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Film Marylin

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Paolo Gioli e Billy Wilder: due immagini, innanzitutto. Due immagini che trapassano lo schermo; e in effetti di trapasso si parla, dirottamento (in Gioli) di fotografie trasformate da provino per un’autopsia ad autopsia rianimata, in un “corpo a corpo” tra corpo e pellicola.

Filmarylin, Paolo Gioli, 1992 / Sunset Boulevard, Billy Wilder, 1950

Filmarylin, filmando Marylin come fosse davvero la prima volta (ma poi quello di Paolo Gioli è un cinema che si vuole disancorato dalla reminiscenza di un qualcos’altro cinematografico, che si vuole, per vocazione, quasi proto-filmico, non imponendo una gerarchia della visione ma suggerendo ogni volta “un’avventura percettiva” nuova, e insieme è un cinema che si lascia continuamente dietro tracce e tracce di tracce, “test” sulla visione); filmando Marylin come se «fossi stato io il primo ad entrare per primo nella sua stanza di morte», quindi come se fosse possibile restituire al corpo della trapassata Marylin (che qui è già morta due volte, sia perché siamo nel 1992 sia perché il libro da cui Gioli riesuma le foto è un grande catalogo asfittico di pose per la lapide) un volto che non sia quello parlato e vulnerato della fiction, ma un volto e un volto soltanto, non captabile dall’accumulo di re-visioni ideologiche.

Due immagini, ancora, due immagini non solo come piano di una violazione ubiqua, superficie immota e redditizia percossa dagli attrezzi dello scavo spettacolare che ne grattano il fondo, ma anche, al rovescio, come estensione deflagratoria, come trasalimento di un limite: “un volto che buca lo schermo”, che si caccia, emerge da uno spazio acquoso in cui i corpi sembrano galleggiare. Sunset Boulevard si apre e si chiude (ma qui sarebbe meglio dire: si spalanca) attraverso la medesima, migrante convivenza tra campo e fuoricampo (quello da cui – secondo E. Ghezzi –  «sempre si parla fingendosi onniscienti»), e accade a Wilder di filmare (così come già aveva filmato l’aria tra gambe di Marylin) un altro volto iconico, sintesi di diciture e trivellazioni, quello cioè di Norma Desmond/Gloria Swanson, figura di quanto trabocca, buca, di quanto non è più – cinematograficamente («it’s the Pictures that got small») – contenibile.

Due immagini, allora, che finiscono per visitarsi, mandate in onda, alla deriva, insieme, come in una giuntura di dissolvenze/sovraimpressioni, come se si trattasse, infine, di aver girato lo stesso film, e sempre fuori tempo massimo, cominciando e ricominciando dalla caduta, da quanto vien meno. Forse è che in questo sottrarsi-essere sottratta, in questo aver “clamorosamente” mancato il tiro il punto il viale, che è possibile che la diva precipiti in donna, come nella Salomé di Laforgue: oltre il parapetto, e con un grido finalmente umano!

Diario di Saragozza: forever Jung

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di

Francesco Forlani

1. Qui in Spagna, a Saragozza è come se la storia si fosse fermata per un ventennio, anni 50-70, periodo cruciale di cambiamenti per poi riprendere da dove ci si era fermati. Ecco perché quando cammino per queste strade illuminate a lampione, giro per salumerie un po’ imperfette, ho come l’impressione di rivivere l’infanzia trascorsa in Italia, rivedere le facce da italiano in gita, quella leggerezza italica sempre in famiglia, banda, comitiva, quel quarto stato, nel senso di comunità e non di dolore, che con il tempo, in questi tempi sembra essere andato perduto. Solo qui si può vedere una riproduzione della famosa opera di Volpedo affissa su una veranda.

 

2. Il teatro de las Esquinas

Quanti anni ha Carlos Martín? Abbastanza da poterti raccontare della Transición democrática española, il non facile periodo seguito alla morte di Franco, della rinascita del paese, e quando ti dice della Spagna degli anni dieci e venti, e cita Garçia Lorca o Louis Buñuel, Salvador Dalì, gli brillano gli occhi come chi vi fosse stato anche allora.

La transizione copre il periodo che va dal 20 novembre 1975 al 28 octobre 1982, dunque quarant’anni fa si concluse. Dieci anni fa due compagnie, molto in voga a Saragozza, a quella transizione regalarono momenti di pura gioia, assoluta libertà creativa, partecipando alla Movida, La Nueva Ola che avrebbe infiammato di speranza le città spagnole, la felice stagione di Pedro Almodovar e Victoria Abril, della fotografa Ouka Leele e di tanti altri, come appunto le compagnie “Teatro del Temple” e “Teatro Che y Moche” che nel 2012 inventarono un progetto ambizioso e sociale, Il Teatro de Las Esquinas di Saragozza.

Carlos è molte vite, forse per questo non se ne indovina l’età sospesa come accade per i sognatori pragmatici. Me lo ha presentato Cesare Capitani, amico di lunga data e straordinario attore e commediografo da molti anni residente a Parigi. Si sono frequentati a Milano, fine anni ottanta quando Carlos insegnava alla Paolo Grassi regia e recitazione.

A Carlos racconto tutto quello che ho visto e sentito a Saragozza, l’anima surrealista racchiusa nel Gran Milagro in cui si racconta  di un giovane contadino, Miguel Juan Pellicer, a cui la Vergine del Pilar il 29 marzo del 1640 aveva fatto ricrescere la gamba che gli era stata amputata due anni e mezzo prima. Come ricorda Vittorio Messori che all’evento ha dedicato un romanzo, si tratta del miracolo dei miracoli. Aveva scritto Émile Zola: “Crederei ai miracoli solo se mi dimostrassero che una gamba tagliata è ricresciuta. Ma questo non è avvenuto e non avverrà mai” .

Abbiamo messo su tipo 99 progetti, come le tesi protestanti, che in una città cattolica come Saragozza pare quasi una cosa naturale. Progetti da realizzare con il Liceo dove insegno, dall’Edipo messo in scena dalla compagnia e a cui assisteranno le nostre “secondes” in novembre, a uno spettacolo su Nietzsche, Ecce homoda fare a inizio marzo con le classi dell’ultimo anno per il théâtre philosophique. Ma anche di progetti nostri , in particolare tre: il primo su una riduzione teatrale del romanzo Il fascista , con il titolo provvisorio La torre de los italianos .Il secondo su Errico Malatesta e la sua turné spagnola a Barcellona, Saragozza e Madrid, e un terzo di cui si dirà poi.

In una di queste ditirambiche e luculliane riunioni, nella magnifica cuisine del ristorante del teatro, è accaduta una cosa un po’ particolare. Eravamo leggermente alticci, del resto come non esserlo in una città il cui fiume si chiama Ebro, e mentre fumavamo una sigaretta sul terrazzino ci siamo entrambi resi conto che una farfalla, grande come una falena, ma dalle ali colorate di certe introvabili maripose, era rimasta prigioniera tra due vetri e disperata sbatteva le ali tentando di uscire. Don Carlos, con estrema cura e controllo dei gesti ha dapprima cercato di capire come fare per non schiacciarla tra le due finestre a scorrimento e una volta scoperto il dispositivo l’ha affrancata dall’angusto spazio catapultandola nel mondo. Ecco, ho detto, da oggi per me sarai Don Carlos, el liberador de las mariposas.

3. Un nodo papillon.

“Delle farfalle che riposano le ali si dice che siano chiuse a libro. Spetterà al lettore adesso fare in modo che di nuovo il soffio di vita, ineffabile lo schiocco, il battito, faccia giungere altrove le parole che vi sono contenute, perché psiche in greco vuol dire sia anima che farfalla. E che tra le pagine possa scorgervi come una debole e impercettibile traccia del passaggio di un angelo minore o di una farfalla dal manto merlettato di bianco e nero.” Questo avevo scritto in una prefazione, preludio, al bel racconto fotografico di Rino Bianchi su vino e scrittura. L’indomani avrei fatto il mio corso di filosofia con una classe assolutamente brillante, ventuno anime curiose, attente, colte e avendo qualche giorno prima comunicato la data del contrôle ci eravamo lasciati con un po’ di ansia, la loro di non riuscire a fare un buon lavoro e la mia di essere stato sufficientemente “didattico” nella preparazione della nozione in questione: le bonheur.

Così prima di uscire, mentre sceglievo la cravatta mi sono imbattuto in un farfallino che sinceramente ho fatto a fatica a capire come avesse superato il fuoco di fila del terribile triage delle cose da portare in fretta e furia da Parigi per cominciare la nuova vita. E allora ho pensato che quello era un segno, che avrei dovuto affrontare il giorno all’insegna del beau geste che Don Carlos aveva compiuto il giorno prima: farò in modo che il corso di oggi sia quello di un liberador de las mariposas.

Quando alle otto abbiamo cominciato la lezione ho raccontato di come governare l’ansia di non sapere abbastanza, e ho suggerito la strategia della Nihilatio mundi trattino Ricomincio da tre, una cosa sospesa tra i grandi utopisti dell’epoca moderna e il nostro Massimo Troisi.

Quando abbiamo l’impressione di non sapere niente la prima cosa da fare è proprio di fare finta di non sapere assolutamente nulla. Per gli utopisti era il mondo che andava mentalmente distrutto per ripensare un nuovo mondo ovvero capire che cosa, per esempio un uomo e una donna avrebbero messo su come sistema di vita, di regole, di leggi su un’isola deserta. Per noi sarà invece fare finta di non aver fatto nessun’ora di filosofia e dunque lasciar raffiorare da sé, come in una reminiscenza platonica, le cose che erano dentro di noi senza rendercene conto. A quel punto ognuno di loro, chino sui fogli ha cominciato a riprendere dalla memoria, concetti, figure, frammenti di testi, parole chiave come phronesis o eudemonia, scuole filosofiche, il pessimismo gaio di Schopenhauer o l’ottimismo tragico di Rousseau.

Poco dopo avere chiuso i quaderni alla fine ho potuto notare che avevano posato le ali. Ora non v’era più pericolo.  Ero come sollevato da quel terzo tempo e l’ora stava ormai per finire quando le due ragazze al primo banco hanno cominciato ad agitarsi e voltandosi verso il resto della classe mostravano a dito una farfalla che tentava di entrare da noi. E sono rimasto senza parole.

ps

Ho raccontato questa cosa ad Andrea Inglese al telefono ieri e lui mi ha detto, urca (eufemismo) sincronicity pura, da cui il titolo di queste pagine.

 

Crederci

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di Giorgio Mascitelli

A tutti coloro che lodano il tempo andato

Noi in famiglia non crediamo nei selfie. Non occorre, credo, spiegare che quei sorrisi posticci, quelle pose frettolose, quelle angolazioni involontariamente caricaturanti quanto ci orrifichino. Dove sono quei distesi sorrisi spontanei, quel nobile riflettersi della luce del momento dello scatto nel gioco d’ombre dei volti, quella gestualità serena e sicura che si trovano nel ritratto fotografico tradizionale? Questo però ci obbliga a non essere mai immortalati insieme perché a turno ciascuno di noi deve farsi fotografo degli altri oppure ad affidarci alla mano forzatamente frettolosa di un estraneo, sempre che ce ne sia uno in circolazione in quel determinato istante. Eppure questa monchitudine, questa scissione è preferibile per il suo spirito di verità all’oscenità del selfie perché così almeno sappiamo di essere scissi. Talvolta non riesco a vietarmi di pensare come sarebbe La colazione sull’erba di Manet in forma di selfie: tutti e tre assiepati al cento a coprire la bagnante sullo sfondo, nessuna conversazione possibile, ma solo sorrisetti idioti e smorfie, forse addirittura un gestaccio, la mano destra allungata di uno dei due bellimbusti sulla mammella ignuda della modella e la sinistra dell’altro distesa fuori campo per reggere il telefono che fotografa. No, noi non crediamo nel selfie e per questo nel vicinato ci additano. Quante volte alle mie spalle ho udito mormorare “ Essi non si selfano”!
Spesso mia moglie, che è preoccupata di questi cattivi rapporti con il vicinato, soprattutto ora che s’avvicina l’inverno senza gas, anche se Cingolani ha detto di non preoccuparsi, per fronteggiare il quale dovremmo tutti farci più solidali gli uni con gli altri, mi dice “Alex, che ti costa? Facciamoci due o tre selfie anche noi, solo per far vedere che indulgiamo ugualmente alla vieta attività. Poi li cancelliamo subito. Tanto nessuno se ne accorge”. Ma io resto abbarbicato alla mia idea, senza la quale mi sembrerebbe di morire. Attraverso di essa io esisto, esisto ancora, e tu puoi aver un bel dire che la mia idea sia solo un enorme NO; quando tutto ti sfugge tra le dita, anche le idee, il NO è pur sempre qualcosa. Un  NO è pur sempre la vestigia di tutte le altre nostre cose che c’erano un tempo.
Invece Alex jr., il maschietto, con tono di sfida adolescenziale ogni tanto mi dice che tanto lui i selfie se li fa con i suoi amici, anzi ne hanno fatto perfino uno di quelli pericolosi sulle rotaie del treno, di cui talvolta parlano i giornali quando succede la disgrazia. Ma io gli do uno scappellotto e gli spiego che tra vent’anni dei suoi selfie pericolosi non resterà nulla ( nemmeno lui, se continua a farli sulle rotaie) e invece, quando guarderà la fotografia di quella splendida gita a Brunate con sfondo lago, allora si ricorderà veramente delle emozioni per via della precisione delle espressioni e dei colori. Lui ghigna e dice che sono un barbogio.
Ma colei che mi ha messo in crisi veramente è Karina, la femminuccia, che essa una volta faceva una preghiera, non una preghiera letterale ma liberamente parafrasata, di ritorno dagli scout, la quale mi è capitato di udirla casualmente: “Padre nostro che sei nei cieli, il problema è che anche il padre mio ci vuole stare su nei cieli, a tutti i costi, ma tu digli di farmi scendere o quanto meno liberaci dai suoi divieti, che voglio star qui sulla terra a godermi la quotidiana manna”. Quando sentii queste tue parole, Karina mia cara figlia, quasi ebbi un mancamento, pertanto, se queste sono le tue idee, contrariamente all’opinione di Cingolani, è bene che tu ti preoccupi dell’inverno che arriva. Ma queste sono solo razionalizzazioni consolatorie, la verità è che dopo la sua preghiera io mi sento come quell’ometto che cammina frettoloso, guardingo, quasi stilizzato, come se fosse spintonato da una mano invisibile, e dove cazzo vada nessuno lo sa.

Una formula matematica? Che spavento!

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di Antonio Sparzani
Voi cosa pensate quando vedete scritta sulla carta una formula matematica?
Il primo pensiero andrà forse a ricordi di scuola, complicazioni, cose per specialisti, scritture criptiche inventate per comunicare dei segreti che non si vuole diventino troppo condivisi, strumenti di un sapere iniziatico, astrusità, enigmi, cabale.
Anche se pensate così, l’importante è che il vostro secondo pensiero non sia quello di ritirarsi e rinunciare a capire questi enigmi, ma sia quello di distruggere la loro natura di enigma. Se un enigma diventa noto a tutti allora non è più un enigma, perde la sua natura, diventa una banalità che san tutti, un segreto di Pulcinella. Se questo pensiero vi sfiora o addirittura vi abita, dategli spazio, è un ottimo segnale. Si può proseguire e si possono immaginare analogie.

Se non conosceste la lingua nella quale questo testo è scritto, le sue pagine sarebbero per voi completamente misteriose, perfino strane, con tutti quei segnetti messi in fila e ogni tanto magari una figura altrettanto strana. Ma se invece siete dei parlanti nativi di questa lingua, se l’avete succhiata con il latte materno (e magari qualche bravo/a maestro/a vi ha insegnato i segnetti) e ha formato il veicolo della vostra entrata nel mondo, tutti i segnetti diventano miracolosamente portatori di significato, fanno risuonare qualcosa nella vostra testa, i segnetti t-e-s-t-a messi assieme alludono, ne siete sicuri, a quella parte del vostro corpo, così come di quello di tutti i vostri simili, nella quale “sentite” agitarsi tanti processi, che chiamate emozioni, ragionamenti e forse altro, tutti nomi a loro volta appartenenti a questa stessa lingua.

Se non avete mai studiato musica e guardate uno spartito, provate la stessa sensazione di completa estraneità, mentre anche qui, se qualcuno vi ha invece iniziato a quest’altro codice, di questo nuovo modo di tradurre segnetti in cose che fanno risuonare la vostra testa, allora lo spartito di nuovo acquista vita, ne carpite i segreti, che più tali non sono, esso rimanda anzi a una successione di suoni dei quali potrete innamorarvi o che potrete rifiutare, ma certamente avrà perso la sua natura di enigma. Perché è stato inventato questo codice? Perché sarebbe stato molto complicato usare le parole del linguaggio naturale per descrivere una melodia, ad esempio: si cominci con la nota, chiamata do3, corrispondente a tot vibrazioni al secondo di una corda metallica, poi si suoni la nota che ha i 9/8 della sua frequenza e poi… e poi… . Certamente infattibile. È stato necessario inventare dei simboli per quei suoni, poi chiamati note, un modo per scriverle, usando la posizione rispetto a un rigo fatto di cinque linee parallele orizzontali come simbolo del valore delle loro frequenze, e poi inventare dei segnetti per rappresentare le pause tra le note, la durata di ognuna di esse, il ritmo da seguire, eccetera, eccetera.

La matematica, e le scienze che se ne servono, più o meno pesantemente, dalla fisica all’economia, usano anch’esse dei “segnetti”, dei simboli che bisogna conoscere per capirci qualcosa, simboli che sono per lo più raggruppati in “formule”. Bella parola questa, che sembra un diminutivo della parola “forma”. Il miglior modo per capirne qualcosa, come quasi sempre, è esplorarne un po’ la storia e la formazione. Cominciamo con questa domanda provocatoria:

Che cosa hanno in comune una Ferrari e il censimento della popolazione nell’antica Roma?

Non molto, sembrerebbe, tranne però il fatto che c’è una stessa parola che salta fuori in entrambe. Nell’antica Roma, due millenni prima dell’epoca delle Ferrari, Tito Livio, storico di età augustea, scrisse un’opera immensa, cui si conviene di dare il titolo Ab urbe condita – dalla fondazione della città–per–eccellenza – un’opera che in 142 libri ripercorreva, con partecipazione e devozione intense per le sorti di Roma, la sua storia dalla fondazione all’inizio dell’impero, il tempo di Augusto (imperatore di Roma dal 27 a.C. al 14 d.C.). Mentre narra degli avvenimenti – in tempo di pace – della repubblica, Livio ha occasione di segnalare l’origine di un istituto importante nella storia di Roma, quello della censura che non designa, in quest’epoca, quel che oggi normalmente s’intende con questa parola (anche se non ne è poi così lontana, e forse tutto è cominciato da qui…), ma l’operazione di censire la popolazione, e censire significa, così ci racconta Livio, qualcosa di più che semplicemente contare e sapere nomi e domicili dei cittadini:

«In questo medesimo anno ebbe principio la censura, istituto che ebbe piccolo esordio, ma che acquistò di poi sì grande incremento. Ché il regolamento dei costumi e della disciplina Romana fu nelle mani del nuovo magistrato, ed il Senato e le centurie dei cavalieri ebbero il discernimento del loro onore o disonore in suo potere; e l’ispezione dei luoghi pubblici e privati, le rendite del popolo romano, furono al suo cenno ed arbitrio.»

Dunque un censimento non proprio neutrale, a quanto dice Livio: il potere del magistrato sembra andare oltre la mera registrazione dei cittadini; ma poiché, continua Livio, mentre diventava urgente eseguire questa operazione, i consoli avevano altre faccende più importanti da seguire,

«Fu presentata al Senato una memoria, nella quale si faceva presente che quella operazione, faticosa e poco consolare, aveva bisogno di un magistrato speciale, dal quale dipendessero gli scribi, i custodi e la cura dei registri, e che regolasse a suo modo la formula del censimento [cui arbitrium formulæ censendi subiceretur]»

È proprio la parola latina formula, diminutivo, sì, di forma, ma con un evidente slittamento di significato, che fa la sua comparsa, nel senso di insieme di regole enunciate (stavo per scrivere “formulate”) con precisione, da seguire nell’esecuzione del censimento. Insieme di regole, dunque, purché ben precisate e non soggette ad ambiguità; prescrizioni chiare e distinte.

E la Ferrari non è, forse, per antonomasia, una macchina di “formula 1”? Anche qui la stessa parola, è usata in un senso molto simile: l’insieme di regole cui è soggetta una certa categoria di automobili per poter partecipare a un ben preciso tipo di gare.
E poi c’è la formula di governo, un insieme di regole, frutto di delicati equilibri ed alchimie, dalle quali è costituita quella che il linguaggio ufficiale chiama “la compagine ministeriale”. O la formula, spesso riservata, di una crema di bellezza, le regole ferree – e commercialmente segrete – con le quali deve essere composta quella crema, per poter avere quel marchio e quel nome.
Su questa strada ci si avvicina ovviamente alla formula chimica di un composto, quell’insieme di simboli, che funzionano secondo precise regole internazionalmente stabilite – N sta per azoto, O per ossigeno, Sb per antimonio (che in latino si chiamava stibium, il latino c’entra sempre), ecc. – e che vanno combinati in modo da dire esattamente quali elementi e in quali proporzioni formano il dato composto; H2O (il 2 andrebbe un po’ in basso, ma qui non riesco a farlo) è la formula dell’acqua, ci dà una informazione precisa su quali sono i costituenti elementari dell’acqua: ogni molecola, minima quantità d’acqua che ne conserva le proprietà, è costruita con due atomi di idrogeno e uno di ossigeno. Non è naturalmente una informazione ancora completa su come l’acqua è fatta (problematica in verità non banale neppure per gli studiosi), però fornisce una informazione precisa, per quanto parziale, su un aspetto dell’acqua.
Fino ad arrivare alla formula fisica, o, in cima alla scala, alla formula matematica.

Facciamo solo due esempi, che certamente da qualche parte avete già incontrato.
Formula matematica:
(x+y)² = x² + 2xy + y²
la cosiddetta formula del “quadrato di un binomio”. Si potrebbe dire “Se volete calcolare il quadrato (cioè il prodotto per sé stesso) della somma di due numeri, potete sommare il quadrato del primo con il doppio del prodotto dei due numeri e con il quadrato del secondo”, certamente chiaro, solo un po’ più lungo; capite che quando la formula è appena un po’ più complicata, la traduzione in parole diventa sempre meno perspicua e meno gestibile. È meglio tenersi la formula.

