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Storia con gatto

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di Andrea Inglese

 

Vedo un uomo. Corre via. Non è un filosofo. Io stesso corro. Io corro a perdifiato. Vedo un uomo. Corre via di nuovo. Non è lo stesso uomo. Non è neppure lui un filosofo. Io corro. Io corro da un bel pezzo. Vedo anche altre persone, oltre agli uomini. Ci sono persone e ci sono uomini. Sono misti.

Flavio Ermini: Edeniche

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Tre poesie, con una nota critica di Antonio Delogu

 

 

il crinale pietroso

 

nell’attestare con l’inchiostro quanto altrove svanisce

testimonia il mortale l’interminabilità del cadere

incessantemente manifestandosi come verbale presenza

nell’imperfetta sua aderenza al pietroso crinale

per un altissimo grado di estraneità alle tenebre

Violenza, creatrice di diritto

3

 

Gabriel Natale Hjorth bendato nella caserma dei carabinieri

 

«La funzione della violenza nella creazione giuridica» scrive Benjamin «è, infatti, duplice, nel senso che la posizione del diritto, mentre persegue come scopo, con la violenza come mezzo, ciò che viene instaurato come diritto, pure, nell’atto di insediare come diritto lo scopo perseguito, non depone affatto la violenza, ma ne fa solo ora in senso stretto e immediatamente violenza creatrice di diritto, in quanto insedia come diritto col nome di potere non già uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma intimamente e necessariamente legato ad essa.»

Post in translation: Antonella Anedda/ Jean-Charles Vegliante

3

 

 

 

Esilii
di
Antonella Anedda

 

 

 

 

 

 

Pieno il mare di esuli; gli scogli coperti di sangue
Tacito Historiae

Oggi penso ai due dei tanti morti affogati
a pochi metri da queste coste soleggiate
trovati sotto lo scafo, stretti, abbracciati.
Mi chiedo se sulle ossa crescerà il corallo
e cosa ne sarà del sangue dentro il sale,
allora studio – cerco tra i vecchi libri
di medicina legale di mio padre
un manuale dove le vittime
sono fotografate insieme ai criminali
alla rinfusa: suicidi, assassini, organi genitali.
Niente paesaggi solo il cielo d’acciaio delle foto,
raramente una sedia, un torso coperto da un lenzuolo,
i piedi sopra una branda nudi.
Leggo. Scopro che il termine esatto è livor mortis.
Il sangue si raccoglie in basso e si raggruma
prima rosso poi livido infine si fa polvere
e può– sì– sciogliersi nel sale.

Pleine la mer d’exilés, les rochers couverts de sang
Tacite, Historiae

Aujourd’hui je pense aux deux, parmi d’autres, noyés
à quelques mètres de ces côtes ensoleillées
retrouvés sous le bateau, étroitement embrassés.
Je me demande si sur leurs os poussera le corail
et ce qu’il adviendra du sang dedans le sel,
alors j’étudie – je cherche parmi les vieux livres
de médecine légale de mon père
un manuel où les victimes
sont photographiées avec les criminels
pêle-mêle : suicidés, assassins, organes génitaux.
Pas de paysages sous le ciel d’acier des photos, rarement une
chaise
un torse recouvert d’un drap, les pieds sur un brancard nus.
Je lis. Découvre que le terme exact est livor mortis.
Le sang se rassemble en bas et se coagule
d’abord rouge puis livide enfin devient poussière
et peut, oui, se dissoudre dans le sel.

(trad. J.-Ch. V.)

Ulisse tecnologico #1

3

di Giuseppe Martella

  1. Marchingegni

Ulisse, ingegnoso e mendace, è uno dei più noti eroi culturali di ogni tempo. Le sue astuzie proverbiali rimangono impresse nei nostri ricordi e tra esse spicca quella da lui messa in atto nella grotta di Polifemo, dove secondo alcuni si svolge “lo scontro tra chi si muove e chi sta fermo: l’opposizione originaria, il cui esito, favorevole alla mobilità, ha fatto di quest’ultima la condizione fondamentale per tutto quello che chiamiamo cultura.”

Andrea Camilleri – Sud

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Per il numero 1 di Sud, Andrea Camilleri scrisse per noi questo magnifico racconto (effeffe)

Scultore di sé

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di Daniele Muriano

 

Quanto gli piaceva scolpire nel giardino, mentre in estate gli uccelli svolazzavano attorno senza posarsi sul marmo, o mentre in diverse stagioni, se il tempo era calmo, la natura sembrava trattenere il respiro intorno a lui per guardare. Aveva scolpito una volta, d’inverno, con tutta la neve sparsa per i prati e sui tetti: dopo cena, gli era parso davvero che il busto si fosse deformato, ma poi guardando meglio aveva notato i nuovi fiocchi nel vento, di là dalla finestra. La natura era sempre viva, e tutti i giorni il cielo era un testimone ingombrante che reagiva ai colpi di scalpello incurvandosi come un ventre che testimonia il respiro.

Cielo di stelle

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  di Gianni Biondillo

Erminio Ferrari, Cielo di stelle, Casagrande, 147 pagine

Era una notte di febbraio del 1966 quando quindici operai italiani e due pompieri ticinesi trovarono la morte nella galleria d’adduzione dell’impianto idroelettrico in costruzione fra le valli Bedretto e Bavona. Uccisi in modo subdolo, da un gas tossico ristagnate nel cunicolo.

Cielo di stelle racconta questa storia. Ma, prima ancora, questo libro ci racconta come l’autore, un quarto di secolo dopo la tragedia, sia incappato in questa storia all’apparenza lontana e come l’abbia ossessionato. Cercando testimoni, documenti, riscontri. Il cipiglio di Erminio Ferrari è quello del giornalista d’inchiesta, ma la scrittura è di tutt’altra natura. Ferrari ci racconta il più rovinoso incidente sul lavoro del Ticino senza usare toni scandalistici. A lui, passate ormai due generazioni, interessa l’umanità perduta, interessa la pietas.

Con dovizia, con fermezza, ha parlato con i minatori sopravvissuti, ormai in pensione, con le vedove, con la figlie ormai donne e madri. Non ha cercato il nome di un colpevole – anche se molte sono la pagine dedicate ai processi dell’epoca. Ha, con questa indagine, voluto scrivere la storia di una terra, il Ticino, che a passo forzato voleva modernizzarsi e di un popolo migrante e miserabile, l’italiano, che voleva emanciparsi dalla fame, pronto per questo ogni giorno a rischiare la vita.

