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Considerazioni a margine di Umbria Jazz – 1

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srbilosm.jpg di Sergio Pasquandrea

Non so quanti di voi sono mai stati a Umbria Jazz.
Comunque, ne avrete sentito parlare, dato che è una delle poche occasioni, per non dire l’unica, in cui si parla di jazz sui canali tv nazionali e al di fuori della stampa specializzata. Perché ormai Umbria Jazz è un enorme carrozzone mediatico, oltre che un colossale giro d’affari, che per dieci giorni riversa nel sonnolento capoluogo umbro una fiumana di turisti. Quindi ha tutte le caratteristiche necessarie a scardinare la tetragona indifferenza delle nostre reti d’informazione.
Io, che sono perugino d’adozione, lo seguo ormai da una quindicina d’anni, e da qualche edizione a questa parte anche professionalmente, come inviato di una rivista del settore. Ma non è di Umbria Jazz che voglio parlarvi. O almeno, non proprio.
Vorrei cominciare con un aneddoto. Ero all’Arena Santa Giuliana, uno dei palcoscenici principali del festival. Quella sera suonava il quintetto di Enrico Rava.

Bacheca di ottobre 2007

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Mio caro Josif

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di Linnio Accorroni

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Mio caro Josif,
dunque, ieri, t’ho sognato.
T’ho sognato perchè, magna cum voluptate, m’è accaduto di rileggere il tuo amato Orazio. È accaduto un po’ perché l’ininterrotta frequentazione del ‘novismo’, pur nella mutevolezza delle sue forme (film nuovi, dischi nuovi, libri nuovi), genera in me sempre più spesso sazietà e noia piuttosto che entusiasmo. E poi perché, riordinato lo scaffale dei Meridiani, ne è uscito fuori quel volumetto rosso delle opere di Orazio, ancora intonso nonostante l’avessi comperato qualche mese fa. Dire ‘rileggere’ significa voler autoemendarsi da un peccatuccio di gioventù, significa far rientrare una miserabile pratica di sopravvivenza scolastica in una categoria, quella della lettura, che, nonostante tutto, considero ancora non del tutto surrogatoria o vacua, anche se non gli attribuisco più la sovrana decisività di un tempo. Debbo confessarti, peraltro, che quella disdicevole condotta, ai tempi del liceo, riesce a farmi vergognare tuttora perché ero e sono consapevole di quanto essa fosse imperdonabilmente ladresca e menzognera.

Il ribelle Montesano

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di Piero Sorrentino

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C’è una piccola ma preziosa chiave alfabetica annidata nelle primissime pagine di Il ribelle in guanti rosa, il saggio – romanzo – biografia, e chissà che altro, che Giuseppe Montesano ha dedicato, dopo un lavoro durato anni, a Charles Baudelaire.
Una riga che apparentemente svolge funzioni di mera indicazione editoriale, ma che invece si rivela una preziosa guida per comprendere molto, se non tutto, di questo libro unico e potentissimo.

Moleskine 2

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moleskine-2.jpg di Sergio Garufi

Sfilata di chierici venduti in televisione. L’Ecclesiaste va aggiornato. Chi più sa, più s’offre.

Scampoli di cinismo contemporaneo. In fila alla cassa del supermercato c’è davanti a me un ragazzino di non più di 12 anni. La cassiera lo riconosce. “Ciao Jacopo, come va?” E lui, con aria serissima e stanca: “Sopravvivo”.

La mia banca sta a 500 mt. da dove lavoro. Ci vado sempre a piedi, mi piace passeggiare. Guardo la gente, i negozi, immagino vincite fantastiliarde al superenalotto. O meglio, programmo meticolosamente la distribuzione dei soldi. Quanto alla famiglia, agli amici, quanto in viaggi, che casa comprare, l’auto nuova. Poi mi ricordo di un saggio messicano, s’intitola Disgrazie milionarie e fu recensito di recente su Babelia, il supplemento letterario del quotidiano El Pais. Si tratta di una serie di biografie di messicani che hanno vinto la locale lotteria. Lì ce n’è una sola l’anno, l’enorme montepremi va tutto a un’unica persona e questa è pubblica, tutti sanno chi è, dove abita, che faccia ha, perché viene intervistato in televisione. Forse si pensa che rendendo pubblica la sua figura questo faccia da traino per i concorsi successivi. Il saggio sembra un libro dell’orrore. Stragi familiari, separazioni, suicidi. Una volta realizzato, il sogno di diventare ricco si trasforma in incubo. Come in quell’antica maledizione gitana, che dice: “Che tutti i tuoi desideri si possano avverare”. Curiosamente, lo stesso testo che ricevo per sms dai parenti e gli amici più cari a Natale.

