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“eppur si muore”

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di
Sergio Bologna
Io non credo che interventi legislativi o misure organizzative (come ad es. la creazione di un pool di magistrati specializzato) possano produrre effetti di una qualche rilevanza nella lotta agli incidenti mortali sul lavoro. Com’è possibile prescrivere una terapia quando non si conoscono le condizioni del paziente? Posso peccare di presunzione, ma sono quasi certo che le istituzioni non hanno presente la mappa del mercato del lavoro in Italia, nemmeno a grandi linee. E quindi non hanno la più pallida idea della mappa del rischio. Cominciamo da un dato: il differenziale di circa 2,4 punti percentuali tra l’incidenza dei morti sul lavoro in Italia rispetto al resto dell’Europa è dovuto al fatto che da noi si muore “in itinere”, cioè mentre ci si sposta per lavoro o per andare o tornare dal luogo di lavoro. Quindi “il luogo” di lavoro di per sé, concepito come luogo fisico, non sarebbe più rischioso in Italia di quanto sia quello di altri Paesi europei. E’ lo spazio della mobilità quello più rischioso. Perché?

Discoterra/Musico/Bombarderia 2# e fine

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di Silvia Salvagnini

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ci sono baci che non si conoscono
che non si affondano che navigano
volano tuonano baci che non si sanno
che hanno ridanno in questo
scambievole scarico di scivoli:
altalene scivoli altalene.
e quando non mi conosci
che mi perfori divori fori.

*

La mossa di Tito

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Sono quello che sono
di
Azra Nuhefendić

Visto che uno dei candidati alla presidenza degli Stati Uniti, Barak Ehud Obama, è stato accusato di essere musulmano [v. “The Sunday Times” -Culture International, 16 dicembre 2007], che alcuni musulmani nell’Italia settentrionale furono detenuti avendo pregato in pubblico, ho deciso che la cosa migliore per me sia di ammettere: va bene, anch’io sono una musulmana.

Come mai mi è successa una cosa del genere? E perché è capitato proprio a me? Di solito, come nei casi di malattie gravi o di tradimenti sentimentali, sono stati altri ad accorgersene per primi.

che lega, ancora

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di Serena Granatelli

Si siede il doppio
riporto la toppa
di un’anticamera
[disidratata]
e scanzo allo scoperto
un sogno di vergogna;
ho tradito il dato
bruto al confronto
diretto ti ho dato
di petto il mio buco
telato, svelato sul ciglio
da un fanatico compositore.

Idillio Forsennato: Arno Schmidt

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arno-schimdt-ii.jpg di Stefano Zangrando

C’è una poesia di Günter Eich, poeta e drammaturgo tedesco tra i fondatori del Gruppo 47, che è considerata emblematica dell’istanza rifondatrice del linguaggio poetico della Trümmerliteratur, la «letteratura delle macerie» che si sviluppò in Germania nell’immediato dopoguerra. S’intitola Inventario e comincia così: «Questo è il mio berretto, / questo è il mio cappotto / qui la mia roba per fare la barba / nella borsa di lino». In una lingua semplice e scevra da patetismi, soltanto nominando i pochi resti personali, l’io lirico del soldato prigioniero ritesse le fila della propria esistenza nel mondo, fino a riaffermare la propria identità poetica: «La mina della matita / è ciò che amo di più: / di giorno mi scrive i versi / che ho pensato di notte».

Titoli

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veronese.jpg di Sergio Garufi

Non so se esiste una storia dei titoli in arte e letteratura. Una trattazione breve ma abbastanza esaustiva riguardo ai libri l’ha fatta Gerard Genette in Soglie. I dintorni del testo, partendo dagli interminabili titoli barocchi per arrivare fino alla brusca concisione di quelli novecenteschi, ed elencandone le funzioni principali (identificazione dell’opera, designazione del contenuto, valorizzazione). Umberto Eco, nelle Postille al suo primo romanzo, spiegava la genesi di quel titolo, di cui fu corresponsabile – come accade spesso – il suo editore. Vennero rifiutati titoli troppo neutri, che prendevano a prestito il nome del protagonista, come Adso da Melk (il preferito dall’autore); o titoli più banali, come L’Abbazia del delitto, che lo faceva somigliare a un giallo di serie B. La scelta finale fu azzeccata, Il nome della rosa è una chiave di lettura appropriata, per le valenze nominaliste a cui rimanda l’esametro latino finale e perché resta sufficientemente vago da non precludere ulteriori percorsi ermeneutici.

