di Matteo Ongari
Il momento concordato era l’intervallo tra il primo e il secondo tempo.
Appena l’arbitro fischiava e nello spazio aperto tra la tribuna e il cemento dei gradoni quel fischio diventava un lamento, ci alzavamo.
Scendevamo al bar, quello sotto la tribuna centrale.
Mio padre si faceva un caffè, l’ennesimo, o magari sorseggiava un mignon di Borghetto fumandosi una sigaretta. Io ne approfittavo per fare un salto al bagno.
La domenica, quando ero piccolo, sembrava scorrere secondo un preciso ordine.
Alla mattina mi mettevo a fare i compiti, approfittando del silenzio, del fatto che il mulino finalmente tacesse e i macchinari fossero in riposo. Mia madre rigovernava, mio fratello andava a messa con gli amici, sempre che non accompagnasse mio padre, e quest’ultimo partiva abbastanza presto, prima delle dieci, diretto al mercato.
Mi piaceva la mezza stagione, per lo stadio. Ma anche l’inverno aveva il suo fascino: i terreni pesanti, il fiato solidificato oltre la bocca, gli enormi fari che illuminano il campo già alle quattro, il naso gocciolante, il freddo che si infilava dappertutto e il viaggio di ritorno fatto con le mani arrossate poggiate alle bocchette del riscaldamento, la ventola al massimo e la radio sintonizzata su Ameri e compagnia.