Uno dei pochi doveri della letteratura è “fare memoria”. Non perdere le piccole storie dei viventi, quelle macinate dalla Storia con la S maiuscola. Fare memoria significa avere consapevolezza che il paesaggio che si attraversa, oggi all’apparenza idilliaco, è stato scenario di dolori e perdite. Che certe parole d’ordine, certi razzismi quotidiani che oggi riaffiorano, hanno origini lontane. È chiedere di non ricadere negli stessi errori dei nostri padri. Questo fa Ferrari: fa letteratura.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione numero 24, del 13 giugno 2017)

Hate is a special feeling: scene alternative toscane nei Novanta

4

di Andrea Betti

La sala prove era alla fine di una strada bianca, in un casolare, fra i canneti che, come la casina di Yoda, emergeva dalla mota millenaria di quelle terre, aggrappato all’argine del canale in mezzo ai campi, dove la figlia zoppa e suo padre, il Martini, camminano eternamente scontrosi. Vanno da Cioni Mario, l’unico marito possibile per questa figlia sciancata; – …tanto son di famiglia moritura – le dice il padre, così che quando il povero Cioni ci rimarrà secco fiammifero durante l’amplesso, potranno riunire i poderi e andare in culo al mondo. Ma lei non ne vuol sapere. Mario è brutto. Il Martini la minaccia: – O chi vòi? Marlon Brando? …Sta’ zitta! Ti do uno schiaffo ti spoglio.

Questa é la Toscana cui hanno asportato il pittoresco senza anestesia, la piana fradicia che si stende fra Prato, Pistoia e Firenze, dove il vino inacidisce nelle cantine, delle campagne incolte segnate dai cantieri dei capannoni e dei centri commerciali che di lì a breve avrebbero riempito il vuoto della civiltà agreste in disarmo; le wasteland dove fu girato “Berlinguer Ti Voglio Bene”.

Il Muro di Berlino e l’idea, seppur controversa, di un mondo non esclusivamente capitalista, erano crollati da appena un anno; ancora teneva quel sistema di Case del Popolo e Festival dell’Unità innestati come elettrodi nel tessuto ancestrale e necrotico dell’impermanenza contadina. Di lì a poco sarebbero tramontati, nel silenzio dei telai delocalizzati, anche i distretti industriali e nei circoli sarebbero comparse le slot-machines. L’America, o per meglio dire, la ricezione precocissima dell’istanza grunge\crossover e ancor prima, del punk e della new-wave, ebbe luogo qui, nell’impensabile di cui il pieraccionesco è farsa edulcorata ed esposizione di macchiette depotenziate, fra vecchi comunisti ruvidi e avvinazzati, nel coro delle pastose bestemmie a briscola.  Nelle balere acchittate a bat-caverna per chicken-goth dance e poghi furiosi, prese in prestito al liscio, si formarono le prime band alternative toscane, che della vivace scena wave fiorentina del decennio precedente ricalcavano i processi insondabili di concrezione in un’inspiegabile affinità elettiva con il nuovo “rock tormentato” di Seattle. Simili gli sguardi increduli di matusalemmi bifolchi e giovani precocemente invecchiati nell’animo, che deridevano le creste, i giubbotti di pelle pieni di spillette, le borchie, i Doc Martens, i primi dreadlocks, le pose dei giovani ribelli… – Bada lì come tu se’ conciato! Ma che se’ buho? – perché non era insolito il make-up anche fra i maschi. L’odio è un sentimento speciale e universale: la reazione chimica era simile a quella di Seattle ma non avrebbe incontrato le infrastrutture e le vastità del mercato statunitense. Il fallimento era assicurato.

Il casolare apparteneva a Marco Ricci, chitarrista e geniale deus ex-machina dei Go Insane, band nella quale ho militato in veste di front man, o per meglio dire sguaiato urlatore, per poco meno di un anno, dal 1990 al ’91, un anno intenso: circa una ventina di concerti e la registrazione di un demo tape. Condividevano con noi quello strapuntino sul fosso anche i più noti Glomming Geek; loro erano riusciti a “fare il disco”, traguardo aureo delle band sotterranee dell’epoca. In quelle notti di prove incessanti nella stanza rivestita di cartone da uova, fra cyloom spezzati in terra e nubi purpuree dal mixer in corto, avevamo, fra i molti eccessi, la sana abitudine di scambiarci cassette attraverso cui chi riusciva a comprare un vinile, condivideva con gli altri la propria esperienza estatica. Tanti gruppi, americani perlopiù, pervenuti a noi tramite i 45 giri della Sub Pop e altre gloriose indipendenti nordamericane, che Marco, Fabio e Fabrizio (rispettivamente chitarra, basso e batteria dei Go Insane) collezionavano, ispirandoci e trascinandoci in un nuovo concetto di “rock”, che poi sarebbe diventato il post-rock, rendendoci all’avanguardia ma inintelligibili all’ascolto dei nostri contemporanei: troppo punk per i metallari, troppo metal per i punk.

Stavamo sul cazzo a tutti, ai vecchi, ai giovani, ai pottini, ai dark, ai tamarri. Ma in quella commistione di stili in cui tutto veniva frullato per esplodere, eravamo fomentati dal demone del Nuovo e poco ci importava del marketing e della comprensione dei nostri simili che odiavamo. Durante uno dei consueti scambi di cassette, Spartaco e Tommy (voce e basso dei Glomming Geek) erano lì appoggiati al cofano della Talbot Solara del Bullman che dicevano:

– Sì, sì, sì, tutto molto bello, Nirvana, Jane’s Addiction… ma il Gruppo Fondamentale erano loro: gli Electric Peace.

E Tommy annuiva:

– Indubbiamente…

Pur assiduo lettore di Rockerilla, sono sempre stato un superficiale e non sono mai stato un fissato o un esegeta di alcunché, ma persino i miei compagni di band che erano musicalmente assai più colti del sottoscritto, drizzarono le orecchie. Chi erano questi Electric Peace? Tenterò una azzardata descrizione di questo fenomeno liminale: immaginate allora di non essere una band, piuttosto un elemento radioattivo, in perenne transizione fra i Doors e i Deep Purple, un picaresco ensemble di bikers che ai vostri contemporanei di metà anni Ottanta, dediti a fonarsi le chiome e sgallettare sul synth pop, risultiate tremendamente datati, ma al termine della vostra parabola vi ritroviate, proprio per le stesse caratteristiche che vi rendevano demodé negli Eighties, fottutamente avant-garde nei Nineties.

Di fatto gli Electric Peace dal 1985 al 1989 avevano anticipato ed esaurito tutto quello che ritroveremo poi smembrato e sviluppato in singole parti nel cross-over. Hard rock psichedelico (Tad? Screaming Trees? I primi Sound Garden?) traviato dalla presenza magniloquente e ben amalgamata dell’organo Hammond, ma senza ammiccamenti à la Fuzztones; ai nostri poco importava di essere dei sex symbols come Rudy Protrudy: loro puntavano ad essere dei death symbols. I’m a snyper on the rooftop, I Think I’ll die, I Will Kill for your Love etc… l’impeto del garage punk veniva lanciato come una maledizione da metalliche montagne della follia, trainato dalla voce stentorea di Brian Kild e dalla chitarra blues di Honey Davis. Stiamo parlando di vero blues da fricchettoni di Venice coi piedi sudici, esuberante ma mai affettato o vanaglorioso, contraffatto da un sound che descrive nel dettaglio la transizione del lisergico nell’alba oscura del narcotico e dell’anfetaminico; cambiano le droghe e le prospettive, di conseguenza la musica popolare. Robba da Hell’s Angels cui abbiano somministrato, alla zitta, datura stramonio mescolato al bourbon, durante beach party notturni fra surfisti dissennati che si trasformano in sabba: non si può non riconoscere agli Electric Peace, il dono di un ammaliante mesmerismo, come nei più celebri neri sabbatici del vecchio zio Oz.