da “Tecniche di basso livello”

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dscf2012.JPG di Gherardo Bortolotti

236-237

236. Nella certezza di essere dalla parte del torto, ci limitavamo a sollevare questioni di procedura, di buone maniere, nei confronti dello stato delle cose. Ci chiedevamo la ragione di episodi quotidiani, imperscrutabili come la forma delle nuvole. Al telefono, guardavamo di sbieco, seguendo le fughe dei battiscopa verso angoli retti, metafisici.

237. Nemmeno all’altezza dei nostri cellulari, diventavamo adulti e scoprivamo cose che non avremmo mai più avuto il tempo di capire davvero, come le macchine di Turing, Lacan, la teoria dei sistemi. I termini della nostra personalità erano i nostri piedi, le emicranie psicosomatiche, la cellulite.

Nazim e John, II

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[seconda parte di questo a. s.]

di Tina Nastasi

figura in ascolto

 

(installazione di Juan Muñoz, figura in ascolto, 1991)

Un postino tra due uomini che non ci sono più

La storia continua attraverso prigioni e speranze strette tra i denti.

Quest’estate ho voluto visitare la Risiera di San Sabba, a Trieste. Malgrado l’obiettivo fotografico, ho dovuto diventare pietra davanti a una piccola teca murata. Custodiva un paio di occhialetti rotondi e un portacipria d’argento: né lenti, né specchi per i subumani. In quel mausoleo dello sterminio (ma che c’entra poi: lì si custodiva il riso!), “fatto di mattoni e silenzio”, né finestre né spifferi, benevoli e messaggeri di qualche mutamento.

Eppure … eppure, anche di quel presente inesorabilmente votato alla morte, qualche segno silente è rimasto sui muri, primitivo nel tratto permesso da un raro strumento di fortuna, ma degno di un essere umano che morde e stringe la speranza tra i denti e oltrepassa “i limiti della propria reclusione”. Perché? Forse per “sopravvivere alla notte” e “immaginare un nuovo giorno”.

“Una persona con la speranza tra i denti – dice John – è un fratello o una sorella che incute rispetto”. E scrive a Nazim come si scrive a un fratello. E scrive a Nazim di Juan Muñoz, un altro fratello incontrato per la strada.

Leggo su Wikipedia cosa si dice di Juan. Era uno che nel corso di un programma radiofonico inedito (Third Ear, 1992) sosteneva che esistono due cose impossibili da rappresentare, il presente e la morte: si può giungere ad esse solo per assenza.

Juan era il secondo di sette fratelli ed era un artista, profondamente. Si dice che abbia prodotto opere di carattere narrativo rompendo con i canoni della scultura tradizionale. Si dice che le sue installazioni spesso invitino lo spettatore a entrare in gioco con esse, e, dimenticando di sentirsi muto testimone, a farne parte con leggerezza.

Nel 1997 Juan e John realizzano una pièce teatrale il cui titolo suona così: Will it be a Likeness? Dura solo 45 minuti.

Juan è morto. Per John anche il giorno può sembrare una lunga notte. E bisogna attraversarla per sopravvivere. E quella notte somiglia, terribilmente somiglia, a una prigione. E allora la poesia e la memoria sono le uniche amiche: allargano le braccia della nostra mente e la portano lontana, altrove.

John scrive a Nazim di Juan: “solo un postino tra due uomini che non ci sono più”.

Ecco il seguito, sempre da (1).

Giovedì sera.

Dieci anni fa mi trovavo a Istanbul, nei pressi della stazioni di Haydar Pascià, davanti a un edificio in cui la polizia interrogava le persone sospette. I prigionieri politici li tenevano all’ultimo piano, dove a volte li interrogavano per settimane. Nel 1938 toccò a Hikmet.

