Big Brother State è un film educativo su ciò che i politici chiamano protezione della nostra libertà, ma che noi definiremmo meglio leggi repressive. Da quando il terrorismo è diventato una minaccia globale, specie dopo l’11 settembre, molti governi hanno varato leggi che, essi dicono, aumenteranno la sicurezza nazionale. E’ ovvio invece che queste leggi hanno un altro scopo: permettere agli stati di avere sempre più controllo sui cittadini, a discapito della nostra privacy e della nostra libertà. (dal sito del cortometraggio)
Big Brother State – un corto di David Scharf
Intervista a Giancarlo De Cataldo

di Gianni Biondillo
[allego qui la versione estesa di un’intervista fatta a Giancarlo De Cataldo per GQ. Quella pubblicata nel numero di agosto, per capirci, è lunga circa la metà]
Vivo un mio personale conflitto d’interessi. M’è stato chiesto di intervistare un amico, Giancarlo De Cataldo. Potrebbe diventare abbastanza rischiosa la deriva indulgente, la sviolinata in tempo reale, il, per dirla alla maniera di Quentin Tarantino, “farsi i pompini a vicenda”. Ma sono abbastanza certo di non cadere in tale tentazione. Ho dalla mia la fortuna di averlo conosciuto, e rispettato, prima come scrittore e poi, solo poi, come persona.
Oralità e scrittura in Gadda 2
(Prima parte qui)
Eros e Priapo: oltre il pamphlet
di Andrea Inglese
Nel suo saggio sul pamphlet moderno, Marc Angenot ricorda: “la forma primitiva ed elementare del pamphlet è l’invettiva ; lo spettacolo dello scandalo e dell’impostura richiede innanzitutto l’esplosione della collera, l’abreazione aggressiva, tanto più aggressiva dal momento che l’autore del pamphlet si sente invaso, minacciato e impotente”. Queste osservazioni si attagliano perfettamente alla condizione di Gadda, il cui sentimento d’impotenza ed esclusione, rispetto all’entusiasmo condiviso nei confronti del regime, è direttamente proporzionale allo sfogo verbale aggressivo presente in Eros e Priapo.
Poesia d’amore (in qualche modo)
di
Francesco Forlani
Deve esserci un modo (un mondo)
per non tacere di nuovo il grido
di una mancata paternità
di una normalità agognata
e assassina.
Una chiave di volta ci sarà
(un risvolto) che non sia parola
que des mots que des morts
e alla ferita faccia da medicamento
dia sollievo.
Buràn, scritture invisibili dal mondo
Vanta collaborazioni con il British Council di Londra e con la Boston University. Pubblica il racconto che ha vinto l’ultimo prestigioso Million Writers Award. Scopre talenti e scritture dalla Cambogia, dal Ghana, dall’Estonia e dal resto del mondo. E’ il nuovo numero di Buràn (http://www.buran.it), rivista letteraria online che insegue storie e racconti in tutta la Rete mondiale, traducendole – esperienza unica nel nostro Paese – per la rete italiana. Il Materiale, la sezione monografica della rivista, in questo numero ha per tema Il Conflitto, declinato in molti sensi (bellico, sociale, economico, interiore) per indagarne i margini, gli strascichi, la quotidianità. La sezione Immaginario propone invece storie che regalano al lettore l’altro e l’altrove della narrazione in rete. Ci sono Mondi e Voci, là fuori; Buràn è in ascolto.
(per contatti: redazione@buran.it)
Do you remember la solidarietà?
di Remo Bassini
Due ricordi. Magari imprecisi.
Ero ragazzo.
Un giornale scrive che i portuali di Genova hanno fatto uno sciopero contro il regime di Pinochet. Proseguo nella lettura. Nello stesso giornale c’è scritto che alcuni diplomatici del governo di Pinochet sono stati ricevuti – c’è anche la foto: sorridono tutti – dal governo cinese, nonché maoista, nonché comunista. Bene.
Genova non è finita 1
[ho chiesto a Blicero, di Supportolegale, un aggiornamento (più o meno) settimanale sui processi che si stanno svolgendo a Genova sui noti fatti del G8. Questo è il suo primo dispaccio. G.B.]

di Blicero
Sono passati sei anni dal G8 di Genova, e ogni volta parlarne per cercare di dare un’idea di quello che ha significato e di quello che significa ancora oggi diventa sempre più difficile. I giorni di Genova e le loro conseguenze sono un evento estremamente complesso, dai chiaroscuri ancora tutti da definire, un pezzo di storia ancora poco digerito sia da chi lo ha vissuto sia da chi vorrebbe assumersi la responsabilità di includerlo o escluderlo dalle storiografie ufficiali.
