
di Francesca Matteoni
*
La notte la strada si azzittisce. Le case sono giganti in attesa, spiano i lampioni dalle fessure delle serrande. Siedo sugli scalini del portone, aspettando che il gatto rientri dalle sue esplorazioni. Passano poche auto, non ci sono echi dalla via che dalla piazza centrale corre verso l’Appennino, le montagne punteggiate di villaggi, stelle deboli sull’orizzonte irregolare. Dagli alberi e dal campanile qualche grido di rapace notturno, piume, pellicce arruffate sotto i cespugli quando la civetta afferra il topo campagnolo. Dagli orti, dai muriccioli di cinta saltano fuori i gatti, dalla siepe la corazza argentata del riccio, dal campo oltre le reti l’umidità, le lumache, qualche rospo rigettato dai fossi, ogni tanto un animale del bosco, un capriolo disorientato sceso in cerca di cibo, le serpi cieche, sguiscianti, l’orbettino massacrato in gruppo, una sera di maggio da ragazzi, ognuno un sasso, un colpo, per un rituale rabbioso, per gioco, per pentimento poi, nel sonno. Nel buio il corpo è olfatto e udito – quasi tutte le presenze percepite sono le zolle smosse, il taglio dell’erba, polvere d’asfalto, l’acqua che ristagna dopo una pioggia, globi collosi di terra – strepiti, rimescolio di foglie, sbattere di frasche, miagolii, latrati sempre più rari e distanti, che fanno il vento e perfino i pensieri. Tutto è senza parole. Le vite sono rumore da sbrogliare nell’oscurità. Nessuno è solo. Non saprei immaginare un mondo senza animali.