Com’è andata a finire?

Il cantante, il carismatico Brian Kild ora pare venda moto, mentre il chitarrista della prima line-up Jim Hawkinson, in moto ci è morto proprio, in ottemperanza alla loro Drinkin’ and Drivin’ (‘Till The day I Die). Noi giovanotti scapestrati sognavamo di seguire il loro esempio, di essere come quella gentaglia in fuga da sceriffi e paranoie, i cecchini sul tetto che sparano a caso sulla folla, di percorrere le vie per l’Inferno animati da sinceri propositi suicidi. Se i Led Zeppelin cantavano di scale per il paradiso, i nostri miravano dritti dritti alla catabasi (come nel loro anthem “Goin’ to Hell”) ovviamente a bordo di harley tabogate con teschi cromati, indossando occhiali neri anche a notte fonda per attraversare ciechi e forsennati, il lato oscuro della California.

Anche noi ci sentivamo così, di ritorno dal Backdoors, negli abitacoli fumosi dei nostri scassoni; gli amici che mi hanno regalato la prima cassetta da novanta contenente i due album “Medieval Mosquito” e “Insecticide” ci hanno lasciato anch’essi pochi anni fa: Tomaso Azara, artista poliedrico, bassista, dj e in seguito sofisticato producer di musica elettronica e Giovanni Borselli detto Bullman, tastierista dei Glomming Geek, stregone dell’elettronica e costruttore di monumentali rack di effetti, che trasformavano il suo Farfisa in un gutturale athanor per circensi trenodie; la profonda connessione “spirituale” dei Glomming Geek con gli Electric Peace forse nasceva proprio dalla tastiera, che avevano mantenuto in dialogo con le Gibson distorte e i ritmi parossistici che il nuovo gusto imponeva. La tastiera nel corso degli anni Ottanta era diventata, da strumento emblema del non-musicista wave, la chiave di volta del pop commerciale, esaurita ogni psichedelia, si era fatta orpello figo da litorale ibizenco, la stucchevole generatrice di trombette degli Europe, per non parlare degli arpeggi da segaioli della fusion; per tale manifesta incompatibilità veniva giustamente sdegnata dai nuovi rocker esistenzialisti. E poi era veramente difficile armonizzarla in un gruppo hard rock.

I Glomming Geek traghettavano nel nuovo pianeta roccioso il loro retaggio new-wave, creando una miscela originalissima, che li faceva spiccare nel panorama italiano al solito affetto da cronico e insanabile epigonismo. Nonostante questo, per ragioni che non conosco né indago, fatto salvo il consueto tocco trance, sciamanico di Spartaco, nel secondo album abbandonarono il tenebroso Farfisa per farsi robusti e ultraviolenti in chitarre, sacrificando a mio avviso qualcosina sull’Altare dei Muraglioni Marshall con tutti i pitch a dieci, anche se all’epoca io preferii questo album più allineato al precedente, il Caveiano-Lynchano “Dog’s Head”.

I Glomming Geek come gli Electric Peace garantiscono un ascolto emozionante ancora oggi, illuminante per chi aneli sonorità storte e poco inclini ad essere etichettate; una rivelazione per l’ascoltatore onnivoro e insaziabile che ognuno di noi dovrebbe essere. Alla fine della discesa agli inferi, troverete una ninna nanna che non consola né redime dalla consapevolezza del Male che si agita in fondo all’umanità, e nel loro esequiale ultimo sberleffo ad ogni aspettativa e aderenza stilistica, la pace elettrica dei disadattati.

—–

Go Insane

https://myspace.com/goinsaneitaly/music/songs

Glomming Geek

https://it.wikipedia.org/wiki/Glomming_Geek

Discografia:

1990 – Dog’s Head (Vitriol)

1992 – Dig a Hole in the Sky (Wide Records)

 

Electric Peace

Recensioni

https://www.debaser.it/electric-peace/medieval-mosquito/recensione

https://reverendolys.wordpress.com/2017/12/01/electric-peace-lc-1249-53/

 

Discografia:

1985 – Rest in Peace (Enigma Records)

1987 – Medieval Mosquito (Barred Records)

1988 – Insecticide (Barred Records)

1989 – Road to Peace (Barred Records)

Una versione ridotta del pezzo è uscita su MegaHertz, inserto di Metropolis, il 20 maggio 2019.

Presto ultralontano

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di Gregorio Tenti

“Sarà finito il chiasso, domattina, ma io sarò a letto e mi moltiplicherò per non morire.”
B. Brecht, Tamburi nella notte

*

Fumavano e formavano lì davanti a tutti, prendevano gli uomini squagliati dai rombi della luce e gli uomini incastrati. Anche il loro gruppo cominciava a spalancarsi dal dolore. Altre figure lavoravano a saldare i ranghi, ma alla fine c’erano sempre loro, che uscivano rapidi e fedeli dall’edificio, che si lavavano i nervi dalla calce, tutti insieme. Ci mostravano la nostra utile grandezza. Si muovevano bene perché figli di carnefici, come la mano senza appetito della specie, cui dicono appartenga il presente. L’evoluzione ha tollerato lunghi sforzi e grandi voli; poiché certo è più facile sperare.

*

Bieiris de Romans o il saffismo nel medioevo

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di Edoardo Angrilli

 

 

Donna angelo, donna schermo, Domna o tiranna, soltanto questi pochi appellativi rendono palpabile l’innegabile centralità della presenza femminile nella lirica cortese. Invocata, supplicata o lodata la donna parebbe avere in questa importante e consistente tradizione una ruolo puramente passivo, tanto da diventare, da topico oggetto poetico, un mero pretesto letterario, uno spunto lirico. Tuttavia, dovremmo dire parziale, se non faziosa, questa visione subordinata e remissiva della donna nel medioevo, basti guardare al corpus delle trobairitz, poetesse a pieno diritto pari alla loro controparte maschile, i trovatori.

Seppur di difficile delimitazione – Schultz-Gora[1] elenca sedici componimenti, Bogin[2] ventitrè, Paden[3] venti, Zufferey[4] ritorna sui sedici… –, a causa delle differente implicazione femminile del testo (testuale o genetica), il Maximalkorpus di questa tradizione viene generalmente fatto coincidere con un numero di quarantasei componimenti assegnati a venti trobairitz. Esso, fonte di incredibile interesse per lo studio della condizione femminile nel medioevo, rivela nella sua varietà la grande libertà espressiva concessa a queste scrittrici, quasi tutte di nobili natali, s’intende. Infatti, ad esse non solo era concesso in piena libertà di intonare languidi vers di desiderio amoroso, ma erano addirittura chiamate ad intervenire, proprio in qualità di donne, sui dibattiti attorno alla natura di Amore e sulla conseguente etichetta da seguire nel rapporto tra l’amante e l’amata.