Formula fisica:
E= m c²
si tratta di quella ultrafamosa formula, malauguratamente trovata da Albert Einstein, che consente di stabilire una “equivalenza” tra massa ed energia; purtroppo essa contiene quel valore c², che rappresenta il quadrato della velocità della luce nel vuoto, cioè un numero molto grande – nel sistema di unità di misura nel quale esprimiamo la massa in Kilogrammi e l’energia in Joule – pari a , circa, 90.000.000.000.000.000, 9 con 16 zeri!; ciò significa che disintegrando, cioè facendo scomparire, un grammo di materia si ottengono 90 milioni di miliardi di Joule, ovvero, per dare un’idea con le misure cui siamo più abituati nella vita quotidiana, 25 milioni di Kilowattora; dicevo “malauguratamente”, com’è ovvio, perché si tratta della formula che ha reso coscienti gli scienziati e soprattutto quelli che volevano applicare la scienza a scopi disumani, della possibilità di costruire delle bombe di nuovo tipo, tipicamente le atomiche, che hanno reso possibile l’abominio di Hiroshima e Nagasaki (bisogna pur “verificare sperimentalmente” la teoria, no? Se non che teoria è?). E speriamo che non vogliano ripetere la verifica nei prossimi mesi qui, a due passi da noi.

Monsieur Jean Luc

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di Manuel Maria Perrone

Lettera a Jean Luc Godard

Monsieur Jean Luc,

Di recente ho visto una sua intervista in cui giocava con il genere del Covid : il covid, la covid, i due allo stesso tempo, l’uno e il tre, e ne usciva con un elegante Amo tutto ciò che è tre.  Siamo nati entrambi il tre dicembre, ma mi è stato detto di trascurare questo dettaglio, e non è di quel tre che sono qui a parlare. Ma dell’uno e trino cattolico, che credo sia una forma molto contemporanea di accettazione dell’alterità. Passiamo la vita credendo di scegliere, quando invece siamo entrambe le scelte, come ci direbbero i fisici quantistici.

Al di là delle sue torri inquisitorie, la religione cattolica si è fatta trama dei nostri impulsi animistici e delle nostre tentazioni politeiste. Non per rubarli, come ho creduto a lungo, ma perché non poteva farne a meno. Dio è uomo e donna allo stesso tempo, vierge et viole – vergine e stupro – voie et voile – strada e ostacolo. E a poco ci serve il nostro bagaglio razionalista per avvicinarci a questa dimensione: che Dio esista o meno è puro aneddoto, dal momento che l’esistenza di Dio è dimostrata dalla sua inesistenza.  Il paradosso – mi diceva Jung l’altro giorno – è l’unico modo per dialogare con il mistero.

L’ho vista fumare con passione il suo sigaro e, mi creda, non cadrò nella trappola di pensare che Lei sia ateo: i fumatori sono gli ultimi credenti. Cinquantun anni ci separano. Non posso che essere titubante nello scriverLe, per tutte quelle ragioni che ingombrano la vita che Lei condivide con il suo nome. Lei si fa adolescente nelle forme, per prendere in giro quel celebre Godard che nessuno conosce. Avvicinarsi a Lei con troppa stima sarebbe quindi una mancanza di stima. Non stimarla, invece, sarebbe una mancanza di lucidità.Non mi definirò ateo, per quelle stesse ragioni. E in definitiva anche quello è aneddotico.

Ma Lei è una forma contemporanea di Ildegarda di Bingen, così svizzera che nessuno lo sa, e io non sono certo un suo apostolo, ma uno che la legge, che la legge piuttosto come una buona ricetta che come una Bibbia. Che cerca in Lei tracce per ridisegnare i propri dubbi. Per queste ragioni, non trovo nulla di più pertinente che chiederLe di recitare nel mio primo film – L’Ultima Cena – per scuotere insieme l’immagine che Lei rappresenta e giocarne un po’. Queer, fisica quantistica e religione cattolica mi sembrano quindi l’uno e trino su cui sto costruendo la storia di questo film. Come un Ex-Voto. Negli Ex-Voto ho l’impressione di trovare la stessa coerenza: il dramma esiste contemporaneamente alla soluzione del dramma, il prima è contemporaneo al dopo, e questi disegni maldestri e infantili condividono spesso gli stessi luoghi dei maestri della luce pitturata: le chiese.

Ma non sono così visionario da pretendere che nel cinema possa esistere altrettanta promiscuità. In questa storia ho creato un gineceo di suore eterodosse, così anziane da sopravvivere al contratto in proprietà nuda del loro convento e che si organizzano in un modo di vivere così ancestrale da essere sicuramente una proposta di futuro. Localizzo la storia a Locarno, perché in quel territorio sono esistite Oasi creative in parallelo a una realtà contadina e ottusa, che spesso non se ne è nemmeno resa conto. Penso al Monte Verità o lo stesso festival del cinema. Indossando il velo si diventa semplicemente una donna velata, come dice la Madre Superiora a un commissario confuso, entrato per indagare o , forse,  scoprirsi imputato. Le mie suore saranno allo stesso tempo attrici famose. Naturalmente non nascondo che si tratta di un astuto tentativo di sfuggire alla regola implicita di questo ambiente: per fare un film bisogna aver già fatto un film.

Ma anche per creare un dubbio: e se non fossero suore ma attrici travestite da suore? Il che è vero di fatto, ma potrebbe essere falso nel finto della storia inventata. Forse sono star che sono scappate dal festival e si sono rifugiate in un convento dei dintorni. Geraldine Chaplin sarà Suor Negazione. Pensa di essere una ragazzina rapita da queste vecchie suore. Visibilmente delirante, confessa segretamente al nostro intrigato commissario di aver ballato tra le braccia di Marlon Brando. Che cosa è vero? Anche per queste suore il paradosso è l’unico alfabeto per dialogare col mistero, come Claudia Cardinale, Suor Ultima, che cade con la testa nel piatto, per scherzo, per rimettere la morte al centro del racconto. Il maiale del convento si chiama Schrodinger come il più famoso dilemma del gatto nella fisica quantica. Per scoprirlo, bisogna entrare nel convento, ma entrando nel convento si altera la realtà. Un film è vero proprio perché non lo è. E per queste ragioni mi rivolgo a Lei, monsieur Jean Luc, l’adolescente, l’umano, per chiedere al mito, a Godard, di rappresentarsi qui. All’inizio del film un uomo viene trovato a rubare un pollo congelato nascosto sotto il cappello. Il commissario scopre in quest’uomo il maestro che ha disciplinato la sua infanzia. Farle interpretare questo ruolo, se lo immagina, è allo stesso tempo farlo interpretare a Fritz Lang. Serve a alimentare il dubbio. E naturalmente è sfruttare  il suo mito per suggerire il tragico destino di questa professione. Con due giorni che potremmo girare tranquillamente nella Migros di Rolle e nella stazione di polizia accanto, mi offrirebbe la possibilità di fare di questa storia un filo teso tra il suo passato e il mio futuro. So che è molto da chiederLe e per questo torno all’altro tre, quello che ci unisce, quello della nostra data comune, perché nel trenta o nell’ottantuno è lo stesso giorno e quindi recitare per me è un po’ come recitare per Lei.

Au nom du Père, du Fils et du Sous-entendu.

Nel nome del Padre, del Figlio e del Sottinteso.

* Ho scritto questa lettera sotto forma di un messaggio audio a Jean Luc Godard nel maggio di quest’anno, non mi ha risposto e si è suicidato il 13 settembre 2022, non credo in seguito all’ascolto delle mie parole. Non sono generalmente imbarazzato nel far recitare i fantasmi e quindi prenderò le dovute disposizioni.

 

 

Breaking women

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opere di Marjane Satrapi

Donna, vita, libertà

di

Sorour Kasmaï

traduzione dal francese di Luigi Toni

Stigmatizzate dal 1979, le donne iraniane dimostrano attraverso le proteste per la morte di Mahsa Amini di essere la forza vitale del Paese, secondo l’analisi della scrittrice e curatrice editoriale franco-iraniana Sorour Kasmaï.

In Iran, la violenza nei confronti delle donne ha nomi e volti diversi: il velo, l’onore, la sicurezza dello Stato, l’inosservanza della religione, e così via. Riconosciuta ufficialmente dal regime islamico, oggi la violenza è sistematica e mette in pericolo la vita di tutte le donne.

Già nel febbraio del 1979, ancor prima della nascita della Repubblica Islamica dell’Iran, l’ayatollah Khomeini considerava la libertà delle donne come il principale ostacolo al suo progetto politico. I primi provvedimenti emessi rendevano obbligatorio il velo islamico nei luoghi di lavoro e il hijab nei luoghi pubblici. Da un giorno all’altro, la donna si vedeva negare ogni diritto concesso dalla legge sulla tutela della famiglia, in particolare la custodia dei figli in caso di divorzio, e persino il diritto di viaggiare senza il consenso del marito, a cui, invece, verrà permesso di sposare fino a quattro mogli alla volta. Un bel giorno, le mura della città vennero ridipinte per esporre nuovi slogan che invocavano “il velo, come baluardo della Repubblica islamica”.

L’8 marzo 1979 si tenne la prima manifestazione contro le nuove leggi che vedeva radunate a Teheran, stando ai giornali dell’epoca, “alcune centinaia di puttane” che cantavano “né hijab, né pugni”. Insegnanti, ricercatrici, registe, studentesse, attrici, avvocate, maestre o casalinghe, tutte insieme per protestare contro il velo, che ai loro occhi rappresentava il simbolo di un’astrusa e subdola segregazione. Nascondere i capelli significava non solo la schiavitù del loro corpo, ma anche di tutto il loro essere.

La nuova legge stava cercando di reprimere la loro identità uniformandole con un velo – e dopo con il manteau[1] – conforme alla regola, di colore scuro. Il velo mirava a trasformare le donne nell’ombra di sé stesse, con lo scopo di privarle del loro status sociale, relegandole ai margini della vita pubblica. Rendeva ufficiale la sottomissione delle loro menti, privandole delle libertà più elementari come cittadine ed esseri umani. Era proprio questo il pericolo contro il quale avevano messo in guardia quelle “puttane” nel 1979.

Nel corso di tutti questi anni, sono stati compiuti crimini orrendi contro le donne. Dalle aggressioni con l’acido per il rifiuto di una proposta di matrimonio alla decapitazione per un presunto tradimento, dalla lapidazione per adulterio di donne sposate alla deflorazione delle prigioniere condannate a morte nelle carceri, le donne sono state sacrificate sull’altare dell’onore degli uomini, della famiglia, della società, dello Stato.

Eppure, nonostante la repressione, le donne non si sono mai arrese. Un centimetro alla volta, le donne hanno respinto il velo e accorciato il manteau, rifiutandosi di nascondere le forme del loro corpo. Dovrebbero provarne vergogna per seppellirlo sotto vari strati di stoffa? Oltretutto, le donne hanno continuato a sviluppare il loro pensiero. Coscienti di avere un ruolo importante all’interno della società, non hanno mai smesso di istruirsi.

Uno slogan per il futuro

Secondo le statistiche ufficiali, le ragazze rappresentano più del 65% degli studenti ammessi nelle università iraniane. Le donne hanno scritto e tradotto libri, girato e prodotto film, hanno interpretato ruoli da protagoniste sugli schermi di tutto il mondo. Si sono distinte con la loro presenza in ogni campo: scientifico, giuridico, artistico, politico. Si sono aggiudicate i più alti riconoscimenti internazionali: dal Premio Nobel per la Pace (Shirin Ebadi) alla Medaglia Fields per la matematica (Maryam Mirzakhani), passando per i maggiori riconoscimenti nei festival letterari e cinematografici. Oggi, nel corso delle proteste che infiammano ancora una volta l’Iran, le donne polarizzano la lotta. Stigmatizzate per quarant’anni dal potere in carica, le donne sono oggi la forza vitale della lotta collettiva per la libertà. Il velo ne preannunciava la scomparsa, l’annullamento, la morte. Togliendolo e bruciandolo nel fuoco, le donne affrontano con determinazione la loro vita. La morte della giovane Mahsa Amini, avvenuta dopo un violento colpo alla testa (secondo fonti degli oppositori al regime in carica) per un hijab “indossato male”, rivela più che mai l’aspetto abbastanza profetico di quel leggendario slogan del 1979 “né hijab, né pugni”. E anche se riappare ancora qua e là durante le proteste, oggi risulta uno slogan datato.

Le giovani del 2022 hanno inventato un loro slogan: “Donna, vita, libertà!” scandito a Teheran, Rasht, Isfahan, Mashhad, Shiraz, Saqqez, Baneh, Divandarreh e in una decina di altre città. È questo il grido di battaglia di migliaia di studenti, commercianti, persone comuni, ma soprattutto donne, donne, donne. Segno di maturità da parte della società, quel grido rappresenta un punto di svolta nella storia contemporanea iraniana. La nuova generazione ha tratto insegnamento dalla dura lotta di chi le ha precedute. Una generazione ormai consapevole del ruolo della donna, che viene messa al centro delle loro rivendicazioni. “Donna, vita, libertà!”. La donna ha il diritto di vivere ed essere libera.

A ogni angolo di strada vengono accesi dei falò. Capelli al vento e facce raggianti, le donne cantano, ballano e gettano nel fuoco i loro hijab, come per esorcizzare il male che ha fatto a tutte loro. Tra gli applausi degli uomini, si riappropriano pubblicamente del pieno diritto sui loro corpi e sulla loro anima. La folla garantisce la loro incolumità, attaccando le pattuglie della polizia morale e mettendo in fuga le moto delle forze di repressione.

Emblema di quarant’anni di lotte, fallimenti, vittorie, regressi e progressi compiuti, “Donna, vita, libertà” rappresenta la presa di coscienza di un’intera nazione. Non esprime più come in passato un rifiuto, ma uno slogan per il futuro che, in caso di vittoria, adornerà i nostri edifici pubblici e i nostri monumenti funebri, per ricordare il ruolo e l’importanza della donna nella storia moderna dell’Iran. Un grido di gioia e un monito per il futuro perché non ci può essere libertà senza la libertà delle donne.

 © Le Monde, 28 settembre 2022

Sorour Kasmaï: Scrittrice franco-iraniana, autrice dei romanzi Un giorno prima della fine del mondo, (Robert Laffont, 2015) e Nemico di Dio (Robert Laffont, 2020). È inoltre traduttrice e curatrice editoriale. Dirige la collana “Orizzonti persiani” dedicata alla letteratura afgana e iraniana per le edizioni Actes Sud.

[1] Tra le altre regole che il regime della Repubblica islamica richiede di rispettare c’è quella di indossare un manteau, una specie di giacca/impermeabile lunga fino a metà coscia abbinata a pantaloni [N.d.T.].

Perché (non) andare a Venezia

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di Paola Ivaldi

Come l’industria culturale, anche il turismo defrauda il suo adepto, e anche la cambiale del turismo non è mai onorata ma sempre protratta: a modo suo, come è stato constatato infinite volte, il turista non fa altro che inseguire l’irraggiungibile. Il punto è che l’evasione da una società alienata non può che essere alienata.”

Marco d’Eramo, Il selfie del mondo (2017)

Ecco, stavolta ho deciso: io non andrò più alla Biennale Arte di Venezia. Perché non ci capisco niente, di arte contemporanea, e poi perché, lo so, lo so già: intralcio inutilmente gli spazi che, invece, sarebbe opportuno lasciare più sgombri, a favore di altri visitatori che ben più di me hanno diritto di solcarli senza fatica, scorrevolmente, perché la loro presenza, in qualità di fruitori dotati di adeguata conoscenza della materia di cui trattasi, in effetti, riveste un significato autentico, possiede un valore concreto. Io, questo, lo so.

Mi rifiuterò, lo prometto solennemente a me stessa, di recarmi in futuro alla Biennale per potermi vantare che sì, sono andata alla Biennale, per potermene puerilmente imbellettare. Perché, lo possiamo dire? Quanti di noi vi si recano, conoscendo artisti, correnti, opere, filoni… diciamo con una seppur vaga cognizione di causa, eh? Quanti? Quanti sono gli esperti in grado di formulare giudizi e pareri se non proprio pertinenti che almeno osino oltrepassare l’impervio confine dei luoghi comuni, una volta varcata l’uscita, piedi indolenziti, shopper disegnato da un prestigioso studio londinese, dotato di logo ufficiale e ingravidato di cose acquistate al bookshop?

Io sono, l’ho detto e lo ammetto: un inutile ingombro; mi aggiro frastornata dall’incessante cacofonia prodotta dalla compresenza di numerose installazioni dotate di apparato audio-visivo, vago impacciata come anima in pena, quasi avessi un enorme punto interrogativo che grava sulla mia testa, e mentre procedo, sala dopo sala, il volume del punto interrogativo aumenta, lievita, gonfiandosi a dismisura, rischiando di divenire io stessa una inconsapevole straordinaria installazione d’arte vivente.

E poi, no! Pure questo: mi sorprendo con il vecchio smartphone in mano, la cover tutta sgualcita, che scatto un paio di fotografie già immaginandone un eventuale utilizzo social, una condivisione online, e mi sento terribilmente brutta. Bruttissima, sì. Quale spiacevole sensazione, quando capisci che anche tu, nonostante il tuo apparato di buone intenzioni e di supposti sani principi, incespichi e caschi, esattamente come tutte le altre marionette di questo stramaledetto circo, sei pure tu uno dei tanti pupazzi a cavalcioni di improbabili unicorni color lilla che girano girano girano in tondo, girano sempre sulla giostra del turismo di massa, sottocategoria turismo-engagé.

Non sono, io, affatto migliore degli altri, come arrogantemente talvolta mi illudo di essere solo perché dotata di alcune piccole, microscopiche consapevolezze in più rispetto alla media delle persone che mi stanno attorno. Anch’io, come tutti, sono costretta a strisciare online, dove, come tutti, compro il biglietto, lo stampo, provo una sottile soddisfazione se tramite home banking mi giunge la conferma dell’avvenuta transazione, quella grafica puerile, rassicurante, ludica, il pollice in su… ah, bene, ho il biglietto, controllo la mail, eccolo… lo stampo, lo piego. Fatto.

Io volevo andare alla Biennale, perché? Per condividere la visita con mio figlio. Ah, ma tuo figlio ha diciott’anni tra poco: ancora credi, tu, ingenua mammetta che non sei altro, di poter condividere una mostra con lui? Povera illusa! Magari pure fianco a fianco? Infatti no, appena entrati abbiamo convenuto, con un rapido scambio di una manciata di sillabe, di darci appuntamento di lì a un paio d’ore alla caffetteria dell’Arsenale.

Così ho peregrinato, solitaria e spaesata, da un’opera all’altra, più che altro incuriosita da alcune video installazioni multischermo, cortometraggi che riescono a condensare in un lasso temporale ristretto un messaggio, concetti, enigmi, interrogativi, dilemmi che nemmeno sapevi che frullassero nella testa di qualcuno e potessero poi affacciarsi nella tua, di testa.

C’è odore di gomma, plastica, sentore di tessuti acrilici e di polvere, di terriccio, di vegetali indoor. Forse è questo il profumo dell’arte contemporanea, forse non dovrei nemmeno stupirmene o addirittura esserne lievemente infastidita, ma è così. Giro giro e rigiro, mi pare di non avere una meta e me ne dolgo, sentendomi mano a mano che il tempo passa sempre più fuori contesto, fuori tempo massimo.

Forse è finita, per me, la stagione degli eventi, dei rituali pseudo mondani, simil culturali, quegli appuntamenti ciclici che ci danno l’illusione di un eterno ritorno, un falso presente oscenamente dilatato, così rassicuranti per il loro ripetersi sempre, ogni anno, in un preciso periodo, quelle manifestazioni a cui in molti non rinuncerebbero per niente al mondo perché del tutto funzionali al narcisismo e al presenzialismo degli amari tempi nostri, ai must sociali a cui occorre ubbidire per poter dire, di qualsiasi cosa: io c’ero. Sei stata? Sono stata! Hai visto? Ho visto! Piaciuto? Da matti!

In me, che mi ritrovo a Venezia sul finire dell’estate 2022, si fa sempre più strada la convinzione che per mettersi in viaggio, invece, sia necessario possedere un buon motivo, che non basti l’impulso di assecondare un capriccio, un’offerta low-cost o, appunto, un debole, scarno atto di presenza. Un “buon motivo”, per come lo intendo io, ha a che fare con qualcosa di intimamente visceralmente sentito, qualcosa che ci germoglia dentro, che abita la nostra storia.

Allora succede questo. Cerco di mettermi in contatto con S, un conoscente che non vedo da quasi trent’anni e che so vivere a Burano. E vado a trovarlo, il penultimo giorno. Lì, sull’isola lontana e colorata, ci abbracciamo impulsivamente come due superstiti, e ce lo diciamo: che questo non è più tanto il nostro mondo, ricordando che quando ci era capitato di lavorare insieme, per un breve periodo, parliamo degli anni Novanta del secolo scorso, si usava ancora il fax: ne ridiamo.

Nel giardino davanti a casa sua, S apre due sdraio e ci sediamo, accolti da un’oasi di quiete, lo sguardo adagiato sulle baragge, i colori di una laguna appartata e selvaggia. Stringo la mano a un’anziana merlettaia, vicina di casa di S, la quale mi racconta in poche parole tutta la durezza di una vita famigliare fatta di fame, fatica e disagi: lei, sposata a un pescatore, non ha mica dimenticato la vita di un tempo. Però, adesso, è felice perché ha sei nipoti, ma delle femmine nessuna fa i merletti: pensi lei, mi dice, che per fare una margherita a dieci petali, che quelle a dieci petali sono le più belle eh, ci hanno messo due anni! E poi… tutti quei tatuaggi, io mica li capisco.

C’è un valore nel ritrovare dopo interi decenni qualcuno conosciuto in gioventù, non è affatto scontato, lo è sempre meno, che si sia ancora in vita, e in salute. Le due ore trascorse a Burano hanno reso ancora più nitida la mia visione delle cose, il significato di un viaggio che andrebbe intrapreso per un motivo vero, come dicevo, o, al limite, per nessun motivo, dettato, in tal caso, solo dalla volontà luminosa di compiere un’azione puramente esplorativa.

Sul vaporetto che mi riporta a Venezia, nel tardo pomeriggio, poco prima di giungere alle Fondamenta Nove, per poi incamminarmi verso il mio albergo, considero che la cura dei rapporti umani è qualcosa che stiamo rapidamente smarrendo per strada, come si perde un mazzo di chiavi, che dopo non possiamo stupirci se non riusciamo più ad aprire le porte, rimanendone chiusi fuori; la tendenza che mi pare dilagante è di dare sempre più spazio alle cose che alle persone, agli eventi rispetto agli incontri, di concedere più tempo alla comunicazione digitale che allo scambio reale, al dialogo, all’ascolto, anche al silenzio condiviso, che andrebbe, forse, più praticato senza suscitare imbarazzo.

Pure dell’esperienza del gesto, nella sua intima ineffabile genuinità, stiamo perdendo memoria, soprattutto se disinteressato, non finalizzato a null’altro che a suggellare un prezioso istante di condivisione. Abbracciare un buranello o stringere la mano di un’anziana merlettaia, a questo punto, rischiano di valere ben più di una superficiale visita alla Biennale Arte di Venezia.

