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Paesino

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di Maddalena Fingerle

Anche se ci sono cresciuto, questo non è il mio mondo. Mia madre è uguale a mia sorella che è uguale a mia cugina che è uguale a mia zia che è uguale all’altra mia zia che è uguale all’altra mia cugina che è uguale alla cugina di mia cugina che è uguale a mia madre e quindi a mia sorella, a mia cugina, a mia zia e all’altra mia zia e all’altra mia cugina. È che qui si tromba tra cugini. Non che ci sia niente di sbagliato, eh, se non fosse che io di cugine ne ho soltanto due, se non si contano le cugine delle cugine e no: quelle non contano. Una è molto bella e l’altra è molto brutta. Quella molto bella, Bertrud, sa di esserlo e ha la fortuna di avere molti cugini tra cui scegliere. Quella brutta, Heidrun, sceglierà ciò che le lascerà Bertud e io dentro di me fantastico che Bertud scelga me, anche se so che non sarà così: tra i cugini io sono quello strano. Sono l’unico che non sa il dialetto e mio fratello, Bert, è davvero bello e anche mio cugino Bertfried, quello biondo, è davvero bello. In realtà siamo tutti biondi, ma di un biondo tendente al castano, mentre lui è biondo biondo. Le donne invece sarebbero come noi, ma si tingono di un colore finto ed ecco: sono tutte uguali. Berthold invece è meno bello di me, ma ci sa fare e quando si vanta delle mucche che ha né io né Bert né Bertfried né gli altri cugini abbiamo la minima chance di gareggiare contro di lui. Berti invece è timidissimo e forse ci gioca su; mia cugina infatti si intenerisce quando lui diventa tutto rosso. Lo fa anche quando Berto balbetta e allora non so mica se ho qualche chance: io non sono né davvero bello né davvero misero.

Qui ci sono torte e rinfreschi, sedute infinite, discussioni su chi è morto, su chi è cresciuto, sui divorzi, e io non so proprio che dire. Finisce l’elenco dei vivi e dei morti, ed ecco il discorso sulle mucche, di cui scopro con sgomento il prezzo; un breve conto ed è ovvio che non posso competere con Berthold. Bertrud vuole Berthold, si vede, penso: che le posso offrirle io? Ho libri, sì, però qui se leggi sei solo un eccentrico con sogni eccentrici che vuole cose eccentriche, teoriche, inesistenti; un inetto che non vive nel mondo vero. Poi? Delle penne, sì, però Bertrud delle penne se ne fotte. Sì, ho pure CD e libricini pieni di scritte, però sono tutte cose che non servono. Sono invidioso di mio cugino Berthold e rifletto: forse non mi recherò lì, resterò qui e gli ruberò tutte le mucche oppure gliele ucciderò, eh, che scene! Così sì che si discuterebbe di me. Non più il cugino mediocre né scemo né sveglio. O forse no.

Quando finiamo, facciamo il solito giro, poi puliamo la tomba di famiglia. «Quando morirò voglio un’urna, non una tomba» dico io, provocando imbarazzo tra i cugini, zii, mamma, papà; tutti rossi di rabbia. «Dai, non si fa: occuparsi di una tomba, di fiori, di annaffiatoi, di un corpo morto: una cosa idiota!» Papà mi tira uno schiaffo. L’altro idiota schizza acqua santa con un ramo di ulivo: un dio. Sicuro, lui sa comportarsi. Poi mi si avvicina, mi sussurra: la nostra tomba – guarda, io una toccatina, quasi quasi – bisogna sia la più curata; sono uno stupido, non capisco la dinamica, quindi sto zitto con il capo chino.

Quando torniamo dai miei, mia cugina Bertrud, quella bella, viene con me in cameretta e mi dice che anche lei è per cremare i morti, ma qui mica lo puoi dire. È vero, ha ragione: perché l’ho detto? Il mio letto è perfetto perché mia madre l’ha fatto poco fa; mia cugina cade indietro, le coperte ripiene di penne d’oca, dice che non è vero quello che dicono gli altri: mi vede bello e intelligente e lei mi appoggia per la città e per la carriera. Dice proprio: io ti appoggio. Mi avvicino e cado anche io accanto a lei e le chiedo «Rimani qui?», lei mi guarda con l’aria dolce e quell’aria dolce mi fa finire il liceo e partire. Non mi guardo più indietro, non mi vergogno più perché quando vedo un vitello venire al mondo mi viene da vomitare e perché ho, a differenza loro, la vergogna del corpo nudo, perché utilizzo il congiuntivo quando va utilizzato e non me ne frega niente che non ho i piedi per terra, non faccio il miele e non mungo le mucche.

Qua però passo per strano uguale. Saluto la gente per strada. Che gay! Ok va bene; sono gay e arretrato, secondo loro, ok, va bene. Frequento un corso ed è un vero bordello, la gente parla strano; e sono ancora gay e arretrato. Ok, va bene: accetto e resto muto. La gente scopre però da dove vengo e ora non sono solo gay e arretrato: sono quello che deve farcela, deve assolutamente farcela perché sono qua da solo, e ora sono pure poveretto, oltre che gay e arretrato. L’esame va bene e sono contento quando prendo un bel voto, ma non lo racconto a nessuno perché va bene passare per gay e arretrato e poveretto, ma ora basta.

Al paese oggi al circolo del caffè siamo solo mio padre, mia madre, Bert e io. Deve essere successo qualcosa, credo, ma cerco di stare calmo. Mi siedo, bevo caffè e butto giù qualche morso della torta burrosa. A parlare è mio padre. Dice che Bertrud ha deciso: si sposerà. Lui lo sa dallo zio. Resta zitto, guarda mio fratello, poi me, scuote la testa e tace. Mi ricordo che Bertrud mi appoggia e sorrido, mio padre si alza, si risiede, sta per parlare, ma poi resta zitto. Mia madre gli tocca la spalla e lo guarda, lui le sorride e dice che Bertrud ha scelto me, dice che Bertrud sposerà me, ma lui come fa a dire di sì? Bert ha qualcosa da offrire, ha le idee chiare, lui sì che sa che cosa vuole, e poi si sa comportare, il dio. Io sto zitto. Pure mio fratello-dio tace, poi dice che, se voglio, posso lavorare da lui. Scuoto la testa e mia madre mi dice di essere saggio, ormai sei adulto, le dico che voglio studiare e lei mi dice basta, sempre queste cazzate, si tratta di cose serie e allora le dico che porterò Bertrud fuori di qui, la libererò, mio padre ride. La città posso scordarmela e allora dico che lei potrà scordarsi di me. Lo dico e vedo subito il terrore sui volti di mamma e papà.

«Guardate che anche lei preferisce essere bruciata.» La mamma dice un’Ave Maria e un’altra e un’altra e un’altra, sistema la cucina, mentre papà esce dalla stanza. Mi viene da ridere, Bert impallidisce. «Mi sembra che si è già bruciata» dice. Si sia, deficiente: si sia.

Foto di Ludmila Mottlova da Pixabay

Tu: la letteratura che nasce dalle prigioni kurde

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Giuseppe Acconcia

I lunghi anni di detenzione di Salahettin Demirtas e Figen Yuksekdag, co-leader del partito democratico dei Popoli (Hdp), ci ricordano che il popolo kurdo, in Siria, Turchia e Iraq, è abituato alla quotidianità del carcere. L’esempio più eclatante viene da Abdullah Ocalan, leader del partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), costretto all’isolamento nel carcere di Imrali. Eppure il merito di Mehmed Uzun, come di altri grandi poeti kurdi e non solo, pensiamo a “Il luogo stretto” del siriano Faraj Bayrakdar, è di trasformare in “Tu” (a cura di Francesco Marilungo, Ismeo, 2019, 214 pp, 20 euro) la cella in un luogo dove scrivere. Il suo merito è addirittura doppio perché l’autore crea così, nel 1984, la letteratura kurda contemporanea in kurmanji, fino a quel momento relegata alle diaspore e alla sola oralità.

L’autore trova l’espediente letterario dell’insetto umanizzato, rispetto alla demonizzazione del carceriere turco, per iniziare il suo racconto di prigionia. Come spiega Francesco Marilungo nell’introduzione, mentre Uzun cresceva libri e riviste in kurdo non esistevano o erano proibiti, e così lo scrittore ha dovuto “creare ex novo una tradizione letteraria moderna”. Uzun ha imparato a leggere e scrivere in kurdo quando si sono aperte per lui le porte del carcere nel 1971, insieme ad altri intellettuali kurdi in prigione, come Musa Anter. L’autore, tra i fondatori della rivista, Rizgari (Liberazione), verrà arrestato di nuovo nel 1976, e al suo rilascio decide di abbandonare il paese e trasferirsi in Svezia, dove resterà fino al 2007 prima di morire dopo il suo rientro a Diyarbakir, nel Kurdistan turco.

E così negli anni Ottanta e Novanta è la Svezia la vera patria della letteratura kurda, da lì nasceranno i maestri che ispireranno di più i giovani scrittori kurdi. In Svezia la diaspora kurda ha ricostruito la sua memoria e Uzun, tradotto in turco, ha potuto far emergere un’impronta multiculturalista inclusiva di enorme rilievo. In altre parole Uzun ha avuto il merito di fronteggiare la sistematica cancellazione dell’identità kurda perpetrata dallo Stato turco. Il compito dello scrittore è stato di salvare la tradizione orale dall’oblio attraverso la scrittura.

Uzun lo ha fatto seguendo tre strade. La prima, come dicevamo, è il racconto della prigionia. Il carcere è il luogo della tortura, da dove nasce il mito della vittimizzazione del popolo kurdo. In prigione è nato anche il Pkk. In altre parole la repressione turca ha fatto germogliare la resistenza letteraria e politica kurda più di ogni altra cosa. La prigione è un luogo di educazione mentre lo spazio esterno diventa la vera prigione. L’altro elemento cardine è la natura da cui partono i racconti di infanzia dell’autore. Il popolo kurdo ha un legame speciale con le montagne, pensiamo ai combattenti a Qandil per esempio. La natura è l’ultimo rifugio: il luogo in cui nessuno, neppure il più atroce degli attacchi, potrà mai davvero scovare la resistenza. E poi c’è Diyarbakir, che con Kobane e Sanandaj, è il cuore del Kurdistan, la città da cui, come per Parigi la letteratura francese, parte la letteratura in kurdo. Diyarbakir inizialmente è raccontata come una città occupata, colonizzata dal nemico, ma poi, nei testi successivi di Uzun, diventerà una città multiculturale, mantenendo sempre le sue due anime, quella dell’oppressione turca e quella dell’identità kurda.

Tu è un romanzo storico che incarna tutti gli elementi del nazionalismo kurdo a partire dalla condivisione con i “compagni” di una condizione di repressione che coinvolge un intero popolo. Il testo racchiude poi una prima descrizione rivoluzionaria del ruolo femminile nella difesa della causa kurda. Le donne sono già la “difesa da ogni decadimento”, come sarà poi chiaro dalla partecipazione diretta nella guerra civile siriana delle combattenti kurde impegnate nelle Unità di protezione femminili (Ypj). I racconti di Uzun continuano a mantenere un piede nella tradizione, come ricordano le hadith pronunciate in gioventù, insieme ai libri di Cechov. Il testo fornisce così una narrativa straordinaria degli eventi che hanno attraversato il Kurdistan turco con gli occhi dei kurdi. Incredibili sono le descrizioni minuziose del momento dell’arresto e delle torture subite in cella. Eppure la violenza del carcere si innesta sempre in racconti fantastici di infanzia che ridanno vita anche agli spiriti (jin) della tradizione orale, fino all’invocazione della salvezza che viene dall’eroe, come Meme Alan.

Marcello Barlocco: come lucciole, bisogna accontentarsi delle stelle

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«Proprio io – ha detto l’uomo sulla cinquantina – Sono il dottor Marcello Barlocco, di Genova e ho letto sui giornali, questa mattina, che mi cercano carabinieri, polizia e agenti americani perché mi credono il corriere dell ’hashish. Non ho mai trafficato in stupefacenti e sono pronto a dimostrarlo. Sono soltanto vittima di un madornale equivoco. Eccomi a vostra disposizione.»

da Il Corriere della Sera, martedì 18 febbraio 1958

 

«Molti animali inferiori, specialmente i vermi, putrefacendosi emettono una piccola luce; gli uomini invece puzzano.»

Marcello Barlocco,  Aforismi inediti

 

Dopo Massimo Ferretti e in completa noncuranza del mercato editorale,  la Giometti e Antonello pubblica in questi giorni un altro libro difficilmente collocabile, che già dalla copertina testimonia il suo essere “sostanza forsennata”:  Un negro voleva Iole di Marcello Barlocco.

Il bizzarro ritaglio di giornale posto qui sopra basterà come introduzione alla biografia di Barlocco (Genova, 1910 – 1972), che non si presta a frettolosi “adattamenti”. Autore “minore”  è colui che continua ad indisporre ogni biografo ben intenzionato, al costo di lasciare come eredità soltanto un disordine equivoco (cioè facilmente strumentalizzabile).

Allo stesso tempo, il vero carattere di Barlocco si misura attraverso una frase che mortifica in un instante qualche decennio di letteratura consolatoria, denunciandone l’insufficienza: «Il fatto d’essere così negro e loro tanto bianchi non gli appariva umiliante, ma si sentiva inferiore per non saper anche lui inventar qualcosa da voler da loro».

Questa frase proviene da un racconto di “amorosa protesta”, Un negro voleva Iole,  che dà il titolo al libro. Ne ho voluto ospitare qui un lungo estratto, introdotto  da una riflessione sul divenire minore che il filoso Gilles Deleuze dedicò al teatro di Carmelo Bene (lo stesso Bene aveva messo in scena alcuni “atti unici” di Barlocco, purtroppo andati perduti).

Barlocco sceglie lo sfregio del nome per mutarlo in orizzonte di fuga.

Ogni destino taciuto fa un processo a tutta l’umanità, e urla la propria rivolta alle stelle. Ma neanche loro -ci rivela il Negro-  bastano ad incorniciare lo scontento del mondo…

 

Divenire minori

«È come se ci fossero due operazioni opposte. Da un lato si eleva a “maggiore”: di un pensiero si fa una dottrina, di un modo di vivere si fa una cultura, di un avvenimento si fa Storia. Si pretende così riconoscere e ammirare, ma, in effetti, si normalizza. […] Allora, operazione per operazione, chirurgia contro chirurgia, si può concepire l’inverso: in che modo “minorare” (termine usato dai matematici), in che modo imporre un trattamento minore o di minorazione, per sprigionare dei divenire contro la Storia, delle vite contro la cultura, dei pensieri contro la dottrina, delle grazie o delle disgrazie contro il dogma.  […] Non ci si salva, non si  diventa minori che attraverso la costituzione di una disgrazia o di una difformità. È l’operazione della grazia stessa. Come nella storiella di Lourdes: fai che la mia mano ridi venti come l’altra… ma Dio sceglie sempre la mano sbagliata.»

