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Autoscuola

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di Franz Krauspenhaar

Gira a sinistra e poi vai a destra, frena,
e avanti bello spedito e all’incrocio
fermati; e poi vai ancora, sali prudente,
e attento, e vai, e spingi, e accelera.

“Gli alberi crescono, nuvole corrono, gli anni in fretta passano.” da Brundibár di Hans Krása

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di Orsola Puecher

“Abbiamo lasciato il campo cantando”

Così scrive Etty Hillesum, “il cuore pulsante della baracca”, nella cartolina che lancia sui binari dal vagone piombato che da Westerbork la porta ad Auschwitz. Con quella sua speciale capacità, propria dei bambini e degli artisti, di trasformare dentro e fuori di sé il male in bene, la tenebra in luce.
 

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Immagine della locandina originale
con il bozzetto della scenografia
di
Frantisek Zelenka.

 
Questa è la storia triste e luminosa della piccola partitura manoscritta di un opera per voci bianche, infilata di fretta dal musicista ebreo Rudolf Freudenfield fra le poche cose necessarie, cibo, qualche vestito, nella valigia preparata per un viaggio incerto, che non s’immagina senza ritorno, ed arrivata fino a noi per testimoniare e ricordare con la forza della musica e della poesia i bambini, più di un milione, e gli artisti che persero la vita ed ogni traccia dei loro stessi corpi fisici nella tragedia dell’Olocausto. Parole di speranza, vita e futuro, che risuonano alte di fronte al vuoto orrore che sarà il loro destino.
 

Atto Primo, Scena VI
da Brundibár Opera in Due Atti
Musica di Hans Krása
Libretto di Adolf Hoffmeister

 
ANNIKA, PEPÍÇEK E TUTTI I BAMBINI

La mamma fa dormir il caro suo tesor
la culla dondola pensando al suo amor.
Poi verrà il giorno
quando il bell’uccellin
se n’andrà, volerà,
lascerà il suo nido.
Gli alberi crescono,
nuvole corrono,
gli anni in fretta passano.
Mammina, guardaci, siamo cresciuti ormai.
Pensa, rammenta i vecchi tempi se vorrai.
Il bagnetto facevam,
nel mastello eravam:
un bambin sì piccin e la sua sorella.
Gli alberi crescono,
nuvole corrono,
gli anni in fretta passano.
La mamma avanti va,
vuota la culla sta,
pensa al futuro quando nonna poi sarà.

 
Nel giugno del 1941 il direttore dell’orfanatrofio ebraico di Praga Otto Freudenfeld festeggia il suo cinquantesimo compleanno invitando alcuni amici, il direttore d’orchestra Rafael Schächter, il compositore Hans Krása, il pianista Gideon Klein, il poeta Erik Saudek, e lo scenografo del Teatro Nazionale Frantisek Zelenka. Si parla molto di Brundibár, l’opera per bambini appena scritta da Krása, che il giovane e promettente compositore ceco aveva presentato senza molte speranze ad un concorso del Ministero dell’Educazione: con l’invasione nazista per gli artisti ebrei era finita quell’integrazione che da secoli ne aveva fatto gli elementi di punta della cultura cecoslovacca, per sua natura così intimamente legata a quella tedesca. Leggi razziali e deportazioni iniziano a decimarne le file. A Schächter, quella sera, viene l’idea di farla rappresentare ai bambini dell’orfanatrofio, ma, deportato dopo poco tempo, egli non farà a tempo a vedere la realizzazione del progetto ad opera del figlio di Freudenfield, Rudolf. Nemmeno Krása deportato nel campo di Terezin nell’agosto del ’42, assisterà alla rappresentazione. Ad uno ad uno gli amici della festa di compleanno ed i bambini stessi dell’orfanatrofio vengono là deportati. Ma proprio grazie alla valigia di Rudi lo spartito raggiunge il suo autore a Terezin. La città fortezza di Theresienstadt, ad un sessantina di chilometri a nord di Praga, evacuati gli abitanti venne trasformata dal Reich, a partire dall’autunno del 1941, in un campo di raccolta e di transito per gli ebrei di numerosi paesi destinati, a loro insaputa al progetto di sterminio di massa.
 

