un trancio di pizza e dava l’impressione di non ascoltare e di avere anzi lei qualcosa da dire, in capo a quella sola giornata si era resa così antipatica che a quanto pare un signore maturo che vestiva jeans e felpa come un diciottenne si era messo a raccontare proprio fuori dal forno come cosa certa di un incubo che perseguitava la bella fornaia e non la faceva dormire, Appena si addormenta si vede nel letto nuda con tanti serpenti intorno che bussano a tutte le sue porte…, se mi avete capito…, e intanto faceva una smorfia eloquente con tutta la faccia, niente di strano che questo bel soggetto e il sessantenne arrapato di cui è stato detto sopra fossero la stessa persona.

Carpendo dunque brandelli di testimonianze di chi era entrato e uscito dall’Antico forno si era potuto ricostruire che la Mary quel giorno era stata tutta una catena di distinguo e di obiezioni, Ma non è dello sporco che dobbiamo avere paura, ci hanno inculcato questa paura dello sporco e tra un po’ vivremo dentro piccole cellette sterili di metallo tutte uguali e separate, bombardati notte e giorno dalle immagini e dalle voci della TV, e intanto sembrava ci provasse un gusto speciale a servire senza guanti brioches e focaccine, ad aprire sacchetti con uno schiocco secco e con le dita unte, Il lievito è fatto di animaletti piccolissimi, guarda quante cose buone facciamo con il lievito, ma come ci difenderemo dalle cose sempre uguali che tutti sentono e tutti ripetono?, non c’è bisogno di dire che il popolino vario che volentieri indugiava sotto la volta familiare e protettiva del locale si era fatto di colpo più freddo e più sbrigativo, tradita in particolare nelle sue aspettative e quindi più propensa al rancore e alla vendetta si era rivelata la clientela maschile dell’Antico forno quando Mary aveva attaccato a raccontare un film americano degli anni Cinquanta, abitualmente gli uomini quando lei si girava verso gli scaffali del pane le palpavano con gli occhi il culo e le cosce, nell’andirivieni che la stoffa leggera del vestito faceva su quelle curve da capogiro sognavano l’intera gamma delle pratiche hot e hard che avevano visto su questo e quello schermo, che avevano letto su questo e quel giornale, era stato dunque come una secchiata d’acqua ghiacciata nel pieno montare dell’eccitazione venire a scoprire che invece lei, la fornaia superaccessoriata, la sera sul divano amava guardare pellicole in bianco e nero di complicati film d’autore.

Ma questa è proprio strana, si è messa a parlare marziano come quello dell’onda, Va là, bestiùn, fa’ due più due, fa’ due più due, che la seconda scrittura l’ha trovata lei per prima fuori dal suo forno e poi sogna i serpenti che le van su per i buchi, mentre dunque montavano queste chiacchiere di frustrazione si vociferava che Mary a più riprese aveva raccontato in quattro e quattr’otto la trama di questo film, in un paese qualsiasi che poteva anche essere il loro a un certo punto un figlio non riconosceva più la madre, la moglie il marito e viceversa, le fattezze erano le stesse, i comportamenti esteriori anche, ma era come se la persona dentro fosse stata sostituita, si era poi scoperto che in ogni casa erano stati nascosti enormi baccelli ciascuno con la copia esatta di un membro della famiglia, la sostituzione era del tutto indolore e avveniva senza violenza né costrizione, bastava solo attendere che la persona si addormentasse e l’originale scompariva per lasciare posto alla sua copia incolore, anzi garantivano amici e familiari già cancellati e poi subito riscritti ai due protagonisti che strenuamente si opponevano che la vita dopo sarebbe stata finalmente felice, senza discordie, ansie e sfibranti emozioni, non tralasciava la bella mugnaia di rimarcare con una nota di commento qualche passaggio del suo racconto, Tolto il pensiero impastato delle emozioni uniche di ciascuno di noi, cosa resta di noi, cosa resta della vita?, e a dimostrazione riferiva del tentativo fallito dei due personaggi di fuggire confondendosi con gli altri e simulando il loro stesso distacco, era bastato che un cane venisse investito in mezzo alla strada per fare urlare la ragazza di raccapriccio e per farli scoprire, chiudeva infine la Mary allargando le braccia e con un sorriso sghembo di intesa che a quanto pare non venne raccolto, E dove mai potevano cercare scampo quei due fuggiaschi solitari se non in fondo a una miniera abbandonata?

Ma la gente a questo punto non la seguiva più, avevano continuato per un po’ le donne e altra clientela varia a scambiarsi informazioni scabrose e confidenze personali sugli assalti quotidiani di vermetti invisibili e altri microorganismi alle profondità più nascoste del corpo prima di tornare ai convenzionali pettegolezzi di corna e di spettacolo, avevano continuato anche sessuomani e guardoni a fingersi interessati a qualunque discorso venisse fatto là dentro pur di poggiare gli occhi su quelle forme da cui le mani erano interdette, ma di fatto ai loro occhi la Mary aveva come varcato una porta invisibile e era entrata in un’altra dimensione, era stata liquidata con un’alzata di spalle e con qualche occhiata di compatimento anche la notizia della terza ed ultima iscrizione del dottor Alberti o – chissà – della stessa Mary sotto mentite spoglie, il terzo e definitivo capitolo di quel libro sull’onda che come tutti i libri strampalati era destinato al macero era stato vergato questa volta nientemeno che davanti al portone settecentesco del Palazzo di Città, Quando non vedrete più le mie parole scritte su un marciapiedi, quando io non ci sarò più e nessun altro avrà preso il mio posto, sappiate che ormai l’onda vi avrà preso tutti, quando nessuno più parlerà dell’onda, non ci sarà più altro che l’onda, tanto estranea agli interessi della gente era ormai tutta questa faccenda dell’onda che come un rivolo secondario che presto va spegnersi nell’aridume di qualche campo si era diffusa la leggenda che la Mary si era innamorata di un amore malato e anche lei non ci stava più con la testa, ci creda pure chi vuole ma per un certo tempo si era sentito raccontare che la bella fornaia saliva ogni notte sul tetto del suo casermone e si incamminava veloce lungo una delle vie siderali dei suoi stessi dipinti, lontana davanti a lei nella controluce delle stelle si intravedeva la sagoma di uno spaventapasseri con un elmetto di capelli africani in testa e i lembi della camicia fluttuanti come tentacoli a perlustrare la materia oscura del firmamento.