(Gilles Deleuze, Un Manifesto di Meno in Sovrapposizioni, Quodlibet)

 

 

UN NEGRO VOLEVA IOLE

 

Tra una foca e l’adolescente negro c’erano parecchi punti di contatto: la rudimentale intelligenza, la testa piccola e sferica e soprattutto un forte odore di pesce marcio. Per questo la ciurma oltre che Negro porcaccione, lo chiamava anche foca. Quando il piroscafo giungeva nelle bollenti acque della Florida, il negro diventava particolarmente utile; gli uomini lo calavano tutto nudo dentro il buio di una tanka e al collo gl’infilavano l’enorme secchio contenente la spugna, ma a volte sentivano diventare immoto dall’altro capo della fune il peso vivo e dimenante di Negro; allora tiravano su in fretta perché era segno che c’era ancora del gas e il negro si stava asfissiando. Lo stendevano, rigido come una trave, sopra la coperta; con violenti getti di acqua accompagnati da qualche colpo nelle caviglie lo facevano rinvenire. Dopo un’ora ritentavano la prova, e il negro per la seconda volta minacciava di asfissiarsi. Allora interveniva il comandante e diceva: «Gas o no, caro il mio negro, ho assoluto bisogno che prima di stasera mi cominci a spugnare queste tanke maledette. Siamo già nella Florida, fra pochi giorni si arriva e con le tanke sporche non ci lasciano entrare in porto. Capito?» Quando il comandante aveva bisogno di qualcosa la sua voce era uno sparo. Negro si riprendeva come per incanto e rispondeva: «Subido gomandante». Sollevava le braccia perché lo legassero alla vita: giù di nuovo, la terza volta con il secchio intorno al collo. Respirava appena per ingurgitare il meno possibile di quel gas micidiale, riusciva a toccare il fondo. Gli uomini sentivano afflosciarsi la fune e capivano ch’era giunto. Allora quasi sicuri che «per quella volta non sarebbe morto tutto di un colpo» si rifugiavano sotto coperta a fumare o masticare salame di tabacco. Il piroscafo deserto come un vascello fantasma tagliava le acque della Florida diretto verso Baton Rouge, in un’ansa del fiume Mississipi. Intorno un’atmosfera opprimente: nei mesi più caldi 40 gradi all’ombra. Da un lato, sulla bassa costa americana, le case di Miami e Key West sotto il riverbero parevano pezzi di alabastro; dall’altro, dentro un cumulo di vapori rosa e arroventati, s’intuiva l’isola di Cuba: giù nel ventre della tanka, Negro, al buio, in ginocchio nella poltiglia di ferro corroso e benzina, la spugnava dentro il secchio. Le macchine non riuscivano ad assorbire sino in fondo ai concavi paglioli, e Negro con quel mezzo rudimentale doveva sostituirle. Poco a poco i suoi polmoni si abituavano al gas. Egli riprendeva una respirazione quasi normale. Respirava aria, gas, incubi, vertigini di tutti i colori, e aveva paura di morire. Ma i negri adolescenti non hanno paura della morte in se stessa. Della morte in se stessa questi ragazzi negri non hanno paura perché i misteri troppo grandi non arrivano a colpirli: essi sono come i grilli che non hanno paura dei grandissimi rumori ma ne hanno molta del fruscio che fa l’erba quando cresce. Negro aveva paura di svenire, di cadere col viso dentro la poltiglia, ed annegarvi, continuarne a bere anche dopo morto, empiendosene il ventre come un otre. Temeva solo questo, non di morire. La paura si trasformava in una crisi di terrore ed egli gridava: «Aiudo, uomini, aiudo». Gli uomini erano lontani a masticare tabacco. Al negro urlante, resi lugubri dalle tenebre e dal rimbombo della tanka, rispondevano i colpi del mare sotto la chiglia. Poi la crisi, raggiunto il massimo, si dissolveva e per reazione Negro entrava in una serie di incubi buoni e patetici al vertice dei quali c’era sempre il palpitare luminoso delle lucciole sugli alberi e le case del suo paese. Vedeva lucciole palpitare intorno a sé con una tale vivezza che talvolta agitava la mano per scacciarle.

Quando gli uomini supponevano che egli avesse finito una tanka tornavano: dopo averlo estratto da quella lo calavano subito in un’altra e fuggivano al fresco. Tre, quattro giorni durava quell’affare, ma Negro non odiava i bianchi uomini: anzi li ammirava per la meravigliosa prerogativa di saper sempre immaginare qualche cosa da volere da lui. Quando volevano qualcosa, le loro voci sparavano in maniera entusiasmante. Le esplosioni più entusiasmanti erano quelle del comandante: erano musica guerriera: eccitanti come una fanfara. Negro non odiava gli uomini bianchi ma l’invidiava un poco per quella loro voce e l’inventiva dei desideri. Il fatto d’essere così negro e loro tanto bianchi non gli appariva umiliante, ma si sentiva inferiore per non saper anche lui inventar qualcosa da voler da loro. Avendolo saputo fare e sparandolo poi con quella voce era certo che lo avrebbero ubbidito. Fra gli altri suoi sogni leggeri come bolle di sapone c’era anche questo: salire un giorno sul ponte col berretto messo alla guappa e di lassù gridare agli uomini una cosa da volere. Pensava che si sarebbero fatti in quattro. Non aveva desideri; cercandone uno la sua piccola testa per la pressione minacciava di esplodere. Solo una sera stando seduto a poppa sopra una bitta con mezza lingua fuori (la lingua fuori, pur non intervenendo direttamente nel meccanismo del pensare, glielo favoriva in modo incredibile) vide una stella e gli parve di desiderare intensamente le lucciole, ma vere, non quelle delle tanke, e fu sul punto di correre in plancia per gridare agli uomini che voleva delle lucciole; ma poi pensandoci bene riuscì a capire che in quella cosa gli uomini non avrebbero potuto ubbidirlo; e come lucciole, sul mare, bisogna accontentarsi delle stelle. Un giorno il comandante trafficando con una lamiera si era quasi segato una vena sul polso. Gli uomini in quella occasione vollero da Negro una cosa molto strana. Estrarre il sangue ad una persona in condizioni normali con tutto il necessario è una cosa delle più facili, ma estrarlo ad un giovane negro, con il piroscafo che rolla e beccheggia come un matto, è un affare complicato.

Presto fiorirono sul pavimento garofani scarlatti, ma il secondo, che dirigeva la cosa movendosi di continuo, poi li fuse in un’unica grande chiazza. Il comandante giaceva sulla branda, bianco in volto, con gli oc chi semichiusi ed ogni tanto emetteva respiri sibilanti. Chissà perché Negro si era orientato nell’ordine di idee che, dopo averglielo cavato, il suo sangue lo avrebbero versato in mare: invece lo introdussero nel corpo del comandante. Quel giorno l’ammirazione di Negro per gli uomini bianchi crebbe a dismisura. Fosse stato lui capace d’inventare cose tanto strane e misteriose sarebbe stato felice. Quando si era rialzato dalla tavola dove lo avevano steso, aveva visto tremare tutto ed era caduto sulle ginocchia. Stranissimo! Ora che il sangue glielo avevano portato via quasi tutto, gli pareva di averne di più, e gli pulsava dentro la testa producendo una nebbia rosa e viola davanti agli occhi. Il secondo allora aveva afferrato Negro per la collottola trascinandolo in cucina davanti alla enorme pancia del cuoco. «Cuoco – aveva detto il secondo – se tu gli somministrassi doppia o tripla razione di fagioli io credo che domani sarebbe più in gamba di prima. Non credi?» «Credo di sì», aveva risposto il cuoco. «Già che ci sei dagliene quattro porzioni». «Agli ordini», aveva risposto il cuoco. Prima di andarsene il secondo aveva detto a Negro: «Nella fretta non abbiamo disinfettato proprio niente: è probabile che ti venga un’infezione, ma io ho tali rimedi che il braccio sono in grado di salvartelo». Il cuoco aveva posto davanti a Negro una montagna di fagioli imponendogli di mangiarli tutti sino all’ultimo. Negro ebbe poi la sensazione di aver dentro la pancia un elefante. Esplosa in seguito l’infezione, proprio quando Negro cominciava a reggersi sulle gambe, il secondo aveva ancora detto: «Per prima cosa incidere, poi applicare rimedi». Il braccio di Negro era iridescente di tutte le gradazioni scure dell’amaranto; solo nel punto dove c’era l’ascesso era decisamente giallo e viola. Il secondo aveva inciso abbondantemente in croce con una lama per barba ordinando poi a Negro che andasse avanti lui perché egli stava sentendosi rivoltare lo stomaco. Con l’altra mano Negro si era spremuto il braccio; e il secondo fischiettava voltato dall’altra parte. In seguito giunse un’alta febbre. La febbre era molto cara a Negro; gli pareva che immergendolo in quel bollore di sangue in cui galleggiavano le ossa tutte peste, gli accendesse nella testa una fiammata di idee. Ma purtroppo erano idee smozzicate, pensieri inconcreti; malgrado la febbre, cose stravaganti da volere dagli altri non riuscì mai ad inventarne. Ci giungeva solo molto vicino; un fenomeno un po’ simile a quello di un nome che a tratti gli venisse sulla punta della lingua e poi tornasse subito indietro. Invece gli uomini durante la sua degenza vollero molte cose: anzitutto portargli mezzi limoni già spremuti, poi innaffiarlo con forti getti d’acqua perché egli aveva sempre caldo; infine vollero che si trasferisse in un altro posto perché minacciava d’attaccare il febbrone a tutti quanti. Il posto era buio, odoroso di legno fradicio, con una sola cuccetta all’altezza dell’oblò. I piroscafi corrono di notte sul mare, con una stella incorniciata negli oblò. Una stella che nasconde forse dietro di sé spaventi eterni eppure brilla calma come la luce di un casolare. Negro fu molto contento che l’avessero sbattuto in quel posto perché di notte poteva vedere la stella senza neppure alzare la testa.

[…]

Conversazione con Paolo Zardi su “L’invenzione degli animali”

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A cura di Gianluca Garrapa

L’invenzione degli animali è l’ultimo romanzo di Paolo Zardi, uscito a settembre del 2019 per Chiarelettere nella collana Narrazioni serie «Altrove» diretta da Michele Vaccari. Protagonisti del romanzo, ambientato in un’Europa piegata da guerre intestine e governata solo dai principi dell’economia, sono quattro geniali menti assunte dalla Ki-Kowy, la più grande azienda del mondo impegnata nel grandioso progetto di plasmare un nuovo paradigma dell’umanità.

Due poesie sopra i destini delle mamme

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di Francesca Genti

 

Le mamme delle poete

le mamme delle poete si siedono sul divano,

è tardo pomeriggio e aspettano le figlie.

le vedo dalla cima di una stella;

accendersi una sigaretta, farsi un bicchiere,

incrociare e scrociare le gambe,

girare gli anelli, mangiarsi le unghie.

 

le mamme delle poete sono inquiete,

è tardo pomeriggio e aspettano le bimbe,

poete appunto, non luminari della scienza,

né capitane d’industria né avvocati,

non donne che sanno organizzarti una casa,

una vacanza, un veglione per venti persone.

poete appunto, inabili alla vita,

perennemente offese dalla durezza della realtà,

le vene azzurrate da micro apocalissi,

e una passione smodata per le ciliegie sotto spirito

(ma niente soldi per il dentista!).

 

nell’attesa che le separa dalla visita

si chiedono veloci dove hanno sbagliato,

le rivedono in stellina dentro i cieli,

quando erano soltanto puro desiderio

senza ombra di dubbio, e una felicità,

morbida e tiepida, dalla nuca profumata,

quando dicevano le cose buffe a tavola

e aspettavano sveglie i topini dei denti.

 

forse le avevano allattate poco

o lasciate troppo davanti alla televisione,

saranno stati i campi steineriani?

o la sopravvalutata pedagogia montessoriana?

più acqua? meno acqua?

 

più luce, madre mia, ancora sulla terra.

le mamme delle poete sembrano marat,

nel celebre quadro all’oldmasters,

o vecchie ofelie preraffaellite,

nel famoso dipinto alla tate gallery,

sdraiate sui cuscini del divano,

confuse con i fiori dei tessuti,

il vino rovesciato lungo i polsi,

allorché queste figlie poete,

(un tempo così brillanti e allegre,

un tempo così belle e in salute),

si mettono comode, si tolgono le scarpe

e raccontano di problemi esistenziali,

o di come si sono fatte fottere marito e lavoro

 

da qualche campionessa più giovane e furba

(qualcuna la cui madre avrà allattato meglio

e di sicuro cucinato tutte quelle torte

che nell’abbaglio delle loro giovinezze

loro mai si sono sognate architettare).

 

le mamme delle poete reagiscono

ognuna a suo modo alla cattiva sorte.

se sono di indole frivola

partiranno per un lungo viaggio,

un grand tour di shopping compulsivo,

che neanche elton john nei momenti più bui.

se sono inclini alla saccenza

chioseranno l’avevo capito da quella poesia*.

se propendono per il lugubre

si chiuderanno in un atroce silenzio

e puzza amara sarà, fino ai prossimi natali.

 

le rivedono in stellina fluorescente,

trilli subacquee sulla spiaggia,

così carine nei loro costumi di sirena,

così della vita fiduciose,

pescioline nel brillare della luna,

di ogni marea, di ogni compleanno,

di ogni adorazione del piedino

(tutti gli altari d’oro dell’infanzia).

 

forse le avevano allattate troppo,

o quella volta giù dal fasciatoio,

sarà stata la baby sitter ninfomane?

o i racconti horror della zia?

più vino? un po’ di vino?

 

più luce madre mia, ancora sulla terra.

*

(le mamme delle poete infatti,

anche se hanno condotto studi umanistici

tendono a leggere l’opera delle figlie,

con approccio gossipparo,

una sorta di inesaurita Eva Tremila).

 

 

Malgaro elettrico

mio padre, he was a country boy

in un piemonte vertiginoso e fosco.

 

nella provincia cosidetta Granda

(la Shangri-lah dei fragoloni a Peveragno)

si fece largo, tra le gambe di mia nonna.

con un suo sacchettino di plasma

con un suo pacchettino di ossa piccole

nello zaino un sasso e una ricotta

e i suoi semini da piantare per il mondo.

insomma, nacque. come tutti i bimbi.

 

alla fine di una rovinosa guerra.

 

nella provincia cosidetta Granda

(dei partigiani a vocazione GL)

nacque, bimbo bello, in questa terra.

in amarezza e luce. e abbagli e cadute.

 

e nuvole che turbano lo sguardo:

 

in baratri di nostalgie cobalto

mia nonna infatti cadde

giù nel buco, proserpina borghese,

si ruppe la borraccia della serotonina;

fantasmi di giovinezza non sbocciata

minacciarono la vita dell’infante.

 

giorni e giorni di fitto temporale

fitte al cervello elettrizzato male

mani magre non riuscivano a tenere

l’autunno sconfinava nell’inverno

e questo fagottino, bimbo bello,

diventava triste e macilento

 

non riuscivano a trovare più l’azzurro

 

ma un pomeriggio più tenero degli altri

nella provincia cosidetta Granda

(quella effigiata da pittara e delleani)

su prati dai colori psichedelici

apparve una fata in forma di vacca

“non preoccuparti” disse alla ragazza

“riposati, riprenditi l’azzurro”

“io mangio l’erba e i fiori

do il latte io a  tuo figlio”

“tu dormi, riposa nell’azzurro”.

 

e fu così che mio padre si riprese

e diventò mio padre, appunto.

oggi ancora lo è. he is, a country boy

che prende suo nipote sulle spalle

e per fargli ammirare meglio le vacche

e le loro boasse impastate di fiori

prende la scossa sul malgaro elettrico.

 

 

I due volti della corona

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ph. David Dawson
ph. David Dawson

di Marco Viscardi

Willis: "Monarchia e follia sono due stati che hanno una frontiera in comune. 

Alcuni dei miei matti fantasticano di essere re. 

Lui è il Re, e dove andrà a rifugiarsi la sua fantasia?"

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Regina: "Sì, signor Re, siamo stati felici."

Re: "E lo saremo ancora. Lo saremo ancora."

Alan Bennett, La Pazzia di re Giorgio. 

 

Nella trama magnifica e incontenibile dell’Orlando Furioso, la battaglia di Parigi è lo scontro fra la civiltà e la forza bruta. Il campo pagano, dopo lungo assedio, ha deciso di varcare lo spazio umano della città, protetto da mura secolari. Il campione degli infedeli, Rodomonte – incarnazione della pura forza distruttiva – fa strage del più nobile sangue cristiano. La città, devastata dal suo furore, sembra oramai caduta ma quando i cittadini, tutti radunati in una piazza, vedono re Carlo in pericolo, si accendono guidati da un’unica volontà. «La persona del re sì i cori accende, | ch’ognun prend’arme, ognuno animo prende» (XVIII, 12, 7-8). La moltitudine urbana si slancia contro la bestia e la sovrasta, costringendola alla fuga. Il corpo collettivo ha battuto il nemico, ispirato dalla sola presenza del sangue regale.

Questo nel testo del poema, ma l’Orlando è una terra smisurata, difficile da contenere con lo sguardo. Un continente composito di cui fa parte un arcipelago di canti, cinque per la precisione, che nessun cartografo è stato capace di collocare nella giusta posizione. Cinque canti scritti forse prima del 1521, a cui persino Ariosto non ha saputo trovare uno spazio, una collocazione. Vi si racconta una storia cupa di divisioni del campo cristiano, di lealtà tradite e fratelli che uccidono i fratelli. Si combatte sui campi di Germania e di Boemia, gli stessi in cui, mentre Ariosto lavorava al poema, si era diffuso il verbo protestante. Il mondo diventava incerto, le stelle fisse cominciavano a vacillare, nulla di quello che pareva incrollabile si sottraeva in realtà alle leggi del movimento e dell’entropia. I Cinque Canti sono il lato oscuro del Furioso. La loro conclusione è tremenda e ridicola: si vede Carlo cadere da cavallo nella rapida ritirata dal campo di battaglia, e ciascuno è così preso da sé e dal proprio destino che i vincoli sacri del dovere non esistono più. Il re dei re scivola dalla sella e nessuno semplicemente se ne accorge.

I Re sono l’ordine del mondo, ma quando cadono nessuno se ne accorge. L’edificio della monarchia è solido solo per una illusione ottica, ma le sue strutture sono deboli, possono cadere da un momento all’altro se il sovrano è incapace di conservarle e trasmettere a chi verrà dopo di lui. The Crown è la serie televisiva sul potere monarchico e sulla sua fragilità nascosta. La prima stagione era sembrata un po’ incerta, impelagata in cose già viste e digerite, ma con lo scorrere delle puntate la narrazione si è fatta sempre più stringente, i personaggi meglio delineati, gli abiti e gli arredi sempre più credibili. The Crown non è una serie sulla regina ma sulla corona, sulla sua impersonalità, sul peso e le rinunce che comporta quella vita di lusso.

Con l’incedere delle stagioni, diventa sempre più chiaro che il sacrificio imposto dalla corona è accettare un destino di impersonalità e di inazione. Il trono ordina di abdicare alla propria individualità: accettare il destino supremo di essere il primo motore immobile, con la consapevolezza che anche il sole fa parte di una meccanica celeste che non può in nessun modo alterare. È una volontaria rinuncia, una abdicazione appunto, che porta chi non la compie ad abdicare alla corona. Se esiste un cattivo in The Crown non è Mountbatten, con le sue velleitarie pretese di incidere nella storia britannica, ma il duca di Windsor: il dandy che si è svincolato dai propri obblighi per godere di un palcoscenico mondano, il predestinato che ha rifiutato l’unzione.

Una delle puntate meglio riuscite di tutta la serie è quella dedicata alla consacrazione reale, all’incoronazione che eleva il sovrano al di sopra dello stato umano. La contrapposizione fra il dovere e l’individualità, verrebbe da dire fra l’invisibilità e l’individualità, è resa dalla partita doppia della giovane principessa che prende possesso dei simboli antichi della regalità mentre lo zio, diventato estraneo, di quell’avvenimento è spettatore a distanza che segue la cerimonia in televisione commentandola per i suoi raffinatissimi ospiti nel salotto d’esilio. Era il 2 giugno 1953, non esisteva più l’impero britannico e molte delle monarchie che erano in piedi al tempo dell’incoronazione di Giorgio VI erano scomparse, ma il momento dell’unzione del sovrano, della sua elevazione sopra gli altri uomini, conservava la sua sacralità, tanto da essere sottratta allo sguardo onnivoro delle macchine da presa. Marc Bloch era eroicamente morto per la libertà francese, ma i re taumaturghi esistevano ancora. La divinizzazione della regina è privilegio solo di chi è presente fisicamente nell’abazia; gli altri, anche e soprattutto se re in esilio, non possono vederla.

Il duca di Windsor è una figura patetica, incompiuta, impotente. In questa stagione, la morte di colui che era stato Edoardo VIII, al di là delle forme, è una fine senza riconciliazione. La linea della rinuncia e del servizio e quelle della vanità e persino della vitalità non si incontrano neppure alla fine, non vengono accordare in un momento di pietas. Il bacio è un bacio mancato.

L’ultima puntata della prima stagione, solennemente titolata Gloriana, segna il passaggio dall’umano all’atemporale, da Elisabeth Windsor a Elisabeth Regina. La narrazione culmina nella formula magica della sovranità, in latino – antica lingua del potere appena sporcata dall’uso dei britanni che trasforma ‘regina’ in ‘regiaina’. Elisabeth Regiaina! Cecil Beaton, fotografo di corte uso a recitare versi di Tennynson e Shakespeare mentre ritrae i regali, pronuncia queste parole arcane mentre ritrae la giovane sovrana con tutti gli apparati del potere. La regalità è uno spazio profondo, abissale, in cui Elisabetta si inoltra sempre più, anno dopo anno, stagione dopo stagione. Ma anche cristallizzato su francobolli e monete, il profilo regale non è uno spazio bianco, non è il profilo di ognuno. Ancora una volta si tratta dei due corpi e dei due volti del re: quello mistico e quello umano, quello immortale e quello corrompibile, quello destinato a occupare la propria casella nella lunga galleria dinastica e quello su cui si deposita il passare delle ore e delle emozioni. Il volto del re non è uno spazio bianco: in quella totale rinuncia della volontà che è la regalità, si può inscrivere la propria forma. Non agire è il più pesante degli obblighi, questo la sovrana lo sa autorevolissimamente sin dalla prima stagione, e in questa ammette che la Royal Family vive nascosta al mondo pur essendo sotto gli occhi di tutti. Sembra la lettera rubata di Poe, ma non è un ingranaggio giallo, bensì un gioco di potere.

Il volto modifica la regalità e la regalità modifica il volto, ma qual è la cera e quale il sigillo? Questa terza stagione è tutta inscritta nella fuga dal volto. Prendiamo la prima e l’ultima scena della stagione. Nei primi minuti della puntata d’apertura, vediamo la nuova Elisabetta, qui per la prima volta interpretata da Olivia Colman, specchiarsi nel confronto fra i due nuovi francobolli della royal mail. In uno la giovane sovrana, il profilo romantico di Claire Fox che l’ha incarnata nelle prime due stagioni, e nell’altro il mento cadente e lo sguardo spento della sovrana consapevole. Il tempo che passa non ha clemenza. Difficile capire se sia un caso: ma in questa serie il gioco delle somiglianze si fa stringente: Tobias Meziens è un impressionante Filippo, Josh O’ Connor ed Erin Doherty sono praticamente nati per le parti di Carlo e Anna, Principe di Galles e Principessa Reale. Fanno eccezione solo Olivia Colman ed Helena Bonham Carter. La prima, più che alla regina, assomiglia al ritratto di Elisabetta fatto da Lucien Freud: è un volto sull’orlo del disfacimento, in cui si mostra tutta la fatica di tenere insieme le cose, di non cedere alla legge di dissoluzione che regola l’universo. È un volto atemporale, staccato dal fluire del tempo, cristallizzato in una mezza età che è età del ripensamento e del sospetto. La seconda è una principessa Margaret che non ha più nulla della sensualità di Vanessa Kirby, ma discende anche lei la scura china degli anni, verso solitudini più prosaiche di quelle della sorella: fallimenti umani, confusione del vivere, raggelarsi degli amori domestici e ansie di fuga. Questa stagione racconta anche della formazione intellettuale e sentimentale, nonché erotica, della principessa reale e del principe di Galles. Carlo viene qui investito, secondo antico rituale feudale, di quell’antico dominio inglese. Ma la corona su di lui, come precedentemente sul padre Filippo elevato a Principe del Regno, ha un aspetto ridicolo, è un peso troppo grave per quel giovane collo, sta quasi di traverso, come a sottolineare che non tutti la possono portare. Anzi che nessuno può portarla, salvo colei a cui immediatamente sta bene, colei che si è allenata a farlo.

Spesso il piano narrativo di The Crown si basa sulla tecnica del double plot: i personaggi hanno sempre un doppio che li segue, li perseguita, arriva dove vorrebbero arrivare. Così nella generazione dei padri – re Edoardo e Giorgio – e così in tutte le generazioni. L’annullamento di Elisabetta nella funzione regale è amplificato dalle irrequietudini di Margaret, dalla sua ricerca di una forma, dal senso della sua inessenzialità, dal piacere delle sue sperimentazioni. La corona si nutre delle antitesi, dei conflitti, delle storie che non si conciliano e che restano irrelate per tutta la vita. Vedere il proprio alter-ego vivere aumenta la gloria rancorosa della sovrana, la rassicura sulla sua importanza.

Questa stagione si chiude con l’anniversario d’argento di Sua Maestà Britannica. 1977, venticinque anni di regno. L’argento è un triste metallo, i suoi riflessi sono malinconici, il suo colore ricorda il grigio della mezza età e delle sue incertezze. Così alla fine, la regina esce di scena in carrozza, scortata dalle guardie d’onore e fra queste anche da Carlo, oramai Principe di Galles ed erede al trono. L’erede smania sempre, vuole che il mondo conosca i suoi pensieri, le sue visioni. La sua voce. Ma nello scontro più terribile che un figlio possa avere con una madre, Elisabetta ricorda a Carlo che nessuno è interessato a quella voce. Nessuno è davvero attento al Discorso del Re, gli basta che il monarca sappia occupare la sua casella, riempire quel vuoto in fondo alla scena.

Ancora una volta una partita doppia: la radio descrive la pompa e la circostanza della memorabile giornata, la camera ci mostra una incerta Elisabetta al risveglio: il tè della mattina a letto, i bisogni del corpo, il bagno caldo. Gesti lenti, per allontanare il pensiero sgradevole dell’uscita: dell’accettazione del tempo che passa. Piccole quotidianità di un giorno solenne.

La cerimonia deve iniziare e la sovrana va in carrozza scortata dall’erede al trono.  È un gioco di espressioni e di non detti: la camera passa dal volto del principe smanioso a quello della sovrana che, negli ultimi secondi, passa dalla luce all’ombra. Ombra metaforica al pari di tutte le ombre. E non solo per la tradizionale semantica della maturità come shadow line, ma perché queste ombre le abbiamo viste addensarsi nell’arco delle puntate. Abbiamo visto Elisabetta sprofondare nel ruolo, sentire la propria imprescindibilità. La monarchia porta inscritta nel nome la solitudine. Il re è solo: molos e monoch, l’erede è una funzione necessaria ma insolente, non tanto perché è un ineludibile memento mori, ma perché ricorda che, nel gioco dei due corpi, nessun sovrano è essenziale, ciascuno verrà sostituito e alla fine tutti daranno il loro nome a qualcosa, poco importa se un’età gloriosa, il taglio di una stoffa, la razza di un cane. Nessuno, neppure il re, è insostituibile.

Jacopo sul palco

0

di Umberto Piersanti

Jacopo, tu non conosci
palchi,
non conosci
balconi o luoghi
che sopra gli altri
per la gioia s’alzano
o la rabbia
di chi ascolta,
tutto per te si svolge
a rasoterra,

Overbooking: L’Impero che si tace

1

Nota di lettura

di

effeffe

a L’Impero che si tace di Ilaria Seclì

 

 

Seguo da diversi anni il lavoro di Ilaria Seclì e proprio su Nazione Indiana ho avuto il piacere di pubblicare alcune sue cose. Di quest’opera che ho potuto leggere nel suo farsi, disfarsi, compiersi, per un decennio, è difficile dire, scrivere qualcosa senza provare, consapevolmente, un profondo disagio formale, un’inadeguatezza da lettore e da critico per certi versi imprescindibile. È infatti possibile accogliere la parola dell’autrice solo alla condizione di rinunciare al canone, qualsiasi canone, e seguirne il passo ovunque esso conduca, senza affatto sapere il disegno che ne determinerà la parabola, il percorso, il destino. Potrebbe apparire un oracolo l’incipit, sprovvisto di titolo, quasi un’ingiunzione al lettore su cosa fare per “ricominciare”. Non abbiamo infatti un tempo definito da un prima e un dopo, scandito dai testi – poesie? prose? note?- quanto un flusso di immagini e di cose che quasi approfittando del silenzio del rumore di fondo, dell’impero che appunto si tace, lasciano apparire per pochi attimi un’esperienza importante, un nome proprio, un toponimo, un’indicazione, che nonostante la sua concreta distanza da noi, risuona in noi come familiare.

Il mito, la storia, le voci si susseguono in una sorta di passaparola da esistenza a esistenza, in un gioco di specchi tra io narranti e io senzienti, talvolta declinato nelle sue forme plurali, voi e noi. È un corpo a corpo tra parola e parola, a tratti iconografico, luci ed ombre, delicatamente poste ai margini di elenchi, inventari, cataloghi di cose ed esperienze. Un viaggio non affatto mentale che questo diario ci invita a intraprendere con lo stesso coraggio dei pionieri a ridosso dei confini dell’impero.

*

 

La somma del tempo (Pozzis, val d’Arzino)

Quel posto che pochi vivi vedono. Tizzoni fermi, valli, estinta civiltà. 7 oblique lapidi rotte dalla neve, bianchi intatti ripetuti e ripetuti su occhi inesistenti, inesistente mano o impronta che li macchi, li corrompa.
Su nomi e lettere cadute, cadute date, resiste un petalo d’argento nero. La somma del tempo non consuma. Non consuma il tempo delle cose, della neve, vento gelido padrone, impero vuoto. La botola che narrano in città, voci e colori ingoia. Un grigio resta, un marrone incenerito, cinghiali e mufloni hanno versi, ma lontani. Uno sparo coi suoi cerchi. Il gallo è vicinissimo. Forche, ruote, zappe. Materia senza nome fatta roccia, basto che il gelo mima fioritura. All’improvviso un uomo.
Giura l’impossibile, alto bastone grezzo, polenta nel paiolo, suo capriolo a legna e fuoco. Sole avaro spento nel caffè dietro la montagna.
22 fotogrammi, passaggi umani, aperte cose oblique e il dubbio di essere appartenuti, stati vivi. Passate cose fra le cose.