Genova è ancora viva, non solo nella nostra memoria, che dimentica fin troppo in fretta, ma anche nel lavoro quotidiano che diverse persone – sempre troppo poche – svolgono quotidianamente seguendo i processi che rappresentano una delle responsabilità più gravose di quei giorni.
I processi stanno arrivando alla loro conclusione (intorno a questo inverno). Questo primo dispaccio vuole essere un modo per familiarizzare i lettori di questo blog con la densità che gli eventi di Genova ancora hanno nella nostra vita di tutti i giorni. Genova è tutti i giorni.
Oralità e scrittura in Gadda 1
(Nella discussione scaturita dal suo ultimo post, Massimo Rizzante ha ricordato come la storia del romanzo sia in gran parte dipesa dalla capacità dello scrittore di captare il magma dell’oralità, per iscriverlo all’interno dell’architettura narrativa. L’oralità è il mostro che il romanziere deve domare, affinché la lingua in cui scrive non sia lingua “libresca”. Sfida ardua, intorno alla quale si è giocato il destino di alcuni capolavori. Ma il problema tocca anche altri generi.)
Eros e Priapo : oltre il pamphlet
Di Andrea Inglese
Partiamo da una prima constatazione: Eros e Priapo (Da furore a cenere) di Carlo Emilio Gadda è un testo anomalo, che pone un immediato problema di collocazione all’interno delle categorie di “genere”. Esso viene generalmente annoverato nel genere pamphlet, sebbene non sia del tutto pacifica l’appartenenza del testo di Gadda ad un tale genere. O meglio, converrebbe subito esplicitare quali siano gli aspetti, e non secondari, che rendono Eros e Priapo un pamphlet assai particolare. Per fare ciò, cominciamo con il dare la parola all’autore.
Considerazioni a margine di Umbria Jazz – 1
Non so quanti di voi sono mai stati a Umbria Jazz.
Comunque, ne avrete sentito parlare, dato che è una delle poche occasioni, per non dire l’unica, in cui si parla di jazz sui canali tv nazionali e al di fuori della stampa specializzata. Perché ormai Umbria Jazz è un enorme carrozzone mediatico, oltre che un colossale giro d’affari, che per dieci giorni riversa nel sonnolento capoluogo umbro una fiumana di turisti. Quindi ha tutte le caratteristiche necessarie a scardinare la tetragona indifferenza delle nostre reti d’informazione.
Io, che sono perugino d’adozione, lo seguo ormai da una quindicina d’anni, e da qualche edizione a questa parte anche professionalmente, come inviato di una rivista del settore. Ma non è di Umbria Jazz che voglio parlarvi. O almeno, non proprio.
Vorrei cominciare con un aneddoto. Ero all’Arena Santa Giuliana, uno dei palcoscenici principali del festival. Quella sera suonava il quintetto di Enrico Rava.
Bacheca di ottobre 2007
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Mio caro Josif
di Linnio Accorroni
Mio caro Josif,
dunque, ieri, t’ho sognato.
T’ho sognato perchè, magna cum voluptate, m’è accaduto di rileggere il tuo amato Orazio. È accaduto un po’ perché l’ininterrotta frequentazione del ‘novismo’, pur nella mutevolezza delle sue forme (film nuovi, dischi nuovi, libri nuovi), genera in me sempre più spesso sazietà e noia piuttosto che entusiasmo. E poi perché, riordinato lo scaffale dei Meridiani, ne è uscito fuori quel volumetto rosso delle opere di Orazio, ancora intonso nonostante l’avessi comperato qualche mese fa. Dire ‘rileggere’ significa voler autoemendarsi da un peccatuccio di gioventù, significa far rientrare una miserabile pratica di sopravvivenza scolastica in una categoria, quella della lettura, che, nonostante tutto, considero ancora non del tutto surrogatoria o vacua, anche se non gli attribuisco più la sovrana decisività di un tempo. Debbo confessarti, peraltro, che quella disdicevole condotta, ai tempi del liceo, riesce a farmi vergognare tuttora perché ero e sono consapevole di quanto essa fosse imperdonabilmente ladresca e menzognera.
Il ribelle Montesano
di Piero Sorrentino
C’è una piccola ma preziosa chiave alfabetica annidata nelle primissime pagine di Il ribelle in guanti rosa, il saggio – romanzo – biografia, e chissà che altro, che Giuseppe Montesano ha dedicato, dopo un lavoro durato anni, a Charles Baudelaire.
Una riga che apparentemente svolge funzioni di mera indicazione editoriale, ma che invece si rivela una preziosa guida per comprendere molto, se non tutto, di questo libro unico e potentissimo.