Mots-clés__Mostri

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Mostri
di Carla Burdese

Max Gazzè, Mostri -> play

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Pietro Pancamo, In incognito, dall’antologia di autori vari Senza tema! Poesie coraggiosamente atematiche (Edizioni Simple, Macerata, 2022, p. 67)

Dormo in incognitoper non farmi riconoscere dagli incubi.

Scavano per l’aria come talpe;hanno un paio d’occhilarghi e fotofobici.

Sul comodinoil lume acceso mi nasconde.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

La società degli uomini barbagianni

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di Emanuele Kraushaar

1

Io sono A.
Una volta ho chiesto a mia madre perché mi avesse chiamato così.
Non ha detto niente ed è scoppiata a ridere.
Ricordo la sua bocca che si apriva e i suoi denti bianchissimi.
Adesso vivo in una casa di tre piani con un giardino che confina con un grande bosco.
Al piano terra c’è una sala con cucina a vista e uno sgabuzzino con scorte di cibo.
Al primo piano, la camera da letto e il bagno.
Al secondo, una soffitta-studio con una grande scrivania in noce.
Tutte le pareti di casa sono piene di librerie e in ogni libreria ci sono centinaia di libri di ogni tipo.
Dallo studio è possibile accedere a un piccolo balcone da dove si vede il bosco.
Ho ricordi confusi sul mio passato, ma so quello che mi piace adesso.
Mi piace andare a correre tra gli alberi e scrivere parole sulla schiena della mia ragazza.
Mi piace anche studiare la società degli uomini-barbagianni.

Gli uomini-barbagianni vivono nel grande bosco che confina con la città.
La loro corporatura è pari a quella di due uomini.
In alcuni casi raggiungono un’altezza di oltre quattro metri.
Sono dotati di un becco adunco e grosse ali che sembrano lunghi mantelli uniformi.
Sotto il volto di uccelli rapaci hanno un piumaggio maculato.
Li rende somiglianti all’uomo la struttura delle gambe, se non fosse per gli artigli, grazie ai quali possono predare con facilità.
Le donne-barbagianni non hanno ali e a un primo sguardo possono apparire come donne normali.
Hanno una peluria estesa in maniera uniforme da sotto il mento fino ai seni.
Si contraddistinguono anche per l’altezza, che può arrivare a superare i due metri e mezzo.
Gli uomini-barbagianni sono in grado di volare, anche se non amano l’alta quota.
Le donne-barbagianni non volano, ma possono compiere notevoli salti.
Gli uomini-barbagianni si nutrono di carne e di notte vengono spesso in città a predare gli uomini, che poi portano nel bosco e lasciano in grosse gabbie di tronchi a cielo aperto.
Si cibano anche di cavalli e di cani.
Prima di mangiare le loro prede, le lavano per bene e poi le bruciano vive.

2

Non ricordo quanto tempo sia passato da quando ho trovato un vecchio libro intitolato La società degli uomini-barbagianni.
Ha una copertina nera e il titolo bianco.
Quando trascorro ore e ore dentro la mia soffitta-studio, ho come l’impressione di perdere la facoltà di percepire il passare del tempo.
Per me non fa differenza tra ieri e l’altro ieri o l’inizio dei tempi.
Tutto quello che accade, accade in questo momento.

3

Mi sveglio sul presto, perché ho fatto brutti sogni.
Comunque c’è un bel sole e decido di uscire.
Abito in una casa confinante con il bosco proprio perché amo andare a correre e stare a contatto con la natura.
Grazie all’eredità non mi serve lavorare. Anche per questo non ho alcun interesse a vivere nel centro della città: se avessi potuto, mi sarei comprato una casa proprio dentro al bosco.
Corro e ripenso a quando il notaio mi diede il testamento.
C’era scritto che l’eredità veniva lasciata agli uccelli neri dell’oscurità, ma grazie a un avvocato amico di Pico ero riuscito a entrare in possesso di tutto quanto.
Mentre mi addentro nel grande bosco, qualche lampo di tenebra del passato mi illumina la mente con una luce scura.
Ripenso alla vecchia casa di famiglia che rispetto alla mia si trova al lato opposto della città.
Anche quella confina con un bosco.
Mi viene da pensare che ci sia una stessa infinita distesa di verde che circonda tutto.
Ora vivo da solo e posso fare quello che voglio.
Quello che voglio adesso è andare a correre.
Mi ricompare nella mente la frase uccelli neri dell’oscurità, che mi pugnala sempre il cuore e sembra stare aggrappata alla mia schiena senza mollarmi mai.
I miei pensieri sono un pendolo: si spostano dagli uccelli neri agli uomini-barbagianni.
Il sole mattutino filtra poco tra gli alberi.
Penso a Cecilia.
Mi piace la sua bocca, mi piacciono le sue gambe, mi piace che sta sempre zitta e fa parlare me di qualsiasi cosa e poi dice: «Che bello», anche se spesso parlo di cose normali o senza senso.
L’immagine della sua pelle bianca con le mie scritte mi fa sentire in colpa.
All’improvviso smetto di correre verso il cuore del bosco, che sembra non finire mai.

4

Pico, il mio unico amico, è un ometto pallido che lavora in biblioteca, legge molti libri ed esce poco.
Non abbiamo molte cose in comune, ma è stato il solo che mi ha dato una mano quando è morta mia madre.
Ogni tanto lo porto a mangiare in qualche ristorante che non potrebbe permettersi.
Spende tutti i suoi soldi in libri e quando sta da me passa molto tempo nel mio studio.
Viene a trovarmi anche oggi e subito si piazza davanti a una delle librerie.
Accarezza alcuni volumi, altri li annusa.
La società degli uomini-barbagianni è sulla mia scrivania, sommerso sotto alcuni fogli.
Non so perché, ma non me la sento di parlargliene.
Adesso è lui che sembra volermi confessare qualcosa.
Dice: «C’è una cosa di cui vorrei parlarti».
«Ti ascolto».
«Credimi, non so come dirtelo: non trovo le parole giuste».
«Con me puoi stare tranquillo».
«Lo so, non è questo. È come se dovessi disegnare un cerchio quadrato».
Pico abbassa lo sguardo sul pavimento e io sembro seguirlo, anzi per un attimo mi pare di avere la sua voce e di essere io ad aver detto quelle parole.
Forse sono proprio io che ho iniziato a parlare e sto per raccontargli del libro La società degli uomini-barbagianni.
Il cuore inizia a battere più velocemente e vedo il mio amico fermo come una statua.
Ho l’impressione che da un momento all’altro svanirà e le grosse lenti dei suoi occhiali cadranno sul pavimento rompendosi.
Noi due nella soffitta-studio, con il libro nero vicino, nascosto da qualche foglio, siamo una cosa sola: Pico ed io, ma anche tutti i volumi della biblioteca dello studio e lo studio stesso.
Accanto a noi respirano gli alberi del grande bosco e sopra i loro rami stanno appollaiati gli uomini-barbagianni.
Dico «ora vai a casa», oppure è lui a dire «ora vado a casa».
Un attimo dopo mi ritrovo da solo e vedo Pico allontanarsi, rimpicciolirsi e rotolare via come una biglia per il sentiero che porta verso la notte più scura.

Le donne-barbagianni servono solo alla riproduzione, sono tenute ai margini della società e ormai alcune sono solite vivere più in città che nel bosco.
L’accoppiamento avviene in modo violento ed è vissuto dalle donne-barbagianni con enorme sofferenza.
Padre Tale, il più grande conoscitore della società degli uomini-barbagianni, racconta di aver visto una donna-barbagianni gettarsi nel fuoco dove stavano bruciando un cane, pur di non farsi penetrare da un gigantesco uomo-barbagianni.
Le donne-barbagianni non si nutrono di carne umana.
Padre Tale afferma con sicurezza che le donne-barbagianni non attaccano gli uomini.
Al massimo mangiano cani o piccoli animali come topi e scoiattoli.
Le donne-barbagianni prendono forza dall’energia sessuale degli uomini e sono sempre a caccia di rapporti con individui di vario tipo.
Sia gli uomini-barbagianni che le donne-barbagianni hanno facoltà psichiche molto potenti e sono in grado di leggere il pensiero.
Gli esemplari più avanzati nella scala gerarchica lo fanno con maggiore facilità rispetto agli altri.
L’unica tecnica valida per non farsi leggere il pensiero è praticare il respiro di fuoco: inspirare ed espirare dal naso, mentre si contrae l’addome verso l’esterno e poi verso l’interno.
È consigliabile ricorrere al respiro di fuoco solamente con le donne-barbagianni, in quanto un uomo-barbagianni prenderebbe tale difesa come un affronto e si accanirebbe in modo ancora più cruento sulla preda.
Le donne-barbagianni, a differenza degli uomini-barbagianni, quando appaiono nelle città sono vestite; solitamente indossano abiti succinti e provocanti.
Sia gli uomini-barbagianni che le donne-barbagianni vivono di notte e di giorno è impossibile vederli.

***

Tratto da Emanuele Kraushaar, La società degli uomini barbagianni (Tlon 2022)

Marcel Proust, i segni e la genesi

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di Mauro Baldrati

Il 18 novembre cade il centesimo anniversario della morte di Marcel Proust. Si può tranquillamente affermare che lo scrittore francese, che la critica globale identifica come l’inventore del romanzo moderno, insieme a Dante Alighieri sia uno degli autori più famosi della storia. Il suo immenso romanzo, Alla ricerca del tempo perduto (la convenzione proustiana impone di nominarlo sempre e solo come Recherche) 3742 pagine in sette volumi, è il risultato di una sperimentazione durate una vita intera. L’ha terminato poco prima di morire, nella camera chiusa senza riscaldamento di rue Hamelin, sul letto di grande malato (un’asma che lo ho perseguitato fin da bambino), con migliaia di fogli e di quaderni sparsi ovunque. La fedele governante Céleste riferisce che, quando appose la parola “fine” sul manoscritto, la chiamò e disse: “Ora finalmente posso morire”.
Per scrivere la Recherche ha impiegato circa 15 anni, e la pubblicazione ne ha richiesti altri 14, dopo che il primo volume, La strada di Swann, fu rifiutato da André Gide per Gallimard, perché definito più o meno un cicalecchio mondano (salvo poi chiedere perdono al mondo per l’errore commesso). D’altra parte la storia è popolata di grandi rifiuti: Vincent Van Gogh non ha mai venduto un quadro in vita sua, e tutti i critici e i galleristi lo invitavano a trovarsi un lavoro vero, perché era negato per la pittura; Bob Dylan si vide rifiutare il suo primo disco perché secondo il produttore era “banale” (in seguito, quando si rese conto di cosa aveva combinato, si prese una sbronza durata diversi giorni); L’arte della Gioia di Goliarda Sapienza è stato ignorato da tutti gli editori addirittura per vent’anni. Poi però l’opera proustiana è deflagrata, il secondo volume, All’ombra delle fanciulle in fiore, ha vinto il premio Goncourt nel 1919, e la Recherche è diventata il riferimento di intere generazioni di scrittori e aspiranti tali.
Ma qual è la genesi di questo immenso progetto architettonico-letterario (La cattedrale Proust, lo definì il critico Giacomo Debenedetti), e quali sono i contenuti?

LA GENESI

Marcel Proust proveniva da una famiglia alto borghese, il padre, il dottor Adrien, era un primario igienista esperto di epidemie. Ipersensibile, di salute cagionevole, sviluppa subito un mostruoso senso di osservazione, che lo sosterrà durante le scorrerie giovanili nei saloni della nascente Belle Epoque. Non manca mai un appuntamento, un lunch, un dinner, una matinée. Roland Barthes l’ha definito un militante della mondanità. In effetti, pur essendo, in gioventù, per sua stessa ammissione, svogliato, demotivato, incapace di applicarsi ad alcunché, sembra spinto da una tenacia nella frequentazione degli ambienti mondani che rasenta la missione. Una sorta di cavaliere alla ricerca del Santo Graal, anche se il calice trabocca di vizi, di contraddizioni, di superbia, che inserirà con ironia, talvolta con feroce sarcasmo, nella Recherche. Ma proprio qui sta il progetto segreto, probabilmente inconsapevole: sta studiando, raccoglie personaggi, dialoghi, ambienti, colori. Si sente inabile a qualsiasi occupazione, ma lavora con impegno e dedizione. Dalla frequentazione delle dame dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, di cui talvolta si innamora follemente, idealizzandole come delle semidee, trarrà i personaggi che sono diventati leggendari: Laura de Chevigné, discendente dal marchese De Sade e addirittura da Laura del Petrarca, la più ammirata e invidiata da tutto il Faubourg, diventerà la duchessa di Guermantes (dopo la pubblicazione, indignata, gli toglierà per sempre il saluto); la ricchissima borghese Madeleine Lemaire, che gestiva uno dei salon più esclusivi, fornirà il suo modello per la tirannica Madame Verdurin, che regna con mano ferma in quella jungla di gran lusso che è il suo esclusivissimo salotto; Robert de Montesquiou, il più mondano dei mondani, sarà uno dei personaggi maschili più potenti dell’intero romanzo: l’immenso, maligno, incredibilmente colto barone Charlus. Dopo avere spadroneggiato per tutta l’opera, in grado di rovinare il credito mondano di chiunque con poche, sferzanti battute, scenderà tutti i gradini dell’abiezione e dell’umiliazione, flagellato dall’ultimo amante-mantenuto.
Dunque il giovane autore in erba, scoraggiato per la propria pigrizia, costruisce il futuro, raccontando al passato. E proprio questo è uno dei meta-argomenti che costituiscono la struttura portante della cattedrale: il tempo.
La Recherchè è un recupero del tempo perduto, ovvero del tempo sprecato, attraverso il ricordo, l’indagine psicologica, l’esperienza e soprattutto l’arte, che è la più alta espressione della specie umana. Ma non è un testo nostalgico, che guarda indietro; il mondo passato si fonde col presente, lo rende dinamico e comprensibile. E’ un insieme, un Tutto unico che cerca una redenzione attraverso l’arte.

I SEGNI

Il filosofo Gilles Deleuze nel 1964 ha pubblicato un saggio, che è diventando un oggetto di culto, dal titolo Marcel Proust e i segni, dove analizza i messaggi che si sprigionano dal libro. Dominano i segni mondani, superficiali, effimeri e menzogneri; escono a milioni dai salotti, dai dialoghi enfatici e vuoti di molti personaggi del bel mondo; i segni dell’arte, i più profondi, perché puntano alla verità. Ma sono rari, perché è rara la sua manifestazione. Dire l’indicibile, pensare l’impensabile, spiegare il mondo, per esempio attraverso la musica, che è molto presente nella Recherche: “Se riuscissimo a riprodurre per via di concetti quanto la musica esprime, avremmo insieme ottenuto, per via di concetti, anche una soddisfacente spiegazione del mondo, che sarebbe vera filosofia” (Schopenhauer, uno dei grandi maestri di Proust). E i segni dell’amore, ambigui, ingannevoli, persino pericolosi.
Infatti proprio l’amore è un altro meta-argomento. Swann, un personaggio molto significativo della Recherche, vive un amore con Odette, nel “romanzo nel romanzo” contenuto nel volume La strada di Swann. Slalomando tra i segni dell’amore, come sciami di frecce di Cupido dalla punta avvelenata, il narratore ci guida in un’indagine chirurgica e spietata sui meccanismi dell’innamoramento. Qui sta una delle discese agli inferi della Recherche: l’amore è impossibile, e l’amante è condannato all’infelicità, perché non potrà mai conoscere e tanto meno possedere la persona amata. E più questa gli sfugge più si incrudelisce verso se stesso, fino a sprofondare nel delirio della gelosia ossessiva. “Non si ama che ciò in cui si persegue qualcosa di inaccessibile, non si ama che ciò che non si possiede” (La prigioniera)
Lo stile non è di facile e immediata lettura. E’ in fiera controtendenza con la moda attuale, influenzata dai social, frasi brevi, prosa povera: i periodi sono lunghi, talvolta lunghissimi, decine di pagine senza un solo punto. Sono contenitori che ne contengono altri, che a loro volta ne contengono altri, per cui siamo partiti con una descrizione del campanile di Combray e d’un tratto ci troviamo su un altro pianeta, e ci chiediamo come diavolo ha fatto il diabolico autore a condurci lì!
Ma ciò è salutare, è terapeutico. Leggere Proust ci obbliga a fare allenamento, come in una palestra mentale. Ci invita a non rassegnarci e a non omologarci. E proprio questo fa di lui un autore non solo attuale, ma persino utile.
A breve spiegherò, racconterò come sono diventato proustfobico, come tutti, e la mia decisione di animare addirittura il suo personaggio, di muoverlo nel tempo e soprattutto nello spazio, in un libro. A presto.

Latin Connection

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Il dopo-lavoro di Apuleio

(ovvero delle metamorfosi di Paul Hackett in After Hours di Martin Scorsese, USA 1985)

di Gigi Spina

 

  1. L’antefatto

La prima volta che ho visto Fuori orario[1] non avevo mai letto a fondo né incrociato per qualche ricerca particolare le Metamorfosi di Apuleio, conosciute anche come L’asino d’oro. Il film mi piacque per il ritmo e per i colpi di scena, per la composizione ad anello che riportava il protagonista nel luogo da cui tutto era cominciato, quella notte.

Un bel po’ di anni dopo mi capitò di dover leggere il testo di Apuleio; non per una ricerca, ma per scrivere il copione di una performance realizzata a Galassia Gutenberg[2] nel marzo 2008. La lettura del testo in traduzione, con confronti continui con l’originale, mi portò a ricordare quasi automaticamente Fuori orario, per nulla in particolare se non per le numerose peripezie e forse per qualche metamorfosi del protagonista. Dal primo numero, del 2010, e fino al 2017 (ultimo numero in cui è apparsa la sezione), ho curato la sezione Cinema e mondo antico della rivista online Dionysus ex Machina, ma il ricordo di Fuori orario  e di Apuleio era rimasto nel cassetto.

Solo qualche tempo fa, l’annunzio della pubblicazione di un volume su Apuleio sullo schermo[3] mi ha spinto a riprendere in mano i pochi appunti, acquistare il libro, consultare la mia esperta insostituibile, Domitilla Campanile, e dare finalmente corpo alle vecchie intuizioni.

2. Storia di una ricerca

Qui mi fermo per un momento, perché vorrei dedicare qualche rigo a spiegare i motivi di questo incipit narrativo con elementi autobiografici, una modalità che ho adottato da qualche anno per i miei articoli e volumi. La pubblicazione di una ricerca, soprattutto su una rivista scientifica di settore, si presenta quasi sempre come prodotto oggettivo finito, cioè come risultato, anche se le (quasi sempre abbondanti) note spesso indulgono in dettagli del percorso. Manca spesso la voce dell’autore, i dubbi durante la ricerca stessa, gli occasionali momenti di serendipity che accompagnano qualche volta una ricerca, ecc. Tutti quegli elementi, insomma, che fanno del processo e non del solo risultato la vera sostanza di una ricerca, come del resto accade per ogni forma di traduzione. La nota, distinta dal testo, stacca innaturalmente un legame che ha segnato, invece, la vera dimensione del percorso. In più, di fronte ad alcune ricerche, non so se in particolare nel mio campo di studi, si ha l’impressione che l’autore/autrice voglia mantenersi oggettivo/a, quasi un tramite fra lettore/lettrice e la sua ricerca bibliografica. Mi è capitato qualche volta di obiettare a colleghi/colleghe anche a me molto cari/e: io vorrei discutere con te, non con la tua bibliografia. Insomma, la soggettività di chi scrive dovrebbe in ogni momento essere ben visibile, anche per consentire a più giovani studiosi/e (e questo è un altro motivo della mia scelta) di entrare anche nei singoli laboratori, nei dubbi durante il percorso, negli azzardi e nelle sfide (e anche nelle delusioni), per poter affrontare i propri studi e le proprie ricerche con rigore, certo, ma con minor timore e sacralità. In particolare nei nostri studi, che risentono forse, oggi, di una sorta di classicismo di ritorno: certo, le novità del presente non possono essere tenute fuori, ma affiora talvolta un culto persistente del classico come portatore comunque di verità, di lezioni, di insegnamenti che finiscono per diventare dogmi indiscutibili. Se poi questo orientamento si trasferisce nella scuola, dove, a mio parere, non servono, da parte del mondo della ricerca e dell’università, semplificazione e divulgazione di risultati, ma confronto professionale fra formatori di ambiti diversi, il danno potrebbe, in prospettiva, essere pesante. Il greco e il latino della scuola, infatti, devono far parte di, e modellarsi su una formazione più ampia, in vista della quale devono distillare gli elementi che rispondono allo scopo; nell’università, invece, la formazione disciplinare, già orientata in un settore e per questo scelta, deve recuperarne l’ampiezza, la profondità, con una continua attenzione ai possibili collegamenti con altri campi, con i quali la formazione nel settore delle culture antiche interagisce ogni giorno. Ecco perché ritengo, ora, di dover continuare a raccontare in prima persona le tappe successive, e tutte recenti, all’antefatto.

 

  1. Rivedere e rileggere: qualche confronto

È stato necessario, dunque, non saprei dire in quale ordine: rivedere After Hours (in originale con sottotitoli) e rileggere le Metamorfosi, cursoriamente, con il testo a fronte, per evitare di farsi fuorviare da qualche traduzione imprecisa. E poi cominciare a leggere la bibliografia: prima i testi, poi i commenti è un principio che mi sembra valga per ogni tipo di testo. In genere leggo per ultime anche le prefazioni.

Tento, aprendo una breve parentesi, di condensare in poche righe, per quanto è possibile, la trama dei due testi, film e romanzo.

Il film: c’è un momento, verso la fine (1h17’38”), nel quale il protagonista, Paul Hackett, un programmatore di computer (computer data entry worker), racconta a un uomo che ha incontrato per caso durante la sua incredibile notte tutto quello che gli è accaduto dall’inizio del film. Ha appena urlato contro il cielo, quasi Jesus Christ Superstar a Soho[4] (il film di Norman Jewison è del 1973): «What do you want from me? What have I done? I’m just a word processor, for Christ’s sake»[5] (1h14’55”). Il racconto, abbastanza confuso, avviene a casa dell’uomo – qualche istante prima Paul aveva tentato di spiegare per telefono a un poliziotto perché avesse chiamato, ma il poliziotto aveva riattaccato – e trascura particolari importanti per il mio assunto, ma ho preferito affidare a due pagine della sceneggiatura (92-94)[6] e alla prima persona del narratore lo straordinario intreccio di persone e avvenimenti. Qualche piccola differenza con il sonoro originale del film non è rilevante[7].

