The Shield

di Gianni Biondillo

Da un po’ di anni a questa parte ho la sensazione che la grande macchina dei sogni hollywoodiana si sia inceppata. Dopo decenni di storie incise col bulino (tale era la loro qualità) si è passati ad un abbrutimento sempre più deprimente dell’intero comparto sceneggiature. O meglio, la sensazione è che “i poteri forti”, soprattutto dopo l’11 settembre, abbiano ripreso in mano la macchina per i propri scopi patriottico-demagogici. In pratica negli USA il cinema non è più la testa d’ariete dell’immaginario collettivo, ma solo una pachidermica retroguardia sostanzialmente conservatrice dello statu quo.
Ci sono due eccezioni forti, però.

Sicuramente i film d’animazione. Essere concepiti per un pubblico giovane sembra permettere agli sceneggiatori una libertà creativa inimmaginabile per il “cinema adulto” (ma non è di questo che ci occupiamo oggi).
E poi, la televisione. L’alto numero di emittenti private (in chiaro, locali, via cavo, pay tv, etc.) crea una concorrenza impressionante che cerca di accalappiarsi, in modo il più mirato possibile, un pubblico sempre più attento ed esigente. La stessa moltiplicazione sul territorio rende queste emittenti meno “governabili” da un unico centro. E questo fa sì che da circa 10 anni a questa parte la migliore scrittura per la fiction non la si debba più cercare al cinema, ma in televisione.
Il caso di The Shield, in questo senso, è lampante. Mentre Hollywood ormai produce storie “fine del mondo”, senza nessun contatto con la realtà sociale e politica statunitense, o narrazioni patriottiche, sovente dedicate a militari che combattono il terrorismo analoghe a quelle che produceva, con gli stessi fini propagandistici, sotto la seconda guerra mondiale (spesso interpretate da un Ronny Reagan di pessima qualità), il comparto fiction televisivo non ha problemi a mostrare mafiosi che vanno dallo psicanalista, trentenni snob vogliose di sesso, omosessuali, criminali, politici, chirurghi plastici senza più un briciolo di deontologia, becchini che parlano con i morti, casalinghe disperate, poliziotti corrotti che si nascondono dietro lo scudo del loro distintivo, the shield, appunto…
Provare anche solo ad immaginare qualcosa di vagamente simile qui in Italia fa venire le vertigini. In un certo senso da noi la questione è rovesciata. Il cinema ha molta più libertà di espressione rispetto alla televisione. Ma questo non tanto perché sia un comparto forte e vitale ma semplicemente perché non esiste più una produzione cinematografica nazionale che si possa, in tutta onestà, chiamare tale. Il cinema, in pratica in Italia, non c’è più. Tutto quello che si produce è talmente ininfluente nei confronti dell’opinione pubblica che non fa paura più a nessuno, è diventato un gioco sovvenzionato ai soliti pochi intimi, spesso radical chic, sovente frequentatori incalliti di terrazze romane.
Che dicano pure quello che vogliono, che stiano a berciare nelle loro riserve indiane, tra l’altro dimostriamo, producendoli, di essere pure un paese pluralista, che vogliono di più?
Ma la nostra tivù (che, ricordo, da almeno un decennio ormai ha ripreso con vigore a fare produzioni di fiction in casa propria), la nostra tivù di carabinieri, medici e preti, quella non si tocca! Qui il controllo ideologico è semplicemente asfissiante.
Non esiste categoria più pagata e più frustrata di quella degli sceneggiatori tivù, in Italia. La censura, morbida, mai direttamente impositiva ma vigorosa nei risultati, su tutto ciò che si scrive è all’ordine del giorno.
I “nostri” poliziotti non dicono neppure le parolacce, ci avete fatto caso? È dagli anni ’50 che Ed McBain, nel suo monumentale “87° distretto” ai poliziotti almeno “fuck” lo fa dire. I nostri no. I nostri sono tutti ex seminaristi. E così, mentre i nostri sceneggiatori reputano una conquista epocale far dire una parolaccia in più al loro poliziotto, negli Stati Uniti The Shield è già ben oltre anche l’ottimo Ed McBain. Dal punto di vista della scrittura qui, è evidente, ruotiamo attorno al pianeta Ellroy.
Neppure il protagonista della serie, l’investigatore Vic Mackey, riesce più ad essere il chandleriano “eroe necessario”. Vic Mackey è un figlio di buona donna, il più fottuto sbirro che la storia televisiva ricordi.
Il problema è che in certi quartieri di Los Angeles, nel distretto di polizia di Farmington per la precisione, pare non ci si possa permettere di applicare la legge così come è scritta sui codici. Bisogna avere metodi spicci, approcci bruschi, che parlino la stessa lingua violenta degli spacciatori, dei delinquenti, degli stupratori afroamericani, wasp, cinesi, coreani o latini che siano.
Almeno in questo, il “male” pare non sia razzista. Nessuno si salverà, nessuno può aspirare ad un cantuccio sicuro, dove mettere le chiappe al riparo. L’inferno è in terra e Vic Mackey non fa altro che spazzare, ogni tanto, un po’ di feccia. Per nasconderla sotto il tappeto, dato che non c’è modo di sbarazzarsene davvero. E già che c’è, curare i propri interessi; legali o illegali che siano.
I toni sono cupi, le situazioni violente, l’etica che esprime il plot narrativo è un’etica compromessa, impastoiata, per nulla idealistica. Il “sogno americano”, quello brandito in contemporanea dal cinema, pare qui sia andato in pezzi.
Non abbiamo neppure un Serpico a disposizione con cui identificarci (e lavarci la coscienza). La stessa campagna moralizzatrice portata avanti dal Capitano Aceveda, che sospetta di Vic Mackey sin dal primo episodio, non è così pura come sembra, ma è funzionale alle sue mire politiche di aspirante capo della polizia di Los Angeles.
E così gli altri personaggi: la giovane recluta timorata di Dio subirà una trasformazione che corroderà tutti i suoi principi morali; l’investigatore criminologo del distretto (mente acuta di bella intelligenza) è considerato da tutti una mammoletta, un grigio funzionario pubblico; la squadra speciale agli ordini di Vic Mackey è composta non da poliziotti irreprensibili ma da un gruppo di psicolabili violenti e stupratori. Tutto si rovescia in The Shield. E al centro di questo rovesciamento c’è lui, Vic Mackey, l’opportunista. Un bastardo che non perde occasione per inquinare le prove, uccidere, fare i propri loschi interessi… ma hic, sembra dirci, et nunc, tutto è violenza, tutto è corruzione. Quello che Vic Mackey cerca di fare, alla fine, non è solo il proprio interesse, è anche trovare il giusto equilibrio fra bande, fra criminali, affinché non tanto il bene trionfi, ma il male sia meno virulento di quanto potrebbe.
Se un personaggio del genere (minore, figuriamoci, non protagonista) fosse rappresentato in una fiction italiana fioccherebbero le scandalizzate interrogazioni parlamentari. Negli USA The Shield ha coperto di premi l’ideatore e produttore della serie, Shawn Ryan e il suo protagonista Michael Chiklis (Emmy, Golden Globe, etc.).
Tutto raccontato con la camera in spalla, come fosse in presa diretta, un documentario giornalistico, più che una fiction. La fotografia è sgranata, spesso i colori sono acidi, le interpretazioni sopra le righe. Alla fine, non ostante il ritmo frenetico, cinematografico verrebbe da dire, quello che viene rappresentato è innanzitutto una tragedia. È il dramma dell’esistere, del confondersi in una città enorme, tentacolare, in continua trasformazione, urbana e sociale.
Nessuno si salva, nessuno. Neppure Vic Mackey. Che si ritrova in casa, nel cuore protetto dei suoi sentimenti, la sfida che lo rende davvero impotente: un figlio affetto da autismo che ha bisogno di lui, di un padre dolce, paziente e amorevole. Quello che Vic ha dimenticato d’essere, da troppo tempo, ormai.