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Disegno della bambina Helga Weissova
che raffigura l’arrivo al campo.

 
Nonostante le condizioni di vita inumane e precarie i deportati svilupparono una vivissima attività culturale e musicale, in una disperata volontà di vita e di speranza. Periodicamente, tacendo i trasporti verso Auschwitz che partivano ad intervalli implacabili, il campo “modello”, fatto passare per una specie di casa di riposo per anziani e bambini, veniva tirato a lucido per le visite della Croce Rossa Internazionale. E in occasione di una di queste visite il 23 settembre 1943 si eseguì proprio Brundibár.
 

brundibar-finale.jpg
Immagine di quella rappresentazione tratta dal film
“Il F
ührer dona una città agli ebrei”

 
I nazisti permettevano una sorta di autogestione delle attività culturali per nascondere il vero scopo della detenzione. Là fu girato per volere di Goebbels il famoso film di propaganda “Il Führer dona una città agli ebrei“, dove, fra laboratori di scultura e ceramica, fucine ardenti, partite di calcio, orti ben coltivati e concerti da camera, seguiti dai deportati seduti a tavolini con vasi di fiori, appaiono anche alcuni fotogrammi dell’opera di Krása, che venne rappresentata per 55 volte con un continuo forzato ricambio di protagonisti: delle 140.000 persone che passarono per Terezin 33.000 morirono in loco di fame, malattie e torture, fra le 87.000 deportate ai campi di sterminio solo il cinque per cento sopravvisse e dei 15.000 bambini soltanto 93 tornarono alle loro case.
 


 

Paul Aron Sandfort, Danimarca
Luce nell’oscurità.
Quando avevo 13 anni, presi parte ad uno spettacolo con circa altri quaranta bambini della mia età. Bambini cechi e tedeschi. Di quei bambini tutti un giorno se ne sarebbero andati da Terezin… io fui l’unico sopravvissuto. Più tardi venni a sapere che i Nazisti risparmiavamo gli ebrei danesi. Noi eravamo il loro alibi per controbattere le dicerie sullo sterminio degli ebrei. Per mostrare come era piacevole la vita degli Ebrei a Terezin, si tenevano concerti ed opere come Brundibár. Si era già rappresentata quest’opera per bambini un buon numero di volte, quando arrivai io nell’ottobre del 1943. I miei compagni ne parlavano continuamente e ne cantavano le canzoni, soprattutto “La canzone della vittoria”, Siegeslied, del finale. Nel nostro piccolo mondo ammiravamo i bambini e le bambine che avevano il ruolo di protagonisti. Nonostante i miei dieci anni, io suonavo la tromba a Copenaghen nell’orchestra per bambini del parco di divertimento di Tivoli e divenni dunque trombettista nell’orchestra di Theresienstad e suonai anche durante le rappresentazioni di Brundibár. Mi ricordo ancora molto bene dell’assolo di tromba del Walzer che danzavano i miei amici in scena. Io non conoscevo il ceco, ma grazie a Brundibár, imparai qualche parola come latte, pane, burro, zucchero, gelato, biscotti, uova, bretzel. Si trattava di tutte quelle cose che noi non avevano più mangiato da un’eternità. Ogni giorno ricevevamo soltanto un tozzo, di pane secco e quando cantavamo le canzoni sui dolciumi e le rappresentavamo, potevamo dimenticare la nostra situazione per un breve istante. Noi trovammo eccitante che il film, conosciuto oggi con il titolo di “Il Führer dona una città agli ebrei” fosse utilizzato per la propaganda tedesca. Noi i bambini, dovevamo rappresentare la nostra opera per il film. Mi ricordo in che modo il regista ebreo Kurt Gerron ci dirigeva a bacchetta e come l’Obersturmbannführer Rahm ci stava addosso durante le riprese con il frustino in mano. La maggior parte dei bambini fu deportata nell’ottobre 1944 ad Auschwitz e solo una minoranza degli attori principali restò a Terezin. Della grande orchestra rimase egualmente un piccolo numero di musicisti. Non abbiamo mai smesso di rappresentare Brundibár fino a che la Croce Rossa danese ci liberò nell’aprile del 1945. Mezzo secolo può scorrere via, i dettagli dei nostri ricordi possono sbriciolarsi, ma i sentimenti di quell’epoca restano vivi come se fosse ieri. D’altra parte Brundibár fu per noi un sogno più vivo della sofferenza quotidiana, un barlume nell’oscurità della prigionia, un barlume di speranza che ci permetteva di sperare nella libertà malgrado i reticolati. Oggi che assistiamo al risorgere di gruppi di estrema destra, l’opera Brundibár rappresenta una vera speranza per l’avvenire dei nostri bambini.