Va solo premesso che il film inizia nel centro informatico, con Paul che insegna a un giovanotto ben vestito come lavorare al computer, solo che quello, senza accorgersene, inchioda Paul alla noiosa ripetitività del suo lavoro, dichiarando che non punta a fare per tutta la vita quello che sta imparando. Lo sguardo di Paul, mentre l’altro parla, vaga per l’ufficio, cercando di rintracciare brandelli di vita altrui, esterni al lavoro. La premessa è importante per quello che accadrà a Paul quando si chiudono i cancelli dell’edificio dove lavora e affronterà la sera e la notte, after hours, appunto (2’52”). Il tempo di questa avventura viene scandito da significative inquadrature di orologi, da polso, da tavolo, da muro: alle 23.32; all’1.40; alle 2.20; alle 4.10.

Ed ecco il racconto:

 

All right. I met … this girl … I got to know this girl. She gave me her phone number. In a cab on the way down to her friend’s all my money flew out the window. Now when I got to know her better, I must say I didn’t really like her, so I left. I mean, it just wasn’t going to happen so I left. I tried to take the subway, but the fare went up … Did you know the fare went up tonight? I didn’t know anything about that. Then I went back to the street … This bartender, he wanted to lend me money but I couldn’t get the money until I got the cash register key so he could open up his cash register to give me the money but he didn’t … I had to get the key from his apartment. Then when I was leaving his apartment and I saw these burglars stealing the sculpture, the, of, the sculptress was the roommate of the girl I met tonight and they were stealing her sculpture so I chased them and they dropped it and I took it back to her place, but this one time they weren’t burglars … they had actually purchased something, so of course the roommate was pissed at me but also because I walked out on that girl. So I was feeling sort of bad about the girl I met before and I went in to apologize but she’d killed herself. She … she … she’s dead.

Just … So, then I saw the waitress who works at the bar, worked, I think she quit, I don’t know … she invited me to her place. We became friends. Then I had to go back to the bar … he kept opening and closing the place all the time … I don’t know what that was all about … and a phone call came in and his girlfriend had killed herself … it was the same girl I came downtown to see in the first place … and then I thought it could have been because of me … then I got worried about Julie … Julie, who was the waitress, I told you, who was working at the bar. I ran right back, I said “I’ll be right back”, and I ran right up to her apartment, and I asked her if she was okay, you know because, like, for a second I thought “My God, what if another one kills herself?”, because, I mean, that can’t really happen, but who knows? The fare went up! And, uh, so I uh, I went back to uh, then I met this, uh, oh I went back to the Club Berlin to tell her about, the uh, that her roommate was dead, but … it was Mohawk night … I don’t know if you knew that, and I wouldn’t get a Mohawk to get in there. I just … it just isn’t worth it … So I, uh, left there and then I met this woman who was kind enough to let me use her phone but then she became enraged at me and I couldn’t, I still don’t understand that … there was some poster of me … she saw my face on some wanted poster, uh, so she wanted to, pretty much, she was gonna give me a ride home in her truck and changed her mind. You know … I just came downtown to get laid and now all these people wanna kill me … Maybe I, maybe I deserve it. Maybe I deserve to die, I don’t know … They could be right … I don’t know …

Il monologo narrativo dura quasi due minuti, ne mancano quasi diciotto alla fine del film.

Paul ha, dunque, il tempo di scendere in strada e di sfuggire di nuovo ai suoi inseguitori; tornare nel bar di Tom, il barista fidanzato di Marcy, la ragazza suicida. Tom, però, lo segnala agli inseguitori e Paul fugge verso il club Berlin, ormai vuoto, dove incontra June, una donna affascinante e malinconica, non giovanissima, cui chiede solo di poter parlare un po’, senza altre intenzioni. Durante un romantico ballo, improvvisato nella sala del club, la donna chiede cosa voglia Paul da lei, e Paul risponde: «I just want to LIVE». I due si spostano in un ambiente nel sottoscala del club, dove presto gli inseguitori si fanno sentire. Quello di June è anche un laboratorio di statue di cartapesta, così la donna trasforma velocemente Paul in una statua, molto simile a quella che lo perseguita fin dall’appartamento di Marcy e della coinquilina Kiki, una statua che ricordava L’urlo di Munch. Gli inseguitori, entrati nel laboratorio, non capiscono che dentro la statua c’è la loro preda e se ne vanno. June lascia Paul/statua nel laboratorio, nel quale si introducono Pepe e Neil, i due ladri già incontrati da Paul, che rubano di nuovo la scultura, caricandola sul loro furgone. Mentre ritorna la luce del giorno, il furgone scarica inavvertitamente Paul/statua dinanzi ai cancelli del suo ufficio, che puntualmente si aprono. La caduta ha mandato in frantumi l’involucro di cartapesta e Paul, sporco, stanco, scarmigliato, entra e si siede dinanzi al suo computer, che si accende salutandolo con una schermata familiare: «Good Morning, Paul». Titoli di coda[8].

 

Più complicato, forse, riassumere il romanzo, e non solo perché dura di più. Nelle prime righe, il (o un) narratore, rivolgendosi al lettore,  dichiara che intreccerà storie di ogni genere e dà così inizio «a una trama di figure e sorti umane che hanno cambiato aspetto e sono poi vicendevolmente tornate quelle di prima»[9].  Lucio, il protagonista, sempre assetato di cose insolite (sititor novitatis), entra in scena come ascoltatore dei discorsi di due commercianti, in bilico fra millanteria e verità. Con la sua curiosità, Lucio sollecita Aristomene, uno dei due, a proseguire il racconto. La scatola cinese dei narratori si complica, perché Aristomene racconta quello che ha sentito dal suo amico Socrate. Ed è la storia che determina poi l’avventura di Lucio. Perché Socrate aveva raccontato di un’ostessa di nome Meroe, da cui si era rifugiato dopo essere stato derubato di tutto da terribili briganti (la presenza dei latrones è costante nel romanzo). Ma Meroe non è solo un’ostessa, è una maga, saga atque diuina, capace di ogni tipo di prodigio e di trasformare gli amanti infedeli in animali. Lo straordinario racconto di Aristomene (e di Socrate), ricco di tanti colpi di scena, termina, tra lo scetticismo del compagno di viaggio e la gratitudine di Lucio, pronto ad accettare qualsiasi stranezza dal destino, ma giunto ormai a Ipata per incontrare Milone, un notabile ricco e famoso, cui deve consegnare una lettera. Entrano così in scena altri personaggi chiave: la ancillula di Milone, Fotide; Birrena, una parente di Lucio incontrata per caso, che lo mette subito in guardia dalle malae artes e dal fascino nefasto di Panfile, la moglie di Milone, esperta in sortilegi necromantici – ecco una nuova maga! -, dedita anche lei alla trasformazione in animali degli amanti. Ma Lucio sa di essere curiosus  e quindi saluta Birrena e corre a casa di Milone, pronto a insidiare Fotide, della cui chioma fa un breve elogio. Continuano a intrecciarsi cene e racconti, Lucio incappa in una sorta di ‘scherzi a parte’ in onore del dio Riso; giunge la notte in cui Fotide decide di rivelare a Lucio i segreti di Panfile. I due, Lucio e Fotide, nascosti, vedono la maga cospargersi di unguento, trasformarsi in gufo e volare via. Lucio, allora, chiede a Fotide di far provare anche a lui l’unguento della padrona, ma Fotide sbaglia barattolo e la metamorfosi di Lucio in asino (III, 24-25) apre una nuova fase del romanzo e della narrazione. Anche se basterebbe, come suggerisce la ragazza, masticare delle rose per tornare Lucio, per ben 8 libri ogni tentativo fallirà. Lucio/asino passerà di padrone in padrone, rapito subito da ladroni penetrati in casa di Milone; ascolterà in ogni sua tappa e in ogni nuova dimora racconti meravigliosi, come quello, celeberrimo, di Amore e Psiche; tenterà più volte la fuga; incontrerà i sacerdoti della dea Siria; rischierà di essere ucciso e macellato; conoscerà la fatica del mulino; un padrone ortolano; un padrone soldato, che lo vende a due cuochi, schiavi di un uomo molto ricco, Tiaso di Corinto, circostanza che almeno consente all’asino di mangiare finalmente come fosse Lucio. Ci si avvia verso la conclusione, perché Tiaso, colpito dai comportamenti ‘umani’ dell’asino, lo porta con sé a Corinto, dove Lucio/asino viene accolto da una folla curiosa di vedere i suoi prodigi. Una matrona finisce addirittura per desiderarlo e paga per passare una notte con lui. Ma quando Lucio rischia di doversi accoppiare in pubblico con una povera disgraziata, condannata a essere sbranata, riesce a fuggire di nuovo. Giunto a Cencre, invoca la dea Iside: redde me meo Lucio. Iside gli appare e gli prospetta la liberazione dal corpo d’asino, durante l’imminente processione isiaca. La metamorfosi di ritorno si compie, Lucio ridiventa uomo (XI, 13) e viene iniziato ai misteri di Iside. Infine parte per Roma, dove la sua iniziazione viene perfezionata e completata: gli appare in sogno Osiride, di cui diventa decurione quinquennale, una corporazione sacerdotale fondata ai tempi di Silla. Fine del romanzo.

Preferisco, a questo punto, elencare in ordine sparso i passaggi del film che la lettura di Apuleio mi ha in qualche modo ricordato. Al di là della trama complessiva, fatta di avventure una dietro l’altra nella notte ‘stregata’[10], sottolineo almeno la insistita presenza di ladri, l’atmosfera di magia, se non stregoneria, che accompagna gli incontri di Paul[11]; la presenza di molti racconti dei vari personaggi; il rilievo dato alla pettinatura di Julie, la waitress (vedi Apuleio e l’elogio della chioma: II, 8-9); i poster con l’identikit di Paul (le accuse, che Lucio/asino sente rivolte a Lucio/uomo, di essere il ladro che ha derubato Milone e l’impossibilità di difendersi: VII, 1-3); la trasformazione di Paul in statua di cartapesta, che diventa l’involucro che continua a contenere una persona, come l’asino continua a contenere Lucio e la sua mente pensante; l’invocazione di Paul al cielo, che avvia la fase dello scioglimento finale, come la preghiera di Lucio a Iside.

 

  1. La bibliografia, i modelli

Portate, dunque, a termine le prime due operazioni, lettura e visione (ma l’ordine può essere una scelta personale, quindi non credo utile rivelare la mia; ai risultati ho già fatto cenno), affronto il libro di Musio, che è il più recente e promette una trattazione esauriente. L’assenza di Scorsese nei riferimenti bibliografici – per ricerche come la mia si rivelano sempre utili anche gli indici dei nomi, per una prima indagine – mi fa già capire che apprenderò molto, ma non sul tema che sto indagando. Il film su Apuleio analizzato nel volume è, infatti, un film del regista Sergio Spina (coincidenza, nessuna parentela), un film del 1970 che comprende in un’unica sceneggiatura due opere di Apuleio, le Metamorfosi e l’Apologia[12]. Il titolo è, infatti, L’asino d’oro: processo per fatti strani contro Lucius Apuleius cittadino romano. Film non particolarmente famoso né segnalato, anche se ne dà scrupolosa notizia un repertorio che mi è stato sempre utilissimo nelle mie ricerche sul cinema e il mondo antico: parlo de L‘Antiquité au cinéma, di H. Dumont, Paris-Lausanne 2009, un dettagliato elenco commentato dei film relativi al mondo antico, non solo greco e latino. Il film di Sergio Spina vi figura al nr. 1971 (p. 265 s.) e viene definito «un film intellectuel, à peine distribué». Un po’ deluso dal fatto che il volume di Musio non possa aiutare la mia ricerca, annoto la sottolineatura della «prima colpa del protagonista, la curiositas» (p. 42). Bisogna quindi passare a bibliografia meno recente, approfittando della digitalizzazione di molte recensioni e articoli apparsi a ridosso del film di Scorsese, nel 1985. Emerge, così, la figura dello sceneggiatore, John Minion, allora ventiseienne, che, come ricorda Vincent Canby nella recensione apparsa il 13 settembre 1985 su The New York Times, «wrote it originally as part of an assignment for a film course at Columbia Unversity. Mr. Minion has a fine feeling for the absurd that Mr. Scorsese respects and illuminates right up to – though not including – the last scene, when ”After Hours” turns out to have been a large firecracker with a very small ”pop.”»[13].

La figura dello sceneggiatore, in realtà, riserva un po’ di sorprese, sulle quali mi soffermerò più avanti. Quello che colpisce subito, invece, nella bibliografia consultata, è la ricerca dei modelli, degli ipotesti, letterari o filmici, dei riecheggiamenti ai quali sembra essersi ispirato, secondo le analisi dei critici, il film di Scorsese, modelli fra i quali non figura, però, Apuleio. Provo quindi a elencarli (sottolineati) in ordine cronologico di riferimento bibliografico, così come appaiono citati:

  1. Faber, Kafka on the Screen: Martin Scorsese’s “After Hours” , «Die Unterrichtspraxis / Teaching German» , 19/2, Autumn 1986, pp. 200-205: Franz Kafka [opere varie]; Friedrich Murnau’s Nosferatu; Hitchcock’s Rear Window.
  2. van Daalen, Review: After Hours,  «Film Quarterly», 41 (3), 1988, pp. 31–34: The Odyssey, The Inferno, Candide, Miller’s Tropic of Cancer[14], The Wizard of Oz, Mad Magazine.
  3. Doré, Review of [After Hours / Quelle nuit de galère, États-Unis, 1985, 97 minutes], «Séquences» 244, 2006, p. 23: Kafka, Douze Travaux d’Astérix.
  4. Iovinelli, Il salto oltraggioso del grillo. Saggi di narrativa e cinema, Roma 2010[15]: Boccaccio, Decameron, la novella di Andreuccio da Perugia.
  5. Sterritt, Images of Religion, Ritual, and the Sacred in Martin Scorsese’s Cinema, in A. Baker, A Companion to Martin Scorsese, Malden MA 2015: James Joyce, Ulysses (Circe episode); il mito di Orfeo ed Euridice; Enoch in Genesi 5,24; Franz Kafka, The Trial.

Aggiungerei, dalla bibliografia consultata[16], P. James, Keeping Apuleius In The Picture. A dialogue between Buñuel’s Discreet Charm of the Bourgeoisie and The Metamorphoses of Apuleius, «Ancient Narrative»  2000, pp. 185-207, non perché analizzi il film di Scorsese, ma perché individua un legame tematico fra le Metamorfosi di Apuleio[17] e The Discreet Charm of the Bourgeoisie di Luis Buñuel (Francia-Italia-Spagna 1972). Segnalo questo contributo anche perché, in una della note finali (30, p. 204), l’autrice cita H. Elsom, Apuleius and the Movies, in Groningen Colloquia on the Novel, II, Groningen 1989, pp. 141-150, molto importante per la mia ricerca, articolo che conoscevo grazie a Domitilla Campanile.

Al contributo della Elsom conviene ora dedicare maggiore attenzione, perché è, a mia conoscenza, la prima (e finora unica) a citare Apuleio in relazione ad After Hours. Il titolo del suo articolo, Apulieus and the Movies,  prometterebbe una ricognizione generale della presenza sullo schermo di Apuleio, autore che la studiosa predilige (in particolare per il Golden Ass). Colpisce, però, il fatto che manchi alla Elsom, che esclude che il romanzo di Apuleio sia stato mai «metamorphosed into a film», la conoscenza del film di Sergio Spina. In ogni caso, le potenzialità filmiche del romanzo sono, per la Elsom, innegabili. Fellini (Satyricon), Cocteau (La Belle et la Bête) e Pasolini le hanno colte e a esse si sono ispirati. Si citano anche, per semplici richiami tematici, Tom Jones  di Tony Richardson, La voie lactée di Buñuel, ma la sostanza è data dal fatto che, come efficacemente scrive l’autrice, «Lucius is, so to speak, a camera». Accanto alle potenzialità, però, vengono indicati i motivi che avrebbero impedito fino ad allora una versione cinematografica del Golden Ass (il film di Sergio Spina, ovviamente, smentisce tale assunto, al di là di ogni possibile giudizio, anche negativo, sul risultato), in gran parte dovuti al back-ground storico-letterario del romanzo. Nel corso dell’analisi, appare Scorsese col suo After Hours. Cito (p. 145):

A second and associated reason for the absence of the Golden Ass from the screen is the fact that the issues which it raises – authority, the value of life, the nature of happiness – can be dealt with in much more immediate terms for a modern audience. For example, the story of an amiable, naïve and inquisitive young man in an alienating urban nightmare is well told in Martin Scorsese’s 1985 film After Hours. […] Although After Hours is Apuleian in spirit, this is largely  because as the writer Salman Rushdie has pointed out[18] the Golden Ass offers an alienated view of the infernal urban landscape, which is similar to that  of a modern resident of New York City. Why, then, reproduce urban terror in antiquity when there is so much available today?

Insomma, la riflessione della studiosa parte dal presupposto che le Metamorfosi di Apuleio non siano mai state tradotte in film[19], che  potrebbero esserlo solo a determinate condizioni e che i registi in grado di farlo, perché hanno operato intelligenti soluzioni di rapporto con testi e culture antiche in alcuni (e segnalati) loro film, sarebbero stati Pasolini (Il Vangelo secondo Matteo)[20] e Cocteau (La Belle et la Bête), l’unico film che si ispira a un pezzo del romanzo, ma, secondo lo stesso regista, non ne è una rielaborazione, bensì si struttura come un’opera poetica originale.

Volendo riassumere: mentre ero riuscito a trovare per la prima volta una connessione fra After Hours e le Metamorfosi di Apuleio, questa connessione veniva negata dalla stessa studiosa che l’aveva introdotta, soprattutto perché il film di Scorsese veniva considerato, sì, apuleiano nello spirito, ma solo perché – azzarderei il paradosso – Apuleio era già scorsesiano come narratore.

In più, come mi ha fatto notare Angela Andrisano, che ringrazio, è davvero strano che nella bibliografia consultata non compaia, in riferimento ad Apuleio e il cinema, nessun riferimento a un film totalmente ‘asinino’ di Robert Bresson, Au hasard Balthazar (Francia-Svezia 1966): le peripezie dell’asino Balthazar sono sicuramente ispirate alle Metamorfosi, oltre che alla Bibbia[21] e a L’Idiota di Dostoevskij. Abbandono subito questo ulteriore risvolto della ricerca, annotando solo che il film di Bresson contempla un processo di umanizzazione di un asino, inverso a quello di asinizzazione di un uomo presente nel romanzo di Apuleio.

  1. Ipse dixit

Non mi era rimasto, dunque, che concentrare l’attenzione sulle due figure chiave di After Hours, lo sceneggiatore John Minion e il regista Martin Scorsese, alla ricerca di qualche appiglio concreto all’idea che almeno uno dei due conoscesse le Metamorfosi e in qualche modo ne avesse tratto qualche spunto.

Dalle fonti consultate in rete[22], la figura di Joseph Minion sembra, però, non solo molto lontana da Apuleio, ma troppo, e pericolosamente, vicina a un monologo radiofonico di Joe Frank, Lies, del 1982, dal quale sembra aver plagiato almeno una buona parte iniziale della sceneggiatura.

Martin Scorsese racconta di After Hours in Scorsese on Scorsese, il volume fondamentale, arricchito  e aggiornato dalla prima edizione del 1989[23], che segue attraverso le stesse parole del regista la straordinaria carriera di un Maestro ancora capace di creare. Dalle poche pagine dedicate al film non ho potuto ricavare nessun elemento utile per la mia ricerca. Scorsese parla del finale; rivela di non aver mai letto Kafka, che pure molti, come abbiamo visto, hanno richiamato come modello. Per primo l’aveva fatto Michael Powell, il famoso regista, cui Scorsese aveva mostrato il film. Parla anche di un modello registico, Hitchcock, del cui stile (Marnie, in una particolare scena) After Hours  sarebbe una parodia. Nulla di più.

La sorpresa sarebbe arrivata, però, proprio dal regista: in un dialogo con Janet Maslin[24], critica cinematografica e letteraria del The New York Times, il 9 novembre 2002, Scorsese risponde così a una domanda dell’intervistatrice:

MASLIN: Is there any kind of film that you wish you could make but you just don’t…? You have ventured outside of the gangster thing a lot of different times, but you often come back to it, as you have now. And I wonder if there’s anything you think of as just being too far away from that.
SCORSESE: I’d like to make… I’m fascinated by the ancient world; I’d like to make a film from the point of view of pre-Christian thought and religion. Like Apuleius’s The Golden Ass would be great. A very religious book; Apuleius was a priest of Isis. By reading the classics – or trying to read them! I wish I had a classic education. I didn’t have a classic education, but I try to get through ‘em – and I think the interesting thing is trying to see the world apart from – not through the lens, so to speak, of Judeo-Christian thought and religion. Not to put that aside, but I want to see what else links us as human beings and who we are, you know.

After Hours non è dunque un film esplicitamente ispirato a The Golden Ass, ad Apuleio. Ma Scorsese aveva un film apuleiano in testa, film che avrebbe voluto fare. Non dice da quando l’aveva in mente, ma a me basta la sua risposta per dire che è valsa la pena portare avanti questa ricerca e aver trovato, forse, negli spunti che ho individuato, piccoli segnali di quel desiderio non portato avanti fino in fondo. Non portato avanti esplicitamente, ma ‘regalato’ a un ridotto pubblico ‘apuleiano’ attraverso tracce non proprio indecifrabili.

Ora non rimarrebbe che sottoporre queste mie riflessioni allo stesso Martin Scorsese, per averne il parere decisivo. Solo che quando il regista è stato a Bologna, il 23 giugno 2018, e ha dialogato sul palco del Teatro Comunale, per la rassegna il Cinema Ritrovato, con Jonas Carpignano, Matteo Garrone, Valeria Golino e Alice Rohrwacher[25], io non avevo ancora ripreso in mano i miei appunti, riletto Apuleio, rivisto After Hours, scritto questo articolo. E quindi non avrei neanche potuto chiedergli se conoscesse il film di Sergio Spina, l’unico regista che ha avuto il coraggio di portare sullo schermo, a suo modo, un Lucio trasformato in asino.

 

* Il mio grazie di cuore va a Domitilla Campanile che, fin da quando le ho comunicato il tema della mia ricerca, mi ha generosamente fornito utilissime indicazioni bibliografiche e poi suggerimenti al testo elaborato. Una conferma di amicizia e competenza indiscutibili. Ringrazio anche Angela Andrisano, che mi ha suggerito un imprescindibile film legato al romanzo di Apuleio.

[1] Fuori orario è il titolo italiano del film di Martin Scorsese After Hours, USA 1985. Film a colori, 97’. Sceneggiatura: Joseph Minion. Con Griffin Dunne (Paul Hackett), Rosanna Arquette (Marcy Franklin), Linda Fiorentino (Kiki Bridges), Verna Bloom (June), Teri Garr (Julie), Catherine O’Hara (Gail), John Heard (Thomas), Tommy Chong (Pepe), Cheech Marin (Neil). Vincitore a Cannes per la migliore regia, nel 1985.

[2] La fiera napoletana del libro fu per molti anni, grazie all’editore Liguori, un evento coinvolgente e nuovo per la città.