Moleskine 2
Sfilata di chierici venduti in televisione. L’Ecclesiaste va aggiornato. Chi più sa, più s’offre.
Scampoli di cinismo contemporaneo. In fila alla cassa del supermercato c’è davanti a me un ragazzino di non più di 12 anni. La cassiera lo riconosce. “Ciao Jacopo, come va?” E lui, con aria serissima e stanca: “Sopravvivo”.
La mia banca sta a 500 mt. da dove lavoro. Ci vado sempre a piedi, mi piace passeggiare. Guardo la gente, i negozi, immagino vincite fantastiliarde al superenalotto. O meglio, programmo meticolosamente la distribuzione dei soldi. Quanto alla famiglia, agli amici, quanto in viaggi, che casa comprare, l’auto nuova. Poi mi ricordo di un saggio messicano, s’intitola Disgrazie milionarie e fu recensito di recente su Babelia, il supplemento letterario del quotidiano El Pais. Si tratta di una serie di biografie di messicani che hanno vinto la locale lotteria. Lì ce n’è una sola l’anno, l’enorme montepremi va tutto a un’unica persona e questa è pubblica, tutti sanno chi è, dove abita, che faccia ha, perché viene intervistato in televisione. Forse si pensa che rendendo pubblica la sua figura questo faccia da traino per i concorsi successivi. Il saggio sembra un libro dell’orrore. Stragi familiari, separazioni, suicidi. Una volta realizzato, il sogno di diventare ricco si trasforma in incubo. Come in quell’antica maledizione gitana, che dice: “Che tutti i tuoi desideri si possano avverare”. Curiosamente, lo stesso testo che ricevo per sms dai parenti e gli amici più cari a Natale.
da “Tecniche di basso livello”
236-237
236. Nella certezza di essere dalla parte del torto, ci limitavamo a sollevare questioni di procedura, di buone maniere, nei confronti dello stato delle cose. Ci chiedevamo la ragione di episodi quotidiani, imperscrutabili come la forma delle nuvole. Al telefono, guardavamo di sbieco, seguendo le fughe dei battiscopa verso angoli retti, metafisici.
237. Nemmeno all’altezza dei nostri cellulari, diventavamo adulti e scoprivamo cose che non avremmo mai più avuto il tempo di capire davvero, come le macchine di Turing, Lacan, la teoria dei sistemi. I termini della nostra personalità erano i nostri piedi, le emicranie psicosomatiche, la cellulite.
Nazim e John, II
[seconda parte di questo a. s.]
di Tina Nastasi
(installazione di Juan Muñoz, figura in ascolto, 1991)
Un postino tra due uomini che non ci sono più
La storia continua attraverso prigioni e speranze strette tra i denti.
Quest’estate ho voluto visitare la Risiera di San Sabba, a Trieste. Malgrado l’obiettivo fotografico, ho dovuto diventare pietra davanti a una piccola teca murata. Custodiva un paio di occhialetti rotondi e un portacipria d’argento: né lenti, né specchi per i subumani. In quel mausoleo dello sterminio (ma che c’entra poi: lì si custodiva il riso!), “fatto di mattoni e silenzio”, né finestre né spifferi, benevoli e messaggeri di qualche mutamento.
Eppure … eppure, anche di quel presente inesorabilmente votato alla morte, qualche segno silente è rimasto sui muri, primitivo nel tratto permesso da un raro strumento di fortuna, ma degno di un essere umano che morde e stringe la speranza tra i denti e oltrepassa “i limiti della propria reclusione”. Perché? Forse per “sopravvivere alla notte” e “immaginare un nuovo giorno”.
“Una persona con la speranza tra i denti – dice John – è un fratello o una sorella che incute rispetto”. E scrive a Nazim come si scrive a un fratello. E scrive a Nazim di Juan Muñoz, un altro fratello incontrato per la strada.
Leggo su Wikipedia cosa si dice di Juan. Era uno che nel corso di un programma radiofonico inedito (Third Ear, 1992) sosteneva che esistono due cose impossibili da rappresentare, il presente e la morte: si può giungere ad esse solo per assenza.
Juan era il secondo di sette fratelli ed era un artista, profondamente. Si dice che abbia prodotto opere di carattere narrativo rompendo con i canoni della scultura tradizionale. Si dice che le sue installazioni spesso invitino lo spettatore a entrare in gioco con esse, e, dimenticando di sentirsi muto testimone, a farne parte con leggerezza.
Nel 1997 Juan e John realizzano una pièce teatrale il cui titolo suona così: Will it be a Likeness? Dura solo 45 minuti.