[ Testimonianza tratta dal CD ROM “Brundibar Kit” della JEUNESSES MUSICALE INTERNATIONALES ]

 
Solo l’ottusità dell’Obersturmbannführer non riusciva, per fortuna, a vedere nella trama di Brundibár la sua forza eversiva che, fra le pieghe della favola, nascondeva un canto di rivolta e di ribellione ben chiaro, invece, a tutti i deportati. Tutti non possono che riconoscersi nei due fratellini Annika e Pepíçek, che hanno bisogno di comprare del latte per la mamma malata, ma non hanno i soldi. Davanti a loro sfilano il lattaio, il fornaio con tutte le loro merci, che nel campo appaiono come un vero e prorpio miraggio. Un poliziotto ricorda loro che il denaro si guadagna solo con il lavoro. Come ironicamente sta scritto sopra la porta d’ingresso del campo:
 


 
“Il lavoro rende liberi”

 
Ma ecco che sulla piazza arriva il suonatore d’organetto Brundibár che in cambio della sua musica riceve molti soldi da tutti. I bambini cercano di cantare una canzone, ma nessuno li ascolta. Anzi vengono cacciati dal “dittatore” Brundibár in malo modo. Solo la sua musica tocca suonare, per non essere “suonati” dal suo bastone.
 

BRUNDIBÁR

Infernali Marionette,
ora prendo il mio bastone
e con quello mostrerò
che io comando e son padrone.
Tutti zitti, state buoni,
l’organetto fa bei suoni,
tutti attenti c’è da star
perché suona Brundibár!
Su, cantiamo tutti quanti,
questo ritmo è da seguire,
ma chi vuol disubbidire
certamente è da punire!
Tutti attenti c’è da star, qua,
perché suona Brundibár.
[Atto Primo, Scena VIII]

 
Ma proprio quando sta per scendere la sera e i bambini non sanno cosa fare, arrivano magicamente un uccellino, un gatto e un cane parlanti che promettono di aiutarli: il giorno dopo raduneranno tutti i bambini del villaggio che canteranno insieme a loro. E’ notte e gli animali addormentano i due fratellini con una dolcissima ninna nanna.
 

UCCELLINO, CANE E GATTO

La luna muore già,
la stella li vedrà
che dormon nel tepor
del lieve sogno d’or.
Pepíçek dormi ben, sogni d’or.
Annika sogni d’or, dormi ben.
E l’alba ora viene: noi vi soccorrerem.
Buonanotte, allor, siam con voi ognor.
[Atto Primo, Scena VIII]

 
Il primo atto finisce in un clima disteso e sognante, seguito dalla Serenata
 


un intermezzo strumentale che Krása scrive appositamente a Terezin e che risuona in tutta la sua lirica e malinconica dolcezza, quasi a rasserenare l’inquietudine del buio così fondo e minaccioso delle notti del campo. Al mattino tutti i bambini radunati dagli animali corrrono ad aiutare Annika e Pepíçek. L’unione, anche in questa pacifica guerra dei bambini, fa la forza. Finalmente gli adulti li ascolteranno cantare “La mamma fa dormir il caro suo tesor“, e riempiranno il cappello di monete. Ma ecco che il malvagio suonatore ambulante tenta di rubare il loro denaro. I bambini e gli animali si lanceranno al suo inseguimento, finalmente lo cacceranno e festeggeranno il loro trionfo con un canto finale di vittoria.
 

TUTTI

La guerra è vinta ormai,
sconfitto è Brundibár,
rullate il tamburin,
dobbiam festeggiar.
Audaci e fieri siam,
Brundibár battuto il regno è distrutto.
Marciamo con fervor per la vittoria
cantando tutti in cor.
 
PEPÍÇEK
Miei cari bimbi, sù,
alzatevi, perché
si è fatto tardi e termina l’opera.