[3] A. Musio, Reus, magus, auctor: Apuleio sullo schermo, Lecce 2020. Qualche mese prima la Fondazione Valla, diretta ora da Piero Boitani, ha avviato meritoriamente la pubblicazione delle Metamorfosi apuleiane, per le cure di Luca Graverini (Introduzione, traduzione e commento) e Lara Nicolini (testo critico e nota al testo). Finora è uscito il primo volume (2019), con i primi tre libri degli undici che compongono l’opera. Nel corso dell’articolo mi rifaccio a questo volume per traduzione e commento, soprattutto perché non affronto, visto il mio scopo, nessuno dei complessi problemi posti dall’opera di Apuleio. Un’originale storia del romanzo greco e latino si deve a M. Doody, La vera storia del romanzo, trad. it. di R. Coci, Palermo 2009 (The True Story of the Novel, 1996).

[4] Diverso riferimento, a Enoch in Genesi 5,24, propone D. Sterritt, Images of Religion, Ritual, and the Sacred in Martin Scorsese’s Cinema, in A. Baker, A Companion to Martin Scorsese, Malden MA 2015, pp. 91-113: 101-102.  Su Soho nel film di Scorsese si veda B. Kredell, Borderlines: Boundaries and Transgression in the City Films of Martin Scorsese, in A. Baker, A Companion to Martin Scorsese, Malden MA 2015, pp. 331-351: 341-344.

[5] Il modo in cui Paul si autodefinisce, just a word processor, mi fa notare Domitilla Campanile, assegna al programmatore quasi il ruolo di software, di strumento di lavoro, non di lavoratore. Quasi che Paul voglia accentuare il suo ruolo di elaboratore di parole, di racconti, ma anche, purtroppo, di formattatore obbligato di esperienze angoscianti di vario tipo.

[6] After Hours, a screenplay by Joseph Minion, 6/6/84, 4/th Draft:  https://cinephiliabeyond.org/darkly-comedic-delightfully-manic-hours-one-scorseses-best-films/. [visualizzato a settembre 2022]

[7] Anche P. Doré, Review of [After Hours / Quelle nuit de galère, États-Unis, 1985, 97 minutes], «Séquences» 244, 2006, p. 23, mette in rilievo lo straordinario riassunto di 2 minuti di Paul.

[8] Va ricordato che la sceneggiatura terminava con una conclusione diversa e inquietante, che troviamo nelle scene che precedono il finale del film: gli occhi di Paul/statua che fissano terrorizzati la strada dall’interno del furgone, che diventa sempre più piccolo allontanandosi mentre aumenta la luce di una nuova giornata. Sul finale si veda anche D. Sterritt, Images of Religion, Ritual, and the Sacred in Martin Scorsese’s Cinema, in A. Baker, A Companion to Martin Scorsese, Malden MA 2015, p. 100.

[9] I 1,2 : Figuras fortunasque hominum in alias imagines conuersas et in se rursum mutuo nexu refectas.  All’importanza cruciale del prologo e alle sue 119 parole, è stato dedicato un volume con ben 24 interventi: A. Kahane, A. Laird, A Companion to the Prologue of Apuleius’ Metamorphoses, Oxford 2001.

[10] A proposito di avventure, è utile segnalare che Apuleio (II 14,1) ricorre già a un modello narrativo (Ulixea peregrinatio), con l’aggettivo attestato per la prima volta, per definire, per bocca di Diofane, un amico di Milone, un viaggio disastroso (dira peregrinatio).

[11] Fra i racconti ‘strani’ che tocca ascoltare a Paul, si segnala quello di Marcy, la ragazza suicida. L’ex marito, Franklin, nel momento dell’orgasmo, gridava: «Surrender Dorothy», la famosa frase che la strega traccia nel cielo, col fumo nero della sua scopa, nel film The Wizard of Oz di Victor Fleming (USA 1939).

[12] L’intero film si trova in rete: https://www.youtube.com/watch?v=UhTuidoUBpI (visualizzato a settembre 2022), ma il video è malamente montato.

[13] https://www.nytimes.com/1985/09/13/movies/after-hours-from-martin-scorsese.html [visualizzato a settembre 2022]

[14] È il libro che sta leggendo Paul quando, nelle scene iniziali, incontra Marcy.

[15] https://www.academia.edu/39247359/Il_salto_oltraggioso_del_grillo_Saggi_di_narrativa_e_cinema [visualizzato a settembre 2022] Dal documento scaricato online (che sembra essere un’ultima bozza con correzioni) non è possibile ricavare il numero di pagina. In ogni caso, si tratta del capitolo 4 della Prima parte: Un epigono di Andreuccio da Perugia: il protagonista di After Hours di Martin Scorsese (1985).

[16] Segnalo anche B. Eggert, Essay on After Hours, «Deep Focus Review», 7 dicembre 2013, con richiami ad altri film di Scorsese e riflessioni sul finale: https://deepfocusreview.com/definitives/after-hours/ [visualizzato a settembre 2022]; B. Gibson, Troubling Mastery: Scorsese’s and Kubrick’s Psychosexual New York Odysseys, «Bright Lights Film Journal», October 19, 2020, sulle odissee psicosessuali della New York di Scorsese e Kubrick.

[17] Paula James aveva già pubblicato, nel 1987, uno studio su Apuleio: Unity in Diversity. A Study of Apuleius’ Metamorphoses, Hildesheim-New York.

[18] L’autrice si riferisce a un articolo firmato ‘Salman Rushdie in America’, Travels with the Golden Ass, apparso su The Guardian il 17 aprile 1987, p. 11 (non il 18 aprile, come scrive Elsom), in cui lo scrittore recensisce la traduzione del Golden Ass di R. Graves, apparsa nei Penguin Modern Classics. Rushdie scrive: «The picture of America emerging from this notes is, of course, in some sense “unfair”. What you see depends on where you look.  But the Apuleian America does exist, and I make no apology for looking at it».

[19] Presupposto giusto, se preso alla lettera – nel senso di trascrizione filmica -, per Scorsese, ma errato per la non citazione del film di Spina.

[20] Illuminante una ‘confessione’ di Elsom, p. 146, molto vicina allo spirito delle mie riflessioni iniziali: «Pasolini is for me the person who should have made the film of the Golden Ass. (In fact, I began researching this paper in the mistaken belief that such a film was Pasolini’s next project at the time of his death.)». Va rilevato che, se Elsom non conosce il film di Sergio Spina, Musio, che, come abbiamo visto, ne ha pubblicato recentemente una approfondita analisi, non ha in bibliografia, nonostante il titolo del suo volume, Elsom.

[21] M.W. Winkler, che ringrazio per la lettura e per alcuni suggerimenti relativi a questo articolo, mi ricorda che le sofferenze e la morte di Balthazar lo avvicinano, per alcuni critici, alla figura di Gesù, quindi ai Vangeli. A questo proposito, ancora Winkler sottolinea giustamente che va ricordato uno dei film in cui Scorsese si è misurato col mondo antico: The Last Temptation of Christ (1988).

[22] Elenco qui i siti visualizzati nel settembre 2022, a partire da wikipedia (inglese): https://en.wikipedia.org/wiki/Joseph_Minion, fino ai siti su Joe Frank e sul plagio, più o meno esaurienti: https://www.joefrank.com/shop/lies/; http://jfwiki.org/index.php?title=Lies; http://www.edrants.com/joseph-minion-plagiarized-joe-frank/;

https://www.reddit.com/r/joefrank/comments/d2jx8d/the_joe_frank_martin_scorsese_connection/; https://andrewhearst.com/blog/2008/05/the-scandalous-origins-of-martin-scorseses-after-hours.

[23] Io ho consultato la traduzione italiana I. Christie e D. Thompson (curr.), Scorsese secondo Scorsese, nuova ed. agg., Milano 2003, pp. 126-129 (Scorsese on Scorsese, 1989, 2003).

[24] J. Maslin, A Pinewood Dialogue with Martin Scorsese, © «Museum of the Moving Image», 2002 [visualizzato a settembre 2022]  http://www.movingimagesource.us/files/dialogues/2/63569_programs_transcript_html_258.htm

[25]https://www.youtube.com/watch?v=1mV1_pJ-Muo&index=3&list=PLx3uAGILdftDkSEhC1efhZOaSF35hD2dy [visualizzato a settembre 2022].

Marco Ercolani, «14 luglio 1929. Due lettere a Freud»

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di Massimo Morasso

Oltre che facondissimo scrittore, Marco Ercolani è (stato) uno psichiatra (il participio fra parentesi non significa che è morto, ma, testiculis tactis, che è andato in pensione). Da sempre, però, alla sua prosa creativa non corrisponde la voce di uno psichiatra, ma, si direbbe, quella di un parapsicologo che parli sotto inquieta dettatura nel corso di una seduta medianica in cui lo spirito evocato… può essere chiunque. Beninteso, purché quel chiunque sia un uomo tormentato, o a volte addirittura dilaniato nel sottosuolo della coscienza, che il sensitivo medium ercolaniano “cattura” in qualche non-tempo della storia e trascina nel flusso etereo della sua visione – per ricomporla, frammento su frammento, nell’interminabile casa di parole piena d’anime che chiama a raccontarsi sulla carta.

Tramite il suo ultratrentennale tirocinio in più libri, e centinaia di voci, nella sua scrittura, fatta, per lo più, di segmenti eterogenei, Ercolani ha cercato interferenze e associazioni con l’urgenza inflessibile di un’ossessione, per far circolare una linfa impersonale. E lo ha fatto replicando in molteplici fogge una parola neutra, una parola- riverbero di una presupposta mescolanza autoriale, dove l’io parlante non parla mai per sé anche quando parla di sé, perché quel “sé” è già il “resto” del suo destino, per così dire, e l’io scrivente ha sempre il profilo di un intruso a malapena tollerato.

Ora con questo 14 luglio 1929. Due lettere a Freud, Robin edizioni 2022. Ercolani offre un iperbolico esempio dell’ampiezza del cerchio metapsichico che va tracciando col suo inesauribile gesto di frantumazione dell’io, e, di riflesso, della duttilità stilistica che gli consente la sua vocazione apocrifa, e si doppia. Scegliendo di immedesimarsi in due alter ego numinosi: Hugo con Hofmannsthal e Arthur Schnitzler; che coglie “per analogia” in un medesimo punto di massima crisi esistenziale – l’elaborata elaborazione del lutto per i suicidi dei figli Franz (von Hofmannsthal) e Lili (Schnitzler Cappellini) –, disegnando davanti ai nostri occhi due parabole interiori molto diverse eppure disperatamente convergenti nel “terzo” psicopompo Sigmund Freud, a un tempo deus ex machina e convitato di pietra nel singolare passo a due fra gli scrittori. Giacché, nella finzione del librino, è proprio il padre della psicanalisi il destinatario dei pensieri che Hofmannsthal gli avrebbe affidato in una lunga lettera di 50 pagine, il giorno dopo la morte di Franz, appunto il 14 luglio 1929 evocato nel titolo, e dei 30 racconti in forma di sogno che Schnitzler gli avrebbe raccontato, per iscritto, pochi giorni dopo.

In 14 luglio 1929 ogni blocco testuale è una scossa dei nervi, e fa breccia verso una zona d’ombra della psiche. Ercolani sa rendere credibile l’improbabile, e, a furia di invenzioni, coltiva con coerenza l’hortus apertus di una fantasmatica logopedia, che mette in pratica un salutare principio di pluralità della parola applicata alla scienza dell’anima.

“Io ero il milanese”: Lorenzo S. e l’inutilità del carcere

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di Daniele Ruini

This too I know ­­– and wise it were
If each could know the same­ –
That every prison that men build
Is built with bricks of shame,
And bound with bars lest Christ should see
How men their brothers maim
(Oscar Wilde, The Ballad of Reading Gaol)

 

Facciamo un gioco. Se ci venisse data una bacchetta magica per poter cambiare qualcosa del mondo in cui in viviamo, che cosa sceglieremmo? Per quanto mi riguarda, una delle prime cose sarebbe questa: basta carcere.
I mezzi di informazione italiana (con benemerite eccezioni) non se ne occupano mai, limitandosi a rilanciare periodicamente i gravi problemi delle carceri italiane segnalati da associazioni come Antigone. Eppure parlare di abolizionismo carcerario non dovrebbe essere un tabù, visto che se ne discute da decenni in tutto il mondo. In Italia, tra i nomi più noti, si possono citare Luigi Manconi (uno degli autori del volume Abolire il carcere: una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, recentemente riedito da Chiarelettere), Gherardo Colombo (autore de Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla) e il compianto Massimo Pavarini (curatore, insieme a Livio Ferrari, di Basta dolore e odio. No prison). Leggere quello che scrivono vuol dire venire inchiodati a una cruda verità: il carcere, eccettuate pochissime esperienze d’avanguardia (come quella milanese di Bollate), fallisce completamente nel dare attuazione al comma 3 dell’art. 27 della Costituzione, secondo il quale «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Nella realtà dei fatti stare in prigione significa invece andare incontro, quasi certamente, a problemi di salute mentale, senza poter ricevere cure adeguate; significa vivere in una promiscuità soffocante (nonostante i reati siano in calo da anni), all’interno di un mondo fatto di violenza, discriminazione, isolamento, solitudine e insicurezza; significa essere esclusi da relazioni sociali e, conseguentemente, dall’opportunità di maturare senso di responsabilità e autocontrollo; significa avere molte più probabilità di togliersi la vita (tema che coinvolge in percentuali considerevoli anche i membri della polizia penitenziaria); significa penetrare ancora di più nell’illegalità, aumentare le proprie idee di odio ed affinare la propria predisposizione delinquenziale (solo un terzo dei detenuti, una volta scarcerato, non finisce dentro di nuovo). E, tra l’altro, è molto più facile cadere in questa spirale se si appartiene alle fasce culturalmente, socialmente ed economicamente più deboli della società: poveri, disoccupati, tossicodipendenti, stranieri, persone con un basso livello di istruzione.

Come spesso succede, a rendere evidente tutto ciò, più che dati e statistiche, sono le storie di singoli detenuti, con tutta la loro forza dirompente. Soprattutto se queste storie vengono raccolte da chi ha grandi capacità di ascolto. Ed è esattamente quello che è successo con la vicenda di Lorenzo S., raccontata in un bellissimo podcast in 14 puntate curato da Mauro Pescio.
In “Io ero il milanese” ascoltiamo la viva voce di Lorenzo che, sollecitato dalle domande di Pescio, ripercorre tutta la sua vita, a partire dall’infanzia vissuta a Milano con la madre (mentre il padre scontava dieci anni di reclusione) e dal successivo trasferimento a Catania, dove matura la decisione di dedicarsi alla delinquenza. Una delinquenza lontana dalla criminalità organizzata e tutta dedita ad una sola specialità: le rapine in banca. Lorenzo inizia giovanissimo e già a 14 anni entra in quello che sarà il luogo in cui trascorrerà la maggior parte della sua esistenza: il carcere. Di fatto, negli anni successivi, conoscerà la libertà solo per periodi di pochi mesi; e quando è fuori il suo unico pensiero è sempre lo stesso: trovare banche da rapinare, riempirsi di soldi, spendere tutto in vestiti, macchine, night e ristoranti. Lorenzo sa che il rischio di essere di nuovo arrestato è sempre dietro l’angolo, e cerca di vivere i momenti di libertà al massimo della velocità.

E in tutto questo la prigione che ruolo ha avuto? Lorenzo impara presto la dura legge delle relazioni carcerarie, sposandone in pieno le regole non scritte. Approfitta inoltre dei consigli dei detenuti più esperti per migliorare le proprie capacità di rapinatore. E cerca anche di farsi passare per tossicodipendente o di comportarsi come detenuto modello al solo scopo di ottenere una detenzione più blanda e di costruirsi in questo modo un’eventuale opportunità di fuga. In breve, per parecchi anni il carcere non riesce minimamente ad intaccare la dura corazza che Lorenzo si è costruito né ad instillargli l’idea che una vita oltre alla delinquenza è possibile. Come potrebbe, d’altra parte, un luogo programmaticamente chiuso alla società riuscire a riattivare una messa in discussione da parte delle persone recluse?

Il protagonista di questa storia è molto onesto con sé stesso: pur essendo cresciuto in un contesto familiare e ambientale fatto di criminalità ed emarginazione sociale, non cerca scuse. Il fatto di aver voluto intraprendere la carriera di rapinatore –dice­– è stata solo ed esclusivamente una sua scelta. Eppure se avesse incontrato prima le persone giuste, se avesse conosciuto un altro modello di detenzione, probabilmente la sua giovinezza sarebbe stata un’altra. A 35 anni Lorenzo si ritrova infatti nella Casa di reclusione di Padova, dove opera la redazione di Ristretti Orizzonti, il periodico ideato e diretto da Ornella Favero e fatto dai prigionieri. La collaborazione col giornale rappresenta per lui uno snodo decisivo, così come fondamentale sarà la possibilità di iniziare a porsi davvero delle domande durante i confronti con gli studenti organizzati all’interno del carcere dalla stessa Favero. È la svolta: è da qui che inizia il cambiamento interiore di Lorenzo, un mutamento che i suoi famigliari disprezzano, accusandolo di essere un traditore.

Grazie ad altri incontri fortunati, come quello con un avvocato che, in maniera del tutto volontaria, si interessa del suo caso, a Lorenzo viene concessa la possibilità di una seconda vita. Un giudice accoglie infatti la richiesta di revisione delle sue vicende processuali e Lorenzo, che originariamente avrebbe dovuto scontare più di vent’anni di galera (senza poter accedere, ancora per molti anni, a nessun tipo di permesso), viene inaspettatamente scarcerato.
Alla gioia per la libertà riacquistata segue però ben presto il disorientamento nel ritrovarsi in un mondo a cui si era del tutto disabituato. Pur venendo accolto nella casa di una volontaria con cui, negli anni, aveva stretto una relazione affettiva, Lorenzo è terrorizzato: le finestre senza sbarre così come i contatti con gli estranei lo gettano nel panico, spingendolo a desiderare di ritornare in cella. Al disagio di continuare a portare lo stigma del delinquente si associa l’ansia di dover ricominciare da zero e un fortissimo senso di emarginazione sociale (diretta conseguenza dei tanti anni trascorsi nel chiuso di una prigione).

La storia di Lorenzo ha un lieto fine: l’ex rapinatore riesce a ricostruirsi una nuova identità, formandosi come mediatore penale e diventando responsabile di un centro specializzato in giustizia riparativa. Ma non andrebbe dimenticato che ciò è potuto avvenire, oltre che grazie ad una grandissima determinazione, solo perché ha avuto la fortuna di imbattersi in persone che hanno portato dentro al carcere una prospettiva completamente diversa, non prevista dalle istituzioni. E allora domandiamoci: quante storie di redenzione potrebbero essere raccontate se l’attuale sistema carcerario venisse interamente ripensato e fosse davvero finalizzato a favorire un percorso di rieducazione? Che cosa accadrebbe se chi ha infranto la legge, e magari pure provocato grosse sofferenze, non venisse completamente tagliato fuori dalla società e potesse invece ricevere una seconda possibilità? Come ha scritto Gherardo Colombo, «Fare male (pur nell’esercizio della funzione autoritativa della risposta alla trasgressione) non può che insegnare, irrimediabilmente, a fare male: non si può insegnare a non uccidere uccidendo; non si può insegnare a non privare gli altri della libertà togliendola»[1]. Di quante altre prove abbiamo ancora bisogno per capire tutti gli effetti negativi delle pene detentive?

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[1] G. Colombo, Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla, Milano, Ponte alle Grazie, 2020, p. 61.

Perché è importante leggere David Graeber

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di Lorenzo Velotti

Foto di Guido van Nispen

Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la postfazione di Lorenzo Velotti a David Graeber, Le origini della rovina attuale, E/O, traduzione dall’inglese di Carlotta Rovaris, in libreria dal 28 settembre. Sono quattro saggi inediti, curati dallo stesso Velotti. Antropologo anarchico, critico radicale della disuguaglianza economica e sociale, David Graeber (1966-2020) ha scritto per tutta la vita sugli effetti negativi della globalizzazione e di come abbia favorito la disciplina del lavoro e il controllo sociale.

L’idea di accogliere David Graeber tra gli auto­ri della Piccola Biblioteca Morale risale all’i­nizio del 2020. Avremmo voluto fare un li­bro-intervista: ne avevo parlato a lungo con David che, da vivo sostenitore della natura essenzialmente dialogi­ca del pensiero, ne era entusiasta, e avevamo pianifica­to sei ore di conversazione. Vivevo a Londra, l’anno precedente ero stato un suo studente, avevamo stretto un rapporto e, in quel periodo, ci vedevamo soprattut­to in conviviali contesti di lotta politica. Partendo dalla considerazione che Graeber – grande nome dell’antro­pologia contemporanea e punto di riferimento dell’at­tivismo libertario (soprattutto nel mondo anglosasso­ne e in Francia) – non fosse altrettanto conosciuto nel panorama italiano, pensavamo potesse essere utile trattare alcuni dei problemi contemporanei, italiani e globali, a partire dai suoi studi e dalla sua esperienza.

L’idea, purtroppo, non si concretizzò. Ci dicemmo che avremmo fatto le interviste non appena fosse finita la pandemia, ignari di quella che ne sarebbe stata l’ef­fettiva durata. A settembre 2020 Graeber ci lasciò all’improvviso, mentre si trovava in vacanza a Venezia dopo aver terminato il suo ultimo libro, L’alba di tutto (Graeber e Wengrow, 2022). In tanti – studenti, amici, attivisti – ci rendemmo conto della nostra totale impre­parazione di fronte alla mancanza di dialogo con Da­vid. Eppure, ci trovammo costretti a trasformarlo in antenato. Per quanto riguarda questo progetto, rimase la possibilità di tradurre in italiano qualcosa di inedito.

Non è stato difficile scegliere la prima parte di Possi­bilities: Essays on Hierarchy, Rebellion, and Desire (“Possibilità: saggi sulla gerarchia, la ribellione, e il desi­derio”). Il terzo saggio di questa raccolta, “Ribaltare i modi di produzione: o, perché il capitalismo è una tra­sformazione della schiavitù”, è il primo che lessi, duran­te le settimane iniziali del corso “Antropologia e Storia Globale” che Graeber tenne alla London School of Eco­nomics nel 2018. Ne rimasi così colpito che, un po’ inge­nuamente, al seminario successivo gli chiesi come fosse possibile che quanto scritto non avesse del tutto trasformato, negli anni successivi, il piano della discussione. Ri­spose ridendo: “Me lo chiedo anch’io”.

La raccolta originale contiene dodici saggi, divisi in tre parti. I quattro saggi che compongono la presente rac­colta corrispondono alla traduzione della prima parte [1].

Come racconta l’autore stesso nell’introduzione al libro, questa parte risale alle sue prime ricerche, condotte du­rante la specializzazione presso l’Università di Chicago negli anni Ottanta. Si tratta, innanzitutto, di uno studio antropologico delle origini del capitalismo. Ma, visto il carattere totalizzante di quest’ultimo, esaminarle dà mo­do di riflettere sulle infinite possibilità alternative, sem­pre presenti, di intendere e di vivere le relazioni sociali, i desideri, il mondo.