Juan è morto. Per John anche il giorno può sembrare una lunga notte. E bisogna attraversarla per sopravvivere. E quella notte somiglia, terribilmente somiglia, a una prigione. E allora la poesia e la memoria sono le uniche amiche: allargano le braccia della nostra mente e la portano lontana, altrove.
John scrive a Nazim di Juan: “solo un postino tra due uomini che non ci sono più”.
Ecco il seguito, sempre da (1).
Giovedì sera.
Dieci anni fa mi trovavo a Istanbul, nei pressi della stazioni di Haydar Pascià, davanti a un edificio in cui la polizia interrogava le persone sospette. I prigionieri politici li tenevano all’ultimo piano, dove a volte li interrogavano per settimane. Nel 1938 toccò a Hikmet.
Separare, pesare e distinguere. Un vizio di forma e una forma di virtù. Primo Levi scrittore tra scienza e morale
di Demetrio Paolin
A Bruno Vasari
in memoriam
Lo sguardo
Primo Levi non scrive, guarda, a voler essere precisi, notomizza e seziona con precisione chirurgica i fatti vissuti; per questo l’aggettivazione, come ebbe a dire Mengaldo, rappresenta il sigillo regale della sua scrittura.(1) Levi, con molta sobrietà e ironia, non ha mai fatto distinzioni tra lo scrittore e il chimico, sottolineando come il suo apprendistato nella scienza gli abbia offerto strumenti privilegiati per il suo secondo mestiere.
“La chimica è l’arte di separare, pesare e distinguere: sono tre esercizi utili anche a chi si accinge a descrivere fatti o a dare corpo alla propria fantasia. C’è poi un patrimonio immenso di metafore che lo scrittore può ricavare dalla chimica di oggi e di ieri, e che chi non abbia frequentato il laboratorio e la fabbrica conosce solo approssimativamente.”(2)
Le mani degli schiavi (seconda parte)
(la prima parte è stata postata il 12 aprile)
La stretta di mano di Marcus, invece, è più morbida. Non si esaurisce in un colpo secco, ma si prolunga quasi temendo la fine. Come a cercare un appiglio nell’altra mano. Come a chiedere conferma della propria esistenza, forse, e la chiede a una mano straniera. Ti stringe la mano e dice, My name is Marcus. Remember it! If you come another day ask for me… E’ come se ti chiedesse di custodire il suo nome, Marcus, di tenerlo con te, di conservarne la memoria, visto che l’esistenza così precaria di chi lo porta non garantisce alcuna permanenza.
Tre romanette
di Éric Houser
Traduzione di Andrea Inglese
villa d’Este
funerale
rintocco tre toni
vasca di sotto
.
poso sull’acqua
piedi nudi
..
immaginando
la mano sinistra
che solleva lentamente
una gonna fluida
e nera
…
(l’acqua chiama
acqua)
Diorama dell’est #4
di Giovanni Catelli
Hradec Kralové
Tu ricordi questi alberghi tiepidi, a cui tornare nell’alba, fumando piano sulle scale in attesa del giorno, disponibili alla luce, alla visione della vita, precari nell’altezza, sospesi, all’insegna sottile che sbiadisce d’azzurro, nell’ora del mattino che venera il silenzio, mi confortano, leggeri di vetrate, deserti, così giovani a sorreggere il presente, la mano furtiva che tradisce, ignari, del fuoco invisibile attraverso le case, nome lontano a devastare città, esercito d’ombre a pattugliare le strade, mi proteggono, dall’urto dei rimpianti, dal rumore, navi serene sui mari del passato, lievi di stagioni, polvere sommessa, ritorni, visite furtive, risvegli, voci di stanchezza, chiarori.
Moleskine
Diverse vie di Milano sono tappezzate da manifesti e striscioni che pubblicizzano un corso di antiquariato a pagamento. L’immagine che accompagna il testo, ritenuta rappresentativa di questa nobile professione, è quella del ritratto di Jacopo Strada eseguito da Tiziano Vecellio. Strada era un antiquario veneziano di successo, e il dipinto in questione è uno degli esempi più noti di come il cadorino fosse capace di deridere i suoi stessi committenti mostrandone i lati oscuri; vedi le grettezze fisiognomiche di papa Paolo III, la tronfia vanagloria dell’Aretino, o appunto Jacopo Strada, “fissato – dice Zeri – nell’atto di spiare il momento opportuno per insinuarsi nella fiducia del cliente”, protagonista di “quell’attività di trame, colpi bassi, menzogne e prevaricazioni che è l’alto commercio di cose d’arte”. Magari non è una gaffe. Corona e Fiorani insegnano.