 

*

Venti turchi

Ci sono venti contrari ai lini che albeggiano su joniche azzurrità. Portano leggende che ingrossano letti di fantasmi e mietono amanti e morti nei pomeriggi tra fine estate e inverno quando più insolente è il cielo e lo scirocco insidia. E sopravvivere è arte di pagliacci e stregoni, se a levante voci di Babilonia e Costantinopoli arrivano da venti umettati di mandorle, fichi, caramello e cinnamomo. E lenzuola di salsa rossa hanno deposto il calice e tutto muore ben prima che negli inverni freddi ad altre latitudini, e tramonti veloci incastrano creature dentro i cancelli dei cimiteri. È tempo di stringersela l’anima sotto feltri doppi e scialli come al petto chiavi e monete d’altri tempi.
Sebbene non faccia freddo i venti compiono razzie da far impallidire i peggiori tiranni.
Ben s’intendono coi pascià turchi di cui ancora sibilano fatti a voce sommessa e guardinga.
In quei mesi il vero è fluido impasto di caotiche lingue che s’adatta ad ogni forma chiusa come acqua che trovi all’occorrenza letto e tetto. È sostanza di mare e vento. Ad altro non puoi far affidamento. Le case sono abitate da presenze inquiete mal identificate. Devi conviverci. Fuori è uguale, non hai scampo. Se la vicina per due volte ti vede senza sorriso, ti chiama, ti fa sedere, mette in un piatto l’uovo, ci spolvera un po’ di sale e ti dice di stare lontano da chi ti porta invidia. Dai domenicani non va meglio, se confidi al padre dall’orientale barba un tuo tormento, non esita a dirti che sei presa di mira da pericolose entità e ti congeda con sufficienti segni della croce, antidoto al nemico.
La porta del paese nei mesi che vi dico ha tanti cerchi di grigi vecchi attorno, ingoiati da una luce di vischio lattescente, e quando quella luce l’accompagna il vento è tutto un venerdì santo, un’eterna via crucis, un lamento che strozza. I sospiri, gli sguardi, le parole devono filtrare la solenne perturbante autorità, pregna di tutto fuorché di sola aria. Le nonne tra questi fatti segnano una tregua. ne hanno viste di ancora più terribili, teste di cavallo negli armadi, cani parlanti, bianchi vecchi su strade nere spariti in un colpo di palpebra. Le loro nenie pomeridiane biascicate in coro e rimbalzanti bocca a bocca in danze allucinate portano pace, acquietano. Auspicano – ora pro nobis – un passaggio veloce e indolore dei mesi terribili, dall’addio alla vendemmia al carnevale. Mesi colonie di spiriti ghignanti e beffardi che nessuna autorità è mai riuscita a tenere a bada né a scacciare. Questo il nostro mondo fino a ieri. Ora supermercati, super ruspe, super voragini. Divelti alberi e panchine, radici profondissime, solenni corredi di ville, dimore regali di gnomi e vari abitanti di pini, ulivi e querce secolari. Ora sapete che da qui a lì, da questo all’altro punto cardinale, è tutto uguale. Dal girotondo al mercimondo.
Ogni tanto passa un ambulante la cui voce ricorda quel vento spaventoso. Tutti ridono e gli fanno il verso compresi i vecchi nella piazza. Solo qualche bimbo e i matti, tra sonno e veglia, sentono strozzati lamenti, pianti finali e avvertimenti di guerre incombenti.
Orfane di vento ma terribilissime.

Edizioni volatili: Selected Love di Andrea Franzoni

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Nell’estate del 2019 le Favole dal secondo diluvio hanno inaugurato quella che sarebbe diventata una collana di scritture poetiche curata da Giorgiomaria Cornelio e Giuditta Chiaraluce:  “Edizioni volatili” e volanti, come quel cervo -maestro di rinascite- che portava braci tra le mandibole. Il secondo volume della collana è Selected Love di Andrea Franzoni, scritto a Brooklyn facendo “salti da scoiattolo” tra le lingue. Le partiture visive (segnalibri ed illustrazioni) sono sempre di Giuditta Chiaraluce.

In anteprima, ospito qui una selezione di alcune  pagine insieme ad una nota dell’autore –Sull’Amore Scelto– che non spiega il testo, ma ne illumina la precaria necessità: «A tutti gli effetti, non avevo lingua (o non mi bastava) e non avevo un sistema-verso in cui impiantarla. E tuttavia, avevo pezzi d’orfanezza da raccontare.»

ll libro verrà presentato nei prossimi mesi.

 

 

 

 

SULL’AMORE SCELTO

L’uso della lingua corrompe la lingua dell’uso – non altrimenti avviene in questa capitolazione del sistema identitario «io sono, quindi parlo». New York, per alcune settimane, in una stessa casa due italiani parlano (male) inglese e (pas mal) francese per comunicare con un’israeliana e un americano (yiddish), i quali parlano (male) italiano e spagnolo e (pas mal) francese. La lingua comune, come in tutte quelle situazioni in cui si incontrano destini esuli, non c’è. L’espressione profonda viene ridotta in queste situazioni ad un lessico basilare – necessario, e per questo fortemente poetico (dotato cioè di aderenza specifica e non generale) – che poggia principalmente sul lessico ricevuto dalla cultura generale (canzoni, film, inglese scolastico, tutto ciò che il certificatore di poeticità disprezza). Le grandi idee delle persone aderiscono in queste situazioni come uno slittino alla superfice necessaria: esiste un popolo che parla la panlingua, esiste già la panlingua (o paralingua), solo che, come in tutte le devianze, in pochi osano esporla in quanto tale. Ebbi in quei giorni la coscienza che la (mia) lingua italiana era un sottosistema di un movimento linguistico più importante. La lingua detta «nazionale» non esisteva che per i destini «nazionalizza(n)ti»

Per gli altri, il limbo. L’intristimento/rallentamento/allestimento ecc. formale delle produzioni nazionali mira forse alla tradizionale stagionatura del prodotto, ma credo avrebbe grande giovatura ad alimentarsi della lingue correntemente in uso in neuropa e altrove. Il cambiamento storico della lingua non è nazionale, ma trans-nazionale (anche i dialetti sono trans-nazionali). Esiste un popolo di locutori che già parlano la-lingue. Perché dunque non portarne avanti una corrispettiva letteratura?

Altra questione fu quella del senso. Andava in me un discorso violento, rotto ad ogni confronto con il senso. L’unità significante era già allora meno della frase (ogni frase si svuota con l’altra), ma non si accontentava per questo dell’uso poetico delle spezzature, né del doppio-polisillabo epico o rappizzato o teso di altri versatori. A tutti gli effetti, non avevo lingua (o non mi bastava) e non avevo un sistema-verso in cui impiantarla. E tuttavia, avevo pezzi d’orfanezza da raccontare. Ogni lingua o linguaggio che parliamo, ha una memoria propria, e un proprio modo di pensare. Non c’è il gestore unico della memoria, ma tanti ripetitori, ognuno con le informazioni che gli sono arrivate (spesso, come gli impiegati nelle biblioteche, nessuno sa cosa ha fatto l’impiegato del turno precedente). Non posso ricordare in italiano una cosa che la mia mente ha recepito in francese. Posso tradurla (rappresentarla), ma il ricordo (con quella sua caratteristica ambiguità manipolatoria) non può prodursi che nella lingua in cui l’esperienza si è originata. Tolto il freno inibitorio (il «ma che sto dicendo»), questi pezzi si sono ritrovati così a conversare secondo le proprie naturali caratteristiche. Perché tanti sforzi per diventare qualcuno, se sia il senso che l’identità che ne deriva non sono altro che frutto di dialogo tra le parti (testo-contesto, casa-paesaggio, io-tu)? Ogni dialogo ha genuine necessità di comunicazione (finzione), e un proprio ritmo direttamente orale, non oralizzato. Pas d’oeuvre, giusto un’ascrittura della sfuocatura del cuore. Un ritmo rilassato per dire quello che la mia lingua mamma e la mia lingua amante non riuscivano a dire. Eliminare il significante, osare restituire la perdita (e non colmarla con nuova accumulazione), canalizzare in circuiti linguistici sostenibili la migrazione lessicale e la dispersione annessa, fare la musica dello sbaglio, cioè dell’uso. Letterratura = raccontare la storia che vivi a coloro con cui la vivi, non come la vivi, ma come la vive chi resta immobile in ciò che tu muovi, e che se non incanti con i canti del divenire, ti narrerà domani la stessa storia, ma ripulita, nel bagno delle esigenze degli altri. Una grammatica adatta ad una lingua disadattata esiste già, non va dunque cercata: va detta.

Andrea Franzoni

 

Il giardino di Pedro

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di Nicola Fanizza

Pochi conoscono Pietro Di Giorgio, una singolare figura di architetto e di pittore, vissuto dal 1923 al 2007; eppure le sue opere furono accolte favorevolmente dalla critica in diversi Paesi dell’America latina e tutt’oggi sono oggetto di studio anche in Francia, Germania e Olanda. Ha fatto bene, pertanto, Valeria Nardulli a dedicargli un attento e documentato saggio dal titolo Il Giardino di Don Pedro, Edizioni Ideapress, 2018, pag. 109, Euro 18.

Il volume ricostruisce la sua biografia artistica – era nato a Mola – a partire dagli anni della sua formazione presso l’Istituto Tecnico per Geometri di Bari. Così veniamo a sapere che subito dopo aver conseguito il diploma di geometra, Di Giorgio si era iscritto alla facoltà di Ingegneria, ma non aveva portato a termine i suoi studi, poiché nel 1947 si era trasferito in Venezuela. Il Venezuela era allora la meta prediletta degli emigranti italiani che non potevano recarsi negli Usa. Offriva, infatti, discrete possibilità di lavoro nell’ambito delle costruzioni, poiché era investito dalle dinamiche di un sensibile sviluppo economico.

Qui si era immerso nel contesto tanto caotico quanto stimolante della Caracas del secondo dopoguerra, quella delle costruzioni avveniristiche e, insieme, dei caffè letterari, delle mostre di pittura e delle riviste d’arte.

La sua enorme curiosità lo porta a frequentare i circoli di stampo teosofico e alchemico. Gli antichi teosofi greci e orientali gli avevano insegnato che la verità risiede soprattutto dentro di noi, nei principi intellettuali e nella vita spirituale dell’anima. Il contenuto di questa verità stava a fondamento di tutte le religioni. Ed era possibile coglierlo attraverso la sapienza profonda dei grandi profeti che quelle stesse religioni avevano creato, sostenuto, diffuso. Da qui il suo sincretismo che troveremo dispiegato in tutte le sue articolazioni e declinazioni nei progetti preparatori del suo Giardino.

L’alchimia gli apparve per molti versi come l’arte dei viaggiatori, l’arte degli individui che sono in transito, l’arte della trasmutazione. L’alchimista, con il suo lavoro, cerca di produrre nel materiale su cui sta operando, la Materia Prima, una serie successiva di mutamenti per condurlo da uno stato grezzo a uno stato perfetto e incorruttibile. La sua bottega diventò così un laboratorio alchemico, dove si esercitava nella rappresentazione delle forme e soprattutto nell’uso dei colori, rendendoli adatti alle sfumature.

La pittura per Di Giorgio assume ben presto un valore esistenziale. Lo aiuta a mettere a fuoco le sue visioni ad occhi chiusi, lo aiuta a far sì che nella sua anima affiorino colori e forme, lo aiuta, insomma, a pensare con le immagini. Nello stesso tempo controlla la sua effervescenza magmatica senza soffocarla e senza lasciarla cadere in un confuso e labile fantasticare, permettendo così alle immagini di cristallizzarsi in una forma ben definita.

Con il nome d’arte di Don Pedro, Di Giorgio intraprende così la sua carriera pittorica, presentando le sue opere in diverse mostre che si tennero in diversi paesi dell’America latina. I suoi quadri danno allo spettatore la sensazione di sentirsi incluso nello spazio della rappresentazione. Cosa che avviene tramite alcuni accorgimenti, quali i diversi punti di fuga o la linea dell’orizzonte alta. L’ambiente così sembra avvolgente. Tutto ciò avviene in ossequio all’immaginario alchemico, che postula per l’appunto l’intima interazione tra macrocosmo e microcosmo umano. Lo spazio è pertanto tutt’altro che chiuso e finito, anzi spesso nei suoi dipinti si aprono finestre che fanno intravedere un paesaggio lontano, come un’apertura verso l’infinito.

Nel frattempo Don Pedro conosce gli architetti Carlos Raul Villanueva e Felix Candela. Villanueva, con cui collabora alla realizzazione della Città Universitaria di Caracas, gli insegna la necessità di promuovere l’integrazione fra arte e architettura. A sua volta, Candela – il progettista degli umbrellas (paraboloidi) – lo invita a valorizzare gli elementi tradizionali dell’architettura dei diversi Paesi.

L’interesse per le diverse culture e in particolare per le civiltà precolombiane lo spinge a visitare il Messico. I materiali mitici qui raccolti gli serviranno in seguito nell’approntamento della sua opera più importante: Il Giardino di Pietra.

Passeranno, però, diversi anni, prima che Don Pedro possa utilizzarli. Solo nel 1981, quattro anni dopo il suo rientro in Italia, Don Pedro ottenne dall’Amministrazione comunale di Mola l’incarico di progettare e realizzare un giardino pubblico. Il suo obiettivo era palese: coniugare le tradizionali forme e tecniche costruttive presenti nel Mezzogiorno con gli stilemi dell’architettura dell’America centrale.

Il libro della Nardulli è incentrato proprio sulla sua ultima avventura architettonica. Il volume si articola in due parti: nella prima vengono individuate le motivazioni che hanno ispirato la sua opera; nella seconda, invece, vengono analizzate le tavole dei progetti rimasti incompiuti.

Benchè scelga di non relazionarsi con la sterminata letteratura sulla storia del giardino, la Nardulli avverte comunque l’esigenza di individuare la genealogia del giardino e le tappe fondamentali nella sua evoluzione.

Don Perdo – asserisce la Nardulli – «rifugge dall’idea di un giardino fortemente antropizzato». Il suo è un giardino di «pietra», un giardino che ricoprendosi di licheni diventa «oggetto vegetale vivente».

I quattro elementi empedoclei che stanno a fondamento dell’universo – aria, terra, acqua e fuoco – vengono rappresentati mediante figure geometriche (triangoli), che hanno una valenza simbolica. Trovano, infatti, il loro punto di ancoraggio nel Timeo di Platone.

Il Murale – l’opera più rilevante – è collocato nella parte sud del giardino ed è costellata dagli archetipi delle diverse religioni. Il suo sincretismo di stampo teosofico si dà giustapponendo alle immagini inerenti al Cristianesimo i simboli delle altre religioni. Il suo è un ecumenismo che mira a sensibilizzare i fruitori del giardino all’incontro con le altre religioni e con le altre culture. Il legame fra le diverse civiltà – egizia, mesopotamica, indù, maya, mixteca – viene esplicitato a livello simbolico, veicolando sulla parete un «filo blu di smalto».

L’immagine che più delle altre viene rappresentata sulle pareti del giardino è quella di Quetzalcoatl, il serpente alato. L’interesse di Don Pedro nei suoi confronti dipende probabilmente dal fatto che nella mitologia azteca Quetzalcoatl – il dio dei gemelli – appare, con la sua duplicità, come protagonista di alcune metamorfosi, che hanno una notevole inflessione alchemica. Sono proprio le sue metamorfosi, con il suo sacrificio, a consentirgli di mettere al mondo l’uomo.

Non è un caso che lo stesso Don Pedro nei suoi appunti affermi che «Sul piano simbolico Quetzalcoatl è l’uomo che non è più legato alla terra, dove ha strisciato come serpente … si alza verso il cielo, quale uccello, con la potenza del suo spirito con il coraggio del suo sacrificio».

La dimensione sacrificale presente nella parabola di Quetzalcoatl e, insieme, la sua apertura nei confronti dell’altro da sé viene colta acutamente dalla Nardulli quando afferma che Quetzalcoatl a livello simbolico non è solo un «portatore di civiltà (una sorta di Prometeo), ma anche il primo maestro spirituale», che aveva invitato gli uomini a «bruciare le radici dell’Ego».

Don Pedro legge il mito di Quetzalcoatl con le lenti del Cristianesimo. Il suo sacrificio e quello del Cristo hanno per lui la stessa valenza simbolica e diventano a loro volta comprensibili attraverso il grande vetro della teosofia. Il mito di Quetzalcoatl è un portatore di senso, rimanda all’esigenza di coniugare la trascendenza con l’immanenza

La scorsa estate, dopo aver letto il bel libro di Valeria Nardulli, ho visitato verso l’imbrunire il giardino di Don Pedro. La salsedine dardeggiata dal sole si era rappresa sulle piante e i fiori, curati dal custode Martino. Quest’ultimo ce la mette tutta per estirpare la gramigna che sta infestando il terreno e non può porre certo rimedio allo sgretolarsi delle pareti. Tutto ciò va a detrimento dei colori che stanno perdendo la loro originale brillantezza. Di fatto il lavoro della Nardulli doveva servire proprio per salvaguardare ciò che resta dell’opera di Don Pedro. Solo il tempo ci dirà se la sua fatica è stata vana. Chissà? Quando sono uscito, nel cielo stavano sbocciando le stelle d’Oriente!

Il Giardino di Don Pedro, sulla scorta dell’esegesi di Dante Alighieri, non è sbarrato; e soprattutto, non v’è alcuna traccia del Cherubino con la spada infuocata a sorvegliarlo; non è concepito come un passato perduto, né come un futuro a venire, bensì come simbolo di una comunità sempre attuale.

Buena Vista Social: la classe

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Questa nuova rubrica è dedicata alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. effeffe

Cosimo era morto in primavera

di

Rosella Postorino

Cosimo era morto in primavera, a quattordici anni. La morte non aveva fatto in tempo a riscattarlo dalle bravate commesse ma aveva riempito il suo nome di mitologia. Io avevo nove anni, facevo la quinta elementare, e in classe ero nuova. Ero nuova in paese, a dir la verità, e di Cosimo non sapevo nulla. Ma a settembre parlavano ancora tutti di lui, i compagni, la maestra, come se l’incidente in cui aveva perso la vita fosse appena accaduto. Il suo nome saltava fuori ogni giorno, durante una partita al campetto – Cosimo sì che ficcava la palla in porta – o se scoppiava un litigio tra quelli delle medie – Cosimo, se gli girava, poteva pure picchiare un compagno; e poi sputava, e bestemmiava.

Io mi sentivo a disagio quando gli altri raccontavano storie su Cosimo. Perché le storie di Cosimo avevano il potere di escludermi. Ma come, non ti ricordi quella volta che ha centrato col motorino il cancello della scuola? Ah già, tu non c’eri.

No, io non c’ero, ero in un’altra città, in un’altra regione, e la regione in cui sarei venuta ad abitare occupava due pagine appena del sussidiario, tanto che la mia maestra l’aveva saltata nel programma, una strisciolina di terra, non valeva la pena. Io quella primavera passavo i pomeriggi a pedalare in cortile, e ignoravo che dall’altra parte dell’Italia ci fosse un paese pronto ad accogliermi, e che in questo paese facesse a pugni un ragazzino di nome Cosimo, pronto a morire, senza saperlo. Sembrava ci fossimo dati il cambio, sembrava se ne fosse dovuto andare per fare spazio a me, che per giunta non sapevo giocare a calcio e nemmeno dicevo parolacce, non ero una sostituta memorabile. Si scordavano di me persino al campetto, quando qualcuno esordiva con una storia di Cosimo, e lui d’improvviso ricominciava a esistere, mentre io sparivo, soltanto perché non l’avevo conosciuto, e non potevo sorridere, fare un pettegolezzo. Non potevo annuire né replicare quando dicevano che Cosimo era un ragazzo cattivo, a bassa voce perché non arrivasse all’orecchio della maestra. Si poteva parlare così di un morto? Non lo difendevo, e diventavo colpevole.

Ero in colpa per la morte di Cosimo. Perché non gli avevo mai voluto bene e il suo corpo imprigionato dalle lamiere non mi commuoveva come una cosa vera. Mi sforzavo di figurarmi la sua morte, nel tentativo di spremere una lacrima per lui, ma era più facile figurarmi la sua vita, fingere che avesse fatto parte della mia, per sentirmi come gli altri, per non essere esclusa.

Era stato un evento, l’incidente di Cosimo. Il primo grande evento nell’infanzia dei miei compagni. Aveva tagliato in due la primavera dell’87, l’aveva resa epica. Io da quell’evento non ero stata colpita, ero arrivata troppo tardi.
La sera pensavo a Cosimo, e mi chiedevo come si sarebbe comportato se mi avesse incontrata. Forse lui non mi avrebbe fatta sparire, forse mi avrebbe trovata divertente, persino carina, mi avrebbe chiesto di aspettarlo seduta sulle scalette della scuola mentre scartava un avversario, di tenergli la felpa sulle ginocchia; alle sei del pomeriggio se la sarebbe infilata sopra la maglietta umida di sudore e saremmo andati via insieme, mano nella mano, sotto gli occhi di tutti.

Morendo era diventato uno straniero, Cosimo, proprio come me. Apparteneva a un altro mondo, e a me quel mondo non faceva paura. A letto la sera potevo parlare con lui, in fondo era come pregare, leggere una favola, giocare a facciamo che ero. Facciamo che ero amica di Cosimo, facciamo che gli dicevo tutto, facciamo che mi ascoltava, che mi credeva, facciamo che potevo anche barare, pur di farlo stare dalla mia parte. Facciamo che alla fine forse ci innamoravamo anche, Cosimo e io, facciamo che mi mettevo con uno delle medie, uno che dava a tutti del filo da torcere, uno che solo io sapevo come prendere.
A nove anni non è reale ciò che tocchi, è reale ciò che ti tocca. Cosimo era diventato questo, una cosa che mi toccava.

La mamma della maestra morì d’estate, avevamo già finito gli esami. Ci portarono al cimitero dopo il funerale, nessun genitore pensò che fosse troppo presto per noi. Dopo l’incidente di Cosimo, la morte aveva fatto il suo ingresso nell’immaginario dei bambini: spaventosa o no, ormai era libera di essere nominata. Era passato un anno esatto dal mio arrivo, e in quell’anno avevo imparato non solo a ridere delle storie di Cosimo, ma a raccontarle a mia volta. A furia di sentirle le conoscevo a memoria, e nessuno obiettava, ma che ne sai, tu? mica c’eri, anzi capitava che qualcuno dicesse, proprio a me, ti ricordi quella volta che Cosimo, e io assentivo convinta, davvero me la ricordavo. Erano stati gli altri a dimenticarsi di lui a poco a poco, finché pure io avevo smesso di parlargli la sera.

Non ero mai entrata nel cimitero del paese. Mia madre mi aveva ordinato di non allontanarmi, ma io non potei fare a meno di seguire i miei compagni, partiti in una disordinata marcia in mezzo alle tombe, tra spintoni e pizzicotti, calci nel sedere e strilli, una lunga ricreazione.

Quando si fermarono, uno addosso all’altro, all’inizio non capii. Fissavano immobili, in apnea, una foto sfocata. Dovetti leggere il nome per sapere che era lui. Non dissi nulla, qualcuno si fece il segno della croce, qualcun altro si grattò la testa, finché il primo non si mosse, tana libera tutti, e gli altri gli andarono dietro, riprendendo a parlare. Forse proprio di Cosimo, non so. Perché io rimasi lì, con la lapide.

Per la prima volta vedevo il suo viso. Avevo voglia di passare le dita sul vetro ovale della foto, presentarmi, ciao Cosimo, eccoci finalmente. Ma gli altri mi avrebbero vista, che cosa avrebbero pensato? Mia madre forse mi stava cercando, se mi avesse trovata lì, che avrebbe detto? I miei compagni mi chiamarono, presi la rincorsa per raggiungerli.

Ti sbrighi?, urlavano, e io pensavo che Cosimo non sorrideva, nella foto, aveva una specie di ghigno sbruffone, i capelli sulla fronte. Che facevi?, mi chiesero, e Cosimo portava un giubbotto sportivo, invernale, ma strizzava gli occhi come se ci fosse troppo sole. Mia madre aveva detto non allontanarti, e chissà se conosceva la madre di Cosimo, se le aveva mai parlato. Io avevo parlato con lui ogni sera e non l’avevo detto a nessuno, e adesso che l’avevo guardato in faccia ero scappata via, perché chiunque avrebbe pensato che ero pazza, che parlavo coi morti, pure i morti che non avevo conosciuto. Cosimo fu il mio primo tradimento.

Chissà se lo avrei mai rivisto, se sarei tornata al cimitero, se mi sarei pentita di non averlo ringraziato – di cosa poi? Avevo usato le sue storie per prendermi uno spazio, lo avevo trasformato nel personaggio di una storia tutta mia, e nemmeno mi sfiorava l’idea di avergli fatto un torto. Il naso, per esempio, il naso non me lo ricordavo già più, se solo l’avessi guardato un po’ più a lungo, magari sarei riuscita a tenere a mente la forma delle labbra, magari sarei riuscita a capire com’è lo sguardo di uno pronto a morire senza saperlo, di uno che moriva mentre io pedalavo in cortile, dall’altra parte dell’Italia, uno che non ha fatto in tempo a conoscermi e non saprà mai niente, niente di me, uno che non ho fatto in tempo a conoscere, eppure so tutto, proprio tutto di lui.

Non mi accorsi nemmeno di girarmi, tornare indietro, camminare fino alla lastra di marmo con il suo nome, le sue date, 1973-1987. Chissà se gli altri erano rimasti in silenzio a guardarmi, se erano stupiti: del resto ero una straniera, dovevano aspettarselo. Non mi importava più.

Mi piazzai di fronte alla sua faccia da bandito. Aveva narici piccole, Cosimo, il labbro superiore si gonfiava al centro. Gli occhi socchiusi sembravano posati su di me. Restammo così per qualche minuto, lui intrappolato dietro il vetro, io sempre più vicina, per spiare ogni centimetro del suo volto. E forse avete ragione, lo ammetto, non si indaga una lapide con tanta avidità, è irrispettoso se non si tratta di un morto tuo. E non ci si appropria delle storie che non ci appartengono, ma io non ho fatto altro, nella vita, non ho creduto che in questo. E non avevo il diritto di considerare amico uno che non mi aveva scelto, che non avrebbe potuto scegliermi mai, eppure niente era stato più naturale, più giusto, dei miei monologhi a Cosimo. Forse ero un po’ strana a nove anni, a dieci, a trentasei, o forse era solo troppo bello, Cosimo, per morire a quattordici anni. Forse, quando poggiai le labbra sulla foto, quando lo baciai, qualcuno la considerò una violazione, invece era il mio saluto a Cosimo. Commosso perché era l’ultimo, e anche il primo.

Racconto letto via Facebook ma pubblicato anni prima su Doppiozero qui 

L’immagine di copertina è di Luciano D’Alessandro, pubblicata sul numero 2 di Sud

Dublino dentro. L’Europa che non si vede

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[Lo scorso settembre è uscito “Dublino dentro. L’Europa che non si vede” di Luca Bozzoli, un reportage, parte della collana di Geopoetica di Prospero Editore, che racconta Dublino e la comunità senzatetto che la abita. Pubblico uno stralcio della prefazione di Andrea Segre e alcuni estratti del libro. ot]

di Luca Bozzoli

 

(dalla prefazione di Andrea Segre)

L’unico uomo capace di scalare una parete rocciosa di 500 metri senza protezione.
Gli ultimi aborigeni che non conoscono il telefono.
La donna con più figli al mondo.
La miniera dove lavorano e muoiono i bambini più poveri del mondo.
Dentro le barche dei più disperati, le barche della morte.

Eccezionale.
Stupefacente.
Unico.

Questo vuole il mercato del racconto documentario, del racconto del reale in questo mondo malato di spettacolo, malato di competizione. Lo spettatore deve poter essere risvegliato dal suo torpore quotidiano attraverso l’esperienza virtuale dell’eccezionale, dell’irraggiungibile. Dell’unico, nel senso di non ripetibile e soprattutto di non “inseribile” nella normalità.

In fondo ciò che i fornitori di spettacolo suggerisco-no al consumatore è di emozionarsi per qualcosa che altrimenti non potrebbe vedere e che di sicuro non ha nulla a che fare con la normalità della sua vita: un’unione perfetta di stupore e deresponsabilizzazione. Divertiti o prendi paura o piangi, ma soprattutto non preoccuparti, che tutto ciò che stai vedendo è molto diverso e tanto lontano da te.

È una regola del mercato quasi basilare: produci soddisfazione e non creare problemi.

E il mercato agisce ovunque, anche nei settori che ne sembrano nati come antidoto, anche nel cinema documentario o nella narrativa documentaria.

Il libro di Luca Bozzoli che avete in mano è un esempio di istintiva resistenza a questa tendenza. Non c’è un calcolo elitario di costruzione ideologica di un’alternativa al mercato, ma c’è l’istinto libero e diretto di una pratica che produce resistenza.

Il libro di Luca non è un racconto sulla vita degli ultimi di Dublino, come forse un marketing manager proverebbe a venderlo. Non è un surrogato di espe-rienza della povertà estrema o dell’incontro compassionevole con gli espulsi dall’economia turbo-liberista. Non è nemmeno una guida sulla vita di strada. Non è né spettacolo né implicito invito alla deresponsabilizzazione. E non è tutto ciò, ripeto, non perché ha scelto ideologicamente di non esserlo, ma perché questo libro è prima di tutto una pratica, una pratica spazio-temporale e una pratica corporea […].

 

(dal II capitolo)

Sono seduto alla banchina del tram: non aspetto nessun tram, né ho un’idea chiara riguardo a dove andrò, non mi sto riparando dalla pioggia, non sto aspettando un amico.

Sono seduto accanto a Carlow, Carlow è stato chiaro: «Prenditi un giorno intero quando vieni per incontrarmi, non c’è niente che si possa capire in poche ore, in due chiacchere». Mi sta accanto e comincia a parlare, di tanto in tanto allunga una mano chiedendomi il registratore vocale e la fotocamera, scatta foto e racconta cose che intorno a quella banchina ci sono sempre state; indica, nomina, e un mondo di relazioni tra cose, un mondo di storie, è immediatamente chiaro e scoperto, davanti agli occhi di oggi e davanti agli occhi di sempre.

Dublin Heuston è un posto diverso da come l’ho conosciuto per un anno intero, assomiglia sempre meno allo spazio vago a cui l’ho sempre associato: di ora in ora è come se diventasse più dettagliato e decifrabile: si rivela come luogo intessuto da costanti, sostenuto da un ritmo proprio.

Quattro piedi: i piedi di sempre, i piedi di oggi.

A Dublin Heuston ci sono persone che non vanno in nessun luogo. Un popolo immobile non abita la stazione come un luogo di transito verso un altro spazio, ma come un qui.

 

(dal III capitolo)

Stazione. Transito. Strada.

Un’infrastruttura sta nel mezzo, collega due strutture. La strada è uno spazio deputato a una funzione, coincide con essa: quando ce la immaginiamo in astratto è “la strada per”, “la strada da”.

A differenza delle strutture a cui dà accesso, la strada, spesso, non è chiusa, né privata. Non appartiene a qualcuno, non è coperta.

Non offre riparo e perciò non ha un uso indipendente dalla sua funzione di tramite.

 

La strada intorno sfugge dentro il cielo, senza proteggere, senza resistergli. A Dublino le pensiline sono un riparo mi-nimo dalla pioggia, e bisogna farsi piccoli per non bagnarsi, sperare che non tiri vento. A Dublino non ci sono portici: per ogni fermata con una pensilina, due constano invece di un cartello giallo, con sopra uno schermo a led, o sotto una bacheca girevole a tre facce, su cui leggere destinazioni: verso altrove.

Sono seduto al riparo di una pensilina da qualche ora, accanto a me c’è Doy, Doy legge. Il fatto che non mi muova, che non vada in nessun posto, non stia per salire su nessun tram, nessun autobus, insospettisce la sicurezza della stazione di cui ho incrociato gli sguardi già due o tre volte. Sono un corpo estraneo alla città perché non partecipo al movimento che la anima ed è come la tenesse insieme.

Dublino è un moto centripeto nelle ore diurne, frenetico e fitto, e un moto centrifugo, lento e scomposto, la notte.

Un polmone gigante che espleta la sua funzione fisiologica, caratterizzato da un respiro netto e inalterabile.

Visto da un posto lontano, il suo paesaggio, seppure can-giante, ha senz’altro una sua ragione d’insieme, una sua compattezza; è come se quel moto, preso tutto insieme, sapesse sostenersi da sé, ruotando.

(dal IV capitolo)

«Una casa e il Natale». Ho creduto fosse una risposta banale quella che mi ha dato Blackie quando gli ho chiesto cosa sognasse la notte, e non ha esitato un istante.

Ora che ci ripenso una casa è la prima cosa che ho fatto, la prima notte, con i rami di un cespuglio e il mio impermeabile.

Dentro una casa si può avere un Natale, si può intraprendere qualcosa di nuovo, addobbare una parete o un albero, sentirsi a proprio agio e protetti, rispecchiarsi in una struttura stabile.

 

Le case, gli uffici, i negozi appartengono a una o più persone. I parchi, le stazioni, la strada appartengono invece a delle comunità: in Irlanda alla comunità dei cittadini irlandesi, e sono a disposizione di chiunque ne sia parte o ne sia ospite, come turista, lavoratore con visto, residente con permesso di soggiorno, ecc.

L’incontro, in uno spazio aperto, conserva quasi intatta la sua componente di imprevedibilità: non è come l’incontro in uno spazio chiuso – una farmacia, una banca, un ristorante – dove spesso si incontrano persone impegnate in quello spazio, allo stesso modo o in modo complementare a noi che ugualmente ci troviamo in quello spazio.

Sebbene si tratti di luoghi aperti e disponibili, gli spazi pubblici sono intensamente controllati. Se il carattere pubblico, aperto, ovvero la disponibilità di un luogo, è un suo tratto peculiare, è vero, allo stesso tempo, che una serie di oggetti e norme ridiscute costantemente questo aspetto facendone, anche paradossalmente, luoghi aperti regolati e luoghi aperti controllati.

Se nel caso della stazione o del parco abbiamo a che fare con luoghi aperti ma che possono essere chiusi o recintati, a cui perciò si possono limitare gli accessi tramite la pianificazione di orari d’apertura, il caso della strada è unico. Non potendo ricorrere a limiti che la contengano, il controllo della strada passa attraverso l’uso di alcuni dispositivi che agiscono dal suo interno. In questo caso non si tratta di rendere inaccessibile uno spazio, ma di renderlo non-disponibile a un uso specifico, in particolare al suo uso non transitorio.

Quattro immagini riassumono, meglio di altre parole, quanto appena detto.

 

[Seguono esempi di dissuasori, braccioli divisori che impediscono di sdraiarsi sulle panchine e borchie disseminate su tratti di pavimentazione.]

 

 

Cesar guarda la città come una foresta. I vetri fitti che nascondono l’orizzonte come una fioritura precoce. Il cielo assente, scomparso.

Gli alberi sono come la folla di un marciapiede. Il suolo è scomparso come se il palmo di una mano si fosse rovesciato, indecifrabile.

Cesar guarda la città come un destino, la tiene forte fino a fidarsene, finché la sete e la fame di riposo non sono una certezza.

«Lascia che anche la pioggia non cambi il tuo cammino».

 

Cercare riparo in una città può sembrare simile a cercarlo in una foresta, su un monte, in una località dove ci si sia recati per campeggiare. Tuttavia, la città ha una sua dimensione specifica di cui tenere conto, i criteri orografici e idrografici possono essere di scarsissimo rilievo, ma altri criteri, legati ad esempio alla stima della propria reperibilità e del rischio a cui si espone il proprio corpo, diventano cruciali.

Ma cos’è un luogo protetto in uno spazio urbano?

 

Ho creduto fosse una risposta banale quella che mi diede Blackie quando gli chiesi cosa sognasse, «una casa e il Natale» mi rispose senza esitare un istante.

Ora che ci ripenso una casa è la prima cosa che ho fatto, con i rami di un cespuglio e il mio impermeabile.

Dentro una casa si può avere un Natale, si può intraprendere qualcosa di nuovo, addobbare una parete o un albero, sentirsi a proprio agio e protetti, rispecchiarsi in una struttura stabile.

 

Sguardi incrociati

3

 

 

di

Lisa Ginzburg

 

Nel 1956, dopo sette lunghi anni trascorsi lontana, a Londra, Doris Lessing torna in Africa. Torna in Rhodesia (attuale Zimbabwe) lì dove dopo un primo trasferimento dalla nativa Persia (attuale Iran) ha trascorso infanzia e prima giovinezza. Non sta tornando per desiderio, ma perché costretta; non osserva il paesaggio in una condizione di felicità, con occhio infine ricompensato, bensì abitata da una strana euforia impastata di delusione. Preda di simili sentimenti misti attraversa i paesaggi del deserto del Karroo, a lei ben noti. Going home: quel breve ritorno lo ha voluto la vita, non lei; lei lo subisce. Lei che infelice e convinta di ritornare per sempre (non sarà così) si prepara a riabitare quegli stessi luoghi che faranno da sfondo a tante pagine della sua autobiografia.

Come si scrive se si torna, o invece si parte, o invece se si viaggia, si è in transito? Quali traiettorie controverse e ambivalenti legano l’ispirazione letteraria a sentimenti di appartenenza o non appartenenza a un luogo?

Stato d’animo dominante può essere la stizza, una rabbia incollerita nei confronti di “casa propria” e più forte di qualsiasi incantamento. Litigare con le proprie radici: quanto di più facile. Al contrario, si può guardare e scrivere entusiasti, pervasi da una meraviglia di “neofiti” stranieri. Quando i luoghi non sono le nostre radici, eppure belli tanto da farci preda di un innamoramento per il lontano – ora vicino – che acuisce le percezioni rendendole dicibili (dove il contesto straniero fa da stimolo per impressioni che già il solo scrivere fa sentire “a casa”).

Le traiettorie si intersecano: rotte di sguardi di viaggiatori, di ritornanti, di autoesiliati, di stranieri per necessità o invece per libero volere e desiderio proprio. Diverse anche le prospettive generate: c’è la visione di chi ritorna, quella di chi va via, e c’è lo sguardo di chi arriva in visita – occhi questi ultimi ammaliati dal luogo estraneo, una terra cui non si appartiene realmente e che invece per misteriose ragioni viene scelta come la più importante, la più intima, un posto nuovo ma che inspiegabilmente è nostro – parrebbe –  da sempre.

La “patria dell’anima” che per Gogol è stata l’Italia, tanto per intenderci. Gogol che a Roma si entusiasma, lavora come un pazzo a Le anime morte; Gogol che tra i paesaggi italiani trova un se stesso del quale non aveva la più lontana idea. Gogol che in Italia si sente a casa come mai gli era accaduto in Russia. Non così diverso lo sguardo, questo anche straniero ed entusiasta, di Pavel Muratov, delle cui Immagini dell’Italia Adelphi pubblica il primo volume (a cura di Rita Giuliani, traduzioni di Alessandro Romano e Valentina Parisi, pp. 465). Cronaca di viaggio culturale, saggio di storia dell’arte, ode alla forza ispiratrice dello straniamento, esempio illuminante di quella particolare lucidità che è di una visuale di straniero il cui prisma ottico venga trasfigurato dall’arte.

Perché se uno scrittore osserva i luoghi considerandone non solo la bellezza, anche lo stimolo creativo che quegli stessi luoghi esercitano sul suo scrivere, l’occhio dello storico dell’arte partorisce invece un’altra forma di racconto. Le descrizioni di paesaggi e città italiani in Muratov prendono forma a partire dalle loro rappresentazioni in figura: dai quadri. Dove raffigurabilità è sinonimo di dicibilità: per essere stati magnificamente dipinti, ora quei paesaggi possono venire restituiti sulla pagina scritta con una prosa di meravigliose eleganza e bellezza. La grande passione per la laguna di Venezia arriva a Pavel Muratov da Giovanni Bellini, dal San Giorgio di Carpaccio, da Tintoretto, ed è utilizzando come bussola l’arte di questi pittori che lo studioso russo viaggia, esplora, rendiconta, infiamma il lettore di tutto quanto dell’Italia ha infiammato lui come visitatore. Tintoretto è “ultimo grande artista del Rinascimento italiano”, colui il cui sguardo appare a Muratov come il più limpido, simbolico di quanto lui come viaggiatore va scoprendo e amando. Il procedimento narrativo funziona per raffigurazioni successive, e ogni stile e maniera di dipingere si espande sino a includere (e narrare) il tempo storico in cui quelle tecniche sono maturate. La Venezia del Settecento dipinta da Pietro Longhi, in un’epoca in cui “la maschera è autorizzata e protetta dalla Repubblica” – ed ecco la Commedia dell’arte, ecco Tiepolo, Francesco Guardi, prima ancora la Toscana di Giotto che sarà poi l’altra, successiva, quella dipinta da Donatello e Masaccio. Oppure Padova, “dove si sta bene solo di sera dopo aver passato la giornata in compagnia di Giotto e Mantegna”.

Anni di studi e limpido osservare assumono così forma di memorie, e le immagini evocate si trasformano da tele in pietre miliari di ricordo: dietro la mirabile cronaca di quadri, di città, di paesaggi, sempre appostato c’è il Muratov autentico “spatriato”, che tutto annota e nel mentre scruta ogni particolare indaga se stesso. Perché ciascuna opera d’arte parla allo scrittore di qualcosa che va ben oltre quel che rappresenta; la raffigurazione si fa passaggio chiave di una profonda esperienza di spettatore/narratore. In un’osmosi tra sguardo e oggetto, fusionale come può essere per un artista di fronte a un materiale sublime, ecco il Rinascimento narrato da un rinascimentale, e l’Italia descritta da un aspirante italiano.

Al centro c’è la realtà, ben più dei suoi pittori, per quanto lo sguardo di Pavel Muratov sa moltiplicarsi fondendosi con gli occhi di grandi artisti del passato. Diffrazione indotta, senza che il risultato in termini di resa sia meno potente; l’entusiasmo del coltissimo ricercatore è contagioso, tanto quanto inaspettato ed enorme fu il successo di Immagini dell’Italia. Libro “culto” negli ambienti degli emigrati russi (nella postfazione Rita Giuliani dice della grande ammirazione che per Muratov nutriva Joseph Brodskij). Una lezione di sguardo, e di sguardi incrociati. La visione di uno studioso d’arte si interseca con quella dei pittori, il guardare di chi scopre e s’innamora di un paese nuovo quasi si sovrappone a quello di chi ritorna là dove si è svolto il passato. Punto medio di ciascuna traiettoria, la nostalgia. Un moto illogico quanto del tutto poetico: dove il rammarico di poter solo ipotizzare un tempo raffigurato dall’arte converge con la nostalgia di un passato amato e odiato – quando si torna “a casa”, anche se per poco, e mai si sarebbe voluti tornare.

La nostalgia: che orienta gli sguardi e ne legittima l’intersezione, creando un effetto strabico, come strabico è l’osservare sia di chi veda il mondo attraverso le lenti delle sue raffigurazioni, preda della passione per nuove radici auto-attribuite, sia di chi, impaziente di volgersi al futuro, torni a visitare paesaggi che pensava salutati per sempre. Prospettive distorte come distorce i ricordi il sentimento, eppure vigili: punti di vista attenti a cogliere dettagli, gli occhi lucidi per quella febbre del racconto di cui certi sguardi incrociati sanno far ammalare.

 

 

“È la storia di Sarah” di Pauline Delabroy-Allard

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Ana Hatherly, O encontro

 

Ana Hatherly, O encontro

 

di Ornella Tajani

La prima caratteristica dell’ossessione è la percezione al contempo ridottissima e aumentata del soggetto che la prova: in quel tempo parallelo, dissociato dalla realtà, che è il tempo dell’ossessione, non esiste altro che l’oggetto che ne innesca il meccanismo; il soggetto si eclissa dietro il suo astro abbagliante. Così accade nel primo tempo di È la storia di Sarah, romanzo d’esordio di Pauline Delabroy-Allard, arrivato dritto nella cinquina del Prix Goncourt 2018 e vincitore di vari premi, tradotto per Rizzoli da Camilla Diez.

Già dal titolo l’ossessione si rende manifesta: pur raccontando la passione fra due donne – la prima della vita per entrambe -, il romanzo è infatti la storia di Sarah, di Sarah innanzitutto, che irrompe nella vita della protagonista travolgendola, colmandola di un senso fin ad allora sconosciuto e costringendola a gestire il peso e la fatica di una presenza totalizzante.

Un mattino di marzo mi scrive che è nel quartiere del mio liceo, chiede se possiamo pranzare insieme. Non posso. Non ho abbastanza tempo, ho troppe cose da fare, se i miei colleghi mi vedessero sarebbe imbarazzante. Rispondo di sì.

Inizia in questo modo, l’ossessione, spingendo il soggetto al di fuori dei propri limiti, e al contempo paralizzandolo in un’attesa perenne: che l’altro si palesi, invada tutto lo spazio disponibile e lo occupi trionfante. Sarah è una violinista, così la narratrice – che resta senza nome per l’intero romanzo – si ritrova di colpo a rimpiangere di non aver studiato abbastanza quand’era al conservatorio; Sarah mangia gallette, beve birra e l’altra ordina sempre «lo stesso, esattamente lo stesso». La quotidianità si trasforma, si plasma d’improvviso sui dettami del desiderio dell’altra, costringendo l’esistenza nel raggio di luce riflessa che solo riesce a illuminarla. Poiché la presa sulla realtà si riduce, la cronaca tumultuosa della passione fra le due protagoniste, il racconto ben governato che la narratrice ne fa si aggrappa a pause di commento dal sapore enciclopedico, quasi delle ancore di salvezza: fra le descrizioni degli appuntamenti appaiono così degli incisi sulla composizione dello zolfo, che ha per simbolo la «s» di Sarah; sulla morfologia dell’hinterland parigino; dei dati storici su Campo San Bartolomeo a Venezia, dove loro si incontrano mentre stanno conducendo due viaggi indipendenti, scoprendo la meraviglia del vedersi per la prima volta fuori dai luoghi abituali; il tutto accompagnato da un continuo ricamo di citazioni musicali, poetiche, filmiche.

Se il romanzo attinge molto all’universo letterariamente ricchissimo dell’ossessione, va però detto che si tratta della storia di un amore ricambiato e sofferto da entrambi i personaggi. Nel secondo volume dei suoi diari, appena uscito per Nottetempo, Susan Sontag annota: «Amare = la sensazione di vivere in una forma più intensa. Come l’ossigeno puro (diverso dall’aria)»; e chi resta troppo a lungo in un ambiente di ossigeno puro, muore. Così, in questo romanzo, mentre i corpi «avanzano l’uno verso l’altro come calamite malefiche», la protagonista si ritrova spossessata di tutto ciò che aveva prima della comparsa in scena di Sarah:

In questa nuova vita accanto alla sua, ci sono treni e ci sono stazioni, ma non per me, mai. […] Ci sono aeroporti, aerei, orari di imbarco, orari di atterraggio, nastri dove recuperare il bagaglio; ci sono taxi, metro e cambi di metro. Non per me, però, mai.

Il tempo è colonizzato dalla presenza dell’altra, organizzato sulla base delle tournées del quartetto in cui Sarah suona, e si dilata nell’attesa fra una presenza e un’assenza, fra il pieno e il vuoto. La giostra diventa presto insostenibile, così come la volubilità di Sarah, la sua continua altalena fra l’entusiasmo, la vitalità irresistibile e la durezza, le accuse di privazione, le insofferenze. Arriva, necessaria, una separazione temporanea, una pausa nel rapporto che riesca a tagliare la purezza dell’ossigeno.

Marsiglia, Milano e soprattutto Trieste si alternano sullo sfondo, mentre la seconda parte del romanzo ruota intorno alla malattia di Sarah: elemento annunciato sin dall’incipit – dunque nulla si sta svelando a futuri lettori e lettrici -, sviluppato però in modo più confuso, a tratti posticcio. Nell’esilio che la narratrice s’impone – mentre con echi machbetiani si autorappresenta con le mani sporche di sangue -, la figura di Sarah è più che mai presente e si trasforma da ossessione in fantasma. Sconcerta, all’indomani della separazione dall’oggetto amato, che «la vita senza di lei [sia] comunque vita», e che la bellezza di un tramonto o dell’Adriatico scintillante perduri dopo la catastrofe, in tutta la sua inaccettabilità. La spirale che conduce al finale può ora cominciare.

È la storia di Sarah racconta un amore e una seconda, inattesa educazione sentimentale; la prosa trascinante, che almeno nella prima parte non subisce alcuna battuta d’arresto, riesce a descrivere con grande efficacia lo stupore estasiato di una nuova forma di desiderio scoperta a trent’anni, e gli abissi che questo spalanca.

Il merito dell’edizione italiana va tutto alla splendida traduzione di Camilla Diez, che ha saputo seguire il testo nell’impetuosità del discorso della passione così come nell’incedere volutamente esitante, rallentato del commento che diventa pausa, riflessione, controcanto, senza mai neutralizzare lo stile ora chirurgico del frammento, ora informale dei dialoghi, pieni della vivacità della conversazione quotidiana. Il demerito, invece, sta nell’aver messo in commercio un bel romanzo con una copertina improbabile, presumibilmente catchy, che strizza però l’occhio a una generica letteratura “femminile” e ricorda le copertine dei libri di Annie Ernaux per la stessa Rizzoli prima che L’Orma editore iniziasse a pubblicarne i titoli, laddove l’edizione francese è apparsa nella sobria veste grafica delle Éditions de Minuit.

 

Mots-clés__Montessori

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Montessori
di Francesco Forlani

Vasco Rossi, Asilo Republic -> qui

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Da L.-F. Céline, La bella rogna, trad. Giovanni  Raboni e Daniele Gorret, Milano, Guanda, 1982

Tutto deve riprendere dalla scuola, nulla si può fare senza scuola, fuori della scuola. Ordinare, vezzeggiare, far sbocciare una scuola felice, gradevole, allegra, fruttuosa all’anima infine, niente affatto cupa e rattrappente, costipante, incrinata, malefica.
[…] Da dove gli viene questo gusto-catastrofe? prima di tutto, soprattutto dalla scuola, dalla prima educazione, dal sabotaggio dell’entusiasmo, delle primitive gioie creatrici, con l’affettazione declamatoria, la tronfiezza moralistica.
La scuola dei riempimenti ripetizioni, delle imbottiture di mucchi secchi ci conduce al peggio, ci scredita per sempre davanti alla natura e alle onde… Mai più imprese di pedanterie! fabbriche per tarpare i cuori! per appiattire l’entusiasmo! per sconcertare la gioventù! per non lasciarne uscire che noccioli, piccoli grumosi rifiuti d’impagliatura, incartapecoriti uso laurea, che non posson più innamorarsi di nulla salvo che di gramole-segatrici-frantumatrici a 80.000 giri al minuto.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti; le immagini devono essere inferiori a 1 MB].

Deepfake

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di Marco Canneva

Una voce distante mi telefonò quella mattina in clinica per chiedermi di restarci fino al primo pomeriggio. Richiesta superflua, poiché io ci lavoravo in quel posto e ci stavo volentieri anche dodici ore al giorno. Continuò elencando stancamente le mie doti di medico che mi facevano, a detta sua, uno fra i migliori chirurghi del paese. Immaginai che parlasse per altri perché gli incensi lasciavano pensare a una rassegnazione che aveva me come oggetto, come se la voce si rivolgesse a qualcuno di morente o vissuto nel passato. Scacciai queste impressioni e mi accomodai nei cerimoniali. Mi piaceva infatti essere considerato solo un chirurgo. Forse perché da bambino pensavo che chi portasse un camice, o una qualsiasi uniforme, lo portasse ininterrottamente: che dormisse, amasse, facesse la spesa, persino la doccia, sempre indossandolo. Ho sempre creduto che fosse un buon contrappeso per l’anima.

Dopo pranzo raggiunsi la stanza che mi era stata indicata, al cui interno non c’era nessuno. Al centro una sedia sotto a un tavolo di legno su cui erano posati una videocassetta e una pesante cartella da cui spuntavano fogli sparsi, come fette di prosciutto da un panino. Appoggiato a una parete un mobiletto su cui stava un televisore, fra di essi un videoregistratore. Mi sedetti al tavolo, aprii a caso il faldone più o meno alla sua metà, e iniziai a leggere qualche riga: all’imperativo c’era scritto che al paziente occorreva un taglio d’occhi ben preciso; il colore di questi era invece solo un dettaglio perché le giuste lenti a contatto avrebbero sopperito alla differenza cromatica. Più sotto si sottolineava invece l’esigenza di un labbro inferiore carnoso e di gote asciutte, senza tracce di grasso. Di certo in altre pagine avrei trovato delle foto che mi avrebbero detto di più, ma all’improvviso mi scoprii annoiato, cosa non molto abituale in me. Uscii dalla stanza e feci due passi nel corridoio deserto fino al tavolino basso su cui era appoggiato il telefono di servizio. Vicino a questo un distributore automatico di bibite. Curiosai distratto al suo interno, poi notai la piccola finestra aperta sopra di esso, di cui non mi ero mai accorto. Oltre questa gli ultimi due piani di un palazzo. Oltre ancora, un cielo sporco, come se si trattasse di un vetro impolverato in qualche salotto o studio.

Ritornai lentamente nella stanza senza che il desiderio di studiare le carte si fosse fatto più vivo. Visionai allora il filmato. Si apriva con alcune scritte, avvertimenti legali che ignorai. Mandai avanti il nastro fino al volto di un uomo che parlava. Un uomo conosciuto, intendo conosciuto non solo da me, ma da molti, quasi tutti, un politico famoso. Nella prima sequenza il suo labbro scimmiesco oscillava con aria enfatica su un microfono. In un’altra, seduto su una poltrona, dialogava, più rilassato, con un presentatore televisivo. Mandai ancora avanti fino a trovarlo con aria decisa, a monologare, scarno, davanti a un parlamento silenzioso, quasi intimorito. Spensi il televisore. A quel punto mi accomodai sulla sedia, aprii il faldone e lo lessi dall’inizio.

Dopo un po’ che leggevo avvertii dei passi di più persone nel corridoio, il cui rumore crebbe fino ad arrestarsi. Poi la porta davanti a me si aprì ed entrò un uomo non molto alto, col viso increspato dall’insonnia e seminato da una barba irregolare. Portava la mano sinistra nella tasca dei pantaloni, ma nulla faceva pensare a un gesto disinvolto quanto al goffo tentativo di proteggere qualcosa. Mentre i passi fuori si allontanavano, l’uomo mi salutò. Pensai fissandolo: si assomigliano molto, chi lo ha scovato è stato bravo. Pensai: adesso lo saluto, ancora un attimo. Poi pensai con sollievo che era troppo tardi per farlo e che di grasso sulle guance non ce n’era, e che era una cosa in meno di cui preoccuparsi. Il labbro era invece troppo sottile, ma non importava perché il collagene che avrei iniettato l’avrebbe trasformato in una piccola salsiccia. Poi disse di chiamarsi Amadeo, ma a me interessava solo quanta carne avrei dovuto tagliare e cucire. Lui se ne accorse e i suoi occhi si abbassarono, lontani sulla tasca sinistra all’interno della quale intuivo il muoversi nervoso delle dita. Persi altra umanità quando mi alzai dalla sedia, mi avvicinai e feci due passi intorno a lui per analizzare profilo e nuca, le spalle ossute e le scapole distanti su cui era appesa una maglietta grigia. Nonostante le carte non lo richiedessero, forse per eccesso di zelo, mi soffermai sullo scheletro ben definito e lo immaginai come pasta molle da modellare. Poi, forse fraintendendo la mia indagine a tergo, si sentì in dovere di assicurarmi che non gli era stata fatta violenza, non molta. A quel punto volli indagare l’immobilità del braccio sinistro, ma non appena lo toccai l’improvviso sospiro, feroce e trattenuto di Amadeo mi fece desistere. Tornai allora sul suo viso, sugli occhi che mi facevano preoccupare: intendiamoci: né ernie di grasso né palpebre ipertrofiche lo differenziavano dall’originale, dal politico, l’anatomia era pressappoco identica. Ma il groviglio di muscoli che circondava il bulbo aveva una mobilità unica che di certo affondava nel carattere di Amadeo.

Conoscevo la chirurgia necessaria in questi casi, sapevo che portava a una cicatrizzazione lunga, ignoravo invece il tempo che avevo a disposizione. Andai al tavolo e sfogliai il faldone in cerca di tempistiche e, in loro assenza, di un contatto, magari un numero telefonico. Quando ormai fui certo che non ci fosse nulla che potesse servirmi, il telefono nel corridoio squillò. Mi sentii in dovere di rispondere: lasciai la stanza con al centro Amadeo, dritto nella sua posizione contorta. Raggiunsi spedito la cornetta per poi stupirmi di trovarci dall’altro capo la voce distante. Mi aveva anticipato come se mi avesse seguito attraverso i muri o attraverso il cielo tinto di un blu innaturale, che ora stavo un’altra volta guardando attraverso la finestra.

Chiesi e la voce mi intimò di fare presto perché c’era poco tempo. Quanto tempo, chiesi. Dapprima fu riluttante, poi, come se poco importasse se sapessi o non sapessi, mi disse di più. Scoprii che entro un mese il tipo della videocassetta, il politico, avrebbe dovuto tenere un discorso a reti unificate. Un messaggio che i suoi oppositori e i suoi compagni di partito non si aspettavano. O che invece attendevano, ma evitavano di parlarne con un pudore venato di paura e di fede. Aggiunse però che alcuni di loro si erano spogliati della fede, non della paura, come di una maglietta sporca, e reclamavano segretamente più candore. La voce aggiunse che, al suo posto, Amadeo avrebbe dovuto recitare altre parole davanti alle telecamere, e che no, non conosceva il testo, il copione, e che non gli interessava, ma di certo sarebbe stato un discorso solido perché non era il tempo di idee e di princìpi. Poi mi uscì una sciocchezza: cosa ne pensasse il politico di tutto questo. Al mio orecchio, prima che la voce riagganciasse, giunse un qualcosa fra il silenzio e un verso soffocato da una lastra di plexiglas.

Nello stesso momento in cui posai la cornetta, avvertii un respiro sopra la mia spalla sinistra. Mi voltai e Amadeo era lì, non so da quanto tempo, con un sorriso abbozzato. Nella mano destra, la sola libera, aveva due monete che infilò nella fessura del distributore causando l’uscita di un paio di lattine di cola. Le aprì entrambe e una me la porse. Pensai che un paziente non avrebbe dovuto offrire da bere al suo chirurgo, che sono cose che si fanno solo fra esistenze che scalpitano per diffondersi. Dopo mi chiese se mi sentivo utile. Tirai giù un sorso di cola e orrendamente risposi che tutti serviamo a qualcosa. Fece finta di niente e volle sapere del mio lavoro. Da quanto tempo operavo. Che ne facevo della carne in eccesso. Su cosa stessi lavorando in quel periodo. Gli raccontai che stavo mettendo giù qualcosa di sperimentale che agiva sul profondo, dalla pelle al sistema nervoso, da fuori per il dentro. Amadeo sorrise. Un procedimento, continuai, che modificava il volto per cambiare i pensieri del paziente, anche il suo carattere, anche la personalità, la persona. Sciorinai dati e risultati e di tanto in tanto Amadeo mi diceva distratto: è molto bravo in quello che fa. E io continuavo, anche se la conversazione iniziava a languire, cercando di allontanare quell’attimo che chiamiamo “senza speranze”. Arrivò comunque e ci ritrovammo entrambi, silenziosi, a osservare attraverso la finestra l’imbrunire. Poi Amadeo disse che finalmente non c’era più nessuno dall’altra parte, e continuava a guardare in alto. Gli chiesi cosa intendesse. Credo che fra qualche anno, disse, non ci sarà più bisogno di noi. Qualcuno, o qualcosa per quel qualcuno, osserverà la persona che non gli piace, che dice cose che non vanno bene. Magari attraverso uno schermo, come quello della televisione, magari attraverso il cielo, come adesso. E un attimo dopo, grazie a qualche magia o a calcolatori che ora ignoriamo, il politico, il giornalista o il magistrato, il non gradito insomma, dirà cose che non avrebbe mai affermato. Non potrà farci nulla, come preso da altre volontà. Arrivati a quel punto…

Poi Amadeo si interruppe e perse il tono sognante. Neanche per un attimo pensai che fosse pazzo tanto che rimasi lì, fermo, aspettando che continuasse. Ma lei è un bravo chirurgo, riprese portando lo sguardo sulla mia figura, quando quel momento arriverà qualcosa troverà di certo da fare. Anch’io mi osservai, posai gli occhi sul mio camice e provai una leggerezza torbida. Gli chiesi allora che ne sarebbe stato di lui. Sarò sempre io anche con un’altra faccia, rispose quasi di buon’umore. Poi tirò finalmente fuori dalla tasca la mano sinistra e l’aprì. E ogni secondo che mi separa da quel momento, continuò con lo sguardo sull’orecchino a goccia d’ambra posato al centro del palmo, è un secondo in più per un’altra persona.

Foto di Joshua_Willson da Pixabay

El siglo de oro

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di Gabriele Galloni

Osservo mio padre che guarda un film al computer. Un musical. Ogni tanto alza gli occhi verso di me; sorride a disagio. Domani io e lui partiremo per le vacanze pasquali. Un viaggio che avrei volentieri evitato; ma la morte di una madre comporta anche degli oneri. Tra questi, di solito, il riavvicinamento forzato con il genitore rimasto. E così.

 

 

Mio padre ha quarantadue anni. Devo spezzare una lancia in suo favore e dire che ne dimostra venti di meno. Mi schernisce spesso, per questo: io ho la cosiddetta panza e rispetto a lui sono cupo e basso. Basso anche per la media di questo paese – quindi basso davvero. Mio padre si allena molto; ultimamente ci alleniamo insieme. Mi dice che a vent’anni, la mia età, sollevava settanta chili su panca piana. Io ne faccio a malapena trenta. Mio padre afferma che la bassezza non è uno svantaggio per un sollevatore di pesi: tutt’altro. Più sei basso, più hai possibilità di mettere massa muscolare in breve tempo. “Però quella panza…”

 

 

Il musical finisce, sfuma in una canzonaccia volgare cantata in coro da tutti i personaggi. Mio padre chiude il pc, si alza e va di là in cucina. Mi chiamerà a cena pronta. Nel frattempo finisco di fare la valigia e, come da tradizione, in mezzo alle canottiere (almeno dodici: sudo molto) nascondo un coltellino svizzero. Non sia mai che nel sonno mio padre decida di umiliarmi e fottermi alla sua maniera giovanile. Mai capitato; ma la prudenza non è troppa mai – come posso fidarmi di una persona che mi ha eiaculato per scherzo dentro un bucaccio umido?

 

 

Andremo a Roma e ci resteremo per cinque giorni; i cinque giorni più lunghi della mia vita, li immagino; o quantomeno i più alienanti. Io e mio padre non abbiamo granché da dirci. Sono io che lo ascolto per la maggior parte del tempo. Quando mi parla delle proteine in polvere e quando mi racconta di mia madre da giovane. Mio padre è un nostalgico vero, checché possiate pensarne voi che lo conoscete appena. Lo so: il suo vitalismo, la sua energia. Ma fidatevi quando vi dico che mio padre è un piagnone; spesso si allena in lacrime, non riesce proprio a trattenerle. E non piange soltanto per mia madre. Tanti e vari i motivi del suo pianto.

 

 

A Roma non ci sono mai stato. Uno scrittore l’ha definita uguale a Los Angeles ma con le rovine. Paradossalmente sono stato a Los Angeles; ero molto piccolo e ricordo solo una grande luce.  Mia madre era fissata con l’America, le varie routesixtysix, le strade infinite, la polvere che si alza al passaggio di una macchina, cascame trito e ritrito da donna cresciuta negli anni ’80. Mio padre dice che Roma dovrebbe piacermi. Io non ne vedo i motivi, i presupposti. Non posso ascoltare il piagnone ottimista durante i pasti. Mi chiudo, letteralmente; curvo le spalle più di quanto non lo siano già e mangio in silenzio. Non penso a nulla, semplicemente smetto di ascoltare mio padre; che pure continua a straparlare.

 

 

Partiamo di mattina presto, nonostante le mie rimostranze. Mio padre mi dà del ragazzino e io non posso dargli completamente torto, perché durante il viaggio mi guardo spesso nello specchietto laterale e il mio viso è quello; quello di un bambino, per l’appunto. Una specie di gigantesco neonato con le guanciotte macchiate dall’acne (ma neanche troppo).

Per rendere il viaggio più snervante, mio padre si ferma a ogni autogrill che incontriamo. All’ottavo compra una compilation di successi anni settanta. Tre dischi; tutta la gloria di quello che mio padre descrive come el siglo de oro del Novecento.

“Sai cosa è successo negli anni ’70?” mi domanda.

“Sono successe tante cose negli anni ’70,” rispondo.

“Dimmene una.”

“L’omicidio di Kennedy,” butto lì distratto.

“Acqua, oceano. Kennedy è stato ucciso nel ’63. Hai altre due possibilità.”

“Il golpe di Pinochet.”

“Bravo. Poi?”

“Moravia che pubblica il suo capolavoro, La vita interiore.”

“Non conosco. Ancora: vai.”

“I Residents pubblicano…”

“Basta con le tue nozioni culturali. Avvenimenti storici; concreti; che riguardino l’umanità.”

Rifletto.

“Negli anni ’70 sono nato io,” conclude mio padre.

 

 

A Roma fa caldo e si sta male.

Alloggiamo in periferia, in un quartiere chiamato Casetta Mattei e che sembra l’appendice stronza di una cittadina marittima. L’hotel dispone di una piscina coperta; per prima cosa andiamo lì. Nello spogliatoio mio padre passa in rassegna davanti allo specchio le pose da culturista che conosce. Mio malgrado ho una erezione di cui forse mio padre si accorge, perché tutto a un tratto smette di posare e mi dice laconico andiamo. Non avrei dovuto indossare lo slip attillato. Mio padre mi chiama coscine di pollo.

Mio padre nuota; io rimango nella parte dove l’acqua è bassa. Faccio qualche capriola, qualche verticale. Per fortuna non ho gli occhialetti: in questo modo, se sono sott’acqua, mio padre è soltanto una macchia sfocata che si avvicina e si allontana. È come tenere gli occhi chiusi quando un pensiero imbarazzante ti visita.

 

 

 

 

 

 

Furono nomi di carne. Arruina, di Francesco Iannone

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Caro Francesco,

avevo promesso di accompagnare l’estratto da Arruina con una piccola nota. Ti mando, invece, questa lettera. Ho agito così perché temevo che la tua vicenda potesse uscirne fuori sciancata; che i nomi si occordassero con un gesso già duro. Invece un nome deve essere, come nella favola che narri, quella mezzanotte abbastanza luminosa da battere il discorso della lampada, che è discorso dominante, impero della letteratura contro le vere possibilità del libro.

Qualcuno ha scritto che basta un nonnulla (o meglio: un “sovrappiù”) per slogare la gretta andatura del presente; pochi sono però i testi che lo fanno con il prodigio della trasparenza, dicendo apertamente: «ecco, tutto ricomincia dal retro del foglio. L’altroieri è un gigantesco pagliaio, ma il nostro discorso non ha più timore d’indebitarsi con la miccia.» Arruina mi parla in questa maniera.

A chi prende la via della favola (ovverosia la via della «figura») sarebbe bene ricordare che “il giglio profuma la rosa”. Arruina evade ogni altra premessa, se non quella già formulata da Maria Zambrano:

«Cè una speranza, infatti, che non spera nulla, che si alimenta della propria incertezza: la speranza creatrice.»

Finisco qui. Ci vuole un lungo tirocinio per insegnare che le ossa possono essere anche pettini: questa l’incantagione, e l’unica economia nel viaggio verso Roccagloriosa.

Ti abbraccio,

Giorgiomaria

 

A seguire, un estratto da Arruina, per gentile concessione dell’editore.

 

La Briganta

Questo chiede la Briganta al mondo: che ogni corpo ritorni, perché ogni corpo è la casa della madre. Date alle madri il corpo come dareste un pezzo di terra ad un contadino disperato. Lo sanno tutti. Da quella volta che in piazzetta tre monelli le fecero capitombolare un teschio davanti agli occhi. Un teschio bianchissimo. Un enorme fiocco di neve. Un teschio che fu un nome. Un nome pronunciato, un nome mantenuto sulla bocca da qualcuno, una volta era, il nome suo, l’elemento attaccato alla radice, una volta era. Lo raccolse. Scacciò i bambini urlandogli contro cose. I bambini cattivi col nero sui denti. I bambini zoppi che raschiano i muri con le loro voci forti. «Chi sei?» la Briganta chiese al teschio. «Chi sei?» e così dicendo pianse. Nessun nome ruppe l’incantesimo. «Ti chiamerò ’o figlio. Per te e per tutti ij te so’ mamma. E tu si’ ’o figlio mio bello.» E quando passava per la piazza le donne le dedicavano un inchino, le scuotevano la polvere sulle spalle: «La Briganta porta la luce ’ngoppa a la terra, la Briganta stuta la morte cu li vase».

Poi passarono le notti. Molto lunghe erano le notti. E tutti i turbamenti per le vite tristi, erano i suoi turbamenti. E tutte le gioie per le vite allegre, erano le sue gioie. Se c’è un compito, la Briganta non lo sa e per questo si agita nel sonno, scaccia i diavoli addormentati sul suo petto. Lo disse una mattina in cucina stringendo l’orlo della veste nelle mani: erano sei. «Li ho visti. Sei giovanissimi dai colli lunghi con vistosi tagli sulla faccia. Parlavano lingue sconosciute. Muovevano le braccia come onde. I loro corpi nudi contro la prima luce dell’alba.» «Sono triste» ripeteva la Briganta. «Sono a pezzi. Questa solitudine ci rende monchi, ci piega le ginocchia, ci sbocconcella con la ferocia di una bestia, ci morde i fianchi e fa brandelli di me, di te, di tutti.»

«Devi credermi» ti dico mentre camminiamo verso la Briganta. «Per di qua, per dove soffia il vento, lungo il sentiero disegnato dalle foglie. La Briganta ci condurrà dalla Sperduta. Lei sa tutto. Vedremo i petali volarle via dai palmi e formare nell’aria mulinelli azzurri.»

La Briganta ci guarda, lei sa dove andare, non dobbiamo preoccuparci. C’è un odore di zinco terribile, la Briganta sistema le casette una accanto all’altra. Estrae un arto addossando la terra ad un masso. Lo bacia e poi intinge la pezzolina nella tinozza per pulirlo prima di adagiarlo nella cassetta di zinco. Allargando la fossa ne scopre di nuovi: una gamba un piede una mano con due dita monche due crani vicini dietro la colonna vertebrale una medaglietta annerita che non si legge più. Si sente un rumore di bianco che urta se stesso. La Briganta dispone le ossa con la premura del dio che sistema gli astri nel cielo.

«Sono i miei figli» dice rivolta a noi o a nessuno. «Furono nomi di carne. Furono i trionfi delle madri. Ed ora hanno perduto la calimma dei corpi, il tiepido fluire dei globuli nel sangue, hanno perduto anima e ammuina. Resta solo la fissa collocazione degli scheletri costretti nell’angustia delle cassette. Li terrò con me» dice la Briganta, «saranno gli animaletti che si posano sulla fronte ampia di un orco. Oppure saranno la polvere soffiata nella piaga. Perché ho una piaga qui, al centro, fra una grinza e l’altra del cuore. E nella piaga alluccano le madonne dei santi uomini ripiegati nella zolla, anneriti sopra l’orma umida dei loro passi. Faccio la mia preghiera, intono così la mia ultima giaculatoria di dolore» dice la Briganta e si strappa una ciocca di capelli, poi apre le mani sulla terra. E piange e ne escono oscuri slittamenti sillabici. Si gonfia la vela sulla sua testa, è la sua capellera alata, è la sua ombra di fata che si propaga nel buio. «Anema dei muorti accisi e iettati nella fossa» dice sommessamente. «Arruina cresce come il segno rosso del muorzo di una vampira. Morte ingannaruta come la sete dei serpienti di montagna.»

Comunisti dandy: le retour

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Portrait of Italian politician Antonio Gramsci (1891-1937). (Photo by Stefano Bianchetti/Corbis via Getty Images)
Portrait of Italian politician Antonio Gramsci (1891-1937). (Photo by Stefano Bianchetti/Corbis via Getty Images)

 

Moda uomo, “classica”come la vanità maschile

Nell’inserto che La Provincia di Como ha dedicato alle recenti sfilate della moda uomo per l’autunno-inverno 2020-2021, l’intervista (versione integrale) al Furlèn a cura di Vera Fisogni.

La “vanitas” è sempre più evocata nelle cronache della moda maschile. Quali coordinate le appartengono?

Mi piace la vanità quasi come elogio dell’effimero, proprio come facevano i grandi maestri con le nature morte, che poi l’occhio attento sa essere per lo più dei falsi d’autore, come ho appreso da una delle guide del magnifico museo mediceo di Poggio a Caiano. Vi si rappresentavano infatti fiori di stagionatura diversa e dunque in un’impossibile convivenza temporale. Della vanità della moda come rivolta alla morte vi sono splendidi ragionamenti a riguardo, da Leopardi, Baudelaire fino al magnifico saggio di Gillo Dorfles, Mode e Modi del 79. E come nell’invenzione delle Nature Morte allo stesso modo certe avanguardie dello stile, diremmo Underground, penso a un nome su tutti, Vivienne Westwood, propongono in termini di tessuti e forme, vere e proprie composizioni in canti e controcanti, polifonie per dirlo alla Bachtin, ovvero voci, urlate o sussurrate contro l’ordine stabilito che è la vera morte, se ci pensa. L’altra vanità, quella narcisa e kitsch non m’interessa per quanto sia sempre di moda.

Dandy è un termine che lei ben conosce e ha fatto anche la fortuna di un suo saggio (Manifesto del comunista dandy). Chi è oggi, il dandy autentico?

Una parola misteriosa come Tango, Dada, Jazz, precisa e vaga. Diciamo che nella vestitura militare di guerra di posizione nel mondo, i Dandy sono coloro che indossano divise e mai uniformi. È il trionfo della bellezza del “non so che”, dell’avere stile senza determinarne la natura precisa. È sicuramente un marchio e mai una marca. Abitiamo i nostri capi disobbedendo agli ordini.

Quanto conta la moda nella sua vita?

Credo che pensiero e cura siano strettamente legati e che l’esercizio del pensiero si faccia anche attraverso l’attenzione all’apparenza. È una questione politica fondamentale. Quando il romanziere americano Vonnegut descrive nel suo immenso Mattatoio n°5, i prigionieri inglesi che ottemperavano a tutti i doveri dell’apparenza, barba fatta, esercizi fisici ogni mattina, distanti anni luce dalla trascuratezza dei militari americani, ci vuole dire che il primo atto di resistenza alla morte è non rinunciare ai rituali della vita. Ricordo di aver seguito a un certo punto le tappe di un importante festival jazz che per cinque settimane si svolgeva lungo tutta la cintura parigina, Banlieues Bleues. Grandissimi jazzisti di tutto il mondo. Da Michel Petrucciani a Miles Davis, da Nina Simone a Chuck Berry, Art Blakey per citarne alcuni. Bene , molti di loro animavano nei quartieri caldi degli atelier per giovani e quando le cités vedevano sbarcare dei black con giacca e cravatta, scarpe lucide, si potrà immaginare l’effetto che aveva, sull’equazione, quartieri poveri trasandatezza, assolutamente infondata. Del resto qui a Parigi le migliori scarpe inglesi le trovi in un quartiere popolare come quello della Gare du Nord.

Cosa sente più congeniale dell’idea di eleganza francese e cosa di quella italiana?

Un trentennio interrotto da un periodo di esilio a Torino che mi ha permesso di capire meglio certe differenze tra noi e loro. Direi che la Polifonia si realizzi quasi naturalmente a Parigi, un Underground che è vera e propria aristocrazia dello sguardo, con una componente italiana davvero importante. Potremmo dire che il Made in Italy una volta nel paesaggio francese acquisti un senso nuovo, grazie del resto ai tantissimi giovani stilisti italiani che sono venuti in Francia come del resto fece il nostro Leonardo da Vinci, anche lui creatore di moda, per quanto già sessantenne alla corte di François Ier.

Su quali accessori punta?

Per affrontare il senso della vita bisogna avere scarpe, cravatta e cappello giusti. E le faccio un’anticipazione, vedrà che la bombetta esploderà di nuovo nelle strade occidentali, con tutte le sue varianti da Charlot, Totò fino ad Arancia Meccanica e quella sensuale da una delle protagoniste dell’Insostenibile leggerezza dell’Essere di Milan Kundera.

Barba e baffi sono tornati a imporsi, nelle ultime stagioni della moda uomo. Che interpretazione dare di un trend così in apparenza solo “modaiolo”?

A proposito di quanto dicevamo all’inizio della nostra conversazione, il Dandy è agli antipodi dell’Hipster, divisa e non uniforme, La barba e i capelli modellati, dominati dalle linee sono la negazione della dimensione selvaggia. È il trionfo del giardino all’italiana e alla francese, della legge del giorno mentre il dandy asseconda lo spirito irrazionale e romantico dei giardini all’inglese e della notte. Ci vuole molta più cura nel dialogo con il caos di quanto non ne occorra per l’asservimento all’ordine.

Conversazioni con Italo Testa su poesia & città

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Conversazioni a cura di Stefano Modeo

con Italo Testa

Su Poesia&Città (pubblicata su “Atelier” n.96 di dicembre)

 

 

S.M.: La città è il luogo in cui si muove il poeta. Nel corso del secolo scorso la letteratura ci ha mostrato le diverse trasformazioni del rapporto individuo-città. Basti pensare alla città-ciminiera a cavallo tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, quella elettrificata dal progresso e dalla velocità dei futuristi, e poi ancora la città-mercato, luogo eletto al consumo, la città della società di massa che diventa un deserto, vuota e sorda nei confronti del singolo; sino ai giorni nostri in cui probabilmente è il luogo del turismo mercificato, del decoro, la vetrina in cui la città intera si fa business.

Todesfuge

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di Paul Celan da Papavero e Memoria

TODESFUGE

SCHWARZE Milch der Frühe wir trinken sie abends
wir trinken sie mittags und morgens wir trinken sie nachts
wir trinken und trinken
wir schaufeln ein Grab in den Lüften da liegt man nicht eng
Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den Schlangen der schreibt
der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland
dein goldenes Haar Margarete
er schreibt es und tritt vor das Haus und es blitzen die Sterne
er pfeift seine Rüden herbei
er pfeift seine Juden hervor läßt schaufeln ein Grab in der Erde
er befiehlt uns spielt auf nun zum Tanz