Il primo saggio, “Buone maniere, deferenza e pro­prietà privata: o elementi per una teoria generale della gerarchia”, è una versione accorciata e rivista della sua tesi di laurea specialistica. La tesi, racconta Graeber, era stata particolarmente apprezzata da Pierre Bour­dieu (durante il suo periodo come visiting professor a Chicago), il quale avrebbe proposto a Graeber di ren­derla più sintetica e di lavorarci insieme a lui per una pubblicazione in Francia. Tuttavia, a causa di quello che Bourdieu stesso ha teorizzato come un problema di (basso) “capitale sociale”, Graeber – di estrazione proletaria –, non riuscì a ottenere i fondi per raggiun­gerlo a Parigi. Il saggio è un’affascinante teorizzazione della relazione tra buone maniere, individualismo possessivo e gerarchia, che recupera categorie antro­pologiche ormai desuete come quelle di joking e avoi­dance (relazioni di scherzo e di evitamento) per trac­ciare questo legame e per sottolinearne le conseguenze politiche. Particolarmente affascinanti sono le riflessioni sul carnevale, sovversione per eccel­lenza delle gerarchie e della logica dell’evitamento. Non è un caso che l’ideologia della proprietà privata sia emersa in Europa contemporaneamente a quella delle buone maniere, mentre il carnevalesco veniva violentemente soppresso.

Il secondo saggio, “Il concetto di consumo: deside­rio, fantasmi ed estetica della distruzione dal Medioevo a oggi”, risale agli studi degli anni immediatamente successivi, o meglio alle letture a cui Graeber si dedica­va di soppiatto mentre lavorava in biblioteca per pagar­si gli studi. È una sofisticata critica al culto del consu­mo prevalente nei cultural studies del tempo – o a una certa teorizzazione critica del consumo che finisce pe­rò per naturalizzarlo – nonché una proposta radical­mente alternativa. Il terzo saggio, che menzionavo pri­ma, ha origine dal lavoro etnografico sul campo, che Graeber svolse, durante il dottorato, in Madagascar, dove aveva osservato una stretta relazione tra lavoro sa­lariato e schiavitù, relazione esplorata, e in certa misu­ra generalizzata, nel saggio in questione, attraverso il concetto marxiano di “modi di produzione”. Infine, il quarto saggio, “Il feticismo come creatività sociale: o, i feticci sono dèi in costruzione”, avrebbe dovuto far parte dell’ultimo capitolo di Toward an Anthropologi­cal Theory of Value (2001) – la sua opera più importan­te di teoria antropologica, a cui tutti questi saggi sono in realtà intimamente connessi – ma fu omesso per mo­tivi di spazio. Ne sottolineerò alcuni elementi fonda­mentali tra qualche paragrafo.

Ora, pensare che la lettura di questi saggi possa es­sere interessante solo per misurarsi con il pensiero di un “giovane Graeber”, magari teoricamente immatu­ro rispetto a quello dei lavori successivi, sarebbe un er­rore. Questi saggi non sono solo magnifici esempi di un’eleganza argomentativa rara, le cui tesi sono estre­mamente rilevanti in sé stesse, ma sono interessanti anche perché le domande a cui si cerca di dare rispo­sta, nonché il tipo d’approccio con cui queste risposte vengono ricercate, costituiscono le fondamenta teorico-antropologiche di gran parte della sua opera suc­cessiva – compresa quella più direttamente politica e divulgativa, per la quale è noto ai più. Indagare le ori­gini dell’attuale predicament (letteralmente “brutta si­tuazione”, che nel titolo abbiamo deciso di tradurre, un po’ liberamente, come “rovina”) non è lo scopo unicamente di questo volume: questi saggi costituisco­no il perno intorno a cui ruoterà gran parte del resto dell’opera di Graeber: ovvero, lo studio delle origini della rovina attuale al fine di rivelare alternative possibili[2]. Il che è poi, per l’autore, l’essenza dell’antropo­logia.

C’è un altro cardine, forse ancor più profondo, che tiene questi saggi insieme al resto dell’opera di Grae­ber: la dimostrazione – come ha scritto in Burocrazia (2016) che “la verità ultima e nascosta del mondo è che è qualcosa che noi creiamo e che potremmo facil­mente creare in modo diverso”. Questa frase, come cercherò di illustrare, è più profonda di quanto possa apparire, e credo riassuma, più di ogni altra, il progetto intellettuale e politico di Graeber. Come ha scritto lui stesso in una breve autobiografia, il suo lavoro: “… ha esplorato la relazione tra l’antropologia come ricerca intellettuale e i tentativi pratici di creare una società li­bera; libera, almeno, dal capitalismo, dal patriarcato e dalle burocrazie statali coercitive” [3].

Alla ricerca di una pratica intellettuale rivoluziona­ria e non avanguardista, e di una teoria sociale modella­ta sui processi di democrazia diretta, Graeber ha scrit­to che “un progetto del genere dovrebbe avere due aspetti, o se preferite due momenti: uno etnografico e l’altro utopico, sospesi in costante dialogo” (Frammen­ti di un’antropologia anarchica, 2006). Non è dunque difficile comprendere perché è a partire dall’antropo­logia (al servizio della storia, e viceversa) che è possibile elaborare nuove possibilità. È infatti alle (non) origini del denaro che bisogna guardare per trovare alternati­ve alla violenza del denaro contemporaneo (Debito, 2011), alle (non) origini della disuguaglianza (e dell’a­gricoltura, delle città, dello stato etc.) per ritrovare la possibilità delle libertà (L’alba di tutto, 2022), alle (non) origini della gerarchia, del consumo, della schia­vitù, e dei feticci (questo libro), per capire cosa è inevi­tabile, e fino a che punto, e cosa invece non lo è affatto.

Parlo di “(non) origini” perché Graeber è solito di­mostrare, quasi senza eccezione, che nessuno di questi fenomeni (disuguaglianza, denaro, gerarchia ecc.) ha di per sé un’unica origine, un punto di svolta definitivo e universale, che decapiterebbe le alternative possibili sotto la scure dell’inevitabilità storica. Da qui il tema della riconoscibilità, su cui tornerò tra poco. Il punto su cui vorrei ulteriormente insistere, però, è l’impor­tanza di leggere Graeber su questo doppio piano, di in­dagine antropologica e di trasformazione politica. Cre­do che ogni suo scritto li contenga entrambi. Ma credo anche che, se si volesse operare una forzatura e leggere su questi due livelli l’opera di Graeber nella sua inte­rezza, allora, forse, questi saggi farebbero parte dell’in­dagine antropologica più profonda, che sostiene le sue opere successive. Ripeto, è sicuramente una semplifi­cazione (David stesso amava sottolineare che ogni teo­ria necessita di semplificazioni, valide nella misura in cui si rimanga coscienti del fatto che sono tali), ma cre­do sia proprio da queste prime ricerche che emerge la teoria fondamentale su cui Graeber potrà poi costrui­re, con una certa facilità e capacità di convinzione, le sue tesi politiche e antropologiche più note.

Proverò allora a suggerire, senza alcuna pretesa di esaustività e precisione, e privandoli dei tantissimi riferimenti etno­grafici o bibliografici (che i lettori e le lettrici potranno trovare direttamente nei testi), due elementi teorici che mi sembrano attraversare tanto questi saggi quanto il resto dell’opera di Graeber, rendendoli forse utili chia­vi di lettura.

Il primo, come anticipavo, è quello della riconosci­bilità, o somiglianza. Graeber, infatti, a prescindere dal tema specifico di cui si occupa in un determinato sag­gio (la gerarchia, la produzione, i soldi…) è solito dimo­strare, attraverso lo studio di fonti storiche e antropo­logiche, che i fenomeni in questione sono sempre esistiti, e non sono interamente ineludibili. Ciò che ap­pare del tutto “altro” è invece, il più delle volte, una pratica completamente riconoscibile, simile a una di quelle che svolgiamo ogni giorno. Potrebbe sembrare controintuitivo, ma credo si tratti di un elemento fon­damentale del progetto emancipatorio di Graeber. La gravità del momento presente (la rovina attuale) è data dalle specifiche modalità pervasive e totalitarie che hanno assunto questi fenomeni, in particolare in quan­to percepiti come gli unici possibili, provocando per­ciò una rassegnata accettazione del fatto che non pos­sano in alcun modo essere trasformati, resi innocui o minoritari, se non addirittura ribaltati.

Per Graeber è invece nella ricerca di quanto abbiamo in comune con i nostri antenati, o con le popolazioni indigene di ogni dove, che si possono riscoprire modalità altre, potenzialmente emancipatorie. E questo è possibile, in breve, perché condividiamo la stessa realtà, nella quale, attraverso il valore, creiamo universi. In questo senso è interessante che sia proprio “la minaccia della somiglianza” (si veda il saggio n. 4) ad aver spinto i primi mercanti europei in Africa a confondere l’arbitrarietà del valore con la follia del “feticismo”, o i teorici politici successivi a non cogliere la somiglianza tra feticci e contratti sociali. Certamente quella che ho chiamato riconoscibilità, in antropologia, non è un elemento di grande originalità. Per certi versi, si tratta dell’essenza stessa della disciplina. Ma è sicuramente un tratto che caratterizza l’antropologia di David Graeber più di altre. Infatti, è proprio in risposta al saggio sul feticismo e sulla creatività sociale contenuto in questo volume che Eduardo Viveiros de Castro, noto antropologo e teorico dell’“alterità radicale”, criticò duramente Graeber, dando così il via al famoso dibattito relativo alla “svolta ontologica” in antropologia.

Un altro tema trasversale di questi saggi è senza dubbio la relazione tra materialità e immaterialità: una distinzione – in termini marxiani, tra “infrastruttura materiale” e “sovrastruttura ideologica” – che Graeber considera, di per sé, una forma di idealismo, perché non ci sono idee da cui non derivino processi d’azione e non ci sono processi d’azione possibili senza idee. Se la dicotomia tra materiale e immateriale è illusoria, esiste tuttavia la questione dell’astrazione, dell’elevazione di processi a una sfera altra, trascendente, cristallizzata, identica a se stessa. Innanzitutto, la cristallizzazione di processi in oggetti identici a se stessi è ciò che rende possibile la loro riduzione a proprietà. Graeber, in questo senso, problematizza tanto il concetto di produzione (a cui dedica il terzo saggio) quanto quello di consumo (a cui dedica il secondo), entrambi concetti che, alla luce di quella che Graeber definisce la teoria antropologica del valore, andrebbero interamente ripensati come produzione di persone e di rapporti sociali, essa stessa una produzione materiale di cui la classica produzione di cose non è altro che un momento subordinato. Qui Graeber si inserisce, consapevolmente, nella preesistente e dalla ben più ampia prospettiva critica femminista (in gran parte marxista), che rende visibile il lavoro di cura – svolto da donne nella stragrande maggioranza dei casi – in quanto necessario per mantenere la vita e far funzionare la società, nonché come presupposto per qualsiasi altra forma di produzione. L’originalità di Graeber sta nelle fondamenta antropologiche, storiche, etnografiche e comparate impiegate per costruire queste tesi, nella teoria antropologica del valore a cui fa riferimento, e nel collegamento col nesso tra il modo di produzione schiavista e quello capitalista, che si fondano su un’analoga separazione tra luogo di lavoro e sfera domestica. Sono queste le basi su cui poggiano i suoi successivi lavori sulle “economie umane”, ma anche la sua ricerca sui Bullshit Jobs (2018) e i suoi suggerimenti riguardo alle caring classes (“classi che si prendono cura”).

Tornando al problema dell’astrazione – la creazione di un ente astratto che ha poi un potere su chi l’ha creato – Graeber ne sottolinea in certa misura l’inevitabilità, in quanto presente in qualsiasi processo di creazione di valore e dunque di creatività sociale. Anche nella socie­tà più libera creiamo continuamente regole a cui per­mettiamo di avere potere su di noi. Basti pensare a quando giochiamo, o a quando gli artisti si esprimono sentendosi veicoli di ispirazioni “esterne”. È qui, dun­que, che possiamo scorgere la base teorica della famosa frase, citata precedentemente, riguardo al fatto che creiamo il mondo ogni giorno: lo studio antropologico dei feticci permette di comprendere un ben più ampio raggio d’azione creativa degli esseri umani. I feticci ri­sultano, in vari aspetti, equivalenti ai contratti sociali, ma anche, più in generale, a qualsiasi totalità immagina­ria, possibilità sociale o, appunto, mondo, che esistono solo se tutti si comportano come se essi avessero davve­ro qualità soggettive. La creazione di feticci, e dunque di accordi, contratti, forme sociali, risulta essenzial­mente rivoluzionaria. Ma diventa un problema nel mo­mento in cui il feticcio, da astrazione consapevole, di­venta teologia: quando si perde di vista il fatto che ogni cosa è in realtà in continua costruzione.

E sono questo continuo movimento e questa continua processualità che mettono in dubbio, appunto, la dicotomia tra materiale e immateriale. Il problema, allora, è quando l’astrazione si cristallizza e non se ne riesce più a scorgere il carattere di creazione umana (l’annoso tema dell’alienazione), e può dunque essere usata per giustificare un sistema di dominio. Si tratta sicuramente degli dèi veri e propri, ma anche della teologia materialista della nostra attuale economia (saggio n. 4) o dell’astrazione della forma societaria e del suo rapporto violento con la realtà materiale (saggio n. 3); così come della separazione umana dalle proprie sostanze materiali (si vedano le buone maniere e la logica dell’evitamento, nel primo saggio), dell’uomo autonomo e autosufficiente astratto dal mondo (il modello dell’homo oeconomicus), o dell’illusione di uno stato razionale e disinteressato. Sono infatti tutte queste modalità di astrazione che stanno alla base di qualsiasi forma di gerarchia (si veda il primo saggio) e sfruttamento (si veda il terzo).

Se tutto questo può sembrare eccessivamente com­plicato, esorto il lettore a fare riferimento alle pagine scritte da Graeber stesso. Vi avrà già notato una delle doti più significative di quest’autore: la capacità di tra­smettere concetti complessi in modo semplice ed ele­gante, addirittura avvincente. La mia speranza è che questa traduzione contribuisca a far apprezzare, anche in Italia, la fondamentale argomentazione antropologi­ca e politica di David Graeber. Soprattutto, mi auguro che il suo pensiero possa essere d’aiuto a chi, oggi, non si rassegna alla naturalizzazione del capitalismo, del patriarcato e delle burocrazie statali coercitive, e si de­dica, con caparbietà e giocosità, alla costruzione di un mondo più libero.


[1] Un saggio tratto dalla terza parte, invece, è stato tradotto come Critica della democrazia occidentale (2019).

[2] In particolare: Debito. I primi 5000 anni (2012) e L’ alba di tut­to. Una nuova storia dell’umanità (2022), scritto con David Wen­grow e uscito postumo.

[3] Da https://davidgraeber.org/about-david-graeber/, tradu­zione nostra.

Il tornello dei dileggi

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di Massimo Salvatore Fazio

Il brano che segue è tratto dal romanzo di Massimo Salvatore Fazio “Il tornello dei dileggi”, pubblicato (2021) dall’editore Arkadia, che ringraziamo per la disponibilità

Madrid è anche il flamenco. Olaaa, olaaa. Il cipiglio dello scrittore nichilista non manca. Descrivere il flamenco.
Come il peggiore degli assassini incapace di uccidere e di smacchiarsi del delitto commesso, danzano e urlano i pagliacci che interpretano questa danza, per ricordar, della natia terra, i venditori al mercato di piazza Carlo Alberto, chiamato dagli autoctoni A Fera ’O Luni (La fiera del lunedì).
Urlano puttane vecchie, cadenti a inventar di danze tradizionali quasi a vendere le calze o merce americana. E tutt’intorno si emoziona la platea tradita. Convinta di un’arte fallita, portata in auge da bipedi orripilanti. Dopo il primo round dell’urlo e quattro minuti per rabbuiarsi e chiedersi cosa si fa a uno spettacolo di flamenco, tornano i conigli vestiti di nero a recitar melodrammi che anche il peggior emulo di Mario Merola omicidierebbe.
È la Spagna signori.
Entra con il suo culetto che sembra una pigna, rasato in testa, simile a una palla da tavolo di carambola, il ballerino che rumoreggia sui tacchi.
Olééé, olééé come il venditore di indumenti intimi al mercato, Fera ’O Luni, di Catania: «Calze e mutande tre euro tre paiaaa.» Olééé
Il toro servito al piatto dell’impresario che al ritorno in Italia racconterà prima d’una corrida e poi di tacchi e urla da mercato di poveri che lui detesta all’uscita di banca. Porco.

***

Orrenda Spagna dal caos mattutino a quello pagato urlante. Olà. Chissà come stanno Michele e Martina, lui comunista convinto e diretto, lei maestra di Spagna che adora e ammira.
Solo alle due del mattino, con i dovuti ringraziamenti, il taxi riaccompagnerà Paolo e Giovanna in albergo.
Giunti in stanza, a lui, non casualmente, cade l’occhio sul cellulare, c’è un nuovo sms, è di Adriana che in qualche modo, dandosi della “frullata” per non dichiararsi matta, chiede di lasciar stare quel che ha scritto nell’e-mail precedente.
Olé. Il flamenco ha portato bene.
È stanco Paolo, dorme e a sprazzi si risveglia. In una di queste fasi ha sognato e nello stesso sogno prospetta che qualche cambiamento è sopraggiunto, dove forte si imporrà la persona. Ha coraggio. Non è fuori dai luoghi. Tutt’altro. Si eleva a novus. Atto in atto. Forza in forza. Trasformati dove vuoi, con chi vuoi, ma trasforma le presenze, gli indugi e le tensioni. Ci sono altre vite qui. E mancano. Se non ti trasformi, resisti e vivi. E se resisti e vivi non è detto che non anneghi. E se anneghi, di fattori liquidi ne escono pure dall’anticamera del basso bacino, ed è normale come quando passeggi in una qualunque città e sui muri stanno scritte e stanno sempre stampati i soliti simboli. Falce e martello e svastiche o croci celtiche. Se si rimane fermi, immobili, nel non cambiamento, si è fottuti. Agire. Muoversi. Su altri fronti. Subito. Ecco cosa. Ecco.
Entra ed esce senza armonia. Mancando pur di rispetto, ma liberatosi.
Pensa. È questo uno dei nuovi mutamenti, Adriana. Te lo consegno. E via. E anche Gesù Cristo, non c’è da prendermi in giro, sia salvato, che ci salvi. In Spagna o altrove. Ma lo si salvi.

***

Come belve impazzite che però vogliono nascondere il dolore causato dalla fine di un dominio, gli uomini che perdono il controllo sul proprio simile, sottoposto alle loro fittizie verità e reali manipolazioni, perdono, appunto e nuovamente, il controllo e, con il dileggiare più tragico e le risate elaborate solo dal piccolo orticello delle proprie figure inutili che stanno intorno come api nel punto centrale di un fiore che non producono nulla, si scagliano ubriachi, alla stregua di allegorici falsi profeti. Inetti, innanzi alle loro compagne che rimangono inermi e atterrite al solo vedere cosa sta accadendo. E loro, ominuccoli senza ritegno, avanzano nello spergiuro.
La sconfitta autoinflittasi, come tutta la cocaina assunta che spinge a giustificare accoppiamenti multipli senza che vi sia necessità di aprire le porte della percezione, proprio come il cocainomane che necessita di forza esterna ed è tollerato da falsi intellettuali nel compiere qualsivoglia azione di superamento. Se la medesima forza, però, viene elaborata da chi non assume nulla, lo si additerà come matto, minchiataro, spara balle. Ma, inesorabile, si impone il successo di quest’ultimo e, disgraziatamente per i falsi intellettuali, non si può far a meno di non riconoscerlo. Quello è il momento in cui crollano le loro inutilerie. Pessima roba per pessime menti che non vogliono osare nei cambiamenti.

 

Peninsulario

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di Marino Magliani

Oltre Sorba, nascosto nella campagna perché raggiungere la città in quel buio era impossibile, Secondo attese l’alba. Giunse a casa verso mezzogiorno, stanco, accaldato, perché più di una volta aveva perso la strada, come all’andata. Era rimasto senza acqua e cibo, e attraversando il paese di Sant’Agata s’era attaccato al rubinetto di una fontana e s’era lavato la faccia e la testa, come a cancellare di dosso tutte le cose che aveva visto.
Adele era in casa, si mise la mano davanti alla bocca, disse che aveva chiamato la polizia, e U – era già in casa anche lui – dapprima s’era detto contrario, disse Adele, ma lei aveva dato lo stesso l’allarme. Secondo si accorse che, per questo fatto di non avergli ubbidito, U l’aveva rimproverata e ora lei tremava ancora, scaricando i nervi su Secondo.
«La colpa è tua».
«Mia?».
«Certo. Ti ho dato per morto, suicida, ti stanno cercando sul molo e nei torrenti. Dov’eri?».
Secondo non glielo disse (si liberò della mano di U che lo teneva per il braccio e gli aveva chiesto le stesse cose: «Dov’eri, scemo? Eravamo a ficcare il naso?»), andò nella stanza delle canne da pesca e sentì che di là bisticciavano di nuovo. Poi lei, sempre su ordine di U, aveva richiamato la polizia e dato notizia del ritrovamento. Secondo a queste cose non badava più, era molto stanco, aveva fatto spazio in quel disordine e si era sdraiato sul vecchio divano, corto e cigolante. Ma non dormì, teneva gli occhi sbarrati rivolti alla finestra che mostrava una rama di palma e un po’ più in su, malgrado fosse giorno, una grande luna bianca.
Forse alla fine riposò e quando tornò alla finestra c’era solo la rama della palma e a Secondo venne nostalgia della luna.
Uscì dalla camera, guardato in cagnesco da Adele, e scese dal professor Filipponi. Mise la faccia tra le assi del cancello e si aggiustò la voce. «Filippo, lo so che ci sei, non farti pregare».
«Ieri ti cercava la polizia. Volevano entrare pure qui da me…», disse Filipponi piuttosto allarmato.
«Lascia perdere la polizia. Ti ricordi quando ti ho detto che erano d’accordo, che l’idea di piazzare guanti dappertutto era per farmi diventare matto come sono in effetti diventato, e poi farmi interna re e prendersi casa e garage, tutto? È lui, è la strategia di Cuculo… Ora ne sono certo, sai, è proprio così, ma io resisto».
«Basta che non ne ricombini qualcuna che la poli zia voglia di nuovo entrare a cercarti qui».
E così fu, Secondo resistette un buon mese, in quelle stanze piene di canne da pesca, dove viveva ormai da confinato. Mangiava pane e frutta che rubava negli orti, ma faceva presto a tornare a casa perché temevano cambiassero la serratura.
La sera guardava la luna, e sentiva la nostalgia di altre cose, del passato e del futuro. Quando non giravano per la casa (se non sentiva la musica, voleva dire che U non c’era) usciva dalla camera, se ne stava un po’ in sala e magari accendeva la tv.
Una volta che stranamente U non aveva messo musica, accostando l’orecchio al muro e sentendoli parlare, per la prima volta Secondo sentì la parola «comunità». Il discorso era durato un po’ e l’avevano menzionata entrambi più di una volta. E questa cosa lo preoccupò. Comunità? Era certo l’avessero fatto apposta, di modo che quella parola penetrasse tra le mura della casa. Andare a vivere in comunità? Sarebbero arrivati a tanto? L’avrebbero portato in uno di quei posti che sono l’ultimo angolo della vita? E lui, avrebbe accettato, e del resto, quanto poteva resistere ancora in quello stato?

 

NdR Questo frammento fa parte dell’ultimo dei cinque racconti (“Il cuculo”) che compongono la raccolta di Marino Magliani “Peninsulario”, con prefazione di Filippo Tuena, pubblicata di recente da Italo Svevo.

Il Mondo è Queer. Festival dei Diritti

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Crimes of the future, di David Cronenberg

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di Mauro Baldrati

A  settantanove anni il vecchio maestro ha ideato, scritto e diretto un altro film durissimo, estremo, inquietante. L’estetica radicale non fa sconti, non si piega alle esigenze dello spettatore. L’ha detto lui stesso, in un’intervista relativa a Crash, il film del 1996 tratto dal romanzo di Ballard: «Se ci si preoccupasse delle reazioni del pubblico si sarebbe completamente paralizzati, perché si sa che qualunque sia la direzione presa si verrà criticati e che alcuni saranno delusi. Se si pensasse allo spettatore-tipo e alle sue attese sarebbe la morte di ogni creatività.» Era controcorrente, e lo è ancora, coraggioso e solitario. In effetti oggi il concetto da lui aborrito sembra diventato legge. Tutti corrono dietro ai cosiddetti gusti dello spettatore-tipo. La politica soprattutto, ha sepolto per sempre ogni ideale di guida per compiacere la pancia “bassa” degli elettori. Ma Cronemberg rimane sé stesso, uno dei sopravvissuti nella Zona Morta (1983, tratto da Stephen King). Questo film, che come al solito ha causato reazioni opposte a Venezia, dove una parte del pubblico è uscito disgustato dalla sala, mentre l’altra ha applaudito al capolavoro, sembra quasi un testamento. Raccoglie tante suggestioni che hanno creato il suo “brand”: il tempo futuro di un mondo morto, o morente, rappresentato con luci livide, atmosfere cupe, dove le emozioni umane, che non possono morire se non muore il corpo, sono mutate, contaminate con la follia lucida e rassegnata della “morte felice” della civiltà. E il corpo, quasi un’ossessione, coi suoi bisogni, il sesso, il desiderio, la commozione, muta a sua volta, fondendosi con sostanze estranee o pezzi di macchina (e qui il capostipite è il capolavoro La mosca, 1986). Il corpo, questa entità melanconica, violentata, dove si introducono le peggiori schifezze, barrette-merendine di plastica e rifiuti, o la polvere insetticida nel magnifico Il pasto nudo (1991, tratto dall’omonimo romanzo di Burroughs). I personaggi sono oscuri, poco o per nulla empatici, e tanto meno patinati. In questo film sono vestiti squallidamente, con abiti vecchi e ordinari che ben si confanno con le atmosfere desolate di edifici fatiscenti e abbandonati, coi muri ammuffiti, carcasse di navi coperte di ruggine, rottami, terreni inariditi invasi dalle erbacce. Anche la recitazione (rigorosamente in originale, non entrate se il film è doppiato) è singhiozzante, sofferente, smozzicata. L’inizio non è dei più facili: una madre soffoca col cuscino il figlio di dieci anni, Brecken, sorpreso a mangiare un cestino di plastica, masticando rumorosamente con una sorta di schiuma biancastra che non è l’ideale per uno spettatore con un po’ di “imbarazzo di stomaco”. Infatti una delle mutazioni che verranno alla luce è proprio questa: la capacità di digerire la plastica e i rifiuti tossici. La madre, sconvolta dalla scoperta che il figlioletto è un mutante, non regge al dolore e preferisce ucciderlo. Il cadavere del bambino viene raccolto dal padre (separato dalla moglie), che lo tiene in frigorifero, finché, dopo che ha conosciuto il grande perfomer Saul Tenser, interpretato dall’attore preferito di Cronemberg, Viggo Mortensen, che recita sempre vestito di nero col cappuccio, come la Morte del Settimo Sigillo (Igmar Bergman, 1957), decide di offrirlo per la più grande delle performance: l’autopsia in diretta. E questa è una delle scene più critiche, non sopportabile da tutti gli spettatori: nella sua razzia dei tempi e degli stili il regista ha campionato certi filmati dell’underground splatter e gore con l’esibizione del sangue e degli organi interni, che vengono asportati con dovizia di particolari. Già, perché in quel futuro remoto, l’arte consiste nell’aprire i corpi, infliggere ferite, tagliuzzare le facce, nell’assenza del dolore, che nessuno prova più, e nella scomparsa del sesso tradizionale, sostituito dalla chirurgia senza anestesia. In effetti questa è proprio la specialità del famoso Saul Tenser. Anche lui è un mutante, la sua specialità è produrre nuovi organi, spesso tumorali, che vengono asportati in vivisezione. Il pubblico, rapito, guarda, fotografa, filma. Gli spettatori desideranti si eccitano eroticamente, sognano di essere al suo posto, come Timlin, impersonata dall’attrice Kristen Stewart (che abbiamo visto in una straordinaria performance attoriale in Spencer), che è attratta morbosamente da Tenser. In uno sbocco di erotismo quasi classico gli rivela il suo desiderio di essere “aperta”. Tenser ha addirittura una cerniera nell’addome, che permette alla sua compagna d’arte, Caprice, di praticare il sesso orale leccando e succhiando gli organi interni. Nella sua ricognizione degli stili e dei generi che hanno caratterizzato la sua produzione, non poteva mancare una componente thriller, di cui Cronemberg si è dimostrato un maestro, nei due fortissimi A history of violence (2005) e La promessa dell’assassino (2007): Tenser è anche un infiltrato nella setta degli evoluzionisti mangiatori di plastica, che hanno accettato la mutazione del tempo, dei corpi e dello spazio, addirittura modificando il proprio sistema digerente, in nome della modernità che consiste nel consumare gli stessi rifiuti che l’umanità produce. Una non meglio precisata forza dell’ordine indaga sulle mutazioni e sulla produzione di nuovi organi, e Tenser ne è l’informatore. Non mancano due omicidi, per una faccenda di trapianti abusivi di organi, di un chirurgo plastico e del padre del bambino Brecken, che fugge dal teatro dopo l’autopsia, inseguito da due killer che gli bucano il cranio con due trapani. Tenser è una figura inquietante, produce ansia, sempre mascherato da Morte, sofferente per un problema respiratorio e uno digestivo, per cui è costretto a mangiare su una sedia speciale fatta di ossa umane, che immediatamente evoca le opere del pittore svizzero HR Giger, creatore delle immortali scenografia di Alien. E’ fiancheggiato da due donne belle e seducenti, le già citate Timlin, e Caprice, interpretata da Léa Seidux, che si sottopone a un intervento di “chirurgia estetica” che le provoca degli orrendi bitorzole sulla fronte, e questa, perdio, è una trovata che proprio non possiamo perdonare a David Cronemberg.

Morire, un anno dopo

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di Rebecca Molea

Mi sono chiesta a lungo cosa sarebbe successo: come avrei reagito alla notizia – piangendo? con sollievo? –, come sarebbe stato il dopo – un senso di solitudine perpetua o, a un certo punto, un’abitudine? – e, sopra ogni altra cosa, che significato avrebbe avuto, per me, per noi, per tutti, la morte. La morte in generale e quella morte: la morte della persona che avevo amato più di ogni altra.

La prima volta che ho preso in mano L’anno del pensiero magico di Joan Didion era il ventuno settembre, una data che da un anno ha i contorni dell’indistinto. Il ventuno è, insieme, venti e ventidue: il giorno in cui è successo, in cui ho saputo, e quelli dopo, nei quali la mia consapevolezza è diventata consapevolezza condivisa, rituale – i canti, le preghiere, la maschera del dolore sul viso; l’intimità della perdita e il racconto di ciò che eravamo stati offerti agli altri in dono per avere, in cambio, un vago senso di pacificazione interiore. In quel ventuno settembre la morte era ancora un pensiero astratto: sapevo – perché avevo sentito mia sorella piangere a telefono – che alla fine era successo, che il momento era venuto, ma quel sapere si esauriva lì, nello spazio della mente, come un assioma che non richiedeva presa di coscienza o partecipazione emotiva. Avevo fatto le valigie in uno stato di alienazione, muovendomi precipitosamente tra la mia stanza, il corridoio, la farmacia, il supermercato. Immaginavo che a un certo punto avrei sentito qualcosa – avrei dovuto sentire qualcosa – e volevo farmi trovare pronta. Mi dicevo: crescere è anche questo, trovarsi a più di mille km di distanza quando arriva la notizia e riuscire a badare alla propria sopravvivenza. Quando avevo messo L’anno del pensiero magico nello zaino credevo che sarebbe servito allo stesso scopo: aiutarmi nel processo. Il lutto di Joan Didion mi avrebbe guidata attraverso ogni fase, come era accaduto, con altri libri, durante tutti i momenti importanti della mia vita. Desideravo essere equipaggiata al meglio per quell’evento a cui mi preparavo da cinque anni, perché sapevo che era arrivato il momento di dare una risposta alle domande che mi avevano tolto il sonno, quando la morte era ancora un’incognita da osservare a distanza.

Quel ventuno settembre non ho letto L’anno del pensiero magico, né l’ho fatto nei giorni successivi. Ci ho provato tre volte, finché l’incipit, con la sua assolutezza di epigrafe, ha iniziato a suonarmi familiare: «La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita. Il problema dell’autocommiserazione». Dopo dieci pagine, però, puntualmente mi fermavo. La morte che stavo affrontando era così diversa da quella che raccontava Didion da apparirmi comunque indecifrabile. Non aveva avuto, come quella, il senso di uno scoppio imprevedibile: in un certo senso, la mia era stata pianificata, aspettata da anni, intuita con rassegnazione in ogni degrado fisico, nella progressiva sparizione delle parole, negli sguardi che man mano si facevano bassi e lontani. Certo: anche la mia vita, come la sua, era cambiata in un istante, ma l’effetto di quel mutamento si sarebbe palesato solo nel tempo, a distanza di mesi, ogni volta che avrei preso un treno per tornare a casa consapevole di non aver più alcun motivo per prolungare la vacanza (negli anni la risposta che davo ai miei amici quando si lamentavano delle mie partenze era sempre la stessa: non so quanto ci rimane, non voglio avere rimpianti). Quel settembre del 2021 le due esperienze mi apparivano inconciliabili: ogni morte – realizzavo in quel momento – aveva forma propria, carichi emotivi a sé stanti, e non avrei mai letto o ascoltato o guardato abbastanza per sentirmi pronta, per capirci qualcosa, per strappare a quell’esperienza tanto priva di senso un’intuizione che potesse offrirmene, anche solo vagamente, uno.

Eppure.

Eppure, alla fine, ho letto L’anno del pensiero magico. Erano passati quasi dieci mesi dal ventuno settembre; avevo preso un treno – un altro – ed ero tornata a casa per le vacanze, non so dire se con senso di aspettativa o preoccupazione. Sarebbe stata la prima estate senza, la prima di tutte quelle che avrei vissuto negli anni (il dopo ha acquisito spesso, nel tempo, la forma di una sottrazione, di una particella privativa ribadita per ogni esperienza presente); ma soprattutto sarebbe stata la prima estate del ricordo, in cui – credevo – quell’assenza avrebbe potuto rendersi concreta giorno dopo giorno, mentre ripassavo mentalmente le coincidenze, gli anniversari: il primo ricovero, la telefonata del medico, mamma che piangeva, quella frase obbrobriosa che spesso avrei rigirato nella mente – mi dispiace rovinarvi la vacanza di ferragosto, ma dobbiamo operarlo subito –, e poi i tamponi, le guide in uno stato di apnea, la corsa per vederlo prima che fosse troppo tardi, gli attacchi di panico delle persone a cui volevo bene (loro riuscivano a provare emozioni, io no: mi chiedevo perché), il senso di rassegnazione, i pugni di mio fratello al muro, poi la notizia insperata, l’apparente miracolo, il calvario successivo, il letto su cui giaceva quel corpo che si sarebbe lentamente spento con una richiesta taciuta negli occhi. Ecco, leggevo L’anno del pensiero magico mentre aspettavo l’inondamento della memoria – e leggevo in una sorta di rito, di commemorazione silenziosa preventiva, come se la morte del marito di Didion, John, potesse offrirmi un percorso già calcato sul quale poggiare i piedi mentre procedevo, titubante, attraverso quei giorni di incertezza. Quel libro rappresentava ciò che io non ero riuscita a fare per mesi: l’elaborazione del lutto, la presa di coscienza, la ricognizione precisa di tutto ciò che era successo dal giorno della morte all’anno successivo. Joan Didion aveva scritto quel memoir con una lucidità che riconoscevo, ma che prima non avrei capito: il distacco del medico che incide la carne per estrarne i ricordi e dissezionarli, in uno sforzo di comprensione che è anche un tentativo di disarmo.

John era morto la sera di Natale per un infarto fulminante, mentre era seduto su una poltrona su cui riposava dopo la consueta visita in ospedale alla figlia in coma. A Didion inizialmente era sembrato uno scherzo (l’incomprensibilità della morte che si traduce in irrealtà); poi era arrivata la consapevolezza, il senso di allarme, la fuga precipitosa verso il frigo, dove si trovano i numeri d’emergenza che aveva appuntato in caso di necessità altrui (l’impossibilità di pensare al dolore come qualcosa che un giorno ci riguarderà da vicino; l’illusione di rimanere per sempre in una posizione di spettatore del dramma). I momenti successivi sono confusi: Didion li ricostruisce a partire dalle testimonianze o dai racconti che gli altri le faranno di quella sera: «Non ricordo di aver parlato dei particolari con nessuno, ma devo averlo fatto, perché tutti sembravano conoscerli […] sapevo che la storia veniva da me [perché] nessuna delle versioni che sentivo comprendeva i particolari che non riuscivo ancora ad affrontare». La scrittura è un mezzo d’approssimazione imperfetto alla verità, al grumo doloroso altrimenti inavvicinabile: «Questo è il mio tentativo di raccapezzarmi nel periodo che seguì, settimane e poi mesi che cambiarono ogni idea preconcetta che io avessi mai avuto sulla morte, sulla malattia, sul calcolo delle probabilità, sulla fortuna e sulla sfortuna, sul matrimonio e sui figli e sulla memoria, sul dolore, sui modi in cui la gente affronta o non affronta il fatto che la vita finisce, sulla fragilità dell’equilibrio mentale, sulla vita stessa». Per capire il lutto, Didion deve scomporlo: deve partire da quella sera – da cosa è successo davvero, clinicamente, nel corpo di John, in quel momento in cui tutto si è fermato e poi dopo, quando gli infermieri tentavano di rianimarlo – e attraversare tutto quello che ne è seguito: l’orrore, la stasi obbligata, il disorientamento e poi le alterazioni, le insensatezze, l’impossibilità di abitare qualsiasi luogo che le ricordasse, in qualche dettaglio, lui.

Inizia, così, l’anno del pensiero magico.

Nei lunghi mesi che hanno seguito quel ventuno settembre – mi ostino, ancora, a parlare di ventuno: forse perché è stato quello, per me, il giorno della consapevolezza; il momento in cui ho abbracciato il corpo morto di mio nonno è il primo in cui ho avvertito, in qualche modo, che qualcosa se n’era andato per sempre – mi sono spesso trovata a chiedermi se il modo in cui stavo affrontando il lutto fosse normale. Avevo messo in atto un processo di rimozione: non negavo che l’evento fosse avvenuto, ma allo stesso modo non credevo che fosse davvero accaduto nel presente, nel mio presente. Ero convinta, in qualche modo, di aver vissuto un tempo alternativo, uno spazio alternativo, in cui sapevo di aver fatto delle cose perché me le ero viste fare. Riesco ancora, per esempio, a rappresentarmi nella mente il momento in cui ho salito uno ad uno i gradini della chiesa, e poi quello in cui ho letto ad alta voce delle parole che nessuno avrebbe mai davvero capito (nessuno se non lui, che un anno prima, quando tutti lo credevano incapace di comprendere appieno ciò che gli succedeva attorno, si era fatto forza per alzarsi dal divano e abbracciarmi, con gli occhi lucidi, perché invece aveva capito, aveva capito tutto di quello che gli stavo dicendo, di quanto avessi sempre cercato di renderlo orgoglioso per ciò che stavo facendo, quasi fosse un risarcimento per quella lontananza obbligata, per la vita – la sua – che intanto mi stavo perdendo). Ricordo i pranzi successivi, le colazioni, i vassoi che ci avevano preparato per non farci sentire soli o abbandonati. Ma è come se tutto ciò aleggiasse in uno stato di sospensione pari a quello di un sogno, di un film visto e rivisto; ed è lo stesso ogni volta che cerco di ricordarmi – mi impongo di ricordare – che tutto quello che oggi sto scrivendo è avvenuto davvero, è avvenuto a me, a noi: noi che, come Joan, avevamo illusoriamente creduto di poter ritardare quel momento fino all’infinito, e viverlo sempre da fuori, da esterni. Per mesi mi sono sforzata di piangere questa assenza che mi sembrava fittizia, e per mesi non ci sono riuscita, se non in rari momenti in cui la consapevolezza mi colpiva come un incidente imprevisto: con la forza di una piena inarrestabile, che risaliva le viscere e arrivava direttamente alla gola, agli occhi, ai polmoni che soffocavano. In certi frangenti non riuscivano a bastarmi neanche i segni più evidenti della scomparsa – come quando avevamo raccolto le scatole sulle scale, la sedia a rotelle, le medicine e i pannoloni per consegnarli a chi avrebbe dovuto averne bisogno: non capivo perché lo facessimo, così come avvertivo fuori luogo, profondamente sbagliato, il fatto che qualcuno volesse cedere i suoi vestiti. Mi chiedevo: perché? Perché farlo ora, perché non aspettare, perché non tenerli nel caso in cui possano servire. Non mi sono mai chiesta: servire a cosa?; non avevo un’idea chiara rispetto al modo in cui quei due mondi alternativi tra i quali mi tenevo in equilibrio si sarebbero un giorno sovrapposti. Tacitavo gli stessi pensieri che, avrei scoperto mesi dopo, impedivano a Joan Didion di dare via i vestiti del marito: «Come poteva tornare indietro, John, se gli toglievano gli organi, come poteva tornare indietro se non aveva le scarpe?».

La morte mi è sempre parsa un’eventualità impossibile da afferrare cognitivamente, e oggi mi rendo conto che è esattamente così, almeno per me: non importa che l’abbia attraversata, che l’abbia sentita sulla pelle (per anni ho creduto che non avrei mai sfiorato il corpo freddo di un morto: mi sembrava una cosa da horror, impossibile da superare; oggi so che nel gelo di una camera mortuaria quella sensazione è impercettibile, e sono altri i segni della tragedia: il bastoncino che regge il mento, la posa innaturale, i vestiti impeccabili); non ho realizzato la morte di mio nonno così come non avevo realizzato, un anno prima, la morte del padre della mia più cara amica. Non riesco a capire in che senso, un giorno, la vita possa finire, e per lo stesso motivo non sono riuscita a piangere questa scomparsa come avrei voluto. Ho taciuto per un anno intero l’impossibilità del cordoglio, perché mi sembrava vergognosa, stonata, la mia reazione all’evento: come potevo continuare a vivere come se non fosse accaduto niente, come potevo continuare a vivere mentre lui non viveva più; come osavo trattenere il dolore – eliminarlo, sopprimerlo – di fronte alla sua scomparsa? Non era, il mio lutto, un dono votivo obbligato? Una sorta di dimostrazione del mio amore infinito, assoluto, per lui? Com’era possibile che il pensiero della sua assenza non mi togliesse il sonno, la notte; che mia madre soffrisse nel presente quel dolore e io non riuscissi a fare altro che proiettarlo in un tempo lontano, distante, irreale? Ci sono voluti dieci mesi per ottenere una risposta a queste domande inespresse. È stato necessario imbattermi in questa frase che aveva scritto Joan Didion nello stesso libro di cui sto scrivendo: «Perché continuavo a chiedermi insistentemente cos’era normale e cosa non lo era, quando non c’era nulla di normale?». La morte non ha nulla di normale: è una deviazione del percorso, una possibilità che non ci riguarderà mai davvero in prima persona, per lo meno fino a quando potremo scriverne. E non c’è niente di sbagliato, quindi, nell’elaborazione del lutto, che a volte ha il senso di un’illuminazione epifanica e altre di una consapevolezza latente: niente di tutto ciò che affronteremo in questa esperienza è normale, né mai potrà esserlo.

