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Cinque minuti

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di Sabrina Campolongo

Cinque minuti.
Cinque minuti persi, realizzò Davide, sostenendosi con una mano contro lo stipite della porta del bar. Sospeso a fissare il cronografo al suo polso, quasi che chiamando a testimonianza il suo fiato corto e le gambe stanche potesse convincerlo a rettificare la sua posizione.
Ma a nulla sarebbe servito, nemmeno se gli avesse detto che non si era fermato, che non aveva incontrato nessun conoscente nel parco, che non aveva condiviso nemmeno una parte del percorso, nessuna chiacchera, nessun fondoschiena di bella ragazza in calzoncini da ammirare, niente.
Tutto vero e tutto inutile. Si era bevuto cinque minuti.
E non era reduce dall’influenza, e non gli si erano slacciate le stringhe di una scarpa, non aveva perso tempo a cambiare canzone sull’ ipod, niente.
Già poteva vederla, l’espressione di Milena, se di lì a un attimo le avesse detto di essere in ritardo di ben cinque minuti, uno scarto spaventoso sul suo tempo abituale, e di non sapersene dare una ragione.
Perdi i colpi, avrebbero riso gli occhi neri della moglie.
Col cazzo, nemmeno sotto tortura te lo dico, decise.
Però, quei cinque minuti continuavano a battergli in testa come un tarlo, mentre rientrava al bar, come ogni giorno.
“Uèlà, atleta!”, lo salutò il vecchio Giovanni, da dietro la gazzetta e il montenegro. “Come è andata la corsa?”
“Alla grande”, assicurò Davide, cercando di trattenere il rodimento tra i denti esibiti nel sorriso, e intanto notando, con un solo colpo d’occhio, che la gonna di Milena, dietro il bancone, era più corta del solito, e i suoi tacchi più alti, e che, seduto al tavolino in fondo, c’era ancora quel bel ragazzo biondo.
Da quanti giorni veniva lì ogni pomeriggio?, si chiese. Forse una settimana, o anche di più.
“Davide, sei qui con noi?”
Milena lo stava squadrando con una mano puntata sul fianco.
“Scusa?”
“Ti ho chiesto se ti ricordi che oggi pomeriggio ho il colloquio con i professori di Tommi. Ti ricordi o no, che devo andare via prima?”
Colloquio, che colloquio? pensò.
“Sì, come no. Tempo di una doccia e arrivo.”, disse invece.
“Ok, non perderti.”
Giovanni soffiò fuori una risatina, mentre Milena aggiungeva, strizzandogli l’occhio: “È peggio di una donna, quando si chiude in bagno.”
Il vecchio rise più forte.
“Oilà, voi due!”, protestò Davide fiaccamente, con la testa da un’altra parte.
Anche il ragazzo aveva sollevato un angolo delle labbra – ma non gli occhi – dai suoi libri.
E bravi, tutti a prendermi per il culo, si disse Davide, passando nel retro e infilando le scale verso il suo appartamento, ma senza acrimonia, anzi, quasi sollevato dal fatto che lo sfottò non potesse riguardare i cinque minuti che mancavano al suo personale appello.
Quando, poco più tardi, si ritrovò con Milena nel retro, lei che si metteva il cappotto per andare a parlare con i professori del loro figlio quattordicenne, Davide non stava già più pensando alla sua deludente performance sportiva.
Fu tanto per dire, che buttò lì: “Mi sa che il biondino si è preso una cotta per te!”, accompagnando la frase con una strizzata alle natiche ancora sode della moglie.
Milena lo guardò da dietro la spalla, senza scomporsi.
“Ma chi?”
“Eddài, non fare la gnorri. Il ragazzo che ha messo le tende di là, da una settimana.”
La reazione della moglie lo sorprese. Invece di fingersi incredula o mostrarsi invece lusingata, alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
“Certo che voi uomini non capite proprio un cazzo, scusa se te lo dico. Secondo te è per me, che viene?”
“E per chi sennò, per me?”
Milena non rise della battuta. Restò a fissarlo con un sopracciglio alzato per un tempo esclamativo, prima di dire “A dopo” e prendere la porta.
A quel punto, sì, ridacchiando.
È fuori, si disse Davide, rientrando nel bar.