 
ANNIKA
Arrivederci, sì. Ma prima di andar via
cantiamo insieme ancor
con grande allegria.

 
TUTTI
La guerra è vinta ormai
sconfitto è Brundibár,
rullate il tamburin,
dobbiam festeggiar.
Audaci e fieri siam,
Brundibár battuto, il regno è distrutto.
Marciamo con fervor per la vittoria
cantando tutti in cor.
L’amicizia allor resta in ogni cuor,
chi ama l’equità con noi giocherà,
insieme a noi sarà.

 
Si spegne così l’eco dell’ultimo accordo, tace la melodia di Krása, che tanto abilmente mescola temi popolari e musica del ‘900, ora in tenero abbandono lirico, ora nello squillare chiaro degli ottoni incalzato dal rullare ritmico delle percussioni.
Alberi ed alberi sono cresciuti, da allora, cumuli e cirri e cirrocumuli di nuvole sono passati attraverso lo stesso cielo, gli anni sono trascorsi con la fretta della storia e non si sa se il regno è distrutto e tiranni ce ne sono sempre, ma noi, chi ama l’equità, siamo ancora qui, con loro, con i bambini di Terezin.
 

[Estratti musicali dell’opera dal CD CMCD 0161997
Sorriso Edizioni Musicali
Hans Krása
BRUNDIBÁR
Childrens’ Opera in Two Acts
Terezin 1943
Libretto by A. Hoffmeister
Italian version by Clara and Daria Domenici
BARBARA STROZZI ENSEMBLE
MUSICA GIUDAICA
Conducted by FRANCESCO LOTORO]

 
 

Citare le fonti

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nota di Gianni Biondillo

Denis (il gestore di questo blog) mi ha appena riferito, via MSN, un fatticello assai curioso, ma per nulla nuovo dell’atteggiamento che la carta stampata ancora ha quando “usa” il vasto serbatoio di internet. E’, questo argomento, molto caro anche a Georgia, e quindi so che apprezzerebbe.
Per farla breve, su Il riformista, Luca Mastrantonio ha testè pubblicato un divertito articolo dove sbertuccia Veltroni e la sua mania a introdurre ad ogni pie’ sospinto tomi e tomi. (Denis me l’ha fatto leggere qui).
Cosa che Christian Raimo ci ha fatto notare a suo tempo, nel suo divertente quiz editoriale pubblicato qui e poi commentato qui.
Ma di Raimo, nell’articolo di Mastrantonio, neppure l’ombra. Solo un generico “Da giorni gira per internet, con successo di pubblico (…) un quiz bibliografico.”

Bene. Questa è la stampa italiana. Questo è il paese dove vivo.
Ormai è chiaro: devo in stretto giro di posta mettere a punto per la mia vita un piano B.

Roma, ore 11

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di Christian Raimo 

Buttiamola là: Roma ore 11 è lo spettacolo teatrale dell’anno. Forse non sarà quello più sconvolgente, né la messa in scena più mirabolante, né la prova d’attore più virtuosistica, però è lo spettacolo che può fare da modello per quello che vuol dire oggi in Italia cercare di metter su un progetto indipendente.

da “Ateo?:altroché!”

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(Pubblico un brano tratto da Ateo?:altroché!, appena pubblicato in Italia per Ipermedium libri a cura di Domenico Pinto e Dario Borso. Il testo di Schmidt, che ha l’autonomia di un pamphlet sulfureo, apparve per la prima volta nel 1957 in un volume curato da Karlheinz Deschner che raccoglieva i contributi di un’inchiesta intitolata Lei cosa pensa del Cristianesimo?)

di Arno Schmidt

Traduzione di Dario Borso e Domenico Pinto

6. Come altra serie di criteri: ha accresciuto il Cristianesimo, nel mondo, la somma del buono / vero / bello?

7. Del buono?: quanti riarmi, quante guerre, quante atroci crudeltà ha eliminato o almeno impedito il Cristianesimo?: al contrario! È stato ‹ragion sufficiente› di nuove, fino ad allora inaudite danze di spade, come le ‹Crociate›, la ‹Guerra dei Trent’anni› o gli ‹Albigesi› : allorquando i soldati stessi espressero la preoccupazione che con i ‹colpevoli› (= non cattolici!) potessero morire pure gli innocenti, il legato pontificio li tranquillizzò : «Uccideteli e basta! Il Signore riconoscerà certo i suoi!»: Popoli, ascoltate anche questi segnali !!