Se dovessi scegliere due pagine, soltanto due, di L’anno del pensiero magico, non avrei dubbi. Sono quelle che cominciano così: «Il dolore risulta essere un posto che nessuno conosce finché non ci arriva. Noi ci aspettiamo (sappiamo) che qualcuno che ci è vicino potrebbe morire, ma non spingiamo lo sguardo oltre i pochi giorni o le poche settimane che seguono da presso questa morte immaginata. […] Ci potremmo aspettare, se la morte è improvvisa, di avere uno choc. Non ci aspettiamo che questo choc sia obliterante, disarticolante per il corpo e per la mente. Ci potremmo aspettare di essere prostrati, inconsolabili, sconvolti dalla perdita. Non ci aspettiamo di impazzire, di impazzire letteralmente, di diventare ossi duri, convinti che il marito stia per tornare indietro e che abbia bisogno delle scarpe. Nella versione del dolore che immaginiamo, il modello sarà “la guarigione”. […] Quando pensiamo al funerale ci chiediamo se “ce la faremo ad arrivare alla fine”, se saremo all’altezza, se mostreremo la “forza” che invariabilmente viene indicata come la corretta reazione alla morte. Si pensa che dovremo temprarci per l’occasione: sarò capace di ricevere la gente, sarò capace di lasciare la scena, sarò capace, quel giorno, anche solo di vestirmi? Non abbiamo modo di sapere che il problema non sarà questo. Non abbiamo modo di sapere che lo stesso funerale sarà anodino, una sorta di narcotica regressione in cui ci affidiamo alle cure degli altri e siamo completamente assorbiti dalla gravità e dal significato dell’occasione. Né possiamo conoscere prima del fatto (ed è questo il cuore della differenza tra il dolore come lo immaginiamo e il dolore com’è) l’interminabile assenza successiva, il vuoto, l’esatto contrario del significato, l’inesorabile successione dei momenti in cui ci troveremo ad affrontare l’esperienza della mancanza stessa di significato». Non avrei saputo raccontare meglio l’esperienza della morte: il biancore dell’inconsistenza, la cecità della luce, l’assoluta insignificanza di ogni cosa. Siamo portati a cercare un riscatto nelle nostre esperienze umane: qualcosa che gli dia valore, senso, che sappia trascenderle e dargli forma compiuta. Ma la morte non ha alcun significato, anzi: è l’orizzonte su cui la possibilità del significato si infrange per sempre. Mi sono resa conto, leggendo queste pagine, che non so affrontare il lutto non perché non ne sia potenzialmente capace, ma perché non esiste davvero alcun mezzo per venirvi a patti, almeno in questa vita. E io ho solo questa vita, ora: ho questa fila interminabile di giorni in cui questa assenza sarà più o meno presente, più o meno pesante; questa lunghissima serie di momenti in cui dovrò replicare il rito composto del lutto per ogni esperienza che, al contrario, non potrò più replicare (ancora l’esperienza della sottrazione – della negazione obbligata). Non esiste alcun modello di guarigione, se non nel racconto che continuiamo a farci ogni giorno della morte – perché non si tratta di una malattia, ma di un’amputazione irreversibile: una contraddizione logica a cui non ci si può arrendere, se non aggrappandosi all’idea che in qualche modo, poi, ce la si fa, si sopravvive. Ed è vero, si sopravvive, ma la sopravvivenza è solo abitudine: rimozione di ciò che sarebbe un carico insopportabile da portare addosso nella vita di ogni giorno per ricreare l’apparenza di una qualche, vaga, sensazione di vivibilità; dimenticanza, come quella che mi sono rimproverata per mesi, o capacità di convivere con il dolore fintantoché non diventa inoffensivo, addomesticato, familiare; rassegnazione, infine, alla mancanza di significato, interrotta di tanto in tanto da un nuovo ostinato tentativo di fornirgliene uno.

Ho pensato a lungo a cosa resti, alla fine, di tutto ciò che siamo stati. Dopo l’estenuante malattia di mio nonno ho difficoltà a ricordarlo in situazioni diverse da quelle in cui l’ho visto negli ultimi istanti: il letto in quella stanza fredda, le ossa sporgenti, i lamenti – insopportabili – che avevano sostituito il linguaggio verbale, il viso stanco, inespressivo. In questi giorni d’estate mi è impossibile mantenere il calmo distacco dei mesi precedenti. È come se fosse di nuovo tutto vivido, di fronte a me, pronto ad accadere di nuovo; eppure è tutto già accaduto, per sempre, compiutamente, e non c’è modo – se non ora, in queste righe che stanno acquisendo il significato di un rito catartico – di riportarmi indietro nel tempo e rivivere tutto, per trattenere qualcosa che mi è sfuggito, per stringere ancora, un’ultima volta, quella mano liscia, perfettamente circolare, che anche nei momenti di maggiore debolezza riusciva a compiere lo sforzo di un’ultima stretta d’affetto. Nelle ultime pagine del suo memoir, Joan Didion scrive qualcosa che mi ha colpito con la forza di una rivelazione: «Siamo esseri umani imperfetti, consapevoli di quella mortalità anche quando la respingiamo, traditi proprio dalla nostra complessità, e così schizzati che quando piangiamo chi abbiamo perduto piangiamo anche, nel bene e nel male, noi stessi. Come eravamo. Come non siamo più. Come un giorno non saremo affatto». Nel mio anno del pensiero magico l’impossibilità del pianto è stato rifiuto dell’accettazione. Inconsapevolmente devo aver creduto che se non avessi messo in scena il lutto ne avrei negato l’evidenza: lui sarebbe tornato, in qualche modo, in qualche universo; questa era solo una parentesi momentanea – un’attesa. E nel profondo chi non volevo piangere non era lui, ma noi, la me che esisteva solo e soltanto con lui, il senso di calore dell’abbraccio, la necessità della cura che era, al tempo stesso, agita e subita, quasi che potessi sentirmi protetta da lui mentre lo proteggevo. Cosa mi sarebbe rimasto se avessi accettato, invece, che tutto ciò era perso per sempre, che non ci sarebbe stato un futuro possibile, un ritorno, ma solo una nuova realtà retta sui senza e i non più?

Allo scadere di questo anno di ragionamenti ossessivi credo di aver capito che non c’è soluzione a ciò che si prova, in una direzione o nell’altra, e che in fondo non mi rassegnerò mai a questa impossibilità logica, perché è il mio modo per tenermi in piedi. Ma devo a Joan Didion l’aver raggiunto questa consapevolezza: al suo anno del pensiero magico che, in un qualche modo, ha innescato anche il mio.

L’esperienza della morte si regge su due poli inconciliabili: è unica e, allo stesso tempo, universale. È per questo che è difficile comunicarla, perché il linguaggio resiste alle contraddizioni. Ho sempre creduto, però, che la letteratura abbia il potere straordinario di legarci a partire dalle nostre alterità: ci riconosciamo nonostante la percezione delle differenze, nei punti di contatto che ci fanno sentire parte di qualcosa o, come direbbe Fitzgerald, «meno soli». L’anno del pensiero magico è un magnifico esempio di questo potere, perché Joan Didion non ha alcuna ambizione di offrire un ritratto assoluto della morte, ma racconta la propria irriducibile, singolare, esperienza – ed è da lì, da quel nucleo doloroso, incomprensibile, ma così limpidamente autentico, che si genera la possibilità del legame, della cura. Dal riconoscimento di una simile impossibilità umana: quella di venire a patti con l’esperienza della morte. Leopardi una volta ha scritto che le opere di genio «non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta»: ecco, se dovessi raccontare in una frase L’anno del pensiero magico userei queste stesse, esatte, parole.

les nouveaux réalistes: Francesca Perinelli

10

Accesso negato

di

Francesca Perinelli

i.               frontale

c’è questa pletora di questa, questa qui, di sé medesima, esattamente questa, in questo luogo e in ogni luogo altrove, adesso proprio ora in questo tempo c’è questa sovrabbondanza e quantità eccessiva, quest’eccedenza, enormità ed eccesso, di ridondanza colta nella flagranza d’un ascesso di pura esuberanza, apneico pieno, estremo pigiato e gonfio, un nugolo, un fottìo tronfio, un subisso, un mucchio, un insufflato gheriglio, contorto groviglio e turgida valanga, gommosa e satura, che sfianca, raccolto generoso di tutte le valanghe, foce di una fiumana espansa, incomprimibile, torrenziale, esponenziale e tanta, e debordante, e tracimante, infettivante frotta, marea poliglotta, precipitosa, insana, dolorosa, vanesia e vana, e soffocante, esacerbante, e irrispettosa, e offensiva, e poi cattiva, e tempestosa, e ancora, a iosa, infame scroscio di inutili favelle di ogni foggia, versate sulla testa a pioggia in piena ebollizione, che irrompe e cozza e scotta, e schizza e marchia a fuoco:

 

(volevo consultare il mio pensiero

per un poco

ci ho provato

ma per me)

: accesso negato

 

ii.             struttura

senza uno schema ferma alla fermata dello schermo scherzo con scherni e cambi di vocale e consonante

te ne avrei date tante e sante e giuste giusto per mantenere viva qualche rima

ma vedo che non esco dalle tentazioni della lira né dalla forma chiusa anche se getto alla rinfusa segni ed evito accuratamente i sogni e i lamenti e sento che non vorrei sentire e invece tento e vengo tanto tentata – tanto da rendere quasi inutile lo spreco di verbosità e l’imbratto

ora pertanto provo a provocare il primo scatto metto un tessuto fitto stretto stretto lo lego con lo spago del non detto che sembri quello che sembra a te che leggi che sembri quello che leggi a te che leggi che legga quello che leggi a te che leggi e uso questa mia base come canovaccio prendo e la strappo e quindi poi ne faccio

coriandoli finissimi – vedessi, oh li vedessi! come svolazzano eterei così ben scissi dall’impatto con le lame affilate di questa mia cesoia digitale! digi di di – da da da – dadale –  dado dada dadaumpa-pa è un suono da cui emerge una canzone quella degli hello boys venuti qui dell’illinois e tu, saluta le gemelle che sono brave e belle e che sono sorelle e han occhi come stelle e a pranzo mangeran finocchi insieme a caramelle piegate sui ginocchi

non è che io mi blocchi ma, senza alcun oggetto, di che parlo, che m’urge, a che fare lirismo senza tarlo?

stamane sul tiggì e sul giornale tu vedi tante bombe ed è normale e il tale che commenta è sempre uguale e il tale che intervistano è ferale e dice russia carri dostoevskij vuoi mettere la strage di mariupol siamo onesti e via col lungo elenco di capestri e io che non so nulla e non so giudicare vedo soltanto in giro tanto male

un mare tanto

ma tanto, che per giorni ho solo pianto e il lirismo mi si è fatto oscuro e uso le rime a mo’ di scudo regressivo e l’assenza di struttura

 

[lo so che un anno fa a gennaio avevi detto

vedrai che dopo il covid sarà anche peggio

stanno testando la vostra sudditanza

e poi a ottobre – in odore di latitanza – avevi rilanciato

vedrai i rincari dell’energia adesso

vi vogliono in ginocchio

ed è successo

ma avevi detto anche:

gli ebrei sono discesi dalle stelle

e non gli è stato torto mai un capello

che nella storia tutto viene distorto

e hai detto pure quello:

che l’uomo sulla luna non è sorto

e non è vero (e non è vero il resto)

lo so non tanto perché credo nella scienza (la scienza non è cosa in cui si creda)

quanto perché non credo nella trascendenza

come ai progetti vaghi di una casta

e perché la tua vita intera mi dimostra

la forza di ogni singolo egoismo

che pensa disfa e fa solo al presente

distrugge ogni struttura del futuro

 

corriamo già benissimo da soli

verso il baratro oscuro]

 

è l’unica cosa certa per me, giuro

iii.           lo scotto del lavello

il caldo scioglie i grassi

vanificando forse il tentativo di fare economia, aperto il rubinetto va aspettato che la caldaia si azioni e porti a temperatura l’acqua

nei giorni freddi dell’anno, quando il flusso è pronto per lavare i piatti, immergere le mani in acqua calda è un piacere

e allora no, che non si economizza

quando il flusso è pronto si tuffano le mani, e il calore brucia quasi fastidioso su dita e dorso ma subito

scavalca un brivido sordo

dal polso al gomito alle spalle e poi va a diramarsi

dalle clavicole

 

in su percorre a ondate rastremate il collo

raggiunge la radice dei capelli, le mascelle

le rilassa, aprendo alle labbra fredde un’ipotesi remota di sorriso

carezza e pungola le guance e il naso

fa fremere le rughe sulla fronte

 

in giù attraversa il petto a rullo

spiana lo stomaco

palpeggia i genitali

si srotola tra femore e caviglie

e infine va ad accoccolarsi ai piedi

 

per quanto misero e breve, a questo piacere si può essere grati

si può

versare un goccio di sapone e attendere ancora

che si sfochi la schiuma sulla spugna fino al buio

arretrando la vista

infossandola nel corpo

mandandola in missione da paciere

presso le palpebre arrese

alle annose contese tra i pensieri

mostrare prove chiare

dichiarare le responsabilità

 

lasciate stare, ipocrite, io so

come ve ne stavate spalancate

 

quando

 

si dissipavano le mani

e gli aliti e gli spasmi

e non si accusava stanchezza

e non si contavano i lividi

e non si contavano le ore

e i piatti si accumulavano

come le incrostazioni

e si sapeva già lo scotto del lavello

(che poi quello

non era colpa né di biden né di putin)

e si sapeva bene di non poter pagare

 

 

In armonia con le tenebre. Notturno Cioran

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di Ludovico Cantisani

Cioran. Definirlo il più grande pessimista del secolo non è un’esagerazione. Grande per profondità della visione, abissale, grande per potenza delle immagini, grande per aver saputo frantumare ogni prosa nel momento stesso in cui infrangeva ogni certezza, ogni accortezza, ogni pruderie: lacerti, aforismi e mezze frasi è la dimensione feroce e minimale in cui si confinano i momenti più alti, e più profondi, della sua riflessione. Grande anche per una capacità unica di tenersi in equilibro tra i linguaggi, dal momento che, romeno quale era, si ritrovò a scrivere tutte le opere della sua maturità in francese, in un movimento semantico parallelo e simmetrico a quello compiuto dal suo amico Beckett, dall’inglese al francese. Ancora più nomade di Céline, tanto nella vita quanto nella lingua.

È proprio sul linguaggio di Cioran che ci costringe a ritornare, questo nuovo Finestra sul nulla appena portato in Italia dall’Adelphi. Curato da Nicolas Cavaillès e tradotto in italiano da Cristina Fantechi, dopo il decesso dello storico traduttore e corrispondente di Cioran Mario Andrea Rigoni lo scorso anno, Finestra sul nulla rappresenta un notevole rinvenimento editoriale, un vero e proprio reperto risalente al momento in cui, a metà degli anni quaranta, Cioran passò dal romeno al francese, troncando definitivamente con la sua lingua madre, almeno nella sua attività da scrittore. Al momento della sua morte, Cioran aveva lasciato alla sua vedova Simon Boué un gran numero di appunti inediti, con la preghiera kafkiana di distruggerli al più presto; altrettanto kafkiana, anzi brodiana, era stata invece la scelta, da parte della sua “vedova” Simone Boué. di renderli pubblici, in un mastodontico volume di Quaderni che però copriva gli anni dal 1957 al 1972, quando Cioran già da tempo, anche negli appunti apparentemente più privati, si esprimeva esclusivamente in francese. Alcuni aforismi formulati nell’ultimo periodo dello “Cioran rumeno” già erano stati riscoperti alcuni anni fa, e pubblicati in Italia sotto il titolo di Breviario dei vinti dalle edizioni Voland; ma questi “nuovi” frammenti presentati come Finestra sul nulla sono stati rinvenuti nella Bibliothèque Doucet di Parigi, e segnano un fondamentale momento di passaggio nel percorso letterario di Cioran.

Autodefinitosi “il più straniero fra gli stranieri di Parigi”, “puttana astratta al servizio dell’Assoluto”, Cioran si era trasferito prima momentaneamente a Berlino e poi, in pianta stabile, a Parigi usufruendo di una serie di borse di studio, ma già da ragazzo era divenuto scandalosamente famoso nella sua nativa Romania grazie ai due blasfemi libri d’esordio, Al culmine della disperazione e Lacrime e santi, usciti tra il 1934 e il 1937. A Parigi, superfluo dirlo, nessuno lo conosceva: e ci sarebbero voluti altri dodici anni prima che, nel 1949, uscisse per Gallimard il Sommario di decomposizione, che segnava il debutto di Cioran nella lingua francese.

Il valore filologico e culturale degli aforismi che compongono Finestra sul Nulla sta proprio qui: si tratta, verosimilmente, di alcuni degli ultimissimi scritti di Cioran in romeno – come testimonia il suo epistolario con Mircea Eliade, una volta adottato il francese per i suoi libri Cioran avrebbe cercato di utilizzarlo il meno possibile persino nella corrispondenza privata – e fanno luce su quell’essenziale fase di passaggio che separa lo Cioran giovanile, e rumeno, dallo Cioran “francesizzato”, vicino a certi echi del coevo esistenzialismo letterario dei vari Sartre e Camus, ma al tempo stesso irrimediabilmente lontano da questa congrega di scrittori per il disprezzo assoluto di qualsivoglia impegno politico.

Si potrebbe giocare molto di biografismi, su quest’interregno: affermare che la vera differenza tra i primi due libri rumeni di Cioran e i successivi francesi, anzi “gallimardiani”, non si riduca affatto a una scelta di lingua, ma sia conseguenza, se mai, del profondo disincanto nei confronti del nazismo, di certo antisemitismo e della fascinazione per la Guardia di Ferro che pure aveva espresso da giovane. Non sarebbe inesatta un’analisi di questo genere, eppure invaliderebbe la prospettiva Cioran, sempre propensa a trascendere i meri fatti contingenti, biografici, cronologici.

E.M. Cioran, a dire il vero, va contro il tempo, e ai suoi occhi tutto in fondo si riduce a questo, “essere o non essere all’interno della chimera”. Una frase così la poteva scrivere tanto un intellettuale sradicato nel Novecento quanto un illuminista del Settecento, e forse anche qualche antico romano propenso allo stoicismo o a qualche altra filosofia più riflessiva. Cioran, sin da subito, mira all’atemporalità: poco importa cosa gli sia occorso per arrivare a quell’insopportabile stadio di consapevolezza che compone il fascino e al tempo stesso il disgusto alla base del successo delle sue opere, l’importante è che ci sia arrivato. Se “fuggire la solitudine è il miglior modo per rimanere fuori da sé stessi, e questa fuga è il tratto fondamentale dell’uomo”, avere una vocazione vuol dire precisamente “poter restare soli con sé stessi”. Tra le pagine di Finestra sul Nulla, tra una riga e l’altra, assistiamo alla definitiva presa di consapevolezza, da parte di Cioran, del suo innegabile talento di scrittore, e del fascino aberrante del nichilismo cosmico-cinotico –  ovunque, paesaggi di Paradiso assente. Un passo ancora, e subentra il francese, un passo ancora, ed è già il Précis. Con la Finestra sul Nulla, siamo ancora in anticamera.

Quest’anticamera che è la Finestra sul Nulla non è però in tutto e per tutto un’anticipazione dello Cioran che verrà, o una prosecuzione dello Cioran rumeno che-era-stato. Qui, Cioran è ancora alla ricerca della sua identità letteraria e autoriale definitiva, ancora si interroga sullo stile – “lo stile è una maschera e una fuga”, si premura di precisare in un passaggio – e ancora non sa compiutamente traslare le sue personalissime esperienze di insonnia, di depressione, di Nausée, di disgusto per la vita: rileggendosi, Cioran si annota di restare “sorpreso” proprio dalla “sincerità di tutte queste pagine, tante e mal scritte”. Rispetto appunto allo Cioran futuro, allo Cioran che si imporrà dal Sommario di decomposizione in poi, la vera differenza sta nel minor distacco che lo scrittore rivendica, nei confronti del baratro di pessimismo da cui trae le sue riflessioni. In alcuni momenti, sembra quasi che Cioran parli faccia-a-faccia a noi insospettati ma invocati lettori di frammenti postumi, vis-à-vis – se ne coglie il respiro.

Veniamo al testo, dunque. Alcuni dei passaggi più sorprendenti sono quelli in cui Cioran si rivolge a sé stesso con toni patetici – “viandante attardato, titubante in mezzo a idee fauste, sospirando davanti all’impossibilità di ogni giorno” – se non addirittura a Dio, in soffertissime, blasfeme orazioni che condannano l’esistenza umana sin nei suoi fondamenti ontologici, fino a trasformarsi in un processo al Creatore – “sei stato Tu ad aprire all’uomo la strada della follia, a seccargli il sangue col fuoco… perché lo hai creato se poi fessuri l’argilla di cui è fatto in vapori che lo precipitano nell’assenza?”. La paura della morte è più pressante, in questo pagine, il suicidio, invece, meno presente. Il vero punto di continuità è la passione, verrebbe da dire l’ossessione, per la musica: “se l’uomo non avesse scoperto il concetto”, si legge a un certo punto di Finestra sul nulla, “la musica avrebbe preso il posto della metafisica”, e così “l’universo sarebbe diventato un paradiso dell’evidenza incomunicabile ma direttamente percepibile”. Ipse dixit.

“L’io di Cioran è un vastissimo scenario teatrale. In questo scenario, egli proietta quasi tutte le figure della letteratura, del pensiero, della storia, del cielo, della natura. Quasi niente è escluso. L’io si trasforma in moltitudine, assumendo sempre nuove maschere. Senza saperlo, Cioran diventa il romanziere e il mitografo della propria mente”. Così scriveva nel 2001 Pietro Citati, recensendo la già citata edizione postuma dei Cahiers cioraniani, a quei tempi appena arrivata in Italia con l’Adelphi. Quanto Citati scriveva su quegli appunti privati di Cioran di quella raccolta, su tutte quelle “piccole Apocalissi isteriche e ridicole” risalenti per lo più agli anni sessanta, spiega l’atteggiamento dello Cioran di quindici anni prima.

Gli appunti ritrovati alla Bibliothèque Doucet risalgono a un momento in cui Cioran ancora se le provava, le maschere, anzi aveva da poco iniziato a riaccarezzarle. In Finestra sul Nulla per giunta, incredibili dictu, trovano molto più spazio che in tutta la sua opera successiva due tematiche puramente romantiche, l’amore e la poesia, nutrimenti della vita affrontati da Cioran con un’ottica tutto sommato positiva – ancora, attorno al 1945; più avanti sarà diverso; ma in fondo già da questa Finestra sul Nulla Cioran non tarda a intravedere la sua radicale estraneità verso tutti e tutto, la sostanziale inapplicabilità, a proposito della sua persona e anche della sua emotività, dei criteri umani standard che caratterizzano e categorizzano tanto la vita umana in società quanto l’interiorità stessa di ogni individuo.

“Tu non sei tagliato a misura del sole, se le tue vene pulsano sempre in disaccordo con l’azzurro, se i tuoi polmoni respirano sempre in armonia con le tenebre. Tu hai rotto con il sole prima di rompere con la Terra; il tuo pianeta è la Notte”. È con questo monologo allo specchio che Cioran si slancia definitivamente sul vuoto, è con questa allocuzione al silenzio, al silenzio lunare della sua stessa anima, che Cioran si immerge finalmente nel lato notturno che noi tutti conosciamo e amiamo.

Poi verranno il Sommario di decomposizione, e Squartamento, e Storia e utopia, e un libro cult sin dal titolo quale è L’inconveniente di essere nati. A monte c’erano infinite veglie notturne, un’incessante insonnia, angoscia a non finire, passeggiate saturnine senza alcuna direzione che pure hanno definito l’erraticità e l’atopia di tutti gli schemi mentali di questo pensatore unico nel suo genere. Ma il momento in cui l’esperienza si fa letteratura, il laboratorio in cui Cioran filtra la sua stessa esistenza per trarne una filosofia che è assalto all’Assoluto e ad ogni illusione di sistema – quest’interregno atavico in cui Cioran diventa Cioran, solo la Finestra sul Nulla ce lo può restituire. Da qui deriva l’angoscia profonda e senza soluzione che permea queste pagine – di solito leggendo il rumeno si vive una sorta di Schadenfreude, se non una vera e propria catarsi alla vecchia maniera, ma la Finestra sul nulla manca di quel distacco spettatoriale necessario per vedere una tragedia senza viverla. In fondo, Finestra sul nulla è l’anello mancante della sua evoluzione letteraria, un vero e proprio “grado zero” di Cioran: excusez du peu