Separare, pesare e distinguere. Un vizio di forma e una forma di virtù. Primo Levi scrittore tra scienza e morale

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di Demetrio Paolin

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A Bruno Vasari
in memoriam

Lo sguardo

Primo Levi non scrive, guarda, a voler essere precisi, notomizza e seziona con precisione chirurgica i fatti vissuti; per questo l’aggettivazione, come ebbe a dire Mengaldo, rappresenta il sigillo regale della sua scrittura.(1) Levi, con molta sobrietà e ironia, non ha mai fatto distinzioni tra lo scrittore e il chimico, sottolineando come il suo apprendistato nella scienza gli abbia offerto strumenti privilegiati per il suo secondo mestiere.

“La chimica è l’arte di separare, pesare e distinguere: sono tre esercizi utili anche a chi si accinge a descrivere fatti o a dare corpo alla propria fantasia. C’è poi un patrimonio immenso di metafore che lo scrittore può ricavare dalla chimica di oggi e di ieri, e che chi non abbia frequentato il laboratorio e la fabbrica conosce solo approssimativamente.”(2)

Senza Parole

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Le mani degli schiavi (seconda parte)

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di Marco Rovelli

(la prima parte è stata postata il 12 aprile) 

La stretta di mano di Marcus, invece, è più morbida. Non si esaurisce in un colpo secco, ma si prolunga quasi temendo la fine. Come a cercare un appiglio nell’altra mano. Come a chiedere conferma della propria esistenza, forse, e la chiede a una mano straniera. Ti stringe la mano e dice, My name is Marcus. Remember it! If you come another day ask for me… E’ come se ti chiedesse di custodire il suo nome, Marcus, di tenerlo con te, di conservarne la memoria, visto che l’esistenza così precaria di chi lo porta non garantisce alcuna permanenza.

Tre romanette

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di Éric Houser

Traduzione di Andrea Inglese

villa d’Este

funerale
rintocco tre toni
vasca di sotto

.
poso sull’acqua
piedi nudi

..
immaginando
la mano sinistra
che solleva lentamente
una gonna fluida
e nera


(l’acqua chiama
acqua)

Diorama dell’est #4

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di Giovanni Catelli

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Hradec Kralové

Tu ricordi questi alberghi tiepidi, a cui tornare nell’alba, fumando piano sulle scale in attesa del giorno, disponibili alla luce, alla visione della vita, precari nell’altezza, sospesi, all’insegna sottile che sbiadisce d’azzurro, nell’ora del mattino che venera il silenzio, mi confortano, leggeri di vetrate, deserti, così giovani a sorreggere il presente, la mano furtiva che tradisce, ignari, del fuoco invisibile attraverso le case, nome lontano a devastare città, esercito d’ombre a pattugliare le strade, mi proteggono, dall’urto dei rimpianti, dal rumore, navi serene sui mari del passato, lievi di stagioni, polvere sommessa, ritorni, visite furtive, risvegli, voci di stanchezza, chiarori.

Moleskine

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moleskine.jpg di Sergio Garufi

Diverse vie di Milano sono tappezzate da manifesti e striscioni che pubblicizzano un corso di antiquariato a pagamento. L’immagine che accompagna il testo, ritenuta rappresentativa di questa nobile professione, è quella del ritratto di Jacopo Strada eseguito da Tiziano Vecellio. Strada era un antiquario veneziano di successo, e il dipinto in questione è uno degli esempi più noti di come il cadorino fosse capace di deridere i suoi stessi committenti mostrandone i lati oscuri; vedi le grettezze fisiognomiche di papa Paolo III, la tronfia vanagloria dell’Aretino, o appunto Jacopo Strada, “fissato – dice Zeri – nell’atto di spiare il momento opportuno per insinuarsi nella fiducia del cliente”, protagonista di “quell’attività di trame, colpi bassi, menzogne e prevaricazioni che è l’alto commercio di cose d’arte”. Magari non è una gaffe. Corona e Fiorani insegnano.

Intervista a Patrik Ourednik

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di Giorgio Vasta

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[Seconda parte dell’articolo su Europeana di Patrik Ourednik, pubblicato sull’ultimo numero della rivista Notable. Questa volta, intervista all’autore. Qui la recensione al libro]

In Europeana, la particolare morfologia del linguaggio – il fatto di eliminare del tutto le virgole e collegare le parti della frase tramite la congiunzione “e” – determina nel lettore la percezione di un tempo “morbido” e permanente, di un larghissimo presente nel quale la Storia, tutta insieme, accade e continua ad accadere.
Qual è la ragione di questa scelta?