Figurati se.
Ma lo sguardo, inevitabilmente, cadde sul ragazzo, seduto come prima al tavolino in fondo.
Non potè non notare che aveva sollevato gli occhi dai libri, sentendolo rientrare. Ma non vuol dire un cazzo, si disse.
Però ormai il dubbio era insinuato, poco da fare.
Svuotando la lavastoviglie e sistemando i bicchieri, Davide continuò a lanciare occhiate furtive verso lo sconosciuto che da un numero imprecisato ma significativo di giorni veniva a studiare al bar, ogni pomeriggio.
Quanto avrà, vent’anni?, si chiese.
In qualche modo era quello, quel suo essere così esageratamente giovane, che lo lasciava incredulo. Non che non gli fosse già capitato, nella vita, che qualche uomo gli facesse capire, discretamente o meno, di essere interessato a lui. A quale bell’uomo non era mai successo?
E Davide, di essere un bell’uomo lo sapeva.
Di esserlo o di esserlo stato?
Il bicchiere da birra che aveva in mano cozzò violentemente con il bordo del bancone.
“Attento, che sennò la Milena poi te lo mette in conto!” lo redarguì il Giovanni, senza smettere di leggere il giornale.
“Basta che te ti fai i cazzi tuoi, spione.”, gli intimò Davide di rimando, suscitando una risata catarrosa del vecchio cliente abituale. “Dovremmo dire al Giovanni di cambiarsi il maglione, dato che abbiamo preso le tovaglie nuove”, aveva detto, proprio il giorno prima, Milena. Ne avevano riso di gusto, allora, ma in quel momento il ricordo della battuta non riuscì a strappare a Davide nemmeno un pallido sorriso.
Quel pomeriggio, partito con quei cinque persi in allenamento, stava prendendo una brutta piega, rilevò, lanciando un’altra occhiata al frocetto biondo.
Certo che se un ragazzo così giovane, se un ragazzo così bello si era preso una cotta per lui, che poteva quasi essergli padre, non doveva essere ancora da buttar via, come uomo, si disse.
E anche le donne, insomma. Quando passava correndo, tante si giravano ancora a guardarlo.
Rinfrancato da questa riflessione, gli venne la curiosità di vedere meglio quello che, secondo Milena, era il suo ammiratore. Si avvicinò, con la scusa di ritirare il bicchiere vuoto che aveva davanti.
– Ti porto qualcos’altro?
Il ragazzo sollevò la testa riccioluta e gli piantò in faccia due occhi blu denso di curaçao.
– No, la ringrazio. – rispose, abbozzando un sorriso.
Pensare quante ragazze potresti avere, con quel sorriso, gli disse Davide, tra sé, notando come erano carnose e ben disegnate, le sue labbra.
Anche lui era stato così dannatamente desiderabile, a vent’anni?, si domandò. Chissà cosa avevano pensato le donne più grandi, quando le aveva guardate in quel modo lì, chissà se qualche amica di sua madre avevano fantasticato di portarselo a letto.
A un certo punto, il sorriso del ragazzo aveva avuto una specie di fremito e si era congelato. Gli occhi si erano aperti un po’ di più, come se un’ esplosione dall’interno li avesse spalancati a forza.
Davide sentì che gli si asciugava la bocca.
Si chiese per quanto tempo era stato lì a fissarlo. Riscuotendosi, abbassò lo sguardo e si allontanò in fretta, senza trovare niente da dire.
Eccheccazzo, era tutto quello che la mente riusciva a formulare. Così, slegato da ogni causa o effetto.
Confuso, turbato, irritato e desideroso di prendersela con qualcuno, con quel pomeriggio andato a male, con Milena che gli metteva in testa strane idee, con quel ragazzo che pareva un angelo incarnato, con quel ragazzo che era bello come il peccato, infilò a testa bassa la porta del bagno.
“Eccheccazzo”, ripetè, un attimo dopo, guardandosi nello specchio sopra al lavandino, dopo essersi sciacquato la faccia.
Colpa di quei cinque minuti persi chissà dove, chissà come. Da quel punto la giornata era andata storta.
Sei rimasto lì un secolo a lumarlo, sottolineò una vocina interiore, più spaventata che arrabbiata.