L’uomo della frontiera

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(Anticipazione da «Sud» 11)

di Giovanni Fazzini

L’uomo della frontiera inteso come uomo libero, indipendente, padrone dei grandi spazi non ci interessa. È qualcosa che appartiene al mito e nemmeno il mito ci interessa. Ci preme, piuttosto, delineare quelle dinamiche che hanno fatto della frontiera un laboratorio del domani, cercando di individuare le linee di un processo sostanzialmente cieco o, comunque, ben lontano da ricostruzioni consolatorie.

Le santissime parole di Ascanio Celestini (prima parte)

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Qualche giorno fa, in una conversazione con Sergio Bologna gli ho chiesto se avesse visto il film documentario di Ascanio Celestini, Parole sante. E gli ho anche detto che secondo me lo si poteva considerare per una serie di motivi che proverò a formulare, la traduzione in immagine, in movimento di molte delle riflessioni che hanno animato quella straordinaria scuola di pensiero politico e sociale che è stata l’operaismo, e per certi versi determinate analisi del mondo attuale scaturite da quelle tesi. Insomma, gli ho detto: ” Sergio, devi assolutamente vedere Parole Sante“.

La mia tesi è che Ascanio Celestini, tra tutti gli autori che in Italia si sono occupati di lavoro precario- e a loro va comunque riconosciuto il merito di essersi rivolti a quei cambiamenti- è riuscito a “raccontare” più che semplicemente descrivere o croniquer le mille trappole del lavoro precario e lo ha fatto da una prospettiva distante anni luce dal miserabilismo e dalla compiacente mortificazione delle persone asservite all’ideologia del “posto fisso” secondo una logica e visione dei sindacati “attuali” in Italia. La storia di Parole sante, del resto, non è una storia di parole, ma di esperienze. E per osservare un’esperienza bisogna mettere le facce di chi l’esperienza la fa, soprattutto sulla propria pelle. E non smette di sorridere nemmeno quando è nel pieno della battaglia.

Innanzitutto cos’è l’operaismo?
Scrive Mario Tronti*

Variazioni Meridiano – 4: Stefano Guglielmin

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omaggio al meridiano

Respiro, il che significa direzione e destino. Mi si chiede perché scrivo, ed io rispondo, con Celan: perché respiro. Dico: respiro, e scrivo. Scrivo del verso che si contrae e si dilata, del verso-mantice che dà fiato al mio “20 gennaio”. Così facendo, il verso lo traduce in canto, muta quel tragico giorno in direzione e destino. E tuttavia nel canto, nel mio canto, direzione è destino. Per me scrivere è andare incontro, andare verso, tornare. Verso, ossia volgere, girarsi, così che andare lungo la direzione sia, anche, tornare nei pressi di dov’ero già stato. E, da qui, parlare. Fato ha la medesima etimologia; phatos: detto, sentenza, oracolo. E sorte: annodare, legare insieme. Dico: respiro, e annodo la lingua al presente, indicando una direzione, facendo il verso alla direzione. Guardo indietro, come l’angelo di Klee. Riconosco nelle macerie il mio destino. Inorridisco, in loro vedo intero il mio 20 gennaio, la mia “soluzione finale”. Eppure destino è bifronte. Il futuro è già qui, aperto. Direzione è destino nell’aperto della lingua.