L’ha appena formulata: si trattava di abolire i riferimenti temporali. Abolire, invalidare i riferimenti temporali – mi sono detto – permetterà che altri riferimenti appaiano. Riferimenti incerti, vacillanti. È in questo vacillare che possono trovare rifugio frammenti di verità altri, altrettanto incerti.

La buona novella

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di Massimo Rizzante

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La fine. Uno degli uomini più affidabili su questo tema è Cioran.
Nel suo Oltre il romanzo, a mio avviso il più grande saggio sul romanzo mai scritto ad opera di un persuaso denigratore di quest’arte, Cioran afferma:

Un genere diventa universale quando seduce intelletti che non vi sono affatto portati.

E ancora:

Quando non si ha a cuore l’avvenire del romanzo, ci si deve rallegrare se i filosofi ne scrivono.

Parole da scolpire a caratteri d’oro sulle facciate delle università!
Ma mi domando: che cosa può fare chi vive in un’epoca in cui non solo i filosofi, ma i giornalisti, gli uomini e le donne di Stato, le top-model, le rock-star, i giovani, gli adolescenti secernono senza soluzione di continuità i loro succhi romanzeschi?

Autoreverse (anteprima romanzo)

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di
Francesco Forlani

Veneria
Cosa dicono di loro? Ho cercato un po’ dappertutto, informazioni di ogni tipo e testimonianze dirette, quando possibile, sulle sorelle Dowling. Una cosa la so per certa ed è che Lajolo ha mentito. Nel Vizio assurdo pretende fosse una poco di buono la Constance, una sorta di malafemmina, anche ignorante.

C’è chi la fa morire in modo come dire, glamour, inutile. In un incidente automobilistico da “meglio gioventù”, pochi anni dopo la scomparsa dello scrittore. E invece sarebbe morta d’infarto, molti anni dopo, in verità. Ho addirittura letto da qualche parte che l’americana, leggendo i giornali italiani l’indomani del suicidio, con il necrologio e le testimoniamze del mondo della cultura, avesse esclamato: Ma allora era uno scrittore famoso!

L’ultimo numero di Stilos?

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gianni_bonina.jpgdi Giulio Mozzi

Oggi è in edicola l’ultimo numero del quindicinale Stilos, inventato e diretto da Gianni Bonina (nella foto). Stilos uscì dapprima come supplemento settimanale del quotidiano La Sicilia, e dal giugno 2005 – sempre pubblicato dallo stesso editore del quotidiano – come quindicinale autonomo. Per nove anni la rivista si è retta grazie alla generosità di Gianni Bonina che, lavorando nella redazione del quotidiano come caposervizio, ha diretto e prodotto Stilos “nei ritagli di tempo”, come si usa dire, ossia sottraendo tempo al riposo. E si è retto inoltre, Stilos, grazie alla generosità di un gran numero di intellettuali, giornalisti, critici, scrittori, che hanno fornito gratuitamente migliaia di articoli, servizi, interviste e recensioni. Attorno a Stilos si è creata una vera e propria comunità intellettuale di collaboratori e lettori. Di Stilos, al quale mi onoro di collaborare da anni, ho sempre ammirato l’indipendenza, la curiosità, la passione. Non conosco le ragioni per le quali l’editore ha deciso di interrompere la pubblicazione di Stilos. Mi auguro che possa intervenire un ripensamento.

(ripreso da vibrissebollettino)

Ci sono città con i fiumi

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letino.jpg di Davide Vargas

aprile 2007

Dalla superstrada che in quel punto curva si vede il lungo filare di pini teso come una tangente.
Vado a vedere.
I tronchi spuntano dritti come menhir dalle malerbe che infestano i cigli. Le chiome si congiungono. Cammino sotto un tetto di nuvole verdi che si sfilacciano di tanto in tanto scoprendo omologhi addensamenti violacei.
Il cielo è carico di elettricità. Pioverà.

Nazim e John, I

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[ricevo e pubblico molto volentieri questo pezzo da T. N., a.s.]

di Tina Nastasi

Quando si racconta una storia …

A lungo ho frequentato silente e pressoché invisibile il blog di Nazione Indiana. C’è un nome nel gergo della rete per indicare i “guardoni” come me, ma io non lo ricordo perché ritengo di essere più una tartaruga che una guardona. Lentamente considero e mi muovo nello spazio delle parole. Raramente, ai giorni nostri, mi è stato dato di trovare una porzione di questo tipo di spazio dedicato all’inutilità e all’utopia: Nazione Indiana ne rappresenta, ai miei occhi, un chiaro e limpido esempio.