‹Tolleranza›?: la predicavano solo quando non erano più ‹al potere›! Fino ad allora valeva il ‹compelle intrare›, con il rogo come argomento supremo; ah, povero Giordano Bruno! Non ci si aspetti no che io parli con rispetto di un sistema che esercitò la censura contro Lessing: poiché considerava la resurrezione un’invenzione del giovane Cristo e tutte le religioni positive erano per lui parimenti dubbie! Un sistema che contempla ‹l’inferno eterno› come istituzione fondamentale – cos’altro è poi l’inferno cristiano se non un campo di concentramento, soprattutto per chi la pensa in maniera diversa? Ma si confronti solo l’orrendo Manuale dantesco per comandanti delle SS! – e non esclusivamente come teorica istituzione ultraterrena (su ciò si potrebbe pur sempre soprassedere con un’alzata di spalle); ma soprattutto come elemento integrante del ‹Regno dell’amore› di questo mondo, che rispunta di continuo come Inquisizione di tutti i tipi (anche i protestanti ce l’hanno fatta a bruciare eretici; ricordo solo Serveto o le persecuzioni inglesi dei cattolici sotto Carlo II.): in realtà ogni uomo perbene (secondo il mio modesto parere) un sistema del genere dovrebbe aborrirlo!

Il freddo

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di Marco Lodoli

Gelate le pozzanghere al mattino
Quando insieme all’amico andavo a scuola
La sigaretta sua tra le mie labbra e il fumo
Del freddo e del tabacco a dare un corpo
Ai discorsi immensi della vita.
Il freddo ci rendeva più superbi,
parlavamo di cosa il mondo non era
di cosa non eravamo noi, del nostro futuro
e del ghiaccio appeso ai cornicioni.

Una favola moderna per Napoli (e provincia)

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Il MOSTRO DELLA PIANURA*
di
Nicola Corrado

La terra del sole e del pomodoro si affacciava sul mare e stendeva il suo corpo colorato e sinuoso dalle stelle del cielo fino alla luce del tramonto; intorno facce, sorrisi, pianti, note, pasta e pesce, vele e vento, e poi campi, chiese, vicoli, sapori, intelligenza e cattiveria, umanità.Qualcuno disse che lì un tempo splendeva la felicità grazie alle speranze e alle debolezze degli adulti.

Poi, non si sa come e quando, arrivò in quelle terre dopo un lungo viaggio il MOSTRO DELLA PIANURA: aveva mille mani e centomila occhi, e un cuore lungo 2 KM e largo 4 KM, mangiava le speranze, le debolezze e l’immondizia degli adulti.
Un giorno vennero i governanti chiamati dagli adulti per sconfiggere il MOSTRO, ognuno con una valigia piena di grandi discorsi e dentro parole cucite a mano per fare splendere di più la felicità.

Baldi e Massari alla John Cabot University

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Presentazione dei libri di poesia: I capitoli della commedia di Martino Baldi ed. Atelier e Libro dei Vivi di Stefano Massari Book Edizioni alla John Cabot University di Roma (Aula Magna) – via della Lungara 233 – il 4 febbraio, alle ore 19.30.

Un post lunghissimo dal quale, eccezionalmente, non si ricava nulla.

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bellini41.jpgdi Sergio Garufi

In tivù si parla dell’emergenza rifiuti in Campania. L’iconografia è quella solita, aprospettica e paratattica, in cui l’inviata sul posto sta al centro di una teoria di gente infuriata che espone cartelli rivolti contro il Presidente della Regione (“Bassolino vergogna!”), ed altri che invocano l’Uomo della Provvidenza (“Silvio pensaci tu!”). La lotta per accaparrarsi il microfono restituisce brandelli di frasi misti a insulti. D’un tratto una signora esasperata urla “Neanche nel Medioevo!”, indicando la montagna di spazzatura a fianco. Ha ragione. Il Medioevo ci ha lasciato esempi migliori.