(pubblicato, leggermente epurato, su Series, n°1, ott. 2005)

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10 Commenti

  1. Cioè in pratica: se voglio vedere qualcosa di decente mi devo, dopo 14 anni e rotti di divorzio non consensuale (lei avrebbe voluto rimanere), ricomperare la tv e rimettermela in casa?
    Ma così demolisci uno dei miei pilastri esistenziali.

    Buona giornata. Trespolo.

  2. No, Trespolo, io lo sto guardando proprio in questi giorni. Anch’io non ho la tv, ho scelto DVD+computer portatile.

    Gianni, anche il mio primo pensiero è andato alle nostre fiction caserecce con l’Arcuri carabiniere. Ma siamo proprio sicuri che sia la censura a troncare sul nascere certe produzioni? oppure sono delle considerazioni di marketing? siamo certi che the shield, in italia in prima serata, avrebbe avuto successo di pubblico? io credo di no. all’italiano medio, anzi, alla famiglia media, queste cose non interessano, vogliono evadere. the shield è passione e fa pensare, CSI è ghiaccio e basta che guardi.

  3. Be’, dai Alberto, CSI ha delle invenzioni notevoli.
    In ogni caso anch’io ho guardato tutta la prima serie di The Shield su dvd al computer. Cosa vorrà dire?

  4. OT: avete visto la fabbrica di cioccolato di tim burton? e l’ultimo di haneke niente da nascondere?
    voglio i vostri commenti.

  5. per carità Gianni, CSI mi è piaciuta, però è più fredda di The Shield. Certo, ha buone invenzioni e buoni personaggi (las vegas più di miami) però richiede meno impegno cerebrale, c’è poco da elaborare e da digerire, ti permette di essere passivo. The Shied invece è un pugno nello stomaco.
    Ad una osservazione superficiale potrebbe sembrare il contrario, in realtà a mio parere c’è la stessa differenza che passa tra sfogliare un atlante anatomico e aprire un morto, tanto per restare in tema.

    cosa vorrà dire che entrambi l’abbiamo visto in dvd su portatile? non so, tu che dici? :-)

    ps: perchè voi di Nazione Indiana non fate un cenno alla mia Iniziativa? ;-)

  6. ciao gianni,
    uso un tu da web. Cosa pensi di The shield (che ho visto solo mezza volta) in rapporto con Hill Street giorno e notte?
    Il secondo mi è sembrato molto tragico anche se viene ovviamente ricondotto sempre nel solito finale del bene che vince sul male.

  7. Gianni, nel caso decidessi di scrivere il terzo capitolo della saga dell’ispettore Ferraro lo trasformeresti in un poliziotto alla Vic Mackey? Un saluto. Emma

  8. Non ne ha il profilo psicologico, ma tu che mi hai letto sai già che c’è un personaggio che potrebbe facilmente esserlo…

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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