Lo scultore

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arrabal-foto.jpgdi Fernando Arrabal

Che fai, scultore, perduto nelle gallerie d’arte?
Ti faranno marcire, sarai castrato, digerito.
Barbaro e analfabeta, se non stai all’erta
ti trasformeranno in un cittadino illustre.
Ieri hanno esposto Van Gogh,
l’altro ieri pubblicato Rimbaud, la sera
messo in scena Artaud,
oggi è il tuo turno.

La Biblioteca di Poesia a Milano

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Alla CASA DELLA POESIA, Palazzina Liberty, Largo Marinai d’Italia, Milano
Giovedì 6 marzo ore 21

Presentazione dei quattro volumi della “Biblioteca della poesia” diretta da Massimo Rizzante: Jan Skácel, Haroldo De Campos, Tadeusz Rózewicz, José Ángel Valente

La collana “Biblioteca di Poesia” della casa editrice Metauro di Pesaro intende presentare al lettore importanti poeti contemporanei di cui non esiste in Italia un’antologia di alto profilo.
Intervengono Antonella Anedda, Giuliano Mesa, Massimo Rizzante.

A cura di Andrea Inglese

L’uomo comune: viaggio in Palestina

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di Francesca Matteoni
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(Giangiacomo Degli Esposti è un ragazzo pistoiese di 33 anni. Fa l’ educatore in un centro socio-educativo gestito dalla cooperativa Pantagruel di Pistoia in un quartiere popolare con forte presenza di immigrati. Al polso porta vari braccialetti, di filo, cuoio, perline: ogni braccialetto è un luogo che ha visitato, un paese che porta con sé come un affetto, una persona. Paesi europei, ma soprattutto il nord ed il sud del Chiapas, dove è stato tramite associazioni non governative come osservatore internazionale; il Guatemala, esplorato autonomamente girando in autobus, ancora il Messico. Nell’agosto del 2006 si è recato in Palestina: al suo ritorno abbiamo trascorso un’intera serata (e mezza nottata) a vedere fotografie, a parlare, a ritornare su certe immagini. La Palestina entra nelle nostre case con cadenza più o meno quotidiana. Siamo talmente abituati, anestetizzati dai media riguardo l’esistenza di un conflitto arabo-israeliano, da rischiare di perdere il senso di realtà su quanto succede. Ma quando a raccontare l’evidenza è un amico, qualcuno che appartiene alla nostra storia personale, un comune occidentale proprio come noi, verità ed ignoranza si fanno consistenti: immagini di carne e sangue nel nostro presente. Per mesi mi sono rimaste impresse alcune fotografie di Giangiacomo: la spazzatura di Hebron, il bambino minuscolo sotto l’occhio del mitra, le catapecchie grigie, di terra inaridita sulle colline, come le case di cartapesta di un presepe di quarant’anni fa. Insieme abbiamo provato a raccontare la sua esperienza, nel modo più lucido e ordinato possibile, così che le parole diventassero anche il mio ricordo, la parte di memoria di qualcuno che non c’era, ma vuole ascoltare, come se vedesse.  f.m.)

Bacheca di marzo 2008

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Spazio aperto alle discussioni e alle segnalazioni.

Da: Sposa del vento

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di Roberto Rossi Testa

III.

Non basta una lezione
a diventar piloti.
Pure dopo una sola
lezione mi fu imposto
di montar su un aereo
e volare da solo
fino ad un promontorio
che si stagliava là
oltre un braccio di mare,
per poi fare ritorno.

Discoterra/Musico/Bombarderia 1#

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di Silvia Salvagnini

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non la sai la storia della gomma?
che se due si danno la gomma
è come se si fossero baciati?
(tò.)
(e io ho la tua gomma nella bocca
leggera bocca nella mia bocca)

*

Ana, dea della morte

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[Ci sono libri come questo che non ha importanza che siano belli o brutti, ma che facciano male. Questo libro mi ha fatto soffrire. L’autore ha deciso di rimanere anonimo perché non cerca una gloria personale, semmai uno sguardo verso un mondo a noi vicino eppure sconosciuto. Ho chiesto a lui e al suo editore, Leonardo Pelo di Noreply, di scrivere due note attorno a questo libro. Ve le porgo. G.B.]
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di Andrea e Leonardo Pelo

Andrea: “E ora? “
Leonardo: “Lo pubblichiamo.”