Etere 1 : l’antichità.

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di Antonio Sparzani

i cinque elementi fondamentali: etere, acqua, aria, terra, fuoco

La storia di cui vorrei raccontarvi alcuni episodi corre su due rotaie, spesso parallele: l’una, quella della poesia e della letteratura, che continua a vedere l’etere come qualcosa di vago e misterioso, ma che in questa vaghezza trova la sua sottile bellezza, e l’altra, quella dei tentativi che ha messo in atto la scienza per cogliere finalmente, per serrare tra le tenaglie di una definizione precisa e quantitativa, questo inafferrabile elemento, che continuamente è stato congetturato esistere, ma che altrettanto continuamente è sfuggito ad ogni presa. Perché queste rotaie non sono poi soltanto due e non sono neppure tanto ben distinte: anche la filosofia e la medicina mescoleranno infatti i loro saperi nella trama, stranamente tenace, dell’etere.

Nei poemi omerici, punto cardine d’irradiazione della nostra cultura, l’etere è femminile, ή αιθήρ, (hē aithēr):

Metempsicosi

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janis.jpgdi Daniela Matronola

“…take another little piece o’ my heart babe / take’t take’t…”

La mia amica Marisa, nel corso di Letteratura Inglese per l’esame del primo anno, si innamorò del suo professore. E non fu un amore a distanza, cioè una di quelle infatuazioni che generano adorazione silenziosa e abbandoni sognanti, estasi e distrazioni dalla realtà – il suo fu un vero amore, perseguito in modo discreto e tenace finché aveva avuto senso, poi trasformato in un ricordo caro, e lui, il professore, Edoardo, in una guida intellettuale, in un punto di riferimento.
Comunque Marisa aveva una vera passione per Janis Joplin – e anche il suo professore. Perciò questa era una loro patria comune, come la poesia dei romantici inglesi, specie John Keats. Janis Joplin piaceva a Marisa perché era una creatura tenace e fragile, una vera contraddizione vivente. Non era bella, e non faceva nulla per diventarlo. Spesso saliva sul palco ubriaca, e fumava come un uomo. Aveva i capelli sempre arruffati. In genere sporchi. O mèzzi dell’appiccicosa umidità che rende micidiale certe città americane, New York per esempio, d’estate.

Scrittori contro il razzismo a Treviso

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(Segnalo il brano iniziale di un articolo di Fernando Camon apparso su La Stampa del 27 gennaio 2008 e ripreso su Vibrisse bollettino lo stesso giorno. A questo sito rimando per la lettura integrale del testo. Spero che iniziative di questo genere si moltiplichino. A. I.)

Non è una parte della cultura d’Italia che combatte il razzismo, ma un nucleo centrale della letteratura pluricontinentale e plurisecolare

di Ferdinando Camon

I giovani scrittori, convenuti dalle Tre Venezie, cominciano a declamare ma non si sente nulla: non hanno un palco, non hanno un microfono, la folla rumoreggia, non s’ode una sillaba. Proteste, schiamazzi, sarcasmi. Un gruppetto di suonatori ecuadoregni smette di suonare e presta un microfono. Ci siamo. Lo spettacolo ha inizio. E dunque non solo il Nord-Est delle aziende, ma anche quello degli intellettuali, senza extracomunitari si paralizza. Siamo a Treviso, in Piazza dei Signori: quindici scrittori veneti son qui per leggere passi di grandi testi, dal Vangelo alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, contro il razzismo. (Continua a leggere qui.)

Le città visibili

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Spazi urbani in Italia, culture e trasformazioni dal dopoguerra a oggi
[Le città visibili è una raccolta di saggi di studiosi inglesi (o italiani che hanno studiato e lavorano in Gran Bretagna), che parla dell’Italia da vari punti di vista – architettura, storia, letteratura, cinema, società. Uno sguadro che, data la distanza, pare mettere meglio a fuoco la nostra nazione. Il libro è molto bello, forse troppo sbilanciato sull’asse Milano-Torino, ma con intuizioni lucide di vero interesse per tutti noi.
Ho chiesto a John Foot (uno dei due curatori, insieme a Robert Lumley) il piacere di pubblicare qui su NI l’introduzione del volume da poco edito da Il Saggiatore. G.B.]

