di Rinaldo Censi
Ciò che colpisce a prima vista, ciò che emerge dai film di John Gianvito, prende piede quasi inconsciamente: possiede qualcosa di anodino e insieme cruciale. Si tratta di una certa “gattità”. Numerosi i gatti all’interno dei suoi film. Tanto che ci chiediamo se non ci sia qualcosa di felino nel suo fare cinema. Un gatto alla finestra, un gatto che buca l’inquadratura con il suo passo sonnolento ma preciso, un gatto che inaspettatamente balza, scatta preciso. C’è un gatto in noi? Gianvito burroughsiano? Potremmo fare sua questa riflessione che riprendiamo dal libricino aureo scritto da zio Bill: «Il gatto non offre servigi. Il gatto offre se stesso. Naturalmente vuole cura e un tetto. Non si compra l’amore con niente. Come tutte le creature pure, i gatti sono pratici. Per capire una questione antica, bisogna riportarla al presente». (W. Burroughs, Il gatto in noi, Adelphi, Milano, 1994, p. 18) Alcune di queste righe si addicono al nostro cineasta americano.

di






[ecco un bel libro di critica musicale. Io normalmente non li sopporto, tutti presi a parlare delle parole delle canzoni, dimentichi che una canzone è soprattutto la sua melodia, le scelte sonore, ritimiche, armoniche, gli arrangiamenti, gli esecutori, etc. ché magari ricordiamo pure un verso di una canzone, ma se ce lo ricordiamo è perché lo sappiamo cantare (abbiamo finto di masticare l’inglese per decenni, senza sapere cosa dicevamo, ma che cosa cantavamo ne siamo certi). Tra l’altro io non amo Mogol, il Battisti che preferisco è