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Un problema lo riconosci quando ti smuove dentro un insieme di sensazioni talmente aggrovigliate e brucianti da non poter essere digerite a freddo. I problemi sono nervi scoperti, richiedono pazienza, attenzione, riflessione, tempo. Dolore. Dovevo scrivere quanto avevo vissuto e visto.

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parole sconce

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di Gloria Caccia Redig

Questo dolore fermo immobile sfocato
Quasi altro da me sconcio solo mio
Indirizzo subacqueo di male attraversato
Che m’attraversa parte a parte
Rimbalza chiodato e non esce da me
Che sto fuori di me e osservo covo tremo
Ferma sui nidi del passato che non muore.

Un viaggio con Francis Bacon # 5 (13 pictures of an exhibition)

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di Franz Krauspenhaar

1. Mi sveglio alle tre dopo aver sognato di essermi perso in un documentario che parlava di me… A un tratto, un tipo ambiguo che mi offriva delle pillole per dormire accende un grande televisore al plasma nel quale trasmettono un documentario su Bacon; dell’artista nessuna traccia, solo la mia voce off che racconta della sua arte, e la visione di quadri astratti uno più improbabile dell’altro, dai colori pastello, che scorrono uno dopo l’altro a una velocità pazzesca.

Ciak e braccia in croce!

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Watching struggles
di
Sergio Bologna

Mentre l’Italia registrava l’ennesima morte sul lavoro e le lacrime di coccodrillo da sottile rivolo diventavano torrente in piena, io passavo ore a seguire sul video del mio computer di casa le vicende dello sciopero degli sceneggiatori americani. Non è per raccontarlo, meglio di me altri lo hanno fatto, ma per riflettere sulle possibilità della comunicazione oggi che propongo queste considerazioni. Per dire che il soggetto è doppio, noi che seguiamo da lontano e loro che laggiù agiscono e la riflessione va fatta su tutti e due, perché ambedue siamo coinvolti in un processo di trasformazione. Perché ci ho speso del tempo? Perché ormai i comportamenti conflittuali dei “lavoratori della conoscenza” e della “classe creativa” sono diventati il centro della mia riflessione; ritengo questa una delle componenti sociali più dinamiche in tutti i sensi. L’industria dell’entertainment produce più occupati dell’industria dell’auto e le forme lavorative al suo interno sono dominate dalle figure tipiche del lavoro postfordista, intermittente, mobile, intellettuale, pressato dalle nuove tecnologie ecc..

Del disumanarsi – su Marino Magliani

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di Marco Rovelli

Sono felice di aver conosciuto Marino Magliani prima di leggere un suo libro, e di averlo conosciuto nel suo ambiente olandese, nella sua casa nel condominio di IJmuiden, nel suo studio stretto e ingombro, di aver camminato con lui sulle sue spiagge olandesi, tra i bunker in faccia al mare. Così ho potuto riconoscerlo, nel libro che ho letto solo dopo, Quattro giorni per non morire. E ogni cosa, qui, la dico del libro e di Marino insieme, c’è  come una soglia di indifferenza che mi impedisce di distinguere: perchè, in ambedue i casi, il discorso articolato è lo stesso. Un discorso che disumani.

Riflessioni su “La vita degli animali” di J. M. Coetzee e su “Bartleby e compagnia” di E. Vila-Matas

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sir.jpgdi Ornela Vorpsi

The Fullness of being

Il passaggio de La vita degli animali a cui sono più legata è quello in cui si risponde alla domanda: che cosa noi uomini abbiamo in comune con gli animali? Coetzee-Costello propone una risposta sul piano dell’esperienza attraverso una prova allo stesso tempo miracolosa e concreta – la più concreta di tutte – che ci è immediatamente accessibile, tanto che ci basta aprire gli occhi per verificarla: è l’esperienza della vita come pienezza.