le_citta_visibili.jpg di Robert Lumley e John Foot

La gente che s’incontra, se gli chiedi: – Per Pentesilea? – fanno un gesto intorno che non sai se voglia dire: «Qui», oppure: «Più in là», o: «Tutt’in giro», o ancora: «Dalla parte opposta».
– La città – insisti a chiedere.
– Noi veniamo qui a lavorare tutte le mattine – ti rispondono alcuni, e altri: – Noi torniamo qui a dormire.
– Ma la città dove si vive? – chiedi.
(Italo Calvino)

Prima di descrivere Pentesilea a Kublai Khan, Marco Polo prevede quello che il suo ascoltatore si aspetterà di trovare all’ingresso della città: una cinta di mura, una porta, gabellieri; «Fino a che non l’hai raggiunta ne sei fuori; […] il suo spessore compatto ti circonda; intagliato nella sua pietra c’è un disegno che ti si rivelerà se ne segui il tracciato tutto spigoli». Ma, continua, «se credi questo, sbagli». Pentesilea non ha né inizio né fine, non c’è distinzione tra dentro e fuori, e per questo non si sa quando ci si sta arrivando e quando invece la si sta lasciando.

Augh! (danger) Poesia

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Pasquale Panella al Circolo dei lettori: indiano a Torino seduto

Poesia (estratto)
di
Pasquale Panella

“C’era una volta” torna
in una mia torsione
eccetera… anche i capelli tornano
(quei gesti) scomposti dal pensiero…

il mondo esiste
per le coincidenze
tra gli avvenimenti
e i nostri segreti

nella violenza di una repressione
nelle urla, in una maglia strappata,
(e il corpo apparso pare avere fretta),
nello strazio e nell’uscita stranita
di una voce… avverto i tentativi
di riprodurre il nostro godimento
le mani addosso, le cariche, attentati
lo sfondamento, quella mescolanza
di forze dentro forze,
di ordine e disordine,
di bocche e di vestiti
e teste spinte sotto
dalla mano sopra
(come quando la polizia
fa entrare in macchina
i fermati)

(così io a te, tu a me…
noi, nostri sospettati)
da poema bianco (IriEd, Roma)

La Shoah della cultura italiana: un bue sulla lingua

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a cura di Tina Nastasi e Antonio Sparzani
Risiera di San Sabba: simbolica Pietà costituita da tre profilati metallici a segno della spirale di fumo che usciva dal camino

[“Avrei molte altre cose da dirle, ma ci vorrebbero forse dei volumi e d’altra parte non saprei come esprimerle sentendo di avere un peso sulla testa o, come nella tragedia antica, un bue sulla lingua …” da una lettera di Hélène Metzger a George Sarton del 12 agosto 1942]

Oggi è la giornata della memoria di uno dei fatti più gravi cui gli europei hanno assistito nel Novecento, alcuni da atroci protagonisti attivi, altri da vittime, altri da spettatori più o meno impotenti: la persecuzione e lo sterminio di massa degli appartenenti al popolo ebraico (senza dimenticare che sorte simile ebbero altre non meno sfortunate categorie, comunisti, omosessuali, disabili, zingari, e via elencando). Data la mia (as) pluridecennale appartenenza al mondo universitario scientifico e la mia (tn) esperienza nel mondo della scuola, il modo, molto parziale ma non privo d’interesse, che vi proponiamo per mantenere la consapevolezza di quello che accadde e per ri-capirne le conseguenze nell’oggi, è ripercorrere brevemente le vicende italiane che riguardarono scuola e università e in particolare il mondo della matematica italiana – analogo discorso varrebbe del resto per la fisica (basti pensare a Enrico Fermi), la chimica, ecc. Vicende le cui conseguenze furono e anzi sono di lungo periodo, sia sotto il profilo della pesante perdita di formazione di alto livello (vedi gli interessanti e deprimenti documenti scaricabili qui) sia sotto quello della perdita di autonomia intellettuale da parte di chi è sottoposto all’Autorità.
Visto che non dobbiamo inventare nulla di nuovo, vi proponiamo qui alcune pagine [pp. 230-43] di un puntuale e documentato libro sull’argomento: Angelo Guerraggio e Pietro Nastasi,
Matematica in camicia nera – Il regime e gli scienziati, Bruno Mondatori 2005. Ci siamo limitati a qualche minimo intervento, e abbiamo lasciato la numerazione delle note come nell’originale. Segnaliamo poi specialmente il volume menzionato nella nota [13]. Ringraziamo molto gli autori che hanno dato il loro consenso a questa messa in rete. tn e as
Le leggi antisemite del 1938

Gli ebrei italiani del Regno di Piemonte e Sardegna avevano conquistato i diritti civili e politici nel 1848.