E di colpo il ragazzo prese forma, si condensò come un ectoplasma davanti ai suoi occhi, e Davide scoprì che in quel momento avrebbe potuto tranquillamente dipingere il suo ritratto a memoria, per quanto ce l’aveva ben presente. Ricordava persino la forma del bracciale d’argento che il giovane portava al polso.
Si gettò altra acqua fredda sulla faccia. Gli tremavano le mani.
“Davide, che hai? Stronzo, che hai?”, si interrogò, fissando la propria immagine riflessa.
Riprese il controllo del respiro. Tutto bene, era passato. Possono capitare, no, delle giornate strane. Quella fiacchezza nella corsa l’aveva messo in crisi. Ma domani avrebbe recuperato, certo, a costo di farsi scoppiare le coronarie avrebbe ripreso quei fottuti cinque minuti. Forse non stava bene, ecco l’arcano. Sì, di sicuro stava covando qualcosa, era accaldato, magari aveva già qualche linea di febbre.
Rassicurato, tolse la sicura alla porta del bagno. Non stava bene, ecco tutto. Un qualche virus, percezioni alterate. Niente di che, forse lo stress. Prima di uscire dalla porta, stava quasi sorridendo di sé.
Ma lui era lì.
Il ragazzo. Nel disimpegno in penombra. Lo aspettava? L’aveva seguito? Davide sentì che gli si rizzavano i capelli sulla nuca.
– Scusa – mormorò, scansandosi, deciso a non pensarci, a uscire, a tornare di là. In fretta.
Mosse un passo, si fermò, si voltò indietro.
Il ragazzo non si era spostato. Si era solo girato verso di lui e lo guardava.
Fu come cadere.
O perdere i sensi.
Davide lo afferrò alla gola con una mano, e lo spinse con violenza contro le piastrelle azzurre del bagno. Non lo spaventò il tonfo della sua nuca contro la parete, né il fischio del suo respiro fattosi difficoltoso.
Allentò la stretta, ma non lasciò la presa.
A un palmo dal suo viso continuò a fronteggiarlo, preda di un tremito nervoso, infradiciandosi di sudore, per un tempo incongruo. I denti serrati, il fragore del sangue contro i timpani, un’erezione vergognosa dentro i pantaloni.
Il ragazzo non si divincolava, non gridava – avrebbe potuto? – lo guardava e basta, ansante anche lui, ma non impaurito, all’apparenza.
Lo guardava e si lasciava guardare, con quieto interesse.
Finché gli sorrise, spavaldo, inclinando un po’ la testa di lato, a esibire, dietro le labbra schiuse, la provocazione dei denti lucidi, della lingua polposa.
Davide si avventò su di lui.
La mano lasciò la sua gola e ghermì la guancia liscia. Penetrò la sua bocca arresa, succhiò e morse, cercando la dolcezza inammissibile del sangue. Con la lingua, con il petto, con il bacino lo spingeva contro il muro, lo schiacciava a sentirlo tutto, duro e asciutto corpo di statua, mentre le dita volavano ai bottoni dei jeans.
Era stata la visione degli amanti – un uomo e una donna, non giovani, clandestini senz’altro, avvinghiati sui sedili di una macchina parcheggiata fuori mano – quel pomeriggio, mentre correva.
Un senso improvviso di disagio, come un piccolo vuoto d’aria incontrato in volo. La coscienza di non sapere più come ci si sentisse a essere come loro, senza freni, dimentichi di tutto, di non saperlo più nemmeno immaginare.
Quello stupido pensiero molesto si era ancorato alle sue caviglie, fiaccando le sue gambe, non un misterioso virus.
In quel momento, nel bagno con le piastrelle azzurre, mentre si riempiva le mani dei riccioli biondi del ragazzo e lo induceva, senza incontrare resistenza, a inginocchiarsi sul pavimento davanti a lui, Davide se ne ricordò.
Solo per un attimo.
Poi tutto si fuse in un fremito rosso, spaventoso e magnifico, come essere strappati fuori dal proprio guscio e sentire, per la prima volta nella vita, la carezza feroce dell’aria sulla carne nuda.

(Immagine: Lucien Freud – Freddy, 2001)

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