A lungo, ma con la clessidra del tempo infissa nelle tempie, mi sono chiesta cosa potevo offrire agli arguti lettori che siete tutti voi di Nazione Indiana. Come potevo diventare “noi” con voi? Difficile scegliere una lettura per un primo incontro con dei lettori difficili: le nostre passioni ci dividono.

Per noi contemporanei quel “noi” ha ancora ben poche virtù: più spesso che no, lo rendiamo monarchico a nostra insaputa e lo riempiamo di un “io” che non sa più librarsi nella leggerezza dell’aria (pensieri, idee, sogni e desideri, sentimenti e azioni) e che rimane ancorato, o, meglio, impigliato nelle cose di ogni giorno.

Provengo da una terra straniera e conosco il mare che si rivolge a sudovest. Quest’estate ho gettato uno sguardo verso nordest e ho incontrato le poesie di Nazim Hikmet, ho ascoltato le parole di John Berger.

Se pensiamo che la confusione in cui siamo costretti a vivere oggi, forse come ieri, origina dal far di se stessi ogni ora un partito, in qualche modo ho dato corpo a quel che diceva Vladimir Vladimirovič Majakovskij

«Non ti chiudere nelle tue stanze, partito, rimani vicino ai ragazzi di strada»

In qualche modo, Nazim Hikmet e John Berger sono dei ragazzi di strada, vicini ai ragazzi di strada.

Lectures: Ade Zeno legge Matteo De Simone

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“… la scimmia uscì dalla capanna e saltò sulla testa dell’elefante. Ci appoggiò l’orecchio, la colpì con un sasso, la strofinò con le zampe. Quindi disse: «Elefante, mi dispiace, uno scoiattolo folle è entrato nella tua testa. Ora cercheremo di mandarlo via». Un essere alieno e disturbante che si insinua nelle zone più nascoste e irraggiungibili dell’anima, entra dentro, tocca il fondo, trova un luogo fertile per iniziare le operazioni di sbranaggio infido. Si cela dietro la maschera edulcorata di una favola per bambini il mostro deciso a intaccare gli abissi inquieti della donna che attraverso la voce precisa di Matteo De Simone ci racconta la sua storia: una favola che parte da lontano, dai giardini sognanti e insicuri dell’infanzia, per raggiungere con lo stesso sguardo bambino – solo più lacerato, più sofferente – i drammi di un’età adulta che malgrado il passare degli anni non è riuscita ancora a sconfiggere i suoi spettri privati, piccoli sconfinati terrori covati in silenzio, pronti a scaraventarsi fuori da un momento all’altro, votati alla distruzione completa della vittima.

Europeana e la polvere della storia

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di Giorgio Vasta

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[Pubblico oggi la recensione a Europeana di Patrik Ourednik, a breve l’intervista all’autore. Recensione e intervista sono entrambe pubblicate sull’ultimo numero della rivista Notable]

C’è un film di William Wyler – un western che si intitola Il grande paese ed è del 1958 – nel quale a un certo punto si assiste a una scena tipica del western classico: la scazzottata tra cowboy (uno dei due cowboy è un ancora giovane Charlton Heston, fra l’altro).
Le scazzottate, nei western, sono un momento di esaltazione della matericità dei corpi guadagnata attraverso inquadrature ravvicinate, primi piani sia visivi che sonori (il rumore secco e sordo dell’impatto dei pugni contro i volti). La messa in scena della lotta – con le sue contorsioni, le finte, gli evitamenti e le tumefazioni, il ghirigoro di sangue all’angolo del labbro inferiore, la polvere che si solleva e resta per un momento in sospensione, le traiettorie degli sgabelli scagliati attraverso il saloon e tutto l’arcinoto repertorio – è un “luogo” cinematografico nodale: chiarisce i legami tra i personaggi e organizza l’ordine morale a partire da quello fisico. Ha dunque bisogno di una modalità di ripresa molto ravvicinata, che stia addosso ai personaggi e al loro scatenamento agonistico.