Genesi di uno scrittore

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di Emanuele Giordano

La genesi di un atto di espressione è un processo di estrazione, uno spremere fuori. Niente viene estratto se non da una materia originariamente grezza. L’uomo di norma dà figure nuove a cose che ha sottomano. Allora fare un’opera è il far breccia di uomo verso se stesso. E’ esatto ciò che ci dice il Sohar: il libro è infisso, in fondo a una caverna, in una fessura nella roccia. E ci si è infissi anche noi. Si entra ora nel purgatoriale mare di fuoco, fretum febris avanti l’alba, nel tempo onirico prima del carnevale. Non c’è possibilità senza almeno all’inizio uno sprofondamento. Nondimeno nella misura in cui si ha il coraggio pavido di proseguire, i movimenti di sprofondamento e sotterramento fanno posto a movimenti laterali di slittamento, perché uno scrittore lavora con le parole e fa di queste degli eventi che sono come cristalli, diventano e crescono soltanto per i bordi, sui bordi. La lingua, quella vera, divenuta vera e fatta vera, contrariamente alla musica, sta – e oscilla e trema contemporaneamente. Sta in bilico.

Nicola Ponzio alla galleria milanese di Ermanno Tedeschi

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NICOLA PONZIO

A Milano dal 5 febbraio al 3 marzo 2008
Via Santa Marta 15 (entrata da Via San Maurilio)
Inaugurazione: martedì 5 febbraio 2008 dalle ore 18.30

Le opere di Nicola Ponzio presentate nella Galleria milanese di Ermanno Tedeschi sono oggetti geometricamente definiti, rigorosi, ottenuti operando per sottrazione.

Juke-box: Zum zum zum

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E tutto era partito da qui effeffe

Zum zum zum
(A.Amurri – B.Canfora)

Sarà capitato anche a voi
di avere una musica in testa
sentire una specie di orchestra
suonare suonare suonare suonare
zum zum zum zum zum zum
zum zum zum.

La canzone che mi passa per la testa
non so bene cosa sia
dove e quando l’ho sentita
di sicuro so soltanto che fa
zum zum zum zum zum zum
zum zum zum zum zum zum
zum zum zum zum zum zum
zum zum zum.

Apocrifi

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di Pablo Clemente Neruda

(Fonti: qui e qui)

Lentamente muore

chi diventa schiavo dell’abitudine,

ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,

Lampo di genio: Pasquale Panella

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lampo.jpg

Ho mentito che t’amavo
Capiscimi
avrei voluto versarmi
sul tuo viso, sul tuo petto
come crema umana
invece la mia voce parlava
Avrei voluto tu fossi
fango, una melma
nella quale affondare
soffocando
Invece, restando in superficie,
ci dicevamo a parole l’amore
come due vacanzieri nuotando
(nell’acqua le bracciate
sono come all’asciutto
gli abbracci: ci fanno
galleggiare…Anche le gambe
tu a delfino io a rana,
e nella stessa acqua)

La vita degli altri

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di Franz Krauspenhaar

Jose Ovejero è nato a Madrid e vive a Bruxelles. Uno scrittore ormai esperto (è nato nel 1958) che ha molto viaggiato, che ha preferito nutrirsi di culture diverse. Di professione giornalista e interprete, Ovejero ha vissuto a lungo in Germania, un paese che fa della tradizione il basamento indispensabile proprio di quei cambiamenti che sono diventati suo marchio di fabbrica onnicomprensivo. Mente aperta alle differenze, lo scrittore spagnolo ha viaggiato in tutto il mondo; quello del viaggio è carburante importantissimo per chi ha deciso di muovere i suoi passi nel mondo della letteratura narrando storie.