Si veda ad esempio quest’estratto della poesia Estat ai en greu consirier (BdT 46,4) della Contessa di Dia[5]:

Ben volria mon cavallier

tener un ser en mos bratz nut,

q’el s’en tengra per ereubut

sol qu’a lui fezes cosseillier,

car plus m’en sui abellida

no fetz Floris de Blancheflor :

ieu l’autrei mon cor e m’amor,

mon sen, mos huoills e ma vida. (vv. 9-16)

[Vorrei stringere nudo, una sera, il mio cavaliere tra le mie braccia, e che lui si sentisse felice solo che io gli facessi da cuscino; perché mi piace più di quanto a Florio piaceva Biancofiore: io gli concedo il mio cuore e il mio amore, il mio senno, i miei occhi e la mia vita.]

O ancora, si legga la terza strofa della canso di Azalais de Porcairagues, Ar em al freg temps vengut (BdT 43,1):

 

Dompna met mot mal s’amor

qu’ab trop ric ome plaideia,

ab plus aut de vavassor,

e s’il o fai il folleia;

car so dis om en Veillai

que ges per ricor non vai,

e dompna que n’es chausida

en tenc per envilanida.

[La donna che sospira per un uomo troppo ricco, di rango più alto di un valvassore, rivolge male le attenzioni del suo cuore, e se lo fa, ammattisce; perché, come si dice nel Vellai l’amore non va d’accordo con la ricchezza, e una donna che l’ha scelta io ritengo che si svilisca.[6]]

Un caso particolarmente curioso, per la l’insolita conformazione del suo dettato, è dato dalla canzone Na Maria, pretz e fina valors (BdT 16a,2) attestata unicamente nel foglio 208v del canzoniere T16. In esso, infatti, si può leggere un unicum nel panorama provenzale: non è né un uomo a scrivere tenere parole ad una donna né una donna a scriverle per un uomo, bensì il testo presenta una singolare dichiarazione d’amore tutta al femminile, da donna a donna.

Secondo la grafia del copista, infatti, l’autrice della canso sarebbe una presunta e non meglio identificata nabieiris deroman, autrice di questo solo testo di due coblas unissonans di otto decenari e da due tornadas di quattro, che canta le lodi di una certa Maria.

Sul presunto saffismo del componimento, però, la critica si è divisa e ancora si divide, mossa dalla legittima domanda riguardo alla liceità di questa lettura. Da una parte, infatti, se l’eccezionalità del caso acuisce il dubbio, va soprattutto rimarcato che sarebbe un errore grossolano e naïf proiettare le odierne rivendizioni sessuali, storicamente condizionate, su un secolo altro e diverso, seppur non così moralista e intollerante, come si è cercato di dimostrare.

A conferma dell’autenticità dell’autorialità femminile intervengono, comunque, e Zufferey[7], che conferma l’attestazione nel provenzale antico di Bietris per Beatritz, e la più appassionata Angelica Rieger[8]. Fortemente convinta della mano femminile del testo (perché mai il copista avrebbe dovuto attribuire un nome di donna all’autore del testo?), la studiosa arriva tuttavia a sostenere un’interessante e acuta lettura della canso. Dopo aver analizzato tutti i testi in cui è presente un dialogo fra donne, ella infatti conferma la dimensione esclusivamente femminile della poesia, ma nega fermamente l’implicazione romantica del testo. Anzi, a suo dire, il tono affettuoso e sentimentale sarebbe piuttosto da inserire in un codice di comunicazione convenzionale tra familiari.

Senza nessuna malizia, dunque, ma buon costume.

Una tesi non troppo dissibile viene presentata anche da Alison Ganze[9], sostenitrice della perfetta aderenza del testo al codice linguistico del rapporto vassallatico, in tutto e per tutto speculare ad alcuni poemi dedicati dai trovatori ai loro signori.

Ma le interpretazioni si moltiplicano, tra chi, agnostico, lascia ogni possibile interpretazione al lettore[10], a chi vedrebbe, preda da un parossismo esegetico, nella fantomatica Maria a cui è dedicata la poesia la stessa Santa Vergine.

Più prettamente filologiche sono tuttavia le considerazioni della scuola avversa, quella dei sostenitori della paternità del testo. A conferma di questa tesi, infatti, ci sarebbe la non trascurabile corruzione del manoscritto, che tra le sue stesse carte conta non poche attribuzioni erronee.

D’altronde, lo stesso sopraccitato Zufferey[11], dopo un’analisi comparatistica del componimento in questione e un’altra canso canso del codice, quella di Gui d’Ussel a Maria di Ventadorn[12], giunge a sostenere che il tono della poesia sia innegabilmente maschile, seppur senza azzardarsi a proporre una nome per lo scrittore. Sarà Schultz-Gora[13], piuttosto, a prendere posizione al riguardo, leggendo nel nome di Na Bieiris una più probabile corruzione di N’Alberis, con cui si potrebbe nominare Alberico da Romano.

L’interesse per le lettere di questo signore trevigiano (1196 – 1260), infatti, sarebbe ben attestato e ulteriormente confermato dalla sua amicizia con il poeta Uc de Saint-Circ. Anzi, a maggior ragione la convenzionalità metrica e tematica del componimento preso in esame sarebbe da leggere in un quadro imitativo volto ad apprendere la techne del maestro.

Un esercizio, dunque, un’imitazione.

Impossibile probabilmente giungere a una risposta definitiva su un tale busillis, che, come si è visto, porta con sé numerose implicazioni, filologiche, tematiche, storiche, sessuali. Certa è, tuttavia, l’innegabile fascinazione che un testo simile continua ad avere, ancora oggi, attraverso i secoli, stimolando nella mente del lettore infinite soluzioni alternative, subendo letture e riletture, motivate o tendenziose, piegandosi o aprendosi ad anacronismi e attulizzazioni.

Personalmente, se posso, tra amanti segrete, poetesse di corte, maestri e discepoli e altri evocativi scenari, mi piace indugiare a figurarmi la mano del copista vergare quei caratteri incerti, e lui, inconsapevole o furbesco, ma sicuramente romanzesco, confidare alla storia l’enigmatico nome di Na Bieiris.

 

Na Maria, pretç e fina valors

E·l giois e·l sens e la fina beutatç

E l’ acugliers e·l pretç et las onors

E·l gintL parlars e l’avinens solas

E la doç cara e la gaia acundança

E·l ducç esgartç e l’amoros se[m]blan

Ce son e vos, don non avetç egansa,

Me fan traire vas vos, sis cor truan.

Por ço vos prec, si·us platç, ce fin’amors

E gausimentç et doutç’umilitatç

Me puosca far ab vos tan de socors

Ce mi donetç, bella dopna, si·us platç,

So don plus ai d’ aver gioi esperansa,

Car en vos ai mon cor e mon talan

E per vos ai tut so c’ ai d’ alegransa

E per vos vauc mantas ves sospiran.

E car beutas e valors vos enansa

Sobra tutas, c’ una no·us es denan,

Vos prec, se·us plas, per so ce·us es onransa

Ce non ametç entenditor truan.

Bella dompna, cui pretç e giois enança

E gientç parlars, a vos mas coblas man,

Car e vos es gaessa et alegransa

E tutç lo bens c’ om e dona deman[14].

[Donna Maria, il pregio e l’alto valore e la gioia e il senno e l’alta beltà e la gentilezza e il pregio e il decoro e il bel parlare e il piacevole intrattenimento e il dolce viso e il gaio contegno e il dolce sguardo e il sembiante amoroso che in voi sono, in cui non avete uguale, mi spingono verso di voi, senza intenzione di ingannarvi.

Perciò vi prego, se vi piace, che l’amor fino e la gaiezza e la dolce modestia mi valgano tanto presso di voi che mi doniate, bella donna, se vi piace, quello da cui ho tanta speranza di ottenere gioia, ché in voi ho il mio cuore e il mio desiderio e per voi ho tutta l’allegria che è in me e per voi vado soventre sospirando.

E poiché bellezza e valore vi innalzano sopra a tutte sì che nessuna sta davanti a voi, vi prego, se vi piace, per il vostro onore, che non amiate un corteggiatore falso.

Bella donna, che pregio e gioia e bel parlare innalzano, a voi invio le mie cobbole, perché in voi stanno gaiezza e allegria e tutto il bene che si può cercare in una donna.]

Bibliografia:

Chiara Cappelli, «La canzone Na Maria, pretz e fina valors: problemi di attribuzione e interpretazione», elaborato finale in filologia romanza.

[1] Oscar Schultz-Gora, Die provenzalischen Dichterinnen: Biographien und Texte nebst Anmerkungen und einer Einleitung, Genève, Slatkine Reprints, 1975 (prima edizione 1888).

[2] Magda Bogin, The Women Troubadours, New York, W. W. Norton & Company, 1988.

[3] William D. Paden, «Introduction», The Voice of the Trobairitz. Perspectives on the Women Troubadours, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1989, pp. 8-27.

[4] François Zufferey, «Toward a Délimitation of the Trobairitz Corpus» in William D. Paden, The Voice of the Trobairitz, pp. 30-44.

[5] Testo e traduzione di Costanzo di Girolamo, I trovatori, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p.45.

[6] Traduzione di Edoardo Angrilli

[7] François Zufferey, «Toward a Délimitation of the Trobairitz Corpus» in William D. Paden, The voice of the Trobairitz. Perspectives on the Women Troubadours, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1989, p. 41, n. 4.

[8] Angelica Rieger, «Was Bieiris de Romans Lesbian ? Women’s Relations with Each Other in the World of the Troubadours» in Paden, The voice of the Trobairitz, pp. 73-94.

[9] Alison Ganze, «Na Maria, pretz e fina valors : A New Argument for Female Authorship», Romance Notes, 49, 2009, pp. 23-33.

[10] René Nelli, Ecrivains anticonformistes du moyen-âge occitan, p. 279.

[11] François Zufferey, «Towards a delimitation» p. 32.

[12] En tanta guisa·m men’Amors (BdT 194,6).

[13] Oskar Schultz-Gora, «Nabieiris de roman» in Zeitschrift für romanische Philologie, 15, 1891, pp. 234-235.

[14] Ms. : T 208v.

Testo: Giulio Bertoni, I trovatori d’Italia : biografie, testi, traduzioni, note, Modena, Orlandini, 1915, p. 265.

Traduzione: Gianfranco Folena, Culture e lingue del Veneto medievale, Padova, Editoriale Programma, 1990, p. 87.

Tre poesie dal fare spietato

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Fengjie III (Monument to Progress and Prosperity), Chongqing Municipality.

di Pasquale Vitagliano

Vedo il mare
Sempre dal solito punto
Ogni anno da questo angolo sempre
Dalla stessa posizione
Ho visto addirittura che si scarnifica
Sugli scogli che perdono il muschio marino
Le alghe scompaiono intossicate
E la sabbia lentamente avanza da sotto
Per la gioia dei ragazzi che ho visto neonati

Il volo di Camilleri sulla Storia

1

 

di Marco Viscardi

A un certo punto si fermò e taliò verso terra. Vitti la piazza, le case con la gente supra i tetti che accomenzava ad andarsene e in mezzo alla piazza vitti macari il palco e una cosa, una specie di sacco, che pinnulava dalla forca dunnuliando. Rise. E ripigliò ad acchianare.

È un finale bellissimo quello del Re di Girgenti [2001]. Zosimo guarda da una prospettiva non più umana lo spettacolo della propria impiccagione. I gradini che lo portavano verso la forca sono finiti e con loro si sono spente le voci che l’avevano accompagnato al som de l’escalina ammonendolo con parole sconosciute: sovenha vos a temps de ma dolor… Le stesse di Arnaut Daniel prima di gettarsi nel foco che affina. Il tempo terreno si è chiuso e una nuova, misteriosa dimensione sta per schiudersi. E da quella soglia il mondo è un grande e confuso teatro. Una scena colta a volo d’uccello in cui Zosimo è contemporaneamente ‘una cosa, una specie di sacco’ che penzola da un palco e l’intelligenza liberata dai pesi che quello spettacolo contempla. Nella lotta la morte ha irrigidito il corpo ma l’intelligenza resta fluida e ride, semplice e creaturale, davanti a quella scena dove i vivi sono in realtà morti e il morto è vivissimo e aereo.

Consegnata al lettore, l’ultima pagina è un rilancio, una sfida che va ben oltre la mole del volume del libro, ben oltre l’esistenza terrena del suo protagonista ma entra nelle nostre vite, fa di noi stessi racconto. Nel 1977, Sciascia aveva chiuso il suo Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia con la liberazione del protagonista che, dissipata ogni cupa presenza di padri/padroni, «si sentiva figlio della fortuna; e felice». Zosimo ha convertito la violenza della storia nel volo dell’intelligenza. I suoi persecutori restano invischiati nelle cose, Zosimo plana altissimo al di sopra di tutto.

Se per un attimo facciamo nostro il punto di vista di Zosimo, se guardiamo dall’alto, ci rendiamo conto che il mondo letterario di Camilleri è unico e ogni divisione fra romanzi polizieschi e romanzi duri è – come già avvenuto per Simenon – vana e un po’ snob. La storia è un enigma e il racconto storico è un poliziesco. Ma allo stesso tempo un poliziesco è immerso nelle leggi storiche del suo tempo, è invischiato di inchiesta. Storia e Giallo sono due strumenti con cui si affronta un medesimo problema, radicato nella tradizione narrativa siciliana già prima di Pirandello, fino dalle scaturigini veriste: il conflitto fra le parole e le cose, la lotta fra caos del reale e rigidità fittizie dei discorsi ufficiali. Come se il modello storico manzoniano trapiantato in Sicilia si fosse sbilanciato verso gli Azzeccagarbugli che diventano di volta in volta i cantori di corti, gli storiografi, i verbalizzatori delle versioni ufficiali.

Dietro la bellezza esteriore, si nascondono le vere leggi della storia. Gli inseguimenti di Tancredi e Angelica nell’aereo palazzo di Donnafugata portano alla scoperta – dietro tanta bellezza – di stanze in cui si consuma la violenza. Quella del piacere sadico del boudoir dei perversi settecenteschi e quella abbacinante del Duca santo che si flagellava davanti al suo Dio affinché col proprio sangue potesse fecondare le terre che la provvidenza gli diede in feudo. Dietro la bellezza di scale, sale e salotti, c’è sempre una frusta insanguinata a ricordare che la violenza è il motore della storia. Camilleri approfondisce spesso lo iato che esiste fra la molteplicità del reale e il grigiore accomodante delle versioni ufficiali. Fra questi, il capolavoro è il Birraio di Preston, che fin dalla sua prima edizione del 1995 porta in copertina i compassati visi cinquecenteschi del Gruppo del tiro a segno di Amsterdam ritratti da Dirck Jacobs. Quelle figure ci guardano ferine e sono pronte a inghiottirci, a portarci nella loro società conformista e violenta che nasconde dietro il rigore inappuntabile dell’apparenza la cieca ossessione del particulare e dell’interesse. I fatti raccontati sono immaginari ma in qualche modo ispirati all’inchiesta parlamentare sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia (1875-76) di Franchetti e Sonnino e si svolgono nel cuore della cartografia sentimentale di Camilleri: fra il capoluogo Monteleusa e la turbolenta Vigata. Qui Camilleri racconta dell’oltracotanza del regio prefetto che vuole obbligare i vigatesi ad assistere all’inaugurazione del nuovo Teatro Re e dei cittadini offesi della mediocrità del melodramma scelto: il giustamente dimenticato Birraio di Preston, di Luigi Ricci.

Alla fine il teatro va a fuoco e ci sono anche dei morti, ma la verità dei fatti, che il lettore conosce per aver letto il romanzo, viene sviata nelle versioni ufficiali, e la colpa viene fatta ricadere sul pazzo del paese. Camilleri finge che l’ultimo capitolo del romanzo sia l’inizio di uno studio monografico sulla storia di Vigata opera di Gerd Hoffer. Hoffer è il figlio di un ingegnere tedesco impiegato nelle miniere della zona, Gerd era stato il bambino che aveva gridato all’incendio del teatro, di fatto il primo personaggio del romanzo, che qui ritroviamo non da incendiario, ma da pompiere. Dietro la sua falsa oggettività, Hoffer è ossequioso verso i poteri, legittimi e illegittimi, della nuova Italia. La sua è una contro-narrazione della vicenda del romanzo, ma gli abusi e le collusioni del prefetto, le insulse cautele del questore e la viscida ambiguità dei politici locali, si capovolgono in mielosa apologia, panegirico dell’esistente.

Come spesso in Camilleri, il lettore credeva di assistere ad un’opera buffa e finisce raggelato. I cattivi hanno vinto e l’operetta si è congelata nell’allegoria grottesca, anamorfica, dell’interminabile crisi italiana, della serie lunghissima delle nostre doppie e triple verità, dei nostri avvelenamenti pubblici. Di fronte a questa rigidità delle forme, l’inquietudine conoscitiva di Camilleri si manifesta nel rigore etico di una scrittura che sa rifiutare le convenzioni letterarie e l’obbligo della consequenzialità e racconta la storia con un intreccio non sistematico, in cui i capitoli non seguono l’ordine naturale e scartano di lato, anticipando o rallentando gli avvenimenti della trama. E ciascuno di questi capitoli scompaginati inizia con l’incipit di un libro diverso, e l’intero volume con l’incipit più famoso della letteratura, quello che Snoopy ruba a Bulwer-Litton: «Era una notte che faceva spavento, veramente scantosa» (p. 9). Con un lampo dissacrante compare persino, ma stravolta in un orgasmo interregionale, uno dei loci più insigni delle nostre lettere: «“Signora sta vinendo? Sta vinendo signora?”  […] “Sì…Sì Vegni!…Ve..gni…Ghe sont!” la svinturata arrispose» (p. 148).

Il giulebbe del melodramma, avrebbe detto Tomasi di Lampedusa, che tutto ingloba, tutto stordisce, tutto allenta, inzucchera e avvelena. Di fronte alla melassa opprimente della pacificazione, la scrittura tenta la sua battaglia: far riemergere tutto quanto non collima, non tiene, tutto quanto deve essere dimenticato perché, altrimenti, può turbare e increspare l’ipocrita serietà degli uomini della società del tiro a segno.

Alla fine però si torna sempre al commissariato di Vigata, a donne e uomini che conosciamo come i più familiari e di cui sapremmo elencare vizi e virtù: Salvo, Livia, Mimì Augello e Bebba, Fazio, Gallo, Ingrid, il dottor Pasquano e poi i questori, i prefetti, i giornalisti delle tv libere e di quelle asservite, i ristoranti di pesce e la cucina di Angelina. Tutti personaggi di carne e carta che ci vivono in testa e che non ci abbandoneranno, accanto a Renzo, a Edmond Dantès, a Farinata degli Uberti e agli altri che ci empiono di sogni. Fra questi, però, quello che per ultimo dovrebbe abbandonare la scena dell’omaggio all’autore è Agatino Catarella, Catarella il puro, il fuori registro, l’extravagante. Agatos e Cataros – come mi ha fatto notare una lettrice più acuta di me – Buono e puro. L’uomo che rifiuta il linguaggio comune, perché ha capito che è un linguaggio mistificante e ipocrita e ne parla uno suo, fatto di libere associazioni, di assonanze e consonanze, divagazioni fughe e scarti del pensiero. Il mite piantone del commissariato di Vigata, il sorvegliante della soglia, è l’antitesi dei custodi di Kafka che vivono di fronte alla Legge e per la Legge parteggiano. Catarella è un ribelle contro le convenzioni sociali ed è un difensore dell’umano. Sarà triste ora che il maestro è andato via, ma è anche l’unico ad immaginarlo che vola e ride mentre guarda questo nostro sciagurato pianeta. Di cui, se esiste uno spazio oltre questo che conosciamo, forse continuerà a ricordarsi.

 

Considerazioni soggettive sulle prove oggettive

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di Giorgio Mascitelli

La pubblicazione dei risultati delle prove INVALSI per gli esami di stato di terza media e in particolare quelli di italiano, che evidenziano un 35% di candidati sotto il livello di accettabilità della prova ( quelli che sul Giornale  sono stati chiamati gli ‘analfabeti’) ha prodotto una prevedibile salva di opinioni autorevoli. Di solito la maggior parte dei commenti a dati del genere è riconducibile a due tipologie: la prima, che si può battezzare nostalgica, considera l’attuale scuola come il prodotto di una decadenza continua, perlopiù cominciata con il ’68 e delle quali le riforme recenti non sono che un tardivo e irrilevante epifenomeno e i cattivi risultati un’inequivocabile conferma dello stato di cose. Abbastanza indifferente a quisquilie come il fatto che la scuola vagheggiata si reggeva sull’esclusione dall’istruzione media e superiore di circa tre quarti degli alunni, esclusi pertanto dalla possibilità di conoscere con sicurezza l’italiano, questo tipo di argomentazione risulta di piacevole lettura perché si avvale di un apparato retorico dimostrativo risalente, con i dovuti aggiornamenti, perlomeno al dibattito sulla crisi dell’eloquenza nella cultura romana del I secolo d.c..

L’altra tipologia, che per comodità definirò tecnocratica, abitualmente considera in forma implicita o esplicita responsabili dei cattivi risultati, perché va da sé che i risultati possono solo essere cattivi,  gli insegnanti e i loro metodi didattici proponendo come correttivo tipici obiettivi di politica scolastica main stream ( eliminazione o ridimensionamento delle materie umanistiche, massiccia introduzione nella didattica delle tecnologie informatiche, stretta subordinazione dell’attività scolastica a spesso imprecisate esigenze produttiviste, competitività eletta a principio guida della scuola) che nulla c’entrano o addirittura sono in palese contraddizione con i dati presi in esame. Si tratta anche in questo caso di un’argomentazione retorica, anche se di formazione più recente, che mira alla persuasione grazie a un effetto di scientificità conseguito sovente tramite un non avaro ricorso a tecnicismi anglosassoni e un continuo richiamo ai compiti inderogabili che il Futuro nella sua trasparenza impone alla scuola che ne voglia essere degna.

A mio avviso invece la prima cosa che andrebbe ricordata, quando si commentano i risultati delle prove INVALSI,  è che esse sono presentate come un modello oggettivo di misurazione delle abilità, quando nella comunità scientifica esiste una forte discussione sull’oggettività della misurazione in quanto  ‘Il sistema di valutazione dell’INVALSI è realizzato seguendo il modello di Rasch , un modello di psicometria per il quale, necessariamente, 1/3 delle prove è sotto un valore “soglia”’ ( cfr. https://www.roars.it/online/la-valutazione-della-scuola-e-luso-distorto-del-test-invalsi/). Per chi avesse voglia di una discussione di questo metodo probabilistico più puntuale può leggere https://www.roars.it/online/il-modello-di-rasch/. A queste considerazioni si potrebbe aggiungere che il metodo del test standardizzato non è forse il metodo migliore di verificare il grado di padronanza di una lingua rispetto ad altre forme usate nelle scuole, i cui esiti si prestano meno facilmente a una riduzione numerica adatta a una misurazione.

Lo scarto tra oggettività percepita e oggettività effettiva dei test è in realtà uno dei problemi principali da tenere in considerazione perché le prove INVALSI non si presentano semplicemente come uno strumento d’indagine, cosa che in sé potrebbe essere utile, ma come un sistema scientifico e oggettivo di valutazione dell’efficienza della scuola tramite la misurazione dei risultati degli studenti. In altri termini le prove INVALSI si pongono come un sistema alternativo rispetto al sistema degli esami di stato di fine ciclo che viene contestato come non abbastanza oggettivo, anche se le abilità testate in un esame di stato sono molto più numerose e più significative. Prova ne sia che nell’attestato dell’esame di stato delle scuole superiori di quest’anno accanto al punteggio conseguito nello stesso verrà riportata la valutazione ottenuta nelle prove INVALSI.

A sua volta questo passaggio non è neutrale, ma funzionale a un preciso modello di istruzione in cui i singoli istituti sono in concorrenza tra di loro per attrarre i migliori studenti esaltando le differenze tra scuola e scuola invece di provare a ridurle. In questo sistema l’idea stessa di scuola pubblica sarebbe sorpassata perché anche gli istituti pubblici sarebbero incentivati a comportarsi come soggetti privati. E di una cosa sono sicuro e cioè che in un sistema del genere la padronanza della lingua italiana per la maggioranza degli studenti peggiorerebbe.

 

 

A ciascuno il suo Camilleri

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di Gianni Biondillo

Non l’ho mai conosciuto. Non c’è amico scrittore, soprattutto di genere, che non abbia un aneddoto con Camilleri. Me ne hanno raccontati per anni. Il mio è, banalmente, che non l’ho mai conosciuto. Più di una volta ho vagheggiato un incontro in qualche festival letterario, oppure ho programmato un viaggio a Roma per il solo piacere di parlargli, ma niente da fare. Così oggi ho la certezza che Camilleri resterà quello che è sempre stato per me: un personaggio mitologico, inventato, ultraumano. E il nostro rapporto l’unico possibile, quello corretto, unanime. Da scrittore (lui) a lettore (io).

Il primo romanzo che ho letto di Camilleri non fu un Montalbano e questa, in un certo senso, è stata la mia fortuna di lettore. Lessi Un filo di fumo, libro pubblicato nel 1980 e, all’epoca, perfettamente dimenticato da tutti. Era il secondo romanzo di Camilleri, dove appariva per la prima volta una Vigata storica, di fine Ottocento. Rimasi affascinato, ovviamente, dalla lingua misteriosa: non italiano, non siciliano. Scoprii, così, un autore dotto, di nicchia, capace di raffinatezze linguistiche gaddiane.

Poi l’autore di nicchia divenne autore di culto, così, d’improvviso. Capita, ogni tanto. Capita che un personaggio esploda fra le mani dell’autore e prenda una vita propria. Così fu con Montalbano, chiamato in quel modo in onore di un amico scrittore spagnolo (Manuel Vázquez Montalbán).

Camilleri, da questo punto di vista, aveva frantumato ogni luogo comune del mondo letterario dell’epoca. Non c’era bisogno d’essere un giovane talento per dire qualcosa di nuovo; non era vero che la scrittura dei gialli fosse piatta e senza ricerca; meno che mai che un giallo non potesse – come ipotizzavano Calvino e Savinio – avere scenari domestici. Il Camilleri dotto, il regista teatrale che aveva portato sulle scene per la prima volta in Italia Beckett e Ionesco, il delegato RAI che aveva curato il mitico Maigret con Gino Cervi, il giovane poeta già antologizzato da Ungaretti e Quasimodo, l’amico fraterno di Sciascia e di D’Arrigo, lo sapeva. Ma lo sapeva perché l’aveva compreso frequentando ad Enna, in gioventù, Francesco Cannarozzo, giallista che ambientò in Sicilia, ben prima di Sciascia, le storie del suo commissario. Che poi è la peculiarità del romanzo di genere italiano: non tanto trame intricate come partite di scacchi dove i personaggi sono pedine al servizio del plot, ma la trama come pretesto per scandagliare e raccontare l’umanità mutevole e dolente del nostro paese.

Camilleri è stato determinante in Italia per smantellare i pregiudizi sul genere. Prima di lui, non ostate avessimo già avuto un autore della qualità di Scerbaneco, chi scriveva un giallo veniva trattato come uno scrittore di romanzi pornografici. Roba da malati, robaccia da edicola, da sala d’aspetto. Il fastidio della letteratura colta, quella col lauro in testa, a dover ammettere che si potesse lavorare sull’impasto linguistico e sulla trama contemporaneamente, che si potesse fare intrattenimento di qualità, che si potesse fare letteratura, insomma, anche con la narrativa di genere credo sia diventato rabbia smodata, dolore allo stomaco, ulcera perforata, quando, Camilleri in vita, apparve il primo Meridiano di Montalbano. Follia, vergogna, vituperio! Un giallista al pari dei grandi della letteratura patria! Chissà le risate che si sarà fatto Camilleri.

Che poi ognuno ha il suo, di Camilleri. Ammetto che il mio non contempla la serie di Montalbano. Ne ho letti alcuni, mi hanno divertito, ma il culto attorno al personaggio, scatenato dalla serie televisiva, non mi ha mai particolarmente coinvolto. Il mio Camilleri è – colpa come dicevo del mio primo incontro con lui – quello storico. Quello della Concessione del telefono o, per dire, del Re di Girgenti. Non dimenticherò mai la sensazione di vertigine che ebbi tenendo fra le mani Il birraio di Preston. La certezza che stavo leggendo uno scrittore (all’epoca non ancora conosciuto) che era già naturalmente nell’empireo dei grandi. Già culto per me, già mito letterario.

Tutto quello che è arrivato dopo, la sua fortuna (tradotto in 120 lingue, con una serie televisiva tratta dai suoi romanzi venduta in tutto il mondo), l’ho sempre trovato miracoloso, incomprensibile eppure meritatissimo. Perché fu per tutti noi, lettori prima che scrittori, un esempio di intellettuale sempre in prima fila, schierato, con la schiena dritta. Perché ci ha insegnato che studio, approfondimento, ricerca vanno pari passo con passione, divertimento, leggerezza. Questa la sua eredità, in una riga: essere curiosi e affamati del mondo, della vita. Fino all’ultimo giorno.

(pubblicato anche qui)

Radiodays: Abissi

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Alone II
SUONO: Gianni Maroccolo
SCRITTURA: Mirco Salvadori
IMMAGINI: Marco Cazzato
VIDEO: Michele Bernardi e Marco Cazzato

L’abisso

racconto di Mirco Salvadori

Nero, spumante denso catrame, spalanca le fauci e ingoia, spezza, annichilisce, ghermisce il respiro e lo accartoccia nel sibilo atroce della resa alla morte.

Piegato in due, raggrinzito su sé stesso, i timpani che urlano bisogno di silenzio mentre l’atroce sibilo penetra oltre la barriera delle palpebre un attimo prima che si spalanchino permettendo alla vista di oltrepassare il lento scivolare del sangue che vela lo sguardo. Una frazione di secondo, la stessa frazione di tempo usata per premere l’acceleratore e innescare un meccanismo capace di amplificare la devastazione. BOMBA! BOMBA! Le uniche e ultime parole udite prima che il vento furioso creato dalla deflagrazione lo colpisse allo stomaco con la stessa potenza di un bisonte lanciato a testa bassa verso il cuore della tempesta. Piegato in due, raggrinzito su sé stesso, immerso nella nuvola di detriti, coperto dalla pioggia di brandelli di carne, pezzi di arti, interiora strappate, Deepesh pensava al mare, quel lontanissimo e sconosciuto mare oltre il quale avrebbe finalmente trovato pace. Via da Peshawar, incontro ad una nuova vita in una nuova terra che i racconti e il passaparola descrivevano come un vero paradiso.

Immagini di Marco Cazzato

Le corsie dell’ospedale erano gremite all’inverosimile, le pareti chiazzate di sangue e vomito imprigionavano le urla di bambini a cui erano state amputate braccia e gambe, la disperazione di madri che avevano perduto i loro figli, il tormento dei mariti che cercavano mogli di cui nulla era rimasto se non un grumo di ossa e sangue ormai indurito. Deepesh vagava di letto in letto alla ricerca di suo fratello mentre l’angoscia saliva e saliva. Il pugno stretto allo spasimo nella tasca che conteneva il piccolo tesoro sufficiente a farli fuggire, arrancava di respiro in respiro. Nel momento dello scoppio lui si trovava relativamente lontano, mentre suo fratello lo attendeva sotto le arcate del mercato, erano pronti per andarsene, partire, abbandonare quella città che aveva loro insegnato i mille modi nei quali è possibile morire.

Dove sei fratello, dove?!

Lo trovò con gli occhi chiusi, dormiva. Un pezzo di motore gli aveva oltrepassato lo stomaco portandolo via di netto. Mansoor ora dormiva, il suo lungo viaggio era iniziato.

Il polmoni di Deepesh cessarono di inalare ossigeno, degluitiva a fatica ingoiando tutto quel sangue, l’orrenda vista delle piccole ossa che squarciavano la carne e quegli occhi per sempre chiusi nel sonno senza fine. Povere esistenze le loro, segnate dalla miseria e dalla mancanza di genitori che li tenessero per mano accompagnandoli lungo sentieri privi di mine anti-vita. Una sventagliata di mitra li aveva uccisi entrambi, lì sugli altipiani del Kashmir. Un vecchio amico di famiglia li aveva portati lontano dalla guerra, nella grande città dove tutto è più facile, dove si impara a scrivere e leggere, dove si lavora e ci si sposa. Finalmente una nuova possibilità subito interrotta dal rumore secco di una cinghia che vibrava nell’aria e colpiva dura, tagliente, cattiva come lo sguardo di quell’uomo che li obbligava a rubare per guadagnarsi del pane. Deepesh e Mansoor, due fratelli, due anime che si accompagnavano alla morte, la sfioravano continuamente odorandone l’acre effluvio, l’accarezzavano sfilando veloci i portafogli dalle tasche e gli orologi dai polsi. Erano cresciuti così, giocando con essa, imparando a conoscerla bene, tanto da usarla con dovizia, appoggiata alla lama di un coltello che una notte affondò nella gola di quel vecchio amico di famiglia trasformatosi in un feroce maestro di terrore.

Il pugno stretto nella tasca a trattenere il piccolo tesoro, Deepesh cercava di non addormentarsi a bordo del camion che lo trasportava verso la costa assieme a decine di altre anime vaganti. Aveva viaggiato per mesi, attraversato deserti, montagne e mari. Aveva sopportato la fame e la violenza delle guide che chiedevano denaro ad ogni cambio mezzo e per ogni indicazione. Aveva assistito a violenze, stupri, abusi, omicidi, risse per un tozzo di pane ma proseguiva imperterrito con la consapevolezza di esser solo in quello strano mondo nel quale il sorriso è negato e un coltello può risolvere tutto in un solo istante. Quello era l’ultimo tratto, gli avevano detto. Preparate la somma stabilita che stasera vi imbarcheremo per la Sicilia. Deepesh non sapeva dove si trovava, né sapeva che fosse quel nome che avevano pronunciato gli esseri che nulla avevano di umano. Il loro sguardo passava oltre la persona, non ti vedevano ma annusavano l’odore dei soldi che serbavi nascosti e questo gli bastava per tenerti in vita. Ne aveva già conosciuto uno così, gli facevano paura.

 

Il fetore delle 500 anime richiuse nella stiva della nave che vagava da giorni lungo le mille rotte del Mediterraneo era insopportabile. Deepesh, vomitando per il mar di mare, si chiedeva se fosse quella la distesa accogliente che da anni sognava. Il rollio aumentava di ora in ora, la tempesta si stava avvicinando quando i boccaporti si aprirono e fu dato l’ordine di salire. Una volta sul ponte crollò in ginocchio, stremato. L’urlo di quel mare in tumulto gli ricordava lo stesso grido disumano del mostro carico di dinamite esploso davanti agli occhi increduli di suo fratello. La stessa violenza, voracità, furia. Presto imbarcarsi nell’altra imbarcazione, fate veloci! Affacciandosi sul nero inchiostro la vide. Era una vecchia malandata imbarcazione in legno di 18 metri tenuta assieme da corde che la reggevano in bilico sul baratro dello sfascio. Fece per voltarsi e tornare indietro, ma la canna di una pistola fermò la sua corsa, o salti o t’ammazzo dove sei! