Zhao ed io siamo scappati dai lacrimogeni tirati su Des Voeux Road. Era la prima volta per entrambi. Un manifestante mi ha visto mentre mi sciacquavo gli occhi in un bagno pubblico e mi ha dato del tè freddo. Usa questo, mi ha detto. E’ meglio dell’acqua. Aveva ragione. Mi ha lasciato la bottiglia ed è andato ad affrontare la polizia. Avrà pensato che sono un pivello. Prima correvamo con gli altri, ora la situazione è più tranquilla e stiamo camminando. I poliziotti avanzano poco a poco, a strappi. Tirano i lacrimogeni per disperdere i manifestanti, poi caricano. Picchiano e arrestano quelli che resistono. I manifestanti si muovono in tutte le direzioni: alcuni vanno ad affrontare i poliziotti, o portano ombrelli, caschi, bevande, materiali per il primo soccorso; altri si ritirano, come Zhao ed io, verso il centro di Hong Kong.
Come stai, chiedo a Zhao. Sta bene. Solo arrabbiata.
Andiamo a Chater Garden, dico. Lì la manifestazione è autorizzata e forse ci lasceranno in pace.
Zhao è d’accordo. L’ho dovuta portare via dalle barricate quasi a forza. D’altronde, questa è la sua battaglia molto più della mia.
Un manifesto appeso durante la marcia del 29 settembre per protestare contro la graduale assimilazione di Hong Kong al sistema del resto della Cina
Il ragazzo era in una strada della sterminata periferia di Pechino, indistinguibile da migliaia di altre. La contornano palazzoni lunghi e stretti, di cemento scolorito, anche questi tutti uguali per un occhio distratto. Il ragazzo camminava svelto e contava a ogni palazzo che si lasciava alle spalle da quando aveva imboccato la via, cinque, sei, sette… Arrivato al nono si fermò e si mise a guardare. Non si era mai spinto fino a lì, così lontano dal campus dell’Università di Pechino, e la vista di quell’edificio anonimo e sgradevole, insieme a tutti gli avvenimenti degli ultimi giorni, gli lasciò un senso di angoscia. Un vecchio usciva in quel momento dal portone. Il ragazzo ebbe un ultimo istante di indecisione, dovuto più al pudore che alla mancanza di coraggio, poi si affrettò a reggere la porta, per evitare che si chiudesse dietro le spalle del vecchio, ed entrò.
Già conosceva il piano, così prese a salire le scale senza nemmeno guardarsi intorno. Gli ascensori bastavano a terrorizzarlo, claustrofobico com’era; si chiese quanto avrebbe resistito nel vivere l’incubo di una piccola cella. Ricominciò a contare: uno, due… Era stato un altro studente dell’Università di Pechino a sussurrargli l’indirizzo. Gliene era grato: nel clima di quei giorni persino un’informazione innocente come quella poteva costare caro. Una traccia esile come il fumo di una sigaretta, ma era la sua unica speranza di capire. Tre, quattro, cinque… Una delle tante domande a cui cercava una risposta, ammesso che ci fosse, era perché non l’avessero ancora preso. Aveva marciato con gli altri nel campus, era andato con loro a lavorare nelle fabbriche, in supporto di quegli operai diffidenti e gelosi, aveva provato senza troppa convinzione a parlargli di Marx, quello vero oltre le balle che gli avevano propinato a scuola, quello che il Partito aveva tradito. Sei, Sette…
Il fato aveva stabilito che si trovasse a Vancouver quando erano entrati nell’università a prenderli tutti. Era stata la sua salvezza, ma anche la sua ignominia, non essere lì: lì a lottare a fianco dei suoi compagni, a lottare per lei… otto, sbuffò ormai senza fiato, ma non si fermò. Aveva letto la notizia sul New York Times, di nascosto per non farsi vedere dagli altri studenti che erano stati invitati come lui a Vancouver per quella conferenza inutile. Non si era permesso di sperare allora, non se lo doveva permettere adesso – la sola cosa che voleva era capire.
Quando era tornato al campus e non aveva trovato nessuno dei suoi si era sentito il cuore in gola. Malgrado si fosse ripromesso di non sperare, per un attimo aveva sperato. Come un bicchiere di cristallo schiacciato da un carro armato, quella speranza diafana era andata in frantumi alla vista delle stanze vuote che avevano ospitato i suoi amici. Non aveva osato chiedere, del resto nessuno avrebbe parlato. Solo nella sua stanza, evitato da tutti i conoscenti alla stregua di un appestato, si era abbandonato finalmente al pianto.
Nove, dieci, undici… Ma perché non l’avevano ancora preso? Forse era per la risonanza internazionale che aveva avuto l’arresto illegale degli altri studenti marxisti che avevano osato schierarsi con gli operai. O forse nessuno dei suoi compagni arrestati e – qui sentì un nodo alla bocca dello stomaco – torturati aveva fatto il suo nome. Ma nemmeno il loro eroismo avrebbe potuto salvarlo: in ogni caso, la polizia doveva già aver ricostruito suoi rapporti con gli altri dalle comunicazioni elettroniche, dalle testimonianze dei sicofanti. Forse era per il premio che aveva ricevuto a Vancouver, per il potenziale interessamento dell’università canadese? Scosse la testa. Tutto quello non aveva più importanza, ora che anche lei era stata portata via. Dodici. Si fermò e riprese fiato. Come una madre che ha perso un figlio in un incidente aereo cerca un’ultima testimonianza, per quanto povera, nella scatola nera, così la sua unica speranza di afferrare qualche frammento rimasto di quelle vite forse già spezzate era dietro a quel portone.
Mi sistemo la maschera sul viso. E’ quasi sera, ma l’afa di luglio a Hong Kong non lascia scampo. Tengo la maschera solo sulla bocca, per poter respirare almeno con il naso. Porto la maschera non tanto per non farmi riconoscere ma per mostrare il mio supporto alla causa. Siamo quasi arrivati a Chater Garden. Da lì potremmo andare verso Soho e poi a casa mia. Invece continuiamo a camminare per Queen’s Road, tra le boutique di lusso.
Hanno lasciato i vestiti nelle vetrine, osserva Zhao. Io dico, fossero stati i gilet gialli a Parigi avrebbero spaccato tutto.
Siamo a Chater Garden. Quello che non capisco, dico a Zhao, è perché la comunità cinese all’estero non faccia sentire la sua voce.
Quelli che riescono a emigrare, dice lei, non si preoccupano più della Cina. Altri sono addirittura patriottici. Molti hanno parenti indietro in Cina, e il regime si vendicherebbe su di loro. Quindi stanno zitti.
Io dico, è questo quello che non capisco. Durante il fascismo italiano c’era una comunità di oppositori all’estero. Stampavano e distribuivano opuscoli, facilitavano la fuga dall’Italia dei perseguitati dal regime. Neanche per loro era facile. Alcuni hanno pagato con la vita. Il regime è riuscito ad assassinarli perfino all’estero, a Parigi.
Non è la stessa cosa, dice lei. Ha ragione. Sto applicando categorie italiane a un contesto alieno. Eppure scuoto la testa, non riesco a credere che quelle categorie non valgano ovunque.
Manifesto appeso durante la marcia del 29 settembre per chiedere libertà per Hong Kong, lo Xinjiang e la Cina intera
La porta era guardata da un cancello di metallo. Lo studente suonò il campanello e attese. La porta si aprì per pochi centimetri, e la vecchia lo guardò di sbieco da lì dietro, attraverso le inferriate.
Mi riconosci, disse il ragazzo. Più che una domanda era una constatazione. La vecchia non rispose.
Fammi entrare.
L’ultima volta che l’aveva vista, la vecchia davanti a lui era solo l’inserviente che faceva le pulizie nel suo dormitorio. Una lavoratrice oppressa come tante altre, era tutto ciò che aveva pensato di lei. Ora era lui a pregarla di salvarlo, per qualche istante, dall’oppressione. In silenzio, solo con gli occhi, la pregava. La vecchia aprì del tutto la porta e poi il cancello. Il ragazzo si precipitò dentro prima che potesse ripensarci e quasi la travolse. La vecchia si scansò e gli indicò un tavolo con un gesto brusco. Il ragazzo si tolse le scarpe e andò a sedersi, mentre la vecchia sparì in un’altra stanza. Il ragazzo sentì gridare al di là del muro, un’altra voce di vecchia. Parlavano un dialetto di campagna che lui non capiva. Il piccolo salotto era povero ma pulito, la piccola soddisfazione di una vita passata a nettare le case degli altri.
Un gruppo di ragazzi e ragazze vestiti di nero corrono in direzione degli scontri tenendo alte alcune bandiere americane.
Andiamo anche noi, dico a Zhao. Mi segue senza esitazione. Rifacciamo al contrario la strada che abbiamo fatto prima. Stavolta la polizia deve essere molto più vicina. Camminiamo insieme ai manifestanti vestiti di nero. Alcuni sono equipaggiati per gli scontri: portano caschi e maschere antigas, hanno avvolto le braccia in una pellicola trasparente per proteggersi dagli spray urticanti. Ci sono sia ragazzi che ragazze. Sembrano tutti molto giovani. I ragazzi sono alti e magri; le ragazze, magre anche loro, hanno l’aria di pesare meno di quaranta chili. Tra di loro c’è chi porta dei tubi di ferro. Ma la maggioranza, come noi, è lì senza equipaggiamento, per opporre alla polizia nient’altro che la resistenza pacifica dei loro corpi.
Davvero anche io sono lì per resistere? Non posso farmi arrestare, penso. Ho un lavoro da cui sarei licenziato; una posizione sociale da difendere. Ho troppo da perdere per lottare. Consiste forse in questo l’essere borghesi? Posso andarmene da Hong Kong quando voglio. Nell’Italia fascista, sarei stato dalla parte degli oppositori o degli ignavi?
Inalo il gas e mi metto a tossire, a lacrimare. Sento una botta di adrenalina, è il mio corpo che crede di soffocare. Scappiamo insieme per una via laterale, Zhao ed io. Rivolgo ai poliziotti delle ridicole parolacce in Italiano, anche se non mi possono sentire e non capirebbero, né gli importerebbe.
Zhao dice, non credevo fossero così vicini. Hanno sgombrato la strada in fretta.
Massaggio gli occhi con la mano. La via lungo cui siamo scappati sale verso Soho. Da lì possiamo raggiungere casa mia in pochi minuti.
Andiamo a casa, dico.
Camminiamo insieme, in silenzio. In un’osteria ci sono alcuni manifestanti vestiti di nero, fuggiti anche loro dagli scontri. Ragazzi del liceo o forse dell’università: malgrado tutto, scherzano tra loro.
Zhao parla della sua esperienza di cinese continentale immigrata a Hong Kong. Dice che tra i suoi compagni di università si va formando una frattura tra chi supporta le ragioni dei manifestanti e chi invece vuole restarne fuori, o addirittura è più o meno d’accordo con Pechino. Una sua amica è sull’orlo del divorzio, perché il marito le ha intimato di smetterla di schierarsi a favore dei manifestanti.
Dice, è difficile per noi. Gli abitanti di Hong Kong ci vedono come dei robot senza cervello. Pensano che il Partito Comunista abbia fatto a tutti il lavaggio del cervello. Sono apertamente razzisti.
Non credevo, dico io.
Zhao dice, sono stupidi. Non capiscono che dovremmo unirci. Che combattiamo la stessa battaglia contro lo stesso nemico. Solo se la Cina diventa più aperta, più democratica, Hong Kong potrà salvarsi.
Zhao inizia a piangere.
Dice, ma ormai non spero più che le cose migliorino. Il regime ha vinto.
L’abbraccio. Dice, non ho più speranza.
Siamo in una strada secondaria vicino a Hollywood Road. E’ tranquillo qui. Possiamo restare abbracciati alcuni minuti. Le asciugo le lacrime con la manica, le faccio bere un po’ d’acqua.
Ti amo, le dico.
Manifesto appeso durante la marcia del 29 settembre per chiedere libertà per Hong Kong e per tutta la Cina
La vecchia tornò con un bricco di tè e una tazza. Si sedette, riempì la tazza fino all’orlo e la spinse verso il ragazzo.
Grazie.
La vecchia non rispose. Sembrò volersi alzare di nuovo, poi ci ripensò e riprese a guardare lo studente di traverso. Lui non si scompose. Più per pudore che per sprezzo, andò dritto al punto.
Tu c’eri.
La vecchia rimase impassibile.
Tu c’eri quando li hanno presi. Tu c’eri.
Sì, c’ero, rispose, in un Mandarino con un pesante accento.
Come è successo?
La vecchia aprì la bocca come per rispondere, poi la richiuse e lo guardò dura, quasi la sua domanda l’avesse offesa.
Il ragazzo lasciò perdere. Non aveva più importanza oramai.
Chiese, quando infine trovò il coraggio: e lei?
La vecchia fece finta di non aver sentito. Il ragazzo ripeté la domanda, impaziente.
Hanno preso anche lei?
Chi?
Il ragazzo si alzò in piedi di scatto, facendo cadere la sedia dietro di lui. Sbatté forte un pugno sul tavolo e rovesciò il tè sul pavimento.
Sai benissimo chi! Gridò. La mia ragazza!
La vecchia prese a salmodiare maledizioni nel suo dialetto, in un tono a metà tra grida e litania. L’altra vecchia apparve da dietro la porta, attirata dal baccano, e si aggiunse a quella lagna. Si assomigliavano in ogni dettaglio, considerò il ragazzo; dai vestiti alla postura gobba ai tratti del viso. Un’altra inserviente, pensò.
Rispondi! Gridò di nuovo.
La vecchia continuò a maledirlo come se parlasse da sola, poi si fermò per un attimo. Disse solo una parola in Mandarino: sì. Poi ricominciò con la sua nenia. Senza dire altro, il ragazzo si diresse verso la porta, si rinfilò le scarpe e uscì. Dietro di lui sentiva l’ininterrotto borbottare delle due vecchie. Non avrebbe sopportato di restare in quella casa per un altro istante.
Un giorno, dico, il regime crollerà. Nessuno a Praga negli anni ’50 si sarebbe aspettato che quaranta anni dopo sarebbe caduto il muro. E a quel punto potremo chiedere conto ai servi del Partito Comunista di tutte le porcate che hanno fatto, da Tienanmen in poi. E chissà perché mi viene in mente di mettermi a recitare, in Italiano,
Loro puntarono qui i fucili carichi
e ordinarono l’aspro sterminio;
loro trovarono qui un popolo che cantava,
un popolo per dovere e per amore riunito,
e la bambina magra cadde con la sua bandiera,
e il giovane sorridente rotolò accanto a lei ferito,
e lo stupore del popolo vide cadere i morti
con furia e con dolore.
Allora, nel sito
dove caddero gli assassinati,
si abbassarono le bandiere per bagnarsi di sangue
e per alzarsi di nuovo di fronte agli assassini.
Per questi morti, i nostri morti,
chiedo castigo.
Eccetera eccetera. Traduco la poesia di Neruda in Inglese per Zhao. Le parlo dei regimi sudamericani, dei desaparecidos. Ancora una volta, mi rifugio nelle mie categorie.
Il ragazzo uscì. Avrebbe dovuto andare a sinistra per tornare alla metro. Invece decise di andare nella direzione opposta, per quella via che non conosceva, uguale a tante altre. La libertà di andare in una direzione piuttosto che un’altra era l’unica che gli restava, e ancora per poco. Per gioco, per esercitare la mente nella libertà di una fantasticheria infantile, si mise di nuovo a contare i palazzi, uno, due… Forse, pensò, avrebbe potuto prendere il treno e nascondersi in campagna dai nonni, a seicento chilometri da Pechino; ma sapeva che era anche quello un gioco, una fantasia. Sei, sette… Era arrivato a undici quando si rese conto di essere seguito. Non si stupì, ma ebbe paura.
Camminiamo lungo Hollywood Road e siamo quasi a casa. Qui le facce iniziano a cambiare, si iniziano a vedere per lo più ragazzi occidentali. Alcuni escono dalla palestra dove vado anche io. Di manifestanti vestiti di nero se ne vedono pochi in giro, quasi nessuno si è spinto fino a qui su. Prendo il braccio a Zhao, andiamo lenti fianco a fianco. Da un locale esce una ragazza che mi sembra di conoscere, la guardo meglio: è lei. Distolgo lo sguardo ma è troppo tardi. Cazzo, mi ha visto. Mi impietrisco.
Sedici, diciassette… ancora contava i palazzi, ormai non riusciva più a smettere. Si guardò indietro: erano tre poliziotti, uno in borghese. Allungò il passo e quelli accelerarono a loro volta. Non ci sono dubbi, si disse, anche se aveva capito già da prima. Si mise a correre e i poliziotti lo inseguirono. Ventisette, ventotto. Vide una donna che entrava in un portone e corse dietro di lei. Afferrò la maniglia della porta prima che questa si chiudesse ed entrò. La donna lo guardò per un paio di secondi, senza che il suo viso formasse alcuna espressione, poi entrò nell’ascensore e chiuse la porta. Il ragazzo salì a piedi. Ora contava i gradini: non aveva avuto il tempo di vedere il palazzo da fuori, ma doveva essere come gli altri; alto trenta o quaranta piani. Non correva. Sapeva di non avere abbastanza fiato per correre fino in cima, e non sarebbe servito a niente comunque. Perse il conto dei gradini e abbandonò quello stupido gioco. Poi, si fermò. Trattenne il respiro, in ascolto. Sentiva il rimbombare di dei passi pesanti; dovevano calzare degli stivali. La situazione era allo stesso tempo paurosa e ridicola. Non sapendo che altro fare, riprese a salire.
Zhao mi guarda con aria interrogativa mentre resto lì impalato e l’altra ragazza, Jessica, mi viene incontro. Quasi corre, mi abbraccia e mi stampa un bacio al lato delle labbra, giusto perché faccio appena in tempo a scansare la testa. Prego che la mia faccia terrorizzata la porti a capire la situazione, che c’è lì Zhao, ma Jessica non sembra cogliere, forse fa apposta. Ma un bacio non me lo dai, dice. Poi mi chiede, ma allora per domenica è confermato. Balbetto qualcosa, ormai il danno è fatto. Zhao ha capito tutto, è senza parole, si incammina a grandi passi nella direzione che stavamo percorrendo prima. Provo a comportarmi come se tutto questo fosse naturale, dico a Jessica sì certo a bassa voce; Zhao è già ad alcuni metri di distanza, spero che non mi senta. Mi accomiato da Jessica e quasi corro dietro a Zhao. Lei si volta per un istante, mi vede arrivare, subito si rigira e riprende a camminare più velocemente di prima. L’affianco. Era un’amica le dico, una collega. Il passo veloce e la paura mi fanno venire il fiatone. Sbuffo. Con l’afa che c’è a Hong Kong sono sudato da fare schifo. Provo a prendere il braccio di Zhao come avevo fatto prima. Si libera con uno strattone, poi mi da una spinta con entrambe le mani e mi fa quasi perdere l’equilibrio. Vai via!, grida con quanta voce abbia in corpo, e poi corre via. Nella strada si sono girati tutti. Io resto lì, immobile, a guardarla andare via giù per Hollywood Road.
Le scale si arrestarono di fronte a una porta chiusa che doveva portare al terrazzo. Era l’ultimo piano. Provò ad aprire la porta, senza successo. Provò a forzarla con le mani, a spallate. Allora pestò a tutte le porte del piano, in successione. Solo da dietro una delle porte sentì dei rumori, ma nessuno rispose. Riprese fiato, il sudore che gli colava dai capelli fino al viso e gli bruciava gli occhi. Si calmò e si mise ad ascoltare. Il rumore dei passi era a malapena udibile, ma diventava pian piano più forte. I poliziotti non avevano fretta. Sapevano che non sarebbe andato da nessuna parte. A lui non restava che attenderli, senza più speranza.
È un giorno di fine estate, uno di quelli in cui inizia già a far fresco verso sera e le foglie sugli alberi, stremate dall’arsura dell’agosto, preannunciano l’abscissione autunnale. Sono tornato da poco dalla fiera entomologica che si tiene ogni anno. Non ho potuto fare a meno di andarci poiché è un luogo dove si possono incontrare altri studiosi, scienziati o appassionati, acquistare libri specialistici e osservare insetti meravigliosi, anche vivi. Tuttavia detesto i mercati, ogni luogo dove molte persone si radunano per mettere un cartellino col prezzo sopra ogni cosa e per intavolare trattative vantando i pregi delle merci esposte. Nella luce del tardo pomeriggio mi ritrarrei forse proprio nella maniera in cui Hermann Hesse descrisse il pittore Hermann Lautenschlager in un racconto del 1917 intitolato In una cittadina.
Ho il volto abbronzato, camicia bianca dal colletto aperto e una giacca a righe blu un poco impolverata quando, entrando nello studio dove ho affastellato disordinatamente libri e reperti, analizzo quanto ho acquistato o scambiato. Rigiro davanti agli occhi, preparati sui cartellini o confezionati in buste chiuse col cellophane, quei pochi coleotteri secchi che ho reputato interessanti per le mie ricerche, esaminandoli e comparandoli con quelli già custoditi nelle teche. Intorno, ugualmente mescolati tra pinze e spilli, giacciono alcuni tubetti di colori a olio, molte matite e della strumentazione entomologica. Stenditoi per farfalle, un microscopio, una lente d’ingrandimento, un retino. Pile di libri s’accalcano sulla scrivania uno sopra all’altro tanto che ogni volta, per ritrovare un saggio o un estratto, eseguo una specie di scavo archeologico, stratigrafia delle ricerche compiute nei mesi trascorsi. Dal fauna box che contiene scorze di pino e di abete (nel quale alcuni cerambici alternano accoppiamenti a lieti banchetti a base di frutta) si leva un profumo pungente di resina che si sposa con quello dell’acquaragia riposta nell’angolo della stanza, accanto alle tele dipinte. Il mio sguardo s’illumina di una gioia infantile. Il volto distende le rughe impresse dal groviglio dei problemi di lavoro.
Malato d’insetti, folle e fuori dal mondo, detergo il sudore dalla fronte con un fazzoletto rosa e con cautela torno a osservare. Lo sguardo si fa acuto, a metà sospeso tra quello del pittore, dello scrittore e dell’entomologo, con la gioia di poter tornare con me e in me, ogni volta che accedo nello spazio circoscritto dello studio. Ecco la terra incognita e misteriosa dove tutto è magico e splendente, vitale ed entusiasmante! Proprio quando mi escludo dalla vita in questa cellula di meditazione che è il mio mondo, osservando le forme dei gusci lucidi e dorati dei coleotteri e i colori delle ali – ora splendenti, ora vellutate – delle farfalle, mi dimentico di me, entro in una trascendente contemplazione. Questo universo di piccole cose a margine è una nicchia vitale. Il luogo in cui alchemicamente m’incrisalido. Apro i tappi delle flipcap in cui custodisco una minuscola collezione di tarli: ne estraggo alcuni esemplari minuscoli da osservare al microscopio, da fotografare e disegnare in punta di matita. Il tavolo da lavoro è popolato di cartoni con spilli, cuscinetti di cotone, strisce di carta, pinzette, forbicine, bicchieri. Percorro poi in lungo, in largo e in diagonale la stanza, che misura trentasei passi, zigzagando tra gli oggetti. Potrei indugiare sulla descrizione di ciascun insetto e sui ricordi, avviando un vero e proprio viaggio notturno intorno alla camera.
Inebriato dall’aroma dei terpeni comincio quindi a disporre in fila alcuni coleotteri preparati su cartellini, stesi e repertoriati con cura. Ecco una fila di anobidi. Ciascun esemplare ha un nome e racconta una storia, un luogo, delle vicende individuali. Non ho invero alcun intento collezionistico. Mi è estranea l’idea ragionieristica di una sistematica preordinata nella quale, come in una raccolta di francobolli o di monete, gl’insetti devono prendere il loro posto. Non amo l’idea di una collezione di animali uccisi per il gusto del possesso. I pochi esemplari che mi concedo di allineare nelle scatole entomologiche sono testimoni di una ricerca sul campo, di una trama di relazioni con l’ambiente naturale e con me, una indagine di relazioni che proseguo leggendo sui libri e ricercando in rete. Scelgo alcune specie di determinate famiglie, spesso tra le più bizzarre o alle quali sono legato da un’occasione emblematica. Da qui avvio un’indagine, l’analisi antropologica di come queste forme si riflettano nelle mie percezioni.
Lascio immaginare quanto vibri di emozione davanti allo Xylostenus navale, al Bostricus capucinus, a un Diaperis, un Paussus, una pattuglia di Cucujidi tropicali ecc. E poi una scatola con le farfalle, dei Libiteidi, qualche licenide, una Graellsia isabellae e una Bramea. Sono amuleti salvifici nella selva dell’inconscio. “Vago già di cercar dentro e dintorno / la divina foresta spessa e viva”. Dalla mancanza di luce emergono questi esemplari che mi guardano con occhi composti e scintillanti. Senza dubbio sono loro ad osservarmi, benché morti ormai e secchi da tempo. Sono forme strabilianti come fiori, muschi, alberi, foglie, fossili, dei quali portano e sommano il ricordo. Sono l’argine alla dissoluzione del senso, a una sorta di cataclisma esistenziale che è la consapevolezza stessa di stare al mondo. Non so più se la serie di riti e di pulsioni ottiche che metto in atto infatti sia più argine o piuttosto sintomo di un’apocalissi psicopatologica, una crisi della presenza.
Mi pervade però al contempo anche un piacere palpitante simile a quello descritto dallo stesso Herman Hesse, soddisfatto e infantile, per le cose della natura, “il sentimento di essere parte di un tutto e vicino alla creazione, che si può trovare solo nell’amore e nella comprensione della natura”. Dedicherò loro, durante questo tardo Antropocene, uno Zibaldone di riflessioni, una serie di Operette entomologiche. Singole storie compendiate in brevi “ritratti di insetti”.
CARABUS GRANULATUS
Ma poi perché tanta morbosa attenzione per un Carabo di piccola taglia, senza riflessi metallici e senza particolare colore? Si dice sia molto comune nelle zone umide, quale igrofilo, e che sotto le cortecce dei tronchi in decomposizione, ai bordi di laghi e di paludi, durante l’inverno si raduni in colonie assai numerose. Perché lo cerco quindi con tanto scrupolo, tanta dedizione, in questo freddo gennaio nei dintorni di Firenze? Sono scarafaggi in fondo, privi di qualsiasi valore commerciale. E – se disturbati nel sonno, cavati dalle tenebre del loro sicuro riparo subcorticolo – si muovono alla luce del sole, sovrabbondanti, con un mulinare di zampette esili e coriacee al contempo che l’occhio profano probabilmente non distinguerebbe neppure da quello delle volgari blatte. E allora perché salto il pranzo pur di andare, oggi, al parco fluviale di Lastra a Signa? Perché, vestito di tutto punto con le scarpe non più lucide che si lordano vieppiù di fango e la cravatta che s’impiglia a tratti tra i rovi, mi sporgo verso le acque torbide della palude? Perché sfido il rischio di scivolare nella melma e mi metto a scortecciare a mani nude un ceppo lordo e viscido, dall’interno del quale escono a getto continuo solo onischi grigi e scolopendre rossastre, sempre più grandi via via che scavo in profondità, senza neanche trovarlo? Di quale altro significato, mi domando, diventa allegoria quest’avventura che metto in atto, sottraendo tempo ai civili costumi, alla ragionevolezza del quotidiano bilancio borghese. Cosa finisco per far significare questa bestia che vive in luoghi tanto lontani dal mio nel tempo e nello spazio. Inseguo forse solo un nome. O, come al solito, un ricordo. Finisce che mi imbatto in qualcosa che a prima vista sembra un’enorme lumaca ributtante ma che mentre sorte rotolando da sotto la corteccia estroflette le zampe e mostra il ventre arancione e luminoso, costellato di piccole chiazze. Apro gli occhi sui suoi già ben spalancati.
È uno splendido tritone.
Dorcus
DEPOSITO DI LEGNAME
C’era una volta, vicino al quartiere dove sono nato, una segheria. O forse meglio un deposito di legname. Adesso quell’accumulo eterogeneo di tronchi sfusi, che occupò per diversi anni quelli che avrebbero dovuto essere i parcheggi dei condomini, non esiste più, rimpiazzato da un luccicante showroom in vetro e cemento di articoli da bagno. Ecco che mi rivedo lì a otto anni circa intabarrato nel giubbotto blu scuro, con una sciarpa di lana che provocava qualche prurito sul collo e sulle guance. Sto accompagnando diligentemente, mano nella mano, mio padre, ilare assicuratore e pittore a tempo perso, lungo la discesa asfaltata che porta al piazzale, che allora pareva immenso, ingombro di assi di legni tropicali, impiallacciature, trucioli, frammenti di corteccia.
Lui cercava tavole di massello sulle quali dipingere ad olio i suoi paesaggi toscani, seguendo le naturali venature del legno, lasciate vive a fare da orizzonte o stratificazione di cirrocumuli. Il mondo non era ancora così globalizzato, all’alba degli anni Ottanta e il legno d’ebano evocava luoghi lontani, foreste pluviali e un caldo inimmaginabile, giacché qui l’inverno era ancora rigido. Come ovvio, non esisteva neppure l’idea di “riscaldamento globale”. Mentre lui sceglieva, soppesandole, le possibili superfici pittoriche io speravo di rintracciare, tra la rumenta di trucioli, qualche carcassa di cerambice importato dalle lontane regioni. Sarebbe stata sufficiente un’elitra, un pronoto, qualcosa che testimoniasse l’insetto venuto d’oltremare. Sognavo, durante quelle rare visite che facemmo al deposito, di trovarne anche di vivi e di poterli allevare in terrari – in casa, magari vicino al termosifone.
Ah! Il fascino colonialista dell’esotismo… non supponevo potesse trattarsi di un costrutto culturale, di un pregiudizio eurocentrico. Il centro del mondo era casa mia, la mia famiglia. In una serie di cerchi concentrici, più lontane erano le cose, più erano strane, inusuali, affascinanti. Non sapevo cosa sarebbe accaduto poi, crescendo. E non erano ancor giunti gli insetti alloctoni, importati dal commercio globale nei pallet, nei gerani, nelle palme orientali. Beata ignoranza di tartarughe americane liberate negli stagni, di gamberi infestanti che avrebbero occupato nicchie di artropodi autoctoni, spodestandoli e stravolgendo ecosistemi. Non punteruoli della palma, non curculionidi del fico, non cerambici cinesi. Non ancora. Sognavo, in quel piazzale grigio e squallido, nel freddo pungente dell’inverno fiorentino, le scaglie colorate di Buprestidi scaricati per sbaglio dalle navi cargo al porto, provenienti da terre lontane a seguito di avventurosi viaggi. Sognavo ad occhi aperti come se esistesse davvero un altrove esotico da fantasticare, come se io fossi davvero me stesso e la realtà davvero reale.
Ma quando un sogno infine s’avvera, muta talvolta nel suo contrario. Oppure dissolve alla luce dell’arido vero.
IL DIAPERIS DI JÜNGER
Il giorno di Natale del 1942, dopo la messa, senza preoccuparsi delle pattuglie sovietiche che perlustravano comunque la regione, lo scrittore ed entomologo tedesco Ernst Jünger andò a caccia d’insetti sul fiume Pšiš, in Caucaso, tra Kutais e Majkop. Si trovava lì, sul fronte orientale, in missione d’ispezione con la Wehrmacht, tra il gelo, il fango e gli scontri armati. Lo immagino incedere vestito di nero, con lunghi stivali e una inquietante uniforme uncinata, passo dopo passo fino a un ceppo marcescente e lì, in solitudine o sotto lo sguardo incredulo dell’attendente, iniziare a scortecciare. L’entomologia, la ricerca e l’osservazione degli insetti, rappresentava uno dei quattro esercizi che quest’intellettuale controverso si era posto per arginare il dolore della guerra alla quale stava suo malgrado partecipando, assieme alla meditazione sulle sacre scritture, alla lettura dei classici e alla frequentazione dei pochi altri spiriti affini all’interno di quel contesto atroce. Ma ecco che per un attimo, nel silenzio del bosco, la storia si sospende. Sotto la corteccia egli trovò un nido popolato da numerosi esemplari di Diaperis boleti, appartenenti alla sottospecie del Caucaso, caratteristica per i femori rossi. Lo constatò quindi, annotandolo con gioia manifesta, sul suo diario.
ALLEVAMENTI
Da ragazzo – avrò avuto circa dieci anni – come educazione alle forme della natura allevai farfalle, falene, ma anche insetti stecco e cerambici.
Ogni volta, immancabilmente, qualsiasi insetto si stesse sviluppando nei terrari custoditi nel ripostiglio, col calar delle tenebre, nel silenzio della notte, produceva lo stesso concerto. Era un rodere oscuro, un brusio onomatopeico, un crunch crunch di mandibole, un ruminare ininterrotto di fibre e foglie e poi un tessere di bave, di muchi, di mute e bozzoli, operosissimo, incessante. Nel giro breve di un giorno i bruchi smontavano interi cespi di pianta portati con pazienza a casa da mio padre il giorno prima. Sfrascava, il pover’uomo, in giacca e cravatta di ritorno dall’ufficio, fermandosi sull’argine del Mugnone o alle Cascine, per il bene della passione del giovane figlio entusiasta che ero allora. Tronchi ridotti in trucioli e poi in polvere. Rami di ligustro spogliati, frasche di rovo rinsecchite.
A volte gli insetti, compiuto il ciclo di sviluppo, giunti all’immagine finale, fottevano, si accoppiavano e riproducevano esponenzialmente ripopolando i terrari. In mancanza di copula alcuni, come gli insetti stecco, si riproducevano per partenogenesi. Le femmine deponevano uova non fecondate ma ugualmente atte a schiudersi. E quel suono orripilante, un ticchettio ininterrotto di mandibole diffuso in casa, nel salotto, pareva di sentirlo in cucina, nel telefono, tra le lenzuola. Mia madre diceva che era impressionante. Incredibile tanta acribia nel divorare, nel consumare. Bontà sua che mi concedeva di tenere quei terrari nauseanti in casa o sul terrazzo! Il fondo delle teche e delle scatole si riempiva infatti ben presto di escrementi non propriamente puzzolenti: emanavano piuttosto una dolce fragranza di foglie marce. Io pensavo che, in quanto insetti, non potevano far altro. Proprio come noi.
Osservo adesso fuori dalla finestra il viale in questa notte d’autunno, intasato dal traffico di macchine e persone, dalla tramvia che transita rullando sul ponte sempre illuminato, dal centro commerciale e dai cinema, dai cantieri per costruire nuove infrastrutture, a ciclo continuo. Perché è naturale accelerare questo ciclo di vita e distruzione, questo perpetuo e incessante rodere la polpa del legno. Vanità sarebbe pensare di opporsi con futili pretesti all’opera di distruzione dell’ecosistema. Cosa avrei imparato quindi dall’entomologia? Dapprima la genuina meraviglia verso le forme e i colori, i mutamenti e le mutazioni, gli stratagemmi mimetici e gli stili di vita. Poi un distacco, una nausea consapevole derivante da una quasi totale identificazione.
Spiegatemi vi prego, prima della fine, perché tanta ostinazione nel tramandare un codice genetico che cambia nel tempo e il caso assembla per spezzoni… Sto per spengere la luce quando mi scopro piegato su me stesso in posizione fetale, mentre prego con tutte le forze di non reincarnarmi più in niente, di essere libero, di non partecipare più a quest’insensata girandola animata dalla volontà del desiderio.
Rhagium
RHAGIUM INQUISITOR
Tra libro e cambio in fogli di volume Rodono abeti con mascelle forti Leggeri coribanti, astruse piume. Le antenne in testa son due fili corti Attratti a notte dal mio fioco lume Se per caso li sfioro fanno i morti. S’accoppiano volanti in mille schiocchi Raspano al buio e facendo rumore Si palesa nei loro vispi occhi Il raggio di uno sguardo inquisitore.
LA DRYPTA BLU
Fuggo dal budello di asfalto e cemento di questo quartiere. Dopo cinque chilometri mi lascio alle spalle il groviglio grigio, roboante, segnato da semafori e incroci. Tiro oltre certi tristi giardini condominiali, sterili parchi di quartiere. Il nebbione mattutino del pieno inverno preannuncia comunque una giornata di sole, oltre i tralicci dell’alta tensione. C’è ancora un limite piuttosto evidente, nonostante l’antropizzazione abbia ormai connesso città e borghi in un reticolo ottuso, là dove l’ultimo condominio s’affaccia sui campi e poi, oltre, sull’incolto. Da qui cambia l’aria, varia la temperatura e muta l’umidità.
Non ho ancora ben chiaro verso cosa andrò incontro. Non so se sia una frontiera o piuttosto una sacca residuale, tuttavia mi fermo in una zona paludosa recintata che il Comune rubrica come Parco faunistico (ciò che scampa allo sterminio viene collocato in una riserva). Parcheggio e, spento il motore, cala il silenzio. Con circospezione perlustro l’ecosistema in cerca di qualche Carabo, che tale è lo scopo di questa divagazione mattutina dagli affari di lavoro. Salgo in precario equilibrio su passerelle di tronchi marci caduti nella palude, attento a non scivolare in acqua. Sono vestito in vista del successivo business meeting aziendale in un asettico hotel di dodici piani. So che calpesterò le soffici moquettes con le scarpe lorde di fango. Stringerò mani vergognandomi un poco per le mie unghie nere. Per ora scorteccio facendo leva con la chiave di casa, gratto con i polpastrelli la superficie della legna marcia, tarlata, senza trovare niente. L’azione di scavo provoca cricchi e schiocchi. Pongo la massima attenzione in ogni gesto, ma l’ansia dell’inseguimento è già salita e sta diventando un sottile panico. Prendo di mira quest’insetto, mentre sono inseguito da tempo che scorre, dagli impegni incalzanti. Il tempo scorre nella clessidra e col tempo il denaro.
Qui sorgeva un bosco di piante finché non hanno scavato con ruspe e benne per estrarre la sabbia che è servita per costruire la città. Poi, più o meno quando ero un bambino, decisero di colmare la voragine d’immondizia, inaugurando una discarica. Vent’anni fa infine il luogo è stato ripulito e piantumato un finto bosco planiziale che però, col tempo, sta diventando autentico. Mi aggiro in questo biotopo tra l’artefatto e lo spontaneo, con lo stagno popolato di nutrie e tartarughe, specie alloctone e infestanti. Oche e anatre starnazzano vedendomi tra le ripe. M’aggiro furtivo. Ecco accendersi, sui riflessi torbidi della palude, il demone della caccia, l’alternanza di “catturare” e “nascondere”. Il vertiginoso gioco tra desiderante e desiderato, tra Eros e Nomos, si manifesta in quest’istante, mentre rovisto tra i frammenti di legno.
Salta fuori qualche scolopendra, una miriade di onischi, ma nessun coleottero. Proprio quando, osservando l’orologio, stabilisco che la mia ora è venuta e che devo rientrare nel sistema degli impegni produttivi, ecco che qualcosa splende nell’uniforme grigiore del marcio. La posta in gioco si alza in un piacere assoluto.
Rilancio, come un giocatore incallito e continuo a zappettare ancora un poco, rovistando – stavolta con delle più appropriate pinze – in mezzo all’humus. Affino lo sguardo e come per magia appare una vibrante visione. Sembra tremolare l’aria fattasi improvvisamente più tiepida: è la Drypta blu, o meglio Drypta dentata (Rossi, 1790) che lo scrittore ed entomologo tedesco Ernst Jünger trovò durante la seconda guerra mondiale gettandosi in un terrapieno per sottrarsi ad un mitragliamento aereo. Me lo immagino, con la sua uniforme della Wehrmacht stazzonata, il volto schiacciato nel fango mentre le pallottole del caccia inglese rigano la campagna e il suo occhio spalancato dal terrore che, nel fango, vede apparire la Drypta… Così m’immedesimo e sono io adesso a mettermi carponi in quel fosso a bordo della strada che da Sissonne portava a Parigi, nel 1944. Ogni esperienza è sempre un ritorno.
È un listello verde dorato lungo circa un centimetro, con le zampette rufe. Secondo i cataloghi entomologici il genere Drypta sarebbe ancora piuttosto comune in Italia, tuttavia io non ne vedo una da molti anni. L’afferro tra il pollice e l’indice, attento a non stringere troppo ma con la paura di perderla (una vita senza mancanza, priva di nostalgia per una forma, non ha davvero alcun senso). Riponendola in un piccolo contenitore con i frammenti di terra e legno prelevati in situ, la studierò a casa, da viva, nutrendola con bucce di mela e piccoli pezzi di carne. Immagino che nella stessa zona, sotto le stesse cortecce, riposino colonie di Brachynus, legioni di Lebia, Lamprias, Licinus. Rimetto tutto a posto in questo parco fin troppo ordinato, relitto della grande piana fluviale.
La “mobilitazione totale” della tecnica e della tecnologia avanza, unificando e desertificando il mondo. Non mi vergogno nel dire che ho uno struggimento malinconico, avverto nel petto “una malattia di doloroso bramare”. Vorrei riprodurla infinite volte, questa Drypta, conservare di lei sempre in me la memoria della forma rimpolpando le radici del rigoglio naturale. Scatto foto al luogo dove l’ho trovata, farò un disegno, scriverò un racconto – questo stesso che tu, lettore, stai leggendo – per immortalarla e dargli gloria. Ricordo che la ha scoperta Pietro Rossi, medico e zoologo fiorentino nato nel 1738, amico di Lazzaro Spallanzani, descrivendola nel suo splendido libro Fauna etrusca corredato di tavole a colori. Il paratipo – l’esemplare su cui è stata descritta la specie – si trova ancora oggi al Museo di Scienze Naturali di Milano, in qualche teca custodita in un angusto corridoio occasionalmente illuminato da fredde luci al neon. Cercherò forse un altro esemplare per farli accoppiare, osservare uova e larve (nel web troverò di certo qualcuno che le ha fotografate prima di me: eccole, arrampicarsi sui fili d’erba, simili a stafilini, con due sottili urogonfi come appendici caudali, i margini del ventre colorate d’arancio) ma non ora, non adesso che la legge del dovere mi chiama tra feroci persone dabbene.
Le foglie scricchiano sotto le suole delle scarpe di cuoio. Per un attimo vorrei sparire nel folto, farmi Drypta, albero, fango, pietra, polvere. Forse edificheranno nuovamente anche questa zona, reputata improduttiva, per farci un termovalorizzatore, un aeroporto o un centro commerciale. O forse resterà una riserva recintata, una specie di santuario nel quale nessun umano potrà più entrare. Ma sono sicuro che c’è un altro luogo dove le regole dell’utile e dell’economia non dettano legge, la linea dove mi è dato resistere, ed è la mia interiorità, la parte profonda della mia coscienza. Il posto di questa Drypta è lì, situata nel ricordo, dove la memoria si deposita e si conserva, il posto dove i sentieri, che in superficie sono interrotti, possono ricomporsi. Dove lo spirito resta integro e può rigenerarsi.
DORCUS PARALLELEPIPEDUS
Lo ho aperto in due. Senza volere, giuro. Trasversalmente. Ho troncato le elitre e il corpo poco sotto il pronoto, all’attaccatura delle elitre, con un colpo netto di zappa. Anzi, di piccozza. Una vecchia piccozza dal manico corto di legno, reso lucido dall’uso nel secolo scorso. Chissà a chi è appartenuta, in passato. Comunque. Prestavo la massima attenzione, picchiettando nel legno marcio, a non ferire, a non rompere, a non uccidere. E invece è bastata poca pressione. Le elitre nere recise di netto. E dentro un liquido bianco e lattiginoso. Denso. Si chiama emolinfa. È finito così, troncato in due, e disperso in mezzo ai trucioli e alla rosura del vecchio tronco marcio quel Dorcus che dormiva d’inverno chiuso nella celletta di svernamento, in un bosco spoglio. Forse, se non avessi avuto la vista da entomologo non lo avrei neppure riconosciuto, legno nel legno, confuso tra materia viva e essenza morta in un inestricabile groviglio. Dove finisce la sua forma irredimibile mi domando, adesso irrimediabilmente spezzata? Appare chiaro come fosse un individuo anche lui, seppure uno dei moltissimi, comuni Dorcus parallelepipedus presenti nel bosco.
Adesso siedo, mi son lasciato cadere su un sasso e osservo una radice contorta di castagno alla stessa maniera in cui la deve aver osservata Roquentin nella Nausea di Sartre. Il morto dovrebbe fornire una giustificazione al vivente. Provo disgusto per aver sparso questa emolinfa biancastra, per aver infranto la forma perfetta di tale splendido Lucanide. Uno dei milioni, forse, uno dei tanti che vengono quotidianamente mangiati dai picchi, dagli uccelli, che periscono al primo passare di una ruspa o di un decespugliatore. Uno di quelli che insomma non vengono neppure visti, che per i più non hanno neppure un nome. Ma per me lo ha avuto, un nome, nell’esatto istante in cui ho visto, ho percepito la sua forma, prima integra, unitaria, poi scissa da quel colpo di zappa, anzi di piccozza. Una piccozza da muratore o giardiniere, appartenuta forse al mio bisnonno. Il tronco acefalo di questo lucanide è l’esistenza stessa che si rivela. Le elitre rotte e quel liquido denso e bianco, lattiginoso, colare sulle muffe e le spore, nel legno marcio del quale la larva si era fino a pochi giorni prima alacremente nutrita.
TENEBRIO MOLITOR
Era una scatola trasparente di plastica che aveva contenuto cioccolatini e che riempimmo quasi per gioco, io e mio padre, d’un pastone composto da pane raffermo e briciole. Nel giro breve di pochi giorni le farine iniziarono a sgretolarsi, coprendosi di fragranti muffe leggere. Emanava, tale scatola che tenevamo sullo scaffale del suo studio (a quell’epoca ancora prevalentemente di pittura) un odore di molino di campagna, uno stantio quanto arcaico profumo compatto e polveroso di cantina che andava a mescolarsi con quello dei colori e delle vernici, dell’essenza volatile di trementina e dell’olio di lino. L’ambiente era comunque secco, la temperatura costante intorno ai 23 gradi, sebbene di certo fosse inverno. V’introducemmo alcune larve di Tenebrio molitor Linnaeus 1758, lunghe forse poco più di un centimetro – che non ricordo assolutamente da dove provenissero, se da un negozio di caccia e pesca o piuttosto da uno di cibo per animali – il “bacherozzo panettiere”, lo scarafaggio del pane, nei secoli scorsi flagello delle madie e delle dispense. Proliferarono in breve tempo fino a saturare ogni spazio, quelle larve rigide e filiformi, di color ambrato via via sempre più scure, muta dopo muta, sempre più paffute, trasformandosi in pupe e poi in adulti ben presto accoppiati in furibondi coiti forieri di subite uova precipitosamente schiuse in nuove esili larve chiare, tra le carcasse nere o brune degli adulti già morti. Che venivano a loro volta divorati. Ne iniziarono a nascere poi alcuni orrendamente fallati, con le elitre rabberciate e contorte, segno forse che anche la genetica si stava ribellando a quell’insensato allevamento massivo. Rimpolpammo le provviste con farine, pasta e biscotti scaduti, rigenerando forsennatamente i cicli riproduttivi. Il pane bianco ingialliva, come pure le larve, ingiallivano. Proliferando muta dopo muta fu così che il divertissement iniziò a pesare… Stasera sono venuto a sapere, documentandomi qua e là in rete, che oltre ad alimento per gli umani – tritate in farine per snack energetici super proteici – queste larve vengono usate come cavie per cavarne fuori un qualche nuovo carburante. Ma allora tali tenebrionidi, sporcaccioni e in malafede, stavano mostrando ai miei occhi di bambino, con ogni evidenza, solo tutta la loro volgare, spregevole e reiterata necessità di esistere al mondo.
Da un giorno all’altro la scatola e il suo contenuto, letteralmente, scomparvero.
LICENIDI O DELLA GRAZIA
Sono rimasto ammaliato dalla grazia minuta dei Licenidi fin dall’infanzia. Proprio come un amante geloso della propria ninfa ancora oggi posso dire che queste farfalle mi vivono dentro, che sono mie. Solo mie. Sono loro che battono le ali tra il cuore e lo stomaco ogni volta che mi emoziono, che aprono e chiudono le mie palpebre. Mi rifiuto di credere che chiunque sulla faccia della terra possa aver provato la mia stessa emozione e lo stesso amore vivo, palpitante, verso la Licena rossa, la stupefacente Lycaena phlaeas Linneo, 1761. Si tratta di un amore esclusivo. Ammettere che anche altri possano aver visto queste forme con la stessa intensità con cui lo ho fatto io, se non maggiore, mina il fondamento della mia soggettività. Di ogni soggettività. Che infatti è in fin dei conti arbitraria. Eppure, a differenza di altri entomologi che hanno elevato questo attaccamento al rango di professione socialmente riconosciuta, non ho dedicato la mia esistenza a inseguirne le specie e a decifrarne i misteri. Questo è per me talvolta ancora oggi un cruccio, un amaro rammarico. Ma quale è il fascino delle farfalle, se non la loro imponderabile evanescenza? Se le avessi trattate con ottuso attaccamento, perseguendone nel tempo le identità come se si trattasse di meri oggetti, materia vile, non avrei compiuto un gesto ancora più assurdo del disinteressarmene, apparentemente, per lunghi periodi? Osservo i riflessi scuri come stoviglie etrusche sui bordi alari che s’accendono d’un rosso vibrante più della lacca al centro dell’ala, con dei bottoni scuri, macule di piccoli occhi bordati di giallo Napoli chiaro su superfici seppiate nella parte inferiore, bordata da una peluria sottile e pettinata come di un tappeto persiano.
Nessun valore può essere barattato per quello, apparentemente gratuito, che mostra la Callophyris rubi (Linneo, 1758) sulla superficie ventrale quando ogni anno in primavera la scorgo sugli steli d’erba a margine dei roveti muovendo le ali posteriori, strusciandole circolarmente in un invito trepidante, mentre mostra all’universo mondo il verde acceso con delle lievi corrosioni di un bianco matto condensate in due minuscoli puntini. La sua larva matura verde e paffuta, la pupa ovoidale e pelosetta, di un bel colore terra di Siena bruciata. Altri Licenidi sono azzurrati del colore del cielo, coi bordi bianchi candidi più delle nuvole e leggeri come l’odore del vento. In nome di cosa affannarsi quotidianamente se è sufficiente osservarli posarsi in prossimità degli scopeti nei giorni di sole, stagliarsi sullo sfondo delle mosse colline toscane? Se anche a qualcun altro è capitato tutto ciò, non è come a me, non con la stessa intensità. Non con queste parole. Vige un tacito accordo tra noi, tra me e i Licenidi, per cui io non sono più io ma sono loro, in una immedesimazione totale, una trasmigrazione, una transustanziazione di me in loro per oscura metempsicosi della psiche.
ANTHAXIA PASSERINII
Con forti colpi d’ascia apro il tronco di un cipresso morto, vicino a casa. Dentro vi trovo svariati stupendi e sfavillanti esemplari di Anthaxia passerinii, buprestide di medie dimensioni, circa 8 millimetri, descritto dall’entomologo Pecchioli nel 1837 su individui raccolti a Firenze. Sono incastonati nell’alburno duro e chiaro, incapsulati nelle cellette di muta. L’operazione estrattiva, in assenza di pinze, richiede una pazienza arcaica, quasi ancestrale. Uso quindi delle schegge, aguzzando la vista. Mi par d’essere un picchio verde, o meglio un bonobo, circonfuso dall’aroma pepato dell’essenza di questo legno. Una volta sgusciati fuori, come semi metallici, rimango letteralmente abbagliato dalla loro smagliante livrea verde, blu e rossa.
Entrano distruggendo cose e, sul più bello, tra la nevrastenia di tutti, vittime sdraiate e carnefici in piedi sugli sgabelli, alla fine anche il cane prende la parola, comincia il suo discorso con un tossicchiare assorto, passa in rassegna alcuni slogan introduttivi, quello dei limoni-giallo-oro commuove anche gli imprenditori edili,
Il fantastico queer di Achille Lauro: uno sguardo sul pubblico
di
Olga Campofreda
La sera della finale di Sanremo ho riunito un mucchio di amici con la scusa del mio compleanno e ho sistemato il mio laptop ben visibile davanti al divano e alle sedie. La verità è che adoro da matti guardare il festival da quando sono a Londra, con persone che non conoscono la cultura italiana o che la conoscono dall’esterno, con più o meno stereotipi, ma sempre con uno sguardo nuovo, che solletica la mia italianità più scontata. Senza neanche troppe discussioni siamo stati tutti d’accordo, alla fine, sul fatto che ad Achille Lauro andasse conferito il premio come miglior performer: quello che avrebbe meglio rappresentato l’Italia all’Eurovision, spettacolare come Renato Zero o David Bowie, provocatore come Madonna, istrionico come Lady Gaga o Beyoncé, perfino. Certamente non un’avanguardia mondiale, ci siamo detti, ma quantomeno Lauro ha aperto la finestra della sua stanza e ha respirato un po’ i tempi che corrono. Sì, ma dove?
È stato solo dopo qualche giorno dalla chiusura del festival che mi sono resa conto che esiste ancora un posto dove un artista come Lauro – nonostate tutti i precedenti – possa essere non capito, violentemente criticato e deriso. Quel posto purtroppo è l’Italia.
Sull’elemento dello spettacolare in Lauro già si è detto molto e piuttosto bene nell’articolo di Daniele Cassandro su Internazionale, che ha parlato di un artista abile a non lasciarsi usare dalla televisione, usando lo schermo per mostrare “lo spettro delle possibilità”, della fluidità di genere, della queerness. La bellezza di questa performance, aiutata certamente dai costumi di scena di un genio della moda quale Alessandro Michele, ha tuttavia fatto sì che la nostra attenzione, catturata dal palco, non badasse più di tanto alle reazioni di chi, con noi, stava a guardare.
Sanremo non è stato tanto rappresentativo dell’Italia di oggi negli artisti che ha presentato alla kermesse, quanto nel pubblico che quella kermesse ha commentato sui social e nei bar. Quelli che “Lauro ha anticipato il carnevale”, quelli che “capisco la performance, ma la vita privata tienila per te”, quelli che “è il festival della musica e non dovrebbe esserci altro”. Inizialmente pensavo fosse una questione generazionale, e sarebbe stato forse ancora (benché poco) giustificabile. Mi ero perfino stupita di come, proprio la generazione dei sessantenni, già esposta al linguaggio di Bowie, del glam rock, di Madonna, etc, avesse ancora tale candore da riuscire a scandalizzarsi per i quattro minuti sul palco dell’Ariston. Tuttavia non si tratta della solita messinscena dei boomer contro millennials o gen z. Mi sono trovata a discutere sull’argomento via facebook anche con miei coetanei che ugualmente attaccavano l’ex trapper come artista e relativa simbologia della performance.
Il discorso su Lauro mi ha aperto gli occhi su quanto il gesto di questo artista abbia avuto senso nell’Italia di oggi. L’Italia dell’eteronormatività che attacca quando si sente attaccata dall’altro da sé, ovvero quando altri modi di stare al mondo in quanto individuo si rendono palesi e semplicemente dicono “io esisto”. L’Italia che viene costretta a farsi delle domande su questioni che si erano date per scontate, quali le strutture piccoloborghesi nelle quali le nostre vite sono inserite e dalle quali sono regolate (trovati un lavoro, sposati, fai una famiglia, fai figli anche se non te li puoi permettere che tanto Dio ci pensa, dunque vai in chiesa). Vedo una similarità incredibile tra le dinamiche innescate dal queer e la definizione di fantastico data da Todorov in letteratura. Il fantastico, dice il narratologo, dura poco più di un’esitazione: quando non riesci a spiegarti un fenomeno ma poi arrivi a collegarlo a leggi razionali (strano) o a forze soprannaturali (meraviglioso). Il queer suscita scandalo perché dura molto più che un’esitazione; genera frustrazione in chi lo guarda, non lo capisce e si sente oltraggiato dalla sfacciataggine di queste identità che non aspirano affatto ad essere incluse, accettate o giustificate. La cultura eteronormativa non sa e non può spiegarsi il concetto di binarismo di genere con il proprio linguaggio familiare e strutturato, con il proprio senso finalistico votato al culto del bambino. La frustrazione genera rigetto, rifiuto. Incomunicabilità ben rappresentata dai fischi: il rumore di chi dissente ma non sa argomentare.
Più che per la sua performance Lauro va ricordato per le reazioni che ha suscitato nel pubblico italiano, per averci mostrato che c’è ancora molto lavoro da fare culturalmente e umanamente, nel mondo dello spettacolo e fuori. È in questo contesto allora che la sua performance a Sanremo si trasforma in un’affermazione politica, in un gesto impegnato: “Me ne frego” significa anche che cercare l’integrazione è l’ultimo degli obiettivi, perché integrato significa sempre di più omologato e suscitare scandalo pubblicamente e con gioia, proprio come nei migliori Pride, potrà forse servire a far cadere qualcuno dalla poltrona mostrandogli quanto grande e differente appaia la stanza dal pavimento.
[Forse è finita bene, la quarantena, sani e salvi, e – speriamo! – pagati anche per i giorni di assenza imposti. Un ultimo bollettino sulla nostra condizione mentale, quindi.]
Traslocare è un po’ morire.
L’ho fatto sei volte. Ovunque andassimo, mia madre rimaneva stanziale per un massimo di due anni, poi via.
Con Sabrina è la prima volta. In affitto per il tempo necessario, ora siamo in una casa dove poter abbattere i muri.
Negli anni la mia asocialità è scesa a patti con la sua, più sana, estroversione.
Ora siamo una coppia di categoria riservata ma socievole all’occorrenza.
Sabrina ha alle spalle due anni di sofferenza. Vera.
Un dolore che non è servito a nulla, che è stato anche mio, ma suo di più, che non ha affrancato nessuno dei due.
Sopravviviamo nutrendoci degli stati euforici random, l’uno dell’altra. A volte si ingoia una pasticca, altre si piange.
Per il momento l’idea di poter abbattere muri ci sostiene. Ci dà una prospettiva.
L’appartamento è in una palazzina in cortina. Un quartiere di parrucchieri e bar, età media tendente al basso. Coppie, come noi.
Abbiamo un cane. Che è una persona. Si chiama Spritz, e ci ricorda come ci siamo conosciuti.
Camera, cameretta, bagno, salone con angolo cottura è un bel balcone quadrato per Spritz. Lui ha già trovato l’angolo giusto da dove guardare il mondo. Noi ci stiamo lavorando.
Oggi sono tre giorni che abbiamo finito di imbiancare e sistemare un po’. Ci suonano alla porta che è domenica pomeriggio.
“Ciao, siamo i vostri vicini, quella porta lì” (indica la porta).
“Io sono Laura, lui è mio marito Joseph e questo piccoletto…” (si tocca un pancione di almeno otto mesi) “… Lui si chiamerà Andrea”
Metto una mano sulla spalla di Sabrina e sorrido io.
Hanno la nostra stessa età, ad occhio, lui alto come un giunco di bambù, porta occhiali con montatura colorata e l’espressione di chi vuole dire cose che non riesce a mettere insieme. Lei bionda, caschetto, rotonda. Gli occhi di chi è già mamma, di chi lo è sempre stata.
“È davvero un piacere ragazzi”, faccio io. “Noi siamo Marco e Sabrina e dentro c’è Spritz, ma entrate pure che vi offriamo qualcosa”.
Mentre entrano mi sembra di sentire lo scricchiolio dei tendini di Sabrina, tutto il suo corpo è concentrato a mantenere ordine.
Si inizia a parlare del quartiere, dei lavori di loro, dei nostri. Di viaggi e matrimoni.
Forse per un momento ci era riuscita, mia moglie, forse quel provare, quello spingere in fondo erano serviti. Era una prova questa. Avrei voluto dirle: brava amore mio, brava mille volte e poi altre mille, parafrasando Catullo.
Quella parte di vita ingaggiata per torturarci era però ancora in servizio.
“E voi”? fa la bionda all’improvviso.
“Ad Andrea…” (si tocca il pancione, lo fa continuamente, lo fa troppo)
“… Servirà un amichetto o amichetta per giocare sul pianerottolo no”?
Era una cosa anche carina a suo modo. Una inconsapevole promessa di un’amicizia duratura basata sulla condivisione della maternità.
Non fu quella la prima volta, ma forse fu la volta in cui Sabrina riuscì a stupirmi di più.
“Sai Laura, questa cosa che tu hai detto non avverrà. Perché io non posso avere figli e quindi così”.
Mi alzai appena dalla sedia, Laura finse un colpo di tosse, Joseph stava per dire qualcosa.
“Sì, è stato un duro colpo. Stiamo cercando un modo di superarlo, ci hanno detto che non siamo gli unici ma questo lo sapevamo già, si può convivere con questo, ci hanno anche detto”.
Poi le cadde letteralmente la parola. Come una pigna che si stacca dal pino e viene giù, bam, giù secca. Le vidi inumidirsi gli occhi piano, come per pudore, come se bagnarsi troppo in fretta fosse maleducato.
La vicina bionda, Laura, le si avvicinò naturalmente, una solidarietà antica, quella tra donne quando si parla di maternità.
Tutta teoria. Cazzo della teoria.
Joseph disse qualcosa, mi pare sul calcio, ma io non ce l’ho quel controllo. Non ci sono mai riuscito Io a spingere giù.
Mi alzo.
“ Toccala pure Laura, non ha la lebbra sai? Non succede niente al tuo bel pancione rotondo se tocchi una donna sterile!”. Mi guardano entrambi con pauroso stupore.
Sabrina ormai piange.
“Ti sembra una cosa morta? Mia moglie, dico, ti sembra una cosa morta?”. Laura aggrotta le sopracciglia e il viso muta in una grossa mela. Fa per alzarsi, Joseph pure.
Vedo che prima di allontanarsi accarezza il viso di Sabrina.
“Pena? Pietà? Misericordia? Noi abbiamo tutto! E lei, lei è una donna libera!”
“Stai zitto per cortesia!”. Mi urla contro Sabrina, e la voce ha quelle crepe che conosco bene. Non la ascolto, anche io ho la mia ferita privata.
I vicini sono alla porta.
“È che ci abbiamo messo un anno! Un anno per crederci, alla vita che continua anche senza, a un amore che continua anche senza!”.
Chiudono la porta.
“Un anno…”. Dico a me stesso, perché Sabrina è già di là.
Mi siedo sul divano, lo faccio lentamente, non voglio far rumore.
I muri da abbattere ci sono ancora, Spritz gioca con una palla rossa.
L’avevo letta da qualche parte, questa caratteristica del dolore.
Che funziona un po’ come lo scarico di un lavandino. Le cose, i capelli, li spingi giù. Poi una mattina ti trovi in una pozza di acqua torbida.
Da Charles Melman, L’Homme sans gravité, Folio essais, 2005 (trad. di Francesco Di Gennaro)
La violenza appare nel momento in cui le parole non sono più efficaci. Nel momento in cui chi parla non è più riconosciuto. In una coppia, la violenza inizia quando l’altro rifiuta di riconoscere, in colui che ha di fronte, un trasmettitore verbale vivo e in buona fede. Vivo, quindi avente la propria economia, i propri vincoli. E considerato, qualunque sia il disaccordo, in buona fede. Appena questo riconoscimento non ha luogo, l’altro non è identificato come soggetto e la violenza fa capolino.
[…] In quest’epoca in cui viviamo, sempre più spesso, il soggetto non è riconosciuto perché inizialmente non è impostato. Allora la violenza si manifesta continuamente, per tutto e per niente. Una specie di violenza che è divenuta un modo banale di relazione sociale.
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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]
Su un muro dell’Ex-Opera Sila, un impianto industriale destinato alla trasformazione delle olive riconvertito nel tempo in accampamento insalubre per centinaia di braccianti stagionali, gli africani in fuga da Rosarno dopo la rivolta del 7 gennaio 2010 avevano lasciato scritto: We will be remember(ed).
A dieci anni di distanza da quella che fu non la prima né l’ultima, ma certo la più memorabile delle rivolte dei lavoratori africani in Italia contro lo sfruttamento e la persecuzione razziale, è lecito chiedersi che cosa valga la pena ricordare di un’esperienza apparentemente archiviata, o peggio inghiottita dallo sfacelo che ha ripreso il sopravvento a Rosarno come altrove.
Purtroppo sono ancora migliaia i braccianti che si affollano d’inverno nella Piana di Gioia Tauro per la raccolta delle arance, gli stessi che poi migrano a Castel Volturno e Villa Literno, a Nardò e a Palazzo San Gervasio, inseguendo le stagioni della frutta e degli ortaggi. Sono ancora migliaia a dormire tra plastica e lamiere nelle baraccopoli o nelle tendopoli ministeriali in mancanza di alloggi degni di questo nome. Sono ancora da fame le paghe giornaliere, che si aggirano intorno ai 25 euro al giorno escluse le «tasse» versate ai caporali, con buona pace della legge sul caporalato varata nel 2016. E sono ancora troppi i migranti che finiscono per perdere la vita nelle campagne calabresi: sono vittime del degrado in cui tentano di – e a volte stentano a – sopravvivere, come Becky Moses, la ragazza nigeriana carbonizzata in un incendio nel 2018; vittime «accidentali» come Ousmane Keita, il giovane ivoriano ritrovato morto in un aranceto a novembre dell’anno scorso; oppure vittime di assassinio come Soumaila Sacko, il sindacalista maliano dell’Usb ucciso a fucilate un anno e mezzo fa. Morti terrestri che si lasciano contare e nominare a fronte di quelli, innumerevoli e anonimi, risucchiati dal mare.
La rivolta di dieci anni fa, che scoppiò in risposta all’aggressione subìta da due braccianti africani colpiti da un fucile ad aria compressa, dischiudeva un gigantesco vaso di Pandora, dimostrando la complicità perversa ed efficace di mafia, capitalismo e segregazione razziale che governa la produzione agroalimentare nel Mezzogiorno e le filiere della distribuzione nazionale. E se né i protocolli d’intesa del governo né le indagini giudiziarie né tantomeno gli arresti (qualche dozzina) e i sequestri a cui ha condotto l’operazione Migrantes pochi mesi dopo i fatti di Rosarno hanno realmente contribuito a sanare la situazione nelle campagne meridionali, quella rivolta ha cambiato per sempre il sapore delle arance.
Ricorderemo Rosarno per aver reso brutalmente visibile lo stato di vessazione in cui versa il lavoro migrante nei campi al servizio delle imprese agricole italiane. Ricorderemo Rosarno per aver svelato che il lavoro nero è il vero marchio di garanzia della nostra agricoltura Dop esportata in tutto il mondo. E ricorderemo gli africani di Rosarno per aver impartito una lezione in carne e ossa – senza dimenticare il sangue – sugli ingranaggi del «capitalismo razziale»madeinItaly, per dirlo con la fortunata formula di Cedric Robinson in BlackMarxism (1983), presa a prestito dalla storia delle lotte contro l’apartheid in Sudafrica. Per dirlo altrimenti, invece, ricorderemo Rosarno per aver rivelato la vocazione meramente estrattiva del decreto flussi – alias «decreto di programmazione transitoria dei flussi dei lavoratori non comunitari per lavoro stagionale nel territorio dello stato» – e le sue rovinose conseguenze. In vigore dal 2001, questo provvedimento deputato a fissare anno per anno e paese per paese le quote di manodopera straniera usa-e-getta necessaria per il fabbisogno nazionale, ha favorito e consolidato l’etnicizzazione dello sfruttamento e contribuito a produrre tonnellate di clandestinità, vincolando in maniera ancora una volta perversa e paradossale la regolarità dei documenti dei migranti all’irregolarità di lavori saltuari, intermittenti e spesso condotti nell’illegalità.
Ma se ricorderemo Rosarno non è solo per aver puntato i riflettori sull’inferno a cui venivano e vengono tuttora destinati migliaia di immigrati in questo paese, nei campi e nei cantieri, nelle case e nelle fabbriche. È anche e soprattutto per le conquiste scaturite da quell’esperienza che Rosarno ha segnato uno spartiacque nelle storia dell’immigrazione italiana. Perché la storia dell’immigrazione italiana non è solo quella delle leggi sempre più coercitive e punitive che regolano la presenza degli stranieri in Italia – una parabola disperante che va dalla Legge Turco-Napolitano alla Bossi-Fini al Decreto Salvini passando per il Pacchetto Sicurezza di Maroni, inaugurato proprio qualche mese prima della rivolta di Rosarno – e rendono fragili e ricattabili le vite dei lavoratori extracomunitari inghiottite nel vortice del lavoro nero. Ma è anche una storia di lotte per la dignità e l’accoglienza, il diritto al lavoro e i diritti sul lavoro. Di rivolte incendiarie e scioperi migranti, di cortei e picchetti, di autorganizzazione e solidarietà. E per questo vogliamo ricordare Rosarno.
Il dopo Rosarno cominciò nei giorni immediatamente successivi alla sommossa che aveva messo a fuoco e fiamme il paese, quando la cittadinanza rispose con una selvaggia «caccia al negro» che ferì più di una decina di africani e l’allora ministro dell’interno Maroni, pioniere della sicurezza e in questo degno antesignano di Salvini, inviò polizia e carabinieri a compiere «tempestivamente» un’inedita missione di salvataggio più simile nei fatti a un’operazione di pulizia etnica. Per salvare il salvabile vennero deportati 1.128 migranti, di cui circa ottocento inviati nei Centri di identificazione ed espulsione di Bari e Crotone e trecento spediti in treno verso il nord.
Da quel momento l’eco di Rosarno si propagò in scala ridotta su tutta la penisola, con un epicentro a Roma, dove oltre un centinaio di «rosarnesi» trovarono uno sciagurato alloggio di fortuna nei dintorni della Stazione Termini. Ed è a Roma che le reti antirazziste della Capitale seppero rispondere all’emergenza umanitaria offrendo supporto materiale e sostegno politico all’organizzazione degli immigrati sfollati dalla Calabria.
I mandarini non cadono dal cielo, questo il titolo del primo comunicato dell’Alar, l’Assemblea dei Lavoratori Africani di Rosarno a Roma, che denunciava, a qualche settimana dalla sommossa, il gusto amaro dei frutti della buona tavola, frutti del lavoro servile di manodopera immigrata. E visto che nemmeno i diritti cadono dal cielo, i braccianti di Rosarno hanno costruito con l’aiuto della solidarietà antirazzista un lungo percorso di mobilitazione per esigere per tutti il permesso di soggiorno per motivi umanitari che il Ministero dell’Interno aveva promesso soltanto alla manciata di immigrati aggrediti e feriti nei giorni della rivolta. Di pari passo con le richieste formali inoltrate alla Questura di Roma tramite gli avvocati e gli operatori dell’associazione Progetto Diritti, gli africani di Rosarno hanno inaugurato una battaglia politica per ottenere la regolarizzazione e un lavoro dignitoso, una battaglia condotta in nome del prezzo pagato per la clandestinità forzata e la negazione dei diritti più elementari a cui erano stati condannati.
Scandita al ritmo di sit-in, cortei e assemblee quotidiane multilingue, e perciò spesso interminabili, convocate nei capannoni dell’Ex-Snia Viscosa – uno dei centri sociali romani trasformati in spazio d’accoglienza per decine di sfollati durante i lunghi mesi della mobilitazione – la protesta si è nutrita del supporto militante di esponenti del movimento antirazzista e della sinistra radicale e anticapitalista, di associazioni di quartiere e di studenti, in un’avventura durata quasi due anni.
La vittoria strappata alle istituzioni con la conquista collettiva del soggiorno umanitario per oltre un centinaio di «rosarnesi», ha segnato la chiusura di un ciclo – l’esperienza dell’Alar, le sue assemblee, le sue reti – aprendone indirettamente un altro. La vertenza costruita intorno al rilascio dei permessi di soggiorno per motivi umanitari agli oltre cento lavoratori africani di Rosarno – tra cui numerosi richiedenti asilo precedentemente diniegati dalle Commissioni territoriali – ha di fatto aperto un varco nella giurisprudenza a venire, creando la possibilità di addurre proprio lo sfruttamento disumano subìto dai migranti a motivo della concessione del soggiorno in tutti quei casi in cui la richiesta di protezione internazionale non potesse essere formalmente soddisfatta, ritorcendo così inaspettatamente la legge contro sé stessa. Perciò, se il contratto di lavoro è stato progressivamente eretto a filtro e criterio dell’immigrazione regolare, proprio il lavoro irregolare, che le leggi sull’immigrazione in realtà favoriscono, insieme allo sfruttamento che ne deriva, è ciò che da Rosarno in poi ha permesso di allargare le maglie restrittive di quel filtro legale costituito dal lavoro in regola, consentendo agli stranieri sfruttati di ottenere la protezione umanitaria. Rosarno in questo senso aveva creato un precedente d’eccezione.
Purtroppo però quel varco è stato ormai bruscamente interrotto con l’abolizione puntuale del soggiorno concesso per motivi umanitari sancita dal decreto Salvini nel 2018 e la revoca retroattiva dei permessi accordati a tali fini.
Cancellando le reti territoriali degli Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati che fino ad allora garantiva accoglienza a oltre 20mila stranieri distribuiti in 400 comuni, tra i quali Riace è stato a lungo un esempio modello, il decreto Salvini inaugurava poco più di un anno fa il nuovo Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati (Siproimi) che affida «l’accoglienza» dei richiedenti asilo a due tipi di centri di detenzione – ai Cara, dipendenti dalle prefetture e appaltati a enti privati e, prevalentemente, ai Cas, gestiti da strutture private e cooperative – che speculano sulla carcerazione degli immigrati.
Non è un caso, del resto, che le nuove misure introdotte dal decreto sicurezza e denunciate dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) abbiano colpito, entreautres, due delle principali armi abitualmente impugnate dai lavoratori stranieri, da un lato per uscire dalla clandestinità e legalizzare la propria situazione e, dall’altro, per ottenere diritti e tutele sul lavoro: il soggiorno umanitario e i blocchi stradali sui picchetti di sciopero, Leitmotiv dei lavoratori della logistica, a oggi il settore più combattivo e organizzato del lavoro migrante in Italia.
Ricorderemo, quindi, l’avventura degli africani di Rosarno anche per aver fatto da apripista sulla strada della protezione umanitaria, una strada battuta dopo di loro, negli anni, da centinaia di altri clandestini sfruttati e ormai definitivamente sbarrata dal Decreto sicurezza. Ricorderemo il risveglio della solidarietà in lotta, coagulata intorno a quest’avventura. E la ricorderemo, a fronte delle proteste contro i migranti esplose nelle isole greche la scorsa settimana, con la speranza di ricreare due, tre, molte Rosarno.
*Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin Italia il 29.1.2020.
[Continua il diario della quarantena di noi italiani, sospetti di contagio in Francia; senza vittimismi, ma senza neppure trionfalismi. Stare tappati in casa dà un bel daffare. effeffe e AI]
Le piaceva farlo così, senza guardarlo: con la gamba sottile abbracciava la coscia di lui e con il pube ancora caldo e umido si premeva e stringeva un poco; la clitoride era un bacio lieve sul fianco dell’uomo con il quale era in amore. E poi diceva:
– Raccontami ancora quella storia.
Con la testa posata sul suo petto nudo e lo sguardo lontano dal suo, Fiona aveva la libertà di vedere meglio ciò che le raccontava. La stanza dell’albergo era troppo grande per tutto lo squallore che conteneva, ma sarebbe andata bene, si era detta Fiona appena varcata la soglia, sarebbe andata bene comunque perché la voglia di stare di nuovo insieme era tanta e quella era, doveva esserlo, semplicemente la stanza che in un hotel a quattro stelle riservavano a chi richiedeva il day-stay per mezza giornata
– Quale storia?
– Quella di quando eri in Polonia per lavoro e hai conosciuto quella ragazza.
– La polacca? Dici quella?
– Sì, lei.
– La mia Polish girl.
Davanti agli occhi di Fiona c’era una cassettiera fuori moda e di dubbio gusto, e che molto probabilmente era stata brutta anche quando era di moda per via della fattura fintamente pregiata; accanto, sulla sedia dall’imbottitura logora, lui aveva posato il suo giubbino. Nonostante il lieve squallore che la circondava, o forse proprio in virtù della mancanza di un contesto gradevole, Fiona riuscì ancora una volta a ricostruire l’immagine di lui da ragazzo brillante agli esordi della sua carriera di auditor in giro per il mondo: giovane e audace, i capelli in posa con il gel e la risata fragorosa con i colleghi per la strade di Varsavia dopo una giornata di lavoro. E questa volta aggiunse anche la luce gialla dei lampioni che cadeva a cascata sulla strada che li aveva poi condotti nel locale dove avevano incontrato il gruppo di ragazze.
– Ma lei, non ti ricordi proprio come si chiamava?
– Perso nella memoria, anche perché dopo non ci siamo più visti.
– E com’era? Fisicamente, dico.
– Normale, una ragazza normale. Come te, come tante. Vestita normale, un po’ acqua e sapone.
– Ma in che momento ti ha detto di essere una prostituta, prima o dopo?
– Me lo ha detto lì, al pub. Si chiacchierava. Ma non stava mica lavorando in quel momento. Era fuori con le amiche. Una ragazza normale. Non era una vera prostituta, lo faceva solo ogni tanto, per bisogno.
– E ci sei rimasto male?
– No, te l’ho già detto. Era simpatica e molto carina. Tutto qui.
– E poi?
– E poi abbiamo parlato di altro.
– Di cosa?
– Boh, e chi se lo ricorda. Però ricordo che mi piaceva il suo accento quando provava a parlare in italiano. Lì lo imparano un po’ tutte.
Questa dell’accento era un’informazione nuova. Non ne aveva mai parlato. Fiona ripensò a quando lui, emiliano, la prendeva un po’ giro sottolineando le e troppo aperte del suo accento milanese: chiudi quelle e, le diceva, non sono mica le tue gambe, e la guardava con quel sorriso un po’ rapace e un po’ scherzoso.
Forse la ragazza polacca aveva imparato l’italiano dalle canzoni di Eros Ramazzotti, e allora Fiona immaginò una ragazzina magra, con i capelli lisci e lunghi sulle spalle e le cuffie alle orecchie, china sulla scrivania della sua stanza a trascrivere su un diario i testi delle canzoni. Una ragazza normale, una ragazza come tante.
Poi lui lamentò di avere il braccio addormentato. Per mettere a tacere il formicolio, nel muoversi sollevò la gamba destra e dal quel sollevamento Fiona vide emergere un piccolo buco sul lenzuolo bianco; che posto ridicolo, pensò. Quando abbassò di nuovo la gamba, il buco scomparve dalla sua vista.
– La sua stanza, ti ricordi com’era la sua stanza?
Giovane. Ragazza acqua e sapone. Ragazza come tante. Prostituta. Fiona avrebbe voluto sapere di più della stanza della ragazza polacca. Aveva anche lei poster di cantati e attori famosi, e vestiti in disordine su una sedia e scarpe sempre in giro? Ma lui si fermava sempre qui: era una stanza come tante, la stanza di una ragazza giovane.
Lo baciò sul petto, poi ripose nuovamente la testa su di lui e con il dito iniziò a disegnare una costellazione invisibile in cui i suoi nei erano i pianeti e lei con il dito li circumnavigava e poi li univa per formare animali fantastici e divinità. Fiona non aveva mai visto così tanti nei su un uomo e ormai li considerava un tratto distintivo del suo corpo.
Nelle giornate tra un incontro e l’altro, quando lui per lavoro doveva spostarsi in altre località, non vedeva l’ora che arrivasse il momento di andare a dormire così da togliere dalla sua vista la presenza astiosa della sua coinquilina e potere, finalmente, stringere il cuscino e con gli occhi chiusi richiamare alla mente tutta la costellazione del suo corpo nudo. Le sembrava di averlo al suo fianco e così si addormentava.
– Ma io non ho capito la dinamica. Dopo il pub, come è successo che siete andati a casa sua? Te lo ha chiesto lei o glielo hai proposto tu?
Fiona fu sorpresa e soddisfatta da se stessa: era la prima volta che gli faceva questa domanda eppure ora che era uscita dalla sua bocca le sembrò di grande importanza. Questa sì che è una bella domanda, si disse.
– È venuto così, parlando.
– Parlavate un po’ in inglese e un po’ in italiano, giusto?
– Sì.
– E quindi, come è successo? Te lo ha chiesto lei o sei stato tu?
– Sai quel genere di sguardi, no? Quelli che vogliono dire tutto. Poi ci siamo dati qualche bacio lontano dalle amiche ed è venuto così, di andare da lei. Lì è facile, è sufficiente dire loro che le porti in Italia.
Le dita della mano di Fiona si fermarono e si rifugiarono nel palmo; la costellazione subì un piccolo, netto collasso.
Adesso però aveva fame, aggiunse, voleva uscire a mangiare qualcosa, e si divincolò dall’abbraccio immobile. Quando lei gli ricordò che avevano la stanza prenotata ancora per un’altra ora, lui le disse che non era importante, che non si preoccupava mai dei soldi che spendeva se erano stati spesi bene.
– Stiamo stati bene anche questa volta, no?
Fiona disse di sì, sì certo, sì. Sollevò il busto e dal letto lo seguì con lo sguardo mentre andava in bagno; lo sentì aprire la porta e poi chiuderla, sentì che girò chiave.
Guardò verso la finestra: la luce che filtrava era intrisa di granelli di polvere che fluttuavano vicini e non cascavano mai. Fece per alzarsi dal letto, e da un movimento distratto del piede il piccolo strappo sul lenzuolo si allargò. Fiona provò un immediato imbarazzo: guardò in direzione del bagno – lui era sotto la doccia e non sarebbe certo uscito in quel momento – e poi di nuovo il buco sul lenzuolo. Infine si alzò del tutto e con il lenzuolo superiore e poi con il copriletto coprì ogni cosa.
Ancora nuda, andò alla finestra. La camera si affacciava su un parcheggio che in quel momento era parzialmente deserto. Oltre la recinzione che delimitava il parcheggio notò un appezzamento di terra erbosa con delle bestie. Sembravano lama, o forse erano alpaca? Era un posto strano per tenere degli animali come quelli. Da quella distanza le era impossibile distinguerli e forse, si disse, forse non sarebbe stata in grado di farlo neppure da vicino. Sapeva che i primi sputavano e i secondi no, ma cos’altro?
– Secondo te quelli sono lama o alpaca?
Andò anche lui alla finestra. Fiona avvertì il calore della sua pelle umida e profumata, e provò il desiderio di togliergli quell’asciugamano che gli cingeva la vita e fare ancora l’amore. Non poteva dire che lui fosse, tecnicamente, un amante perfetto (per raggiungere l’orgasmo, infatti, lei sapeva come muoversi, e cioè come contrarre i muscoli del suo utero), ma era un uomo taciturno e affascinante e aperto al mondo, ed era il primo uomo della sua vita recente che non l’aveva fatta sentire miserabile per via della sua condizione di donna quarantenne affittuaria di un appartamento in condivisione con un ragazza ben più giovane di lei.
– Non lo so. Penso che siano la stessa cosa, stessa sostanza. Dai, muoviti ché ho fame.
E lui si voltò e iniziò a rivestirsi.
– Sono certa che non sono la stessa cosa. Però neppure io so la differenza, non me la ricordo più.
Fiona chiuse la porta alle sue spalle e non girò la chiave. Il bagno era piccolo e i sanitari ingialliti dal tempo ma in fondo, pensò mentre faceva la pipì, non era così importante; l’importate era stare bene insieme, fare scorta di ricordi belli per i giorni a venire che non avrebbero potuto passare insieme. Si pulì, tirò lo sciacquone e andò sotto la doccia.
Quando Fiona uscì dal uscì dal bagno, lui si era già messo il giubbino.
– Sono davvero affamato, vestiti così andiamo a mangiare qualcosa.
La porta principale dell’Hotel dava su di una strada stretta e molto trafficata, ma l’aria leggera e fresca della primavera arrivata in anticipo era piacevole. Lui mise le mani nelle tasche del giubbino e lei si aggrappò al suo braccio. Ripensò alla stanza dell’Hotel che si stavano lasciando alle spalle: era davvero squallida, la peggiore tra tutte quelle in cui erano stati nel corso di quelle settimane, e si disse che avrebbe fatto in modo, per la prossima volta, di mandare fuori casa per una giornata intera la sua coinquilina. Le avrebbe parlato, era disposta pure a pagarle un soggiorno presso qualche località termale. Qualsiasi cosa pur di avere uno spazio di normalità amorosa prima della partenza di lui.
– Hai fame anche tu?
– Adesso che mi ci hai fatto pensare, ho molta fame.
– Vediamo che troviamo.
– Più avanti c’è la metropolitana. Posso portarti in un posto speciale.
Fiona conosceva un buon ristornante cinese che distava solo quattro fermate di metropolitana. Poi avrebbe potuto portarlo al parco a fare una passeggiata. Era un bel parco, il più grande della città. Ma continuò a camminare appesa al suo braccio senza svelargli i suoi piani: voleva sorprenderlo, voleva condurlo verso tutto ciò che c’era di bello in città, voleva dargli in regalo dei ricordi belli.
– Quando hai detto che parti?
– La settimana prossima.
– E ritorni?
– Ancora non lo so, non dipende da me.
Poi lui si fermò. Qui facciamo prima, disse, e la trascinò dentro a una piccola pizzeria al taglio.
– Hai detto anche tu di avere molta fame, no?
Fiona sorrise e rispose sì, certo, sì. Pensò che sì, aveva ragione lui, anche lei aveva molta fame e in fondo ciò che contava era stare bene insieme. E per un attimo le sembrò di essere tornata una ragazzina in pausa pranzo con le compagne di università. Sentì che c’era posto per la spensieratezza.
Il locale era piccolo ma non troppo pieno. Trovarono due posti su degli sgabelli alti, in prossimità di uno specchio grande quasi quanto tutta la parete.
– Tu quale vuoi?
– Margherita va bene, ma con doppia mozzarella se è possibile, e con le olive.
Fiona vide una smorfia di irritazione nel suo viso, ma le sembrò buffa e perciò la fece sorridere. Dal grande specchio, poteva vedere il riflesso delle sue spalle chiuse nel giubbino e ripensò alla costellazione di nei ed ebbe la sensazione di esclusività, di conoscere qualcosa che nessuno lì dentro poteva sapere. Decise che gli avrebbe anticipato i suoi piani – la metropolitana a pochi passi, la passeggiata nel parco tutto da scoprire – e che gli avrebbe fatto una sorpresa ben più grande.
Lui tornò con le pizze fumanti nei piattini di plastica; il rosso del pomodoro era vivo e luccicate del succo e dell’olio. Fiona addentò il primo boccone ma si scottò. Aprì la bocca e rise e con la mano fece il gesto di farsi aria. Nel riflesso dello specchio vide un gruppo di ragazzine divertite: erano belle, vivaci, e anche Fiona si sentì un po’ come lo loro e quasi felice.
– Sei davvero goffa.
– Senti, la metropolitana è a pochi passi da qui. In cinque fermate siamo a un parco molto bello. Te lo faccio scoprire io, è davvero bello e antico. Per fare una passeggiata, dico, poi potremmo stenderci un po’ al sole. È davvero molto bello, uno dei miei luoghi preferiti.
– Poi decidiamo.
– E magari la prossima settimana potresti venire da me. Alla mia coinquilina antipatica dico di lasciarmi la casa libera.
– Pensavo che l’Hotel andasse bene. Avevi detto anche tu che l’anonimato era meglio, così non dovevi chiedere a nessuno. Siamo più indipendenti, no?
– Se lei non c’è siamo liberi. Non ti preoccupare, ci penso io. Tu non ti devi preoccupare di niente. Fidati.
Lui addentò un altro boccone e masticò un po’, e si portò il tovagliolo alla bocca e non aveva finito di deglutire che:
– Con te invece è difficile, sai?, rendi le cose complicate.
Fiona abbassò lo sguardo sul suo trancio, e portò la pizza alla bocca e strinse i denti e sentì il bruciore scavarle la bocca e poi la gola, lo sentì scendere; l’allegria delle ragazzine rimbombava come un’eco nella sua testa e tutt’attorno e non c’erano più altri suoni né spazi. Non esisteva nient’altro.
Nel corso del biennio «multiforme e multicolore», in cui si sovrapposero «spinte democratiche, rivoluzionarie e autoritarie», che precedette i due appuntamenti congressuali del gennaio 1921, durante i quali vennero sancite la fondazione del Partito Comunista d’Italia e la trasformazione della Federazione giovanile socialista nella Federazione giovanile comunista, non prese forma alcuna rivoluzione e la stagione di lotte animata dalle classi popolari terminò con la sconfitta del movimento operaio e l’affermazione delle forze reazionarie.
Il Partito Socialista che nel marzo 1919 aveva approvato la propria adesione all’Internazionale comunista si trovò paralizzato, costretto tra gli attendismi dei riformisti, che continuavano a credere nella necessità di ottenere in Parlamento l’approvazione di un programma di riforme parziali che consentisse la trasformazione dell’Italia in una moderna democrazia, e i massimalisti che credevano nella possibilità di innescare un moto rivoluzionario ma non fornivano indicazioni chiare sui modi e sui tempi di attuazione dello stesso.
Per quel che riguarda la Federazione giovanile, con la conclusione del conflitto, essa si dimostrò capace di assumere un ruolo di guida nel processo di ricostruzione degli organismi del movimento internazionale, fortemente indebolito dalla stretta repressiva messa in atto dai governi nell’ultimo anno di guerra al fine di arginare le proteste che stavano minacciando ovunque la tenuta dei fronti interni: nel maggio del 1919 i dirigenti italiani rivolsero un appello ai giovani socialisti e proletari di tutti i paesi in cui si parlava di «armamento del popolo», «sciopero generale rivoluzionario», «dittatura proletaria»; a settembre Luigi Polano, segretario della Federazione italiana, venne nominato fiduciario dell’Internazionale per molti paesi, tra i quali la Francia, gli Stati uniti e la Spagna; a novembre egli partecipò al congresso di fondazione dell’Internazionale giovanile comunista che si tenne a Berlino, entrando a far parte del Comitato esecutivo. A quell’appuntamento il dirigente italiano si presentò forte di un’organizzazione che contava ormai 35.000 iscritti, seconda, tra le 14 federazioni nazionali rappresentate, solamente alla potente compagine russa e ai suoi 80.000 aderenti.
Sul versante delle dinamiche interne, le posizioni si cristallizzarono attorno a tre gruppi che si confrontarono per tutto il 1919: il gruppo astensionista (guidato dal bordighiano Giuseppe Berti), il gruppo ordinovista (rappresentato da Umberto Terracini) e il gruppo massimalista del segretario Polano che nella primavera del 1920 prese però le distanze da Serrati, leader dei massimalisti del PSI, il quale si era dichiarato convinto che in quel momento storico fossero venute meno in Italia le condizioni per portare a termine un moto rivoluzionario e che fosse necessario salvaguardare l’unità del partito, allontanando in questo modo la minaccia dell’espulsione dei riformisti. Al contrario, il Comitato centrale della Federazione credeva che fosse venuto il tempo di operare attivamente alla costruzione di un partito nuovo, rivoluzionario e su base comunista. Un percorso che subì un’accelerazione sotto la spinta delle decisioni assunte nel corso del II congresso dell’Internazionale comunista che si tenne a Mosca nel luglio agosto del 1920, durante il quale vennero approvate le 21 condizioni poste da Lenin e che i partiti socialisti avrebbero dovuto accogliere per aderire al Komintern. Il 20 ottobre a Milano il gruppo dei “comunisti puri” sottoscrisse il manifesto programma della propria frazione che prevedeva l’espulsione dei riformisti e l’«azione insurrezionale del proletariato» sia con mezzi legali che con mezzi illegali. A firmarlo furono Bombacci, Bordiga, Fortichiari, Gramsci, Misiano, Polano e Terracini.
Le indicazioni di Lenin avevano dunque favorito il superamento delle divisioni e tracciato un percorso comune su cui tutti si ritrovarono. Seguirono l’incontro di Imola (28-29 novembre 1920) e la riunione del Consiglio nazionale della FGSI (Genzano, 5 dicembre 1920) con cui il movimento giovanile dichiarava di aderire «incondizionatamente alla frazione comunista». Così a Livorno, nella seduta inaugurale (15 gennaio) del XVII Congresso nazionale del PSI, Secondino Tranquilli (alias Ignazio Silone), direttore dell’«Avanguardia», nel portare il saluto dei giovani invitò i congressisti «a bruciare il fantoccio dell’unità»; a seguire, il 21 gennaio, resi noti i dati della votazione delle mozioni che assegnarono la maggioranza ai comunisti unitari di Serrati, Luigi Polano prese la parola per comunicare che da quel momento la Federazione giovanile socialista dichiarava sciolto il proprio impegno di adesione al Partito Socialista siglato tredici anni prima, nel 1907.
Il passo decisivo era ormai compiuto. Nella stessa giornata la frazione comunista riunitasi al teatro San Marco diede vita al Partito Comunista d’Italia, il cui gruppo dirigente risultava composto quasi per intero dalla generazione di militanti che aveva svolto la prima parte del proprio tirocinio politico negli anni che andavano dalla guerra di Libia allo scoppio della Grande Guerra e che avevano spinto la Federazione giovanile lungo la strada del massimalismo rivoluzionario: tra gli altri Bordiga, Gramsci, Fortichiari, Grieco, Terracini. Il Partito Comunista Italiano nasceva presentando il profilo di un «partito di giovani»: l’età media dei componenti il Comitato centrale era di soli 36 anni.
Alcuni giorni più tardi, a Firenze (nella città dove nel 1903 si era costituita la Federazione nazionale giovanile socialista), i congressisti intervenuti all’VIII congresso della FIGS approvarono a larghissima maggioranza l’adesione al neonato PCd’I e la nuova denominazione del movimento che diventava: “Federazione giovanile comunista”. Nel suo gruppo dirigente, composto da giovani formatisi negli anni della guerra, comparivano alcune personalità destinate ad assumere un ruolo di primo piano nella storia del PCI, come nel caso di Luigi Longo e Pietro Secchia.
[Ieri cominciava il nostro primo giorno di quarantena in Francia, in quanto sospetti di aver passato la frontiera dall’Italia con il Covid-19 in corpo. Naturalmente è una quarantena dal lavoro, essendo noi insegnanti, ma purtroppo non di 40 ma di soli 14 giorni. In ogni caso, ognuno da casa propria, vi manderemo stralci del nostro giornale di bordo di espatriati al confino. FF e AI]
Nico non riuscì a distinguere il momento esatto in cui il racconto del Mastro si insinuò a tal punto nel suo sonno da spaccarlo, come un cuneo di ferro in un ciocco di legno, penetrando in profondità nei suoi sogni. A un certo punto però si trovò a camminare dentro di essi.
Era un sogno, e insieme non lo era. Intanto perché era consapevole di stare sognando, e questo era inusuale. E poi perché era tutto molto netto, come se la tenebra fosse stata sbozzata dalla luna. Nel bosco innevato il ragazzo sentiva il crocchiare dei suoi piedi nudi. Era notte, e avrebbe dovuto fare un freddo cane ma il ragazzo lo accusava appena. Sotto la palme nude dei piedi, la neve non scottava. Pian piano dal sentiero illunato lo raggiunsero i rumori di una lotta.
Al di là di uno schermo fitto di betulle, bianche e slanciate come schiene, il ragazzo sentiva un suono di mani su mani, di braccia su braccia, un rotolar di corpi in terra. Sembrava di udire una folla di lottatori in un’arena; ma il ragazzo sapeva che i lottatori erano solo due.
Proprio quando stava per superare lo schermo degli alberi, nel bosco risuonò un grido.
Il ragazzo raddoppiò il passo. Quando sbirciò dentro la radura – uno spiazzo nevoso nelle cui strisciate di neve e fango si leggeva la storia della lotta – il ragazzo sapeva già cosa avrebbe visto: un uomo in piedi e un uomo in terra. Non due uomini, lo stesso identico uomo.
Nico si arrestò in tempo per vedere quello in piedi –vestiva una divisa grigio-verde– girarsi. Pur imbacuccato di scialli incrostati di ghiaccio, lo riconobbe. Era più magro del Farmacista, ed entrambi gli occhi scintillavano al chiarore lunare. Ma era il tenente, Bencivenga. L’uomo lo fissava; l’ansito bianco del suo fiato dilagava nella notte come latte.
Solo allora Nico riuscì a parlare, e nel sogno disse: «Perché lo hai fatto? Perché lo hai guardato in faccia?».
«E tu?» chiese l’uomo, secco. «Perché hai inseguito il tuo doppio a casa tua?»
«Dovevo sapere» disse Nico.
E annuendo, come a dire: “anche io”, il tenente si chinò per trascinare via l’altro corpo.
«Aspetta!» disse Nico avanzando un passo, «che vuol dire che gli hai rubato “uno sguardo”! Che sguardo?! Cosa vuole lui davvero da te?!»
Il tenente rimase di profilo contro la luna; poi voltò il capo. Il ragazzo sentì un rumore come di rametti spezzati, quando le vertebre del collo gli si frantumarono: la testa del tenente aveva fatto un giro completo e ora gli mostrava la nuca. Con la faccia che gli formicolava per lo choc il ragazzo guardò l’uomo ai loro piedi, nella neve. Quello, era il vero Bencivenga.
Il freddo cominciava finalmente a raggiungerlo, gli allagava i polmoni come un silenzio liquido, il gelo immemore che vive tra le stelle più lontane.
«Cosa vuoi?» disse infine il ragazzo. «Cosa vuoi dal Ciclope? E da me? Cosa vuoi da noi tutti?!» Nico vedeva il vapore dietro la sua nuca, come se la bocca dell’altro si fosse aperta.
Poi sentì che non erano più soli. Si girò.
Al posto delle betulle c’era una folla senza fine, immobile, che degradava nel bianco in tutte le direzioni. Erano le genti delle città ora deserte: donne, uomini, vecchi, bambini. Ognuno di loro aveva il corpo rivolto verso di lui e la testa torta innaturalmente all’indietro. Capì, nel sogno, che essi erano coloro che l’Effimero aveva disfatto, e che anche lui avrebbe fatto parte delle sue schiere, quando nel mondo sarebbe morta l’ultima persona che aveva memoria di lui. Dal racconto del Ciclope, tra i più vicini, Nico riconobbe Guglielmin e Scavoni, quest’ultimo ancora con la borsa a tracollo, quella della lettere. Poi l’uomo che era stato il tenente Bencivenga parlò, non solo per se stesso, per tutti.
le nenie
le cantilene
le ninne nanne
gli inni no
e nemmeno
le arie guerriere
le marce marziali
ne tracima
la storia
(fosse solo
il nazismo!)
mi fanno
ribrezzo
Sono il padre dell’uomo con il mare dentro e, sebbene abbia fatto di tutto per evitarlo, sto per morire. Non sono spaventato, la stanchezza, la disillusione quotidiana l’ha reso accettabile: è per lui, nato dalla mia carne e che di questa ha preso solo il manto sottile necessario a rivestirlo e impedire che l’acqua fuoriesca, uno strato che non posso chiamare pelle, tanto è trasparente come la superficie del mare a riva. Ributtante, aggiungo, e meraviglioso. Anche adesso, mentre lo osservo di sottecchi, sdraiati uno di fianco all’altro sui lettini di un albergo in alta montagna, i raggi del sole fuoriusciti da cime lavanda, prima di annullarsi dentro la notte estiva illuminano ora quell’agglomerato di alghe tremolanti sotto la superficie del ventre, ora la risacca che, dal petto, monta senza un rumore fino alla base del collo.
Superata la prima infanzia, rassicurato sulla sua sopravvivenza –fu il dottor Willi di Innsbruck a dover ammettere il miracolo tangibile di una persona alimentata e riempita dall’acqua, e salata com’è al largo nei giorni in cui il mare si tende sotto un vento di settentrione –è a questo pensiero, alla sua esistenza dopo che la mia sarà conclusa, lui pupazzo fluido in mezzo alle asperità, che io dedicai angoscia e veglie interminabili. Sempre da solo perché, quando si trovò di fronte un neonato piegato in due come un pantalone sul braccio dell’infermiera, una zampogna cascante, braccine e gambette rugose a penzoloni, e che emanava quell’odore salmastro e corroborante oppure di alghe cotte dal sole e, occorre dirlo, nauseabonde, secondo che accostassimo il naso al viso piuttosto che alle numerose pieghe dove nei neonati si ferma il sudore, mia moglie scosse la testa senza dire una parola, si morse il labbro fino a far colare un rigo di sangue sul camicione bianco e, non appena fu in grado di andarsene dal piccolo ma attrezzato ospedale sulle pendici del monte Zirler, si dileguò, non dando più notizie di sé.
Ricordo che esaminai mio figlio, mentre trascorrevo la notte con lui in quella stanzetta d’ospedale dove avrei vissuto le successive 365; non dormendo, cercando di comprendere che cosa fosse accaduto e in quale punto oscuro della genesi, perché il mio bambino avesse più in comune con un aquario che con gli altri nuovi umani tra le braccia di genitori impacciati. Presto, forse quella stessa notte, l’ira o un inderogabile senso di protezione per quella creatura più indifesa delle altre, trasformò la domanda in un’altra meno oziosa e però affacciata su risposte che niente avrebbe potuto illuminare: che cosa sarebbe successo dopo.
Lo spogliai. Il sonno era pesante, l’avevano nutrito artificialmente e il latte si era fermato, creando una chiazza perlacea lì, dove un neonato avrebbe avuto il proprio stomaco minuto, per poi espandersi in bollicine pallide. Tenendolo in verticale, gli organi in miniatura si avviarono pigramente verso il basso: nuotavano dentro un liquido che opponeva una resistenza viscosa, simile –o era il primo confronto in cui incappasse la mente– alle lampade a forma di missile con le bolle di cera variopinta dei primi anni settanta, e che da ragazzino amavo tanto.
In poco più di un minuto, attorno alle caviglie e da lì salendo fino sopra al ginocchio si erano accatastati senza logica i polmoni, il triangolo rosso-bruno del fegato e altri organi flosci, uniti tra loro da filamenti che avrei voluto rigidi e di cui nessuno avrebbe capito la natura, nonostante indagini e raffronti con l’anatomia di qualunque forma di vita conosciuta.
Era una clessidra vivente: la giravo e il contenuto scendeva, oppure risaliva, sistemandosi con calma e senza che lui desse mostra di risentirne. Ribaltando mio figlio con delicatezza, gli organi ritrovavano il loro posto. Non erano troppo precisi nel ricollocarsi ma, anche di questo, non sembrava accorgersi. Il solo organo a non allontanarsi dalla sede era il cervello, più piccolo del normale, saldo nel cranio trasparente. Forse, pensai, non riusciva ad attraversare la strettoia della gola. E il pensiero ostruì la mia.
Quella prima notte tenni una lampada dietro di lui per studiare ogni corrente e anfratto di quel mare iridato. Cercavo uno scheletro, speravo che la natura avesse fornito un sostegno, ma non c’era niente che somigliasse a un osso o non oscillasse al primo urto. Mi calmai ricordando che non esiste neonato capace di restare seduto.
Arrivò l’alba; il sole, inondando il corpicino addormentato, portò alla superficie un limpido reticolo oro e turchese, per restituire poi al mio sguardo velato di lacrime, ogni sfumatura di azzurro, via via più impenetrabile in prossimità di quella che mio figlio, pur rivelandone eccezionalmente l’ideale dislocazione, non possedeva: la colonna vertebrale.
Lo girai, mi ostinai: il centro restava prigioniero delle tenebre.
Ora che siamo seduti a cena ancora una volta uno di fronte all’altro, alti uguali e protetti dal paravento che l’hotel è rapido a piazzare di sera in sera, estate dopo estate, devo riconoscere che, nonostante la mia dedizione più che trentennale, ben poco è cambiato. Nemmeno il silenzio tra noi. Nessun tentativo di comunicare ha avuto successo. Il suo aprire la bocca sembra rispondere a una necessità meccanica, o di incrementare la quantità d’ossigeno.
Non saprò mai ciò che lui pensava e se ne era capace; peggio: temeva e desiderava, perché allora sarei stato un padre, sì, non un voyeur. Amore imponderabile di padre, passione timorosa e che parla quando si è troppo lontani, per sentire. Io ne so qualcosa. Chi sono stato per lui, contenuto dall’attività immutabile che egli stesso contiene? La mia solitudine si nutriva del convincimento della sua; poi, quando nell’espressione rivedevo la consueta serenità disinteressata, tornava a soffocarmi la mia. La solitudine è mio figlio. Ha l’età che avevo quando è nato lui.
L’acqua di quel mare interiore non è più cristallina; il cibo ingerito ha posato una nebbia sbiadita, simile al plancton al microscopio o alla neve appena smossa in una palla di vetro. Il mio stupore non è però diminuito di fronte all’inusitata capacità di sciogliere i bocconi e di espellerli così da non lasciare concrezioni sul fondale, (del vetro mi verrebbe da dire accettando che l’errore riveli la mia volontà di passarci sopra uno straccio, quando si tratta del rivestimento interno della pelle); permettendomi, proprio ora, dopo che il figlio, da me accudito, ha ingerito la trota salmonata all’aneto servita il giovedì, di distinguere nei dettagli l’articolato profilo della barriera corallina principale che, negli anni dello sviluppo, prese il posto del bacino. E se un frammento di carne resta impigliato tra i denti delle madrepore, i policheti e altri organismi di cui non ho imparato i nomi si affrettano a pulire il proprio domicilio.
Talvolta essere l’unico ad aver assistito a questa come a ogni procedura del suo esistere, fa sorgere il dubbio di essermi inventato tutto; perché ho fatto in modo che mio figlio non si presentasse mai a tavola o di fronte a qualcuno, se non indossando una tunica molto più ampia del necessario, un indumento che non richiedesse la spiegazione degli improvvisi rigonfiamenti e avvallamenti sotto il tessuto. Che cosa rispondere a chi già non giustificava il suo perenne procedere sulla carrozzella, un ragazzo di cui erano visibili occhi e bocca, essendo il resto del volto fasciato, il capo coperto perché il cervello non si trovasse nudo come in un barattolo di formaldeide; per poi camminare appeso al mio braccio e, pur lento, prudente, suscitando nel corpo una concatenazione di onde proporzionali alla velocità di movimento. Mi dispiace non aver mostrato a nessuno l’incantevole braccio (curiosa corrispondenza) di mare che termina in falangi verdazzurre, con miriadi di bollicine ripiene di fitoplancton cremisi.
E’ stata una vita tormentata e soprattutto laboriosa: lo sforzo incessante di non presentarmi sconfitto davanti a lui, mi ha probabilmente ammalato. Riconoscendomi, oltre la tovaglia sparecchiata, nei suoi occhi trasognati e della trasparenza pietosa di meduse affiorate, davanti al rosa vibrante delle nostre rocce dolomitiche, io provo però fino in fondo il piacere dell’equità. L’enigma con cui ho convissuto per trent’anni e che sto per abbandonare, insieme all’incapacità di risolverlo, ha risvegliato e stretto i nostri vincoli di sangue. Il mistero si è impadronito del mio amore e non ha ceduto spazio, ma l’ha tenuto in vita fino a qui, alla vigilia del mio e suo dissolvimento. E’ stato un fatto compiuto e sono grato.
Abbiamo attraversato insieme i confini della ragione, sigillata dentro un’acqua su cui non si è poggiato cielo o vento. Avrà sognato un’isola su cui posare un’impronta? Non ho invidiato un figlio normale. Ogni strada è buona se percorsa tutta, diceva mio padre.
Ancora bambino mi costrinse al silenzio e alla segretezza. Poteva crescere per diventare l’incredibile e grottesco caso dell’uomo con il mare dentro. Preferii comprare il riserbo del personale di quell’ospedale tirolese, minacciando tutti, in caso avessero rivelato un dettaglio di quell’evento straordinario, delle peggiori ritorsioni. Il mio avvertimento fu una bottiglia scagliata contro il muro. Spaventati, ammutolirono, io calmo, un minuto per scegliere un destino. Decisione giusta e l’intuizione che il dottor Willi soltanto avrebbe potuto accompagnarci in una spedizione oltre il sistema solare della fisiologia, fece il resto. Il dottor Willi, mio testimone, spalla nell’incredulità, fu la coscienza critica, portatore di una conoscenza incapace a dare risposte. Almeno una, aritmetica, elementare. Perché noi siamo fatti per sette decimi d’acqua e lui dieci.
Lo stetoscopio appoggiato sopra un cuore che all’improvviso, anche se mio figlio rimaneva immobile, beccheggiava come un gavitello o era nascosto da un’alga che volteggiava dopo essersi staccata dai coralli che parodiavano la gabbia toracica. Il dottor Willi rinunciò, né c’era bisogno di cure: mio figlio si era dimostrato un ecosistema autosufficiente. Tornava però a trovarci ogni settimana nel nostro chalet a metà costa, battendo con le nocche sulla vetrata intiepidita dal sole pomeridiano. Con il viso ben rasato, il capello corto, il fisico compatto, regalava ore di concretezza alla nostra fragilità, alla comune deriva.
Prima di entrare, confessò il giorno in cui mio figlio festeggiò cinque anni, aveva sempre avuto paura di non trovarlo vivo. Oltre ai rischi prevedibili e che esaurivano i prontuari medici –e se una lama avesse provocato la fuoriuscita dell’acqua, sarebbe bastata una trasfusione allo stesso grado di salinità?– c’erano quelli sconosciuti. E se i molluschi che con l’adolescenza avevano colonizzato gli arti si fossero rivelati nocivi per l’organismo? Tentare con la somministrazione forzata di gamberetti famelici? Imparammo a memoria manuali di biologia marina.
Il dottore è suo padre tanto quanto me; meglio, perché avrebbe saputo dargli più risposte.
Il mare. Dentro. Tornava di continuo l’immagine di un nuotatore. Inutile. Lui stava diventando un uomo con il mare dentro. L’inversione diventò una sfida: assicurato il bambino a una routine efficace, trascorsi ogni giorno cercando l’origine di questo ribaltamento. Lo cercai lì, dove poteva trovarsi. Nella mia storia.
Una costellazione di recenti pubblicazioni sembra segnalare l’emergere di un nuovo modo di intendere il “fantastico”, segnando una rottura con la visione di tale produzione come stupore e intrattenimento. Il “fantastico” – sembrano suggerire questi saggi – non è un mezzo per sfuggire il doloroso morso della quotidianità, ma può aiutare ad esplorare aspetti relegati ai margini della cultura dominante e non per questo meno interessanti per comprendere la nostra contemporaneità. Parliamo in particolare, ma non solo, del gotico e della fantascienza, due filoni che nel contesto italiano hanno goduto di un costante fermento creativo, ma di scarsa attenzione critica. Altri esempi potrebbero essere fatti prendendo in considerazione il fantasy, il new weird, le nuove rappresentazioni horror.
Nel 2018 l’editore Sellerio pubblicò un sublime libretto di Adriano Sofri, Una variazione di Kafka: si tratta di un avvincente studio intorno a una minima variante (Straßenlampen “lampioni” vs. Straßenbahn “tram”) che figura in quello che è forse il racconto più famoso della letteratura europea del Novecento, Die Verwandlung (La Metamorfosi) di Franz Kafka. A incuriosire della ricerca di Sofri è, oltre all’importanza del testo oggetto di analisi, anche il fatto che l’autore non appartiene –come precisa lui stesso– al consorzio dei germanisti né a quello dei filologi di professione: tuttavia è stata probabilmente proprio questa sua posizione non accademica ad avergli dato il coraggio necessario a lanciarsi in una sfida investigativa che, se non manca del necessario rigore filologico e bibliografico, si concede la libertà di farsi guidare prima di tutto dalla passione per Kafka. E non c’è bisogno di specificare quanto questo giovi al piacere della lettura.
Come racconta Sofri, la sua indagine è scaturita dallo stupore con cui si è accorto che testo tedesco e traduzione italiana (di Anita Rho) nell’edizione bilingue della Metamorfosi pubblicata dalla BUR differivano in un punto: mentre il testo originale presenta Straßenlampen (“lampioni”), la versione italiana legge «i riflessi lividi della tranvia elettrica». Il primo impulso del filologo-investigatore è, comprensibilmente, quello di pensare ad un errore di traduzione; tuttavia il prestigio della traduttrice italiana lo convince subito che le cose non possono essere così semplici:
Devo pensare che sia un errore della traduttrice. Anita Rho (1906-1980) è stata un gran personaggio della storia della traduzione e anche della storia civile italiana. Questa sua traduzione del racconto era uscita già nel 1935 per Frassinelli. Può aver preso una simile cantonata? Ma come si fa a prendere un tram per un lampione? (Adriano Sofri, Una variazione di Kafka, Palermo, Sellerio, 2018, p. 10)
Procedendo, Sofri scopre infatti che le due varianti risalgono a due diverse edizioni del testo, pubblicate durante la vita di Kafka, rispettivamente nel 1915 e nel 1917[1]; e si rende altresì conto che le varie traduzioni si sono appoggiate, senza apparente criterio, talvolta alla prima e talvolta alla seconda edizione. Tuttavia –ed è questo il valore aggiunto dell’inchiesta– se gli studiosi hanno normalmente attribuito la variante più tarda (Straßenbahn) ad un banale errore tipografico o all’intervento di un redattore (anche sulla base del fatto che l’edizione del ’17 presenta vari interventi peggiorativi), Sofri argomenta invece a favore di un intervento dello stesso Kafka: ritenendo che «il bagliore mobile di un tram che passa sia più pregevole della — nient’affatto spregevole del resto — luce ferma dei lampioni» (A. Sofri, Una variazione cit., p. 85), e basandosi su altri testi kafkiani (una pagina di diario; le lettere a Felice Bauer; la conclusione della stessa Metamorfosi, dove compare un tram), Sofri giunge così ad ipotizzare che sarebbe stato lo stesso autore praghese a trasformare gli originari lampioni in un tram. Questa la sua conclusione:
Kafka ha descritto la luce dei lampioni (fioca, livida, scialba, secondo i traduttori) che chiazza (si posa, si allunga, si riflette, secondo i traduttori) «qua e là» il soffitto e la superficie alta dei mobili ma non arriva al buio in cui è immerso Gregor. È una luce che viene da fuori, che testimonia che c’è un fuori e che lui non lo riavrà più. Più tardi Kafka può aver deciso –l’aveva già pensato in quel brano di diario sui colori– che la luce del tram testimonia del fuori e del movimento: della possibilità di andare e venire. La luce del tram elettrico, a maggior ragione, chiazza di qua e di là il soffitto. […] Gli può essere sembrato più bello. Gli può essere sembrato un’apparizione leggera ad anticipare la fine. Gli può essere sembrato un omaggio a Felice che incredibilmente sapeva scrivere lettere sul tram, un omaggio da tenere per sé e forse per lei. Non ci sono prove scritte, dicono i bravi filologi di Kafka, e questo silenzio è un argomento per escluderlo. Mah. Per una correzione così, bastava una frase. E senza paura di disturbare o, Dio guardi, di gravare sui costi dell’editore. La composizione tipografica in piombo funziona così, che se fai un taglio, o una sostituzione che allunga, rischi di dover ricomporre e fondere un intero battaglione di righe, e magari di metterci un nuovo errore. Fra Straßenlampen e Straßenbahn c’è una differenza di appena due lettere, è presto fatto e lo spazio rimane lo stesso. Che scherzo, eh? (A. Sofri, Una variazione cit., pp. 139-140).
2.
Come si sa, la riscrittura d’autore è una dinamica che è sempre esistita (sia prima sia dopo l’invenzione della stampa); la stessa letteratura italiana ne offre esempi celebri, e per tutte le epoche: medioevo (il Canzoniere di Petrarca e il Decameron di Boccaccio), età moderna (L’Orlando furioso di Ariosto, La Gerusalemme liberata di Tasso, i Promessi Sposi di Manzoni), ‘900 (tra i tanti: molte opere di Gadda, Se questo è un uomo di Primo Levi, Seminario sulla gioventù di Aldo Busi, Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino, Di bestia in bestia di Michele Mari). Si tratta di situazioni in cui uno scrittore torna, per vari motivi, sulla propria opera, introducendo piccole modifiche (si parla allora di microvarianza) o intervenendo in maniera massiccia (e siamo allora nell’ambito della macrovarianza)[2].
Il caso di Kafka discusso da Sofri è interessante, tra le altre cose, perché, come detto, a far inciampare l’autore sulla microvarianza tra lampioni e tram è stata una traduzione, o meglio il confronto tra la versione italiana di Anita Rho e il “presunto” testo originale in tedesco. Qualcosa del genere mi è accaduto alcuni anni fa mentre affrontavo la lettura del celebre romanzo di Jonathan Franzen The Corrections (Le Correzioni), pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2001. Procedendo nella lettura tenendo sempre accanto anche la traduzione italiana di Silvia Pareschi (uscita per Einaudi nel 2002), mi sono accorto con un certo stupore di alcune discrepanze tra testo originale e versione italiana; in particolare, si trattava di alcuni dettagli del tutto secondari riguardanti la figlia di un’amica di Enid Lambert (la mamma della famiglia protagonista del romanzo), presso la cui casa viennese si reca in visita Denise, l’unica figlia femmina di Enid: per esempio, la collocazione del suo chalet di montagna (che nella versione inglese era posto a Kitzbühel, quindi in Austria, mentre nella traduzione italiana si trovava nella svizzera St. Moritz) o il cognome del marito di questo personaggio. Anch’io, come Sofri, ho inizialmente pensato –con un po’ d’ingenuità– ad un intervento della traduttrice: tuttavia non comprendevo che bisogno ci fosse di modificare quei dettagli…
Decisi allora di scrivere a Silvia Pareschi, dalla quale ricevetti molto gentilmente la conferma della corrispondenza tra la sua traduzione e il testo inglese su cui aveva lavorato. A suo avviso si trattava evidentemente di modifiche effettuate all’ultimo momento dall’autore e che la casa editrice americana non aveva segnalato all’Einaudi. Ora, i casi erano quindi due: o la traduzione italiana era stata iniziata prima ancora che uscisse la versione americana, e quindi Silvia Pareschi aveva lavorato su una redazione del romanzo che non coincideva al 100% con quella poi licenziata da Franzen; oppure quest’ultimo aveva rivisto il suo romanzo pubblicando una seconda edizione contenente alcune modifiche.
Riprendendo la questione ora, ho avuto la conferma che era la seconda ipotesi ad essere quella vera. Nell’introduzione di una monografia su Jonathan Franzen pubblicata nel 2008 da Stephen J. Burn si può leggere la seguente premessa:
I have always used paperback reprints because Franzen has consistently made corrections to each of his texts after the first printing. In some instances the changes involve relatively minor corrections. […] In the case of The Corrections, Franzen made quite extensive changes, such as the revisions made to the pages detailing Denise’s visit to Vienna […]. Along with the shift in local detail, here, come a cluster of minor changes. The name of Cindy’s maid, for example, changes from Annerl in the first edition to Mirjana in the paperback, their chalet moves from St. Moritz to Kitzbühel, and their sideboard is no longer “Louis XIV-ish” (393) but rather “vaguely Jugendstil” (390) (Stephen J. Burn, Jonathan Franzen at the End of Postmodernism, London, Continuum International Publishing Group, 2008, pp. xv-xvi).
Burn ci dà quindi conferma che la pratica correttoria è una costante nella carriera di Franzen, il quale ha spesso introdotto (piccole) modifiche in vista delle ristampe in versione economica delle sue opere. E, più in particolare, lo studioso osserva che è proprio nelle Correzioni che si sarebbe maggiormente esercitato l’interventismo del romanziere americano. Le discrepanze da me notate tra la traduzione italiana e il testo inglese dipendevano quindi dal fatto che Silvia Pareschi aveva lavorato sulla prima edizione di The Corrections (2001), mentre io avevo sotto gli occhi un esemplare della seconda edizione (2002).
Analizzando ora più da vicino le modifiche introdotte da Franzen, ci si può domandare quali siano le ragioni che le abbiano motivate. Per esempio, per quanto riguarda il cambio nel nome della cameriera di Cindy (la figlia dell’amica di Enid) da Annerl a Mirjana risulta davvero difficile pensare ad una qualche spiegazione. Una motivazione è invece forse individuabile per lo spostamento dalla Svizzera all’Austria dello chalet e per la modifica del cognome del marito di Cindy (da von Kippel a Müller-Karltreu). Circa quest’ultimo punto, la ragione sembrerebbe derivare dal fatto che Kippel è il nome di un comune svizzero: ora, avendo chiaramente specificato che il marito di Cindy è austriaco[3], Franzen dev’essersi reso conto di questa potenziale contraddizione (dico potenziale giacché, trattandosi di un cognome, nulla vieta che una famiglia von Kippel possa essere austriaca!). Notiamo anche che, una volta attuata questa modifica, nel testo è però rimasto un dettaglio che era evidentemente collegato al cognome von Kippel e che, venendo meno quest’ultimo, risulta meno coerente:
Bea’s dimwitted and unfairly gorgeous daughter Cindy had married an Austrian sports doctor, a von Somebody who’d garnered Olympic bronze in the giant slalom (Jonathan Franzen, The Corrections, London, Fourth Estate, 2010, p. 338; grassetto mio).
La stupida e ingiustamente splendida figlia di Bea, Cindy, aveva sposato un medico sportivo austriaco, un von Qualcosa vincitore del bronzo olimpico nello slalom gigante. (Jonathan Franzen, Le Correzioni, Torino, Einaudi, 2014, p. 309)
Quanto allo spostamento da St. Moritz a Kitzbühel dello chalet, immaginiamo che la ragione sia, più o meno, la stessa; ovvero il desiderio di non introdurre elementi non austriaci nel contesto della famiglia di Cindy. Tra l’altro, benché Kitzbühel non sia certo a due passi da Vienna (stando a Google Maps occorrono almeno 4h di auto), è certamente più vicino alla capitale austriaca rispetto a St. Moritz (che dista esattamente il doppio). Quindi, benché la prima versione non risultasse certo inverosimile, Franzen deve aver pensato che, dopotutto, era più credibile per una famiglia residente a Vienna possedere uno chalet a Kitzbühel piuttosto che a St. Mortiz. E l’aggiunta, nella seconda edizione, della frase «in the Austrian Alps» accanto al nome Kitzbühel («My best friend in St. Jude vacations at St. Moritz» > «My best friend in St. Jude vacations at Kitzbühel, in the Austrian Alps») sembrerebbe potersi leggere come una precisazione che svela la sua intenzione di circoscrivere al contesto austriaco, e solo a quello, tutto ciò che riguarda la famiglia Müller-Karltreu[4].
Veniamo ora all’appartamento viennese di Cindy. Nella prima edizione si insiste soprattutto sulla grandezza di tale dimora, un dato ribadito almeno tre volte:
She and Klaus have a chalet in St. Moritz and a huge, elegant apartment in Vienna
[…] and accepted an invitation to invitation to dinner at her seventeen-room
The von Kippel living room was half a block long
–
Lei e Klaus hanno uno chalet a St. Moritz(p. 413)
e accettò un invito a cena nel suo appartamento di diciassette stanze sulla Ringstraße (p. 414)
Il soggiorno dei Von Kippel era lungo come mezzo isolato(p. 414)
Di queste tre indicazioni, solo la prima è mantenuta intatta nella seconda edizione. L’ultima è stata eliminata, mentre la seconda è stata modificata: della casa di Cindy non si dice più che è fatta di 17 stanze, ma che si tratta di un attico (penthouse) nuovo e enorme (cavernous)[5]. Tutto sommato, quindi, non pare essere cambiato granché tra prima e seconda edizione. E lo stesso dicasi per la localizzazione dell’appartamento: dalla Ringstraße (indicazione generica che comprende un insieme di vie che formano un anello nel centro storico di Vienna) si passa alla vicina zona di Michaelerplatz (si dice infatti che l’appartamento si affaccia sulla Porta di San Michele, uno degli ingressi del complesso dell’Hofburg).
Infine, quanto all’arredamento della casa, l’intento delle modifiche di Franzen parrebbe quello di spostarne la descrizione verso un più tardo gusto ottocentesco, laddove nella prima edizione si rimandava invece alla seconda metà del Seicento e al Settecento; ecco allora che i riferimenti passano dallo stile Luigi XIV e da Watteau (pittore francese rococò morto nel 1721) a Bouguereau (pittore accademico francese scomparso nel 1905), allo Jugendstil (nominazione germanica dell’art nouveau) e allo stile Biedermeier (al quale si rifaceva l’arredamento della borghesia tedesca e austriaca nell’Ottocento). Si può pensare che l’autore delle Correzioni abbia voluto in questo modo rendere l’interno della casa viennese di Cindy più coerente con l’epoca a cui poteva verosimilmente risalire un palazzo costruito in quel quartiere della capitale austriaca.
3.
Giunti a questo punto, possiamo provare a tirare le fila della nostra riflessione, avanzando qualche conclusione.
Prima di tutto: benché si tratti di modifiche davvero minime, è lecito identificare nella seconda edizione di The Corrections lo stadio del testo corrispondente all’ultima volontà dell’autore. A maggior ragione dato l’esiguo spazio di tempo trascorso tra la pubblicazione della prima edizione e l’uscita della seconda: evidentemente, Franzen ha infatti voluto introdurre delle modifiche su alcuni punti che non lo convincevano pienamente (siamo quindi di fronte ad una fenomenologia diversa dal caso di un autore che, anni dopo, ritorna su una sua opera proponendone una nuova versione). Tra l’altro, giusta la nostra analisi delle possibili motivazioni che stanno dietro agli interventi del romanziere americano, si potrebbe pensare che per lui alcuni degli aspetti su cui è intervenuto costituissero, se non degli errori, quanto meno delle imperfezioni (benché, come si è detto, nessuno di essi inficiasse in alcun modo la tenuta narrativa del romanzo)[6].
Data tale constatazione, ci si può allora chiedere se non sarebbe il caso di aggiornare la traduzione italiana, rendendola fedele alla seconda edizione; o se, per lo meno, non sarebbe il caso di dotarla di un breve avvertimento esplicito sul fatto che essa è stata condotta sulla prima edizione del romanzo (non presentando perciò le modifiche introdotte da Franzen successivamente)[7]. Certo, si tratta di minuzie che non interesserebbero quasi a nessuno, e che perciò difficilmente potrebbero motivare un intervento da parte della casa editrice (seppur, presumo, non particolarmente esoso). Tuttavia è anche una questione di trasparenza nei confronti del lettore più avvertito, la cui curiosità merita forse di essere premiata da un’informazione del genere (a vantaggio, tra l’altro, della reputazione e della fiducia ch’egli assegnerà alla casa editrice).
Da ultimo, per chiudere il cerchio: abbiamo visto come una traduzione può quindi essere utile, tra le altre cose, a rendere consapevoli di possibili varianti d’autore, ovvero dell’esistenza di diversi stadi testuali di una stessa opera. A questo proposito un caso limite è quello in cui è l’autore stesso a partecipare attivamente alla realizzazione della traduzione di una sua opera, suggerendo eventualmente al traduttore di distaccarsi di proposito dal testo di partenza: è per esempio quello che è accaduto con Il Piacere di Gabriele D’Annunzio (1889), la cui traduzione francese, curata da Georges Hérelle, è stata pubblicata nel 1894 sotto lo stretto controllo dell’autore pescarese. Quest’ultimo ha infatti suggerito al traduttore parecchie modifiche, al punto che il risultato si configura come «una versione notevolmente diversa dall’originale, con diverse varianti e la soppressione di circa quaranta pagine, soprattutto passi scabrosi o troppo evidentemente presi da scrittori francesi» (Giovanni Rangone, Introduzione a Gabriele D’Annunzio, Il Piacere, Torino, Einaudi, 2014, pp. v-lix, a p. xiii). La traduzione francese presenta, inoltre, l’eliminazione dei flashback (recuperando la normale successione temporale della fabula), così come una normalizzazione del lessico e dello stile prezioso e arcaico dell’originale, allo scopo di andare incontro ad un pubblico “medio”; infine, ad essere modificato, in senso mistico-esotico, fu anche il titolo stesso: L’Enfant de Volupté. Siamo quindi di fronte ad una traduzione-riscrittura, tale per cui la riproposizione della stessa opera per un pubblico diverso (nel caso specifico per i lettori di lingua francese) ha comportato una parziale riscrittura dell’opera stessa: è quindi una situazione molto lontana dai casi di Kafka e Franzen su cui abbiamo ragionato, e che in un certo senso richiama la pratica traduttoria caratteristica del Medioevo, quando tradurre implicava necessariamente l’adattamento – e quindi la riscrittura – del testo di partenza, senza quegli scrupoli di fedeltà alla littera che caratterizzano invece la nozione moderna di traduzione impostasi a partire dal Rinascimento.
___
[1] Nella prima si legge «Der Schein der elektrischen Straßenlampen lag bleich hier und da auf der Zimmerdecke»; nella seconda «Der Schein der elektrischen Straßenbahn lag bleich hier und da auf der Zimmerdecke». Ci troviamo all’inizio della seconda parte della Metamorfosi: Gregor Samsa, ridotto a uno scarafaggio, guarda in alto verso il soffitto della sua stanza vedendo il riflesso delle luci dei lampioni (Straßenlampen) o di quelle del tram (Straßenbahn). La prima variante è anche quella che si legge nel manoscritto autografo della Metamorfosi, conservato alla Bodleian Library di Oxford.
[2] «La fenomenologia delle varianti d’autore si svolge attraverso una casistica multiforme, tra il limite minimo di piccoli ritocchi all’Originale e il limite massimo d’una pluralità di redazioni originali, ciascuna delle quali vale come opera a sé» (Aurelio Roncaglia, Principi e applicazioni di critica testuale, Roma, Bulzoni, p. 47).
[3] «Bea’s dimwitted and unfairly gorgeous daughter Cindy had married an Austrian sports doctor»; «Her Austrian son-in-law is tremendously successful» (Jonathan Franzen, The Corrections, London, Fourth Estate, 2010, pp. 338, 339).
[4] La modifica dei nomi di luoghi potrebbe costituire un capitolo a sé della filologia delle varianti d’autore. Anni fa ne avevo ipotizzato un caso per un testo mariano antico-francese, una redazione del quale si caratterizza per la modifica –rispetto al resto della tradizione– di alcuni toponimi connessi alla Vergine: Daniele Ruini, Una redazione d’Outremer della Conception Nostre Dame di Wace (ms. Tours, B.M. 927)? in «Medioevo Romanzo» XXXVII/2 (2013), pp. 296-326. Ma si veda anche il caso proustiano di Albertine disparue (capitolo della Recherche uscito postumo, ma di cui esisteva una trascrizione dattiloscritta con correzioni dello stesso Proust): ci sono infatti alcune tracce di modifiche d’autore di toponimi relativi alla fuga di Albertine: Marcel Proust, Albertine disparue, édition presentée, établie et annotée par Anne Chevalier (nouvelle édition revue), Paris, Gallimard, 2013, p. 309 (note 1 à la page 20).
[5] «accepted an invitation to dinner at her cavernous ‘nouveau penthouse’ overlooking the Michaelertor» (Jonathan Franzen, The Corrections, London, Fourth Estate, 2010, p. 452).
[6] Il caso di autori che intervengono sui loro testi per correggere dei veri e propri “errori” è ben testimoniato nella storia della letteratura; in particolare è qualcosa che è accaduto soprattutto in opere narrative particolarmente lunghe, per le quali può capitare che l’autore perda di vista un personaggio, magari facendolo inconsapevolmente “risorgere” dopo aver raccontato della sua dipartita. È quello che è successo, per esempio, nell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto (Au. Roncaglia, Principi e applicazioni cit., pp. 51-52; Ludovico Ariosto, Orlando furioso, a cura di Lanfranco Caretti, Torino, Einaudi, vol. II, p. 1200, nota a LX, LXXIII, vv. 5-7). Di alcuni errori presenti nella prima edizione de Il Conformista di Moravia (1951) si parla in Paola Italia, Editing Novecento, Roma, Salerno editrice, 2013, pp. 19-20. Celebre poi il caso dell’Elegia di Pico Farnese di Montale, nella quale l’autore aveva chiamato i frutti dei kaki diàspori in luogo del corretto diòsperi: in questo caso la correzione della storpiatura è stata realizzata dall’editore (Gianfranco Contini, 1980) solo in seguito al consenso di Montale stesso (Au. Roncaglia, Principi e applicazioni cit., p. 40; Alfredo Stussi, Introduzione agli studi di filologia italiana, Bologna, Il Mulino, 2015, p. 99).
[7] Tra l’altro sarebbe anche il caso di correggere un refuso nel nome di uno dei due dedicatari del romanzo: nella versione einaudiana Genève Patterson ha infatti perso una t nel cognome.
È dicembre, forse, il mese più crudele dell’anno, non Aprile, se è vero che Petrarca colloca la morte della sua Laura il giorno di natale, ed è sempre il 25 dicembre, il giorno in cui uno degli eroi fondatori della modernità, Werther, decide di spararsi con la rivoltella presa in prestito dalla mano della sua Lotte. Si aggiunga che, se hanno ragione le statistiche, il periodo natalizio è quello in cui si conta il maggior numero di suicidi. Dicembre, dunque, che per il giovane Werther è stato un mese vissuto (o morto) in pieno, quello che ha avvolto e soffocato il protagonista nella sua miseria di lutto e declino, in Dicembre dall’alto di Vittoriano Masciullo è il mese in cui il bilancio, la retorica della fine è contemplata dall’alto, a distanza, ma non senza coinvolgimento emotivo. “Tutto è presente, è qui”, chiosa non a torto Cecilia Bello Minciacchi nella postfazione.
Strutturato in tre sezioni – Inaspettata, Ueno, Nessuno spiega Chirone, già dal titolo della prima il libro ci mette in guardia su ciò che vi troveremo all’interno. Si tratta di un continuo movimento di inatteso e sorpresa, come quell’atteggiamento speculativo di chi, guardando dall’alto, in realtà non fa che aspettare il crollo. Ma come scrive Winnicot, nel momento in cui nel soggetto si verifica la paura del crollo, il crollo è già avvenuto. E qui, in Dicembre dall’alto, l’altezza sembra desiderio di caduta a capofitto nei luoghi amati e nella storia, forse per scomparire.
L’inaspettato è, insomma, inscritto nella dialettica tra desiderio e paura di caduta, come, del resto, reso in modo magistrale nella versificazione. Si possono leggere, infatti, versi singhiozzanti, troncati, dove le ellissi assumono una molteplicità di significati, non ultimo quello di rappresentare sintatticamente il salto dal pieno al vuoto. Ogni verso è una conquista, ma anche un ulteriore tentativo di suicidio o di morte che non si realizza mai completamente, come la parabola degli eroi senecani.
Però si nasconde dell’altro dietro queste cadute: talvolta il procedere dei versi, la sottrazione delle parole, la sospensione subito dopo le preposizioni, sembrano non tanto “togliere”, quanto riprodurre poeticamente il fatto che, nel percorso a ritroso della propria memoria, alcune parole siano andate perse o, più precisamente, non si vogliano pronunciare. E non si vogliono dire sia per evitare semplificazioni del verso (in almeno un caso l’autore ci fa immaginare soltanto la rima, senza dichiararla), sia perché “rimosse” e “dolorose”, come quei non detti nel corso di una seduta analitica.
E di percorso analitico, di tanto in tanto, possiamo parlare per Dicembre dall’alto, specie quando nella silloge sembra che qualcuno dia del lei al soggetto: cosa inusuale per un libro di poesia, serio ma non serioso, tragico, e molto più tipico di diverse forme apparentemente autoironiche come quelle di Giovanni Giudici. Qui il lei sembra proprio quello pronunciato da un analista al paziente, mentre, per esempio, lo spinge a riconoscere che tutti i morti sognati non sono nient’altro che le varie frammentazioni dell’io disperse nell’universo («ma non è lei che piangeva/non è lei che muore dice/ma tutti suoi sé/che l’aspettano nell’universo»).
Tra analisi e racconto, così, tra analisi della realtà e racconto di sé, si susseguono le pagine, come in un “diario di guerra”, della guerra storica e privata che l’autore cerca invano di possedere.
La diaristica, tuttavia, è cosa ben differente da un libro di poesie: altrimenti a che sarebbe servito pubblicare la silloge, se fosse stata soltanto un diario privato?
Masciullo si pone continuamente il dubbio dell’utilità della scrittura, di tutto ciò che esiste e consiste, della analisi stessa che porta avanti, mettendo in crisi o abbassando sia la sua voce autoriale, sia la veridicità stessa della ricostruzione. «A che serve?», «Altrimenti a che serve?», «Salva, salva, altrimenti a che serve», ripete spesso il poeta come una sorta di refrain in testi dispiegati omogeneamente in tutte le tre sezioni della silloge.
Seppure apparentemente il discorso possa sembrare sfumato nell’ideale e nell’irreale, è bene specificare che in questa raccolta esistono continui appigli alla realtà circostante; e il non detto, sebbene resti non detto, viene comunque temporalmente e spazialmente collocato. Una conferma è offerta dal continuo rimando alla toponomastica, a vie e quartieri vicini e lontani. Se poche città vengono citate esplicitamente, il libro è tuttavia cosparso di nomi ben definiti, di date, di riferimenti a mesi precisi, oltre a dicembre, che ne collocano chiaramente il lasso temporale e il rapporto tra soggetto e storia.
Il movimento, così, è quello di una “visione” che da distante si fa sempre più vicina: dalla visione allegorica di un quartiere lontano, alle vie della città in cui l’autore vive, Bologna.
Se, del resto, la seconda sezione prende il nome da un quartiere di Tokyo, Ueno, il libro è ricco di nomi di vie riconoscibili a chiunque viva o attraversi Bologna anche per una sola volta: in sequenza troviamo via Rialto, via san Vitale, via san Michele, via Barontini, piazza Aldrovandi. Un esempio tra tutti valga il verso in cui incontriamo l’io lirico piangere da «via rialto sino alla fine della fine», un procedimento versuale che da una parte colloca precisamente l’autore in uno spazio ben determinato e dall’altro, invece, lo sfuma fino a disperdere ogni tipo di coordinata, in una schizofrenia che non lascia scampo alla risoluzione dei conflitti (storici e individuali). Ma le vie non sono vie il cui significato è soltanto privato, ovvero: non si tratta di vie in cui possiamo tracciare soltanto i confini dell’esperienza dell’io-lirico. Da una parte, infatti, c’è Ueno, la sezione in cui il quartiere giapponese è osservato dall’alto e in cui sembra non si atterri mai, dove si passa senza “disfare le valigie” e non si scatta nemmeno una foto, come se non si potesse né si dovesse fermare l’immagine nella memoria. Dall’altra parte, però, quando ci si avvicina ai luoghi familiari, nell’esperienza immanente e non passeggera, subentra con forza e distruzione anche la storia della Bologna che ha visto sia il tracollo delle esperienze degli anni Settanta, sia il barbaro omicidio di Aldrovandi.
Dopo il viaggio in aereo sulle luci del quartiere di Tokyo, ci immettiamo subito nel ritorno dettato dall’ultima sezione, Nessuno spiega Chirone, lungo la quale il conflitto è portato all’ennesima potenza, quando tutte le certezze e i dati sembrano esplodere. Chiamarlo “ritorno”, tuttavia, sarebbe consolatorio. Il termine ha necessità di essere più marcato: chiamiamo ritorno qualcosa che ricompone, che ricongiunge, nel bene e nel male. A ogni modo, si tratterebbe di un percorso a ritroso che implica un livello di maturazione e consapevolezza. Al contrario Masciullo non vuole suggerire né maturazione né consapevolezza. Questo suo libro non è un romanzo di formazione in versi al termine del quale si giunge a un qualche barlume di verità. Qui, per indicare il senso del viaggio, ci viene in soccorso il poeta stesso, suggerendo la parola adatta: ritirata.
È una ritirata quella tematizzata in Nessuno spiega Chirone, termine posto a suggerire non solo che il viaggio non è servito a niente, ma persino che il tentativo di presa di coscienza di sé non è andato a buon fine. Così come non sono andati a buon fine i tentativi di spiegare e razionalizzare la storia degli ultimi quarant’anni da Aldrovandi a Cucchi.
In questa epica al contrario, in questo semi nostos, l’autore teme soltanto i lapsus, le cadute, anche se talvolta pare che la memoria storica possa essere un piccolo conforto persino per la sfera personale. Se niente è servito a niente, almeno ci resta la possibilità di ricordare, «altrimenti a che serve aver scritto prima di». Ma il buio cosmico è sempre vicino, sempre a un passo, perché «morire […] è quando gli occhi diventano palpebre/e niente» e, nonostante tutti gli sforzi, conclude lapidariamente l’autore: «nessuno//rimane//comunque».
da Vittoriano Masciullo, Dicembre dall’alto, (L’Arcolaio 2018)
*
e continua ricordi
se riesce quel ragazzo sul lago
qualcosa mi dice era già precipitato
prima cosa se riesce e dice guardi
stia attento un filo porta da questa seconda
lettera spuria dell’alfabeto ai capricci di bregenz
e poi verso zurich e munich e
ai malori di lexington di al hoceima
e poi dove ha
nascosto il primo momento
l’attimo in cui implode madre
siderale per cui ha pianto da
via rialto sino alla fine della fine
ma non è lei che piangeva
non è lei che muore dice
ma tutti i suoi sé
che l’aspettano nell’universo
*
ultima preghiera nel tempio di asakusa
so per chi cosa devi
piove rientri così scrivi
ma col tempo sai anche
questi senza fine giorni
irripetibili più feroci delle spine
infragiliti dalla tosse
col tempo sai la morsa del palmo
in silenzio formicolio che non si
più al buio di quella
delle analisi del sangue o
linfa da parte terrei ti servisse
ma cresciuta non più libera
dalla luce suicida
col tempo sai
(vicino i fiori galleggiano
presto verso il bianco
che qui è l’addio)
*
spegni la luce tutto trova la sua lingua
anche al buio parla trova tempo
cambia il tempo delle
cose cambia infinite cose
imparare la pace dai senza pace
tornare dai viaggi dai libri
bisogna imparare altrimenti
dalle macerie di piazza dal
perdere la guerra vincendo la ritirata
anni e che parola ora dopo venti
(venti come niente) asettici
nel bere nel celare
opportune distanze ma
ricorda la sopravvivenza dei cani
il pericolo dall’alto (erano le parole di
francesca woodman o i superotto in sala
da pranzo le capriole sul prato
dicembre dall’alto) ricorda o
cosa infinisce ricordate come io
ricordo nel rizoma delle nostre
o cosa è memoria
ovunque siate
*
l’elioterapia degli occhi azzurrissimi
selce nel cambia la lingua al buio
delle cose finite cambia le
cose infinite senza pace
imparando a tornare
da e col tempo i suoi occhi
malatissimi nel dirmi io qui senza te penso
(e ci voleva molto a scrivermi
cose così per forza l’esperienza della
malattia in età adulta) ma elena
stanca che per tutti è penelope e tacita non
ma soprattutto queste parole adesso
foglie innervate dal sapore nostro
vedi la bicicletta il giardino davanti casa
la salvezza a portata il non odore
insegui non interrompere
ora nessun infarto il
nebivololo ogni mattina
aspettala rispettala
chiamala con le parole migliori
nella sola lingua rimasta (la prima lingua
madre) perdici la vita
nei suoi azzurrissimi
e niente.
*
È strano dirlo, per me che sono nato a pochi chilometri da qui, ma non ho mai passato una notte a Venezia. Lo dico mentre ci stringiamo i cappotti e ci allacciamo le sciarpe attorno al collo, guardando il fiato salire come fumo contro il cielo nero sopra le nostre teste. Da San Sebastiano l’intrico delle calli deserte ci disorienta quando camminiamo svelti come a volerci lasciare dietro il freddo che ci si è aggrappato addosso all’uscita dell’osteria.
Hanno dovuto sbatterci fuori che eravamo gli ultimi ma abbiamo mangiato e bevuto bene, dice Luca con quel suo modo soddisfatto di scandire le parole e di ascoltarsi la voce, e nel silenzio perfetto i passi sul selciato ci inseguono come un’eco. Le nostre donne, aggiunge allora beffardo, lanciando un’occhiata veloce dietro di sé e poi cercando la mia complicità con lo sguardo che il vino e l’ora tarda hanno reso un poco fosco. Anch’io mi volto appena a cercare le sagome esili delle ragazze che camminano un po’ discoste da noi tenendosi a braccetto. Quando se ne restano indietro e parlano fitto con quell’aria buia sulla faccia vuol dire che stanno parlando di noi, dico. Non ci si può fare niente, dice lui ridacchiando. Come in quella poesia di Borges, aggiunge, sono come tutte le altre, ma sono loro. Anch’io ci faccio sopra una risata, ma mi esce stonata, come fasulla, e per un attimo mi guardo indietro colpevole. Tra poco è Natale, mi ritrovo a pensare, ed è già passato un anno da Buenos Aires, dalla vita che credevo sarebbe stata e non è mai cominciata.
Usciamo da sotto un portico e quasi ci sorprende il vuoto smisurato di Piazza San Marco. L’hai mai vista così, mi chiede Luca, senza un’anima? Io scuoto la testa mentre l’attraversiamo, sentendomi piccolo e forse più solo di prima. Ci si fanno attorno archi e colonne e cornici e pietre scolpite come fantasmi bianchi e sdegnosi, e la quinta dorata della Basilica si staglia sontuosa e incerta quanto un fondale dipinto. Pensa che qui c’era solo il mare, dico ammirato e insieme perplesso. Questo è l’uomo, dice soltanto Luca, che sembra d’un tratto a corto di parole. Qualcosa si muove poco lontano da noi nel mezzo della piazza. La sagoma di un grosso gabbiano increspa il buio in brevi sussulti. Ci avviciniamo fermandoci a pochi passi, finché mettiamo a fuoco il profilo affilato dell’uccello, fiero e ritto sulle zampe, ora immobile come fatto di pietra. Il becco è una lama ricurva da cui pendono sfilacciati brandelli rossastri. Per un istante ci fissa dal nero del suo occhio vuoto e selvaggio, furioso nel suo vederci come traguardandoci, per poi tornare implacabile a straziare la carcassa di un piccione che giace informe sulle pietre come un involto di stracci. Nemmeno quando ci raggiungono le ragazze riusciamo a distoglierci dal guardare ammutoliti la bestia che fa ciò che deve fare. Vedo Chiara stringersi a Luca e aggrapparsi fiduciosa al suo braccio, e sbadigliare senza chiedersi troppo. Cristina invece mi si fa accanto, e qualcosa le impedisce di annullare la breve distanza che ci separa. Le guardo la linea della fronte e le sopracciglia che si accartocciano sopra allo sguardo scuro, negli occhi sgranati qualcosa di simile alla paura. D’un tratto tutto ciò che ci sta intorno mi pare posticcio e traballante, c’è qualcosa che stride e che scuote i paraventi e le impalcature e la piazza intera. È quello che c’è sotto, qualcosa con cui dovremo fare i conti. Da stanotte non ci s’inganna più.
Mio fratello morì prima di mezzanotte. Mi avvertì il gatto, miagolando e strusciandosi tra le mie gambe mentre ero seduto in veranda, nell’attesa angosciante dell’agonia che si protraeva nella stanza in cui i miei genitori vegliavano e di cui potevo scorgere solo una flebile luce. Mio fratello è morto nella stanza dove sta il pianoforte, quella più vasta, era bravo mio fratello a suonare. La sera prima il gatto si era messo lì, sotto la finestra spalancata, con la testolina rivolta in alto a scrutare l’anima di mio fratello fluire dalla casa come il denso fumo di un incenso invisibile solo a occhi umani.
La stanza si affaccia su una veranda conclusa da una ringhiera rettangolare dipinta di verde ficcata nel basso muretto di piastrelle marroni nell’intrico di una siepe di pittosporo che si interrompe all’angolo ovest; lì cresceva l’albero di mimosa slanciato e gonfio di gialle infiorescenze, quando era il periodo, smorte dal fulgore ultimo del tramonto che scende oltre i campi coltivati a tabacco, in direzione del cimitero dove accompagnammo il feretro di mio fratello il giorno successivo, dopo la messa delle tre e mezza, prima di quella canonica delle sei della domenica. Il cancello della veranda mi dava l’idea d’un primo livello di conoscenza, superato il quale ci si poteva considerare parte della famiglia e non semplici estranei il cui viso noto non rendeva più del tutto forestieri ma nemmeno ancora abbastanza intimi. Il mio sguardo interiore cadde sull’immagine di mio fratello, sulle sere d’estate davanti casa a parlare e sparlare di sé e degli altri, mentre famiglie di gechi, sui muri grigi imbiancati dalla luce fredda dei lampioni, scattavano sulle loro prede dopo lunghi attimi d’immobilità, estenuanti per me che osservavo con il naso all’insù in attesa del momento dell’attacco; e le riflessioni, sopraffatto dalla stanchezza di quei laceranti giorni di agonia, si tramutarono in un sogno che vedeva me e mio fratello protagonisti di una passata estate, ignari del viaggio esistenziale che imminente sarebbe volto al termine, proprio come il roseto che mio nonno piantò nell’inverno del 1960, di fronte alla finestra della stanza da cui stillava la musica che mio fratello suonava al pianoforte, e che a un certo momento smise di fiorire insieme alle rose… Fu mio padre a destarmi dal sonno e vidi l’alba affollata di estranei e parenti. La mamma pallida e assente nell’abbraccio di sua sorella. La crudeltà bianca del mattino che sanciva la definitiva verità dentro un feretro.
Sedemmo attorno al corpo, attonito io e confuso dal significato della vita, riflesso negli occhi lucidi degli amici e delle amiche di mio fratello. Poco più che ragazzi, non ancora del tutto donne o uomini.
All’uscita dalla Messa, l’applauso di centinaia di persone mi percosse sui gradini della chiesa destandomi dal torpore per un breve momento in cui abbracciai mio padre mettendomi a piangere come un bambino. Fino al cimitero, dietro al carro funebre, stretto ai miei genitori, ma ormai con la mente lontano dalla realtà che non arretra dinnanzi all’evidenza e si trasforma in delirio, mi ripetevo: è solo un sogno, è solo un sogno.
E come un sogno un’epoca era per sempre terminata. Le mimose non si coglievano più a marzo. Le rose non dicevano nulla. Desolato, io, nuvola nel proprio frammento anomico di cielo nero. I gechi sempre più rari le sere d’estate.
La luce flebile, che appena ventiquattrore prima filtrava dalla stanza del pianoforte, aveva smesso di sperare. Silenzio. Solo un grillo, nascosto tra la siepe di pittosporo, cantava incrinando la quiete della notte; e non riuscivo a prendere sonno.
NdR: questo racconto di Gianluca Garrapa è tratto dalla sua raccolta “La cosa”, appena uscita con l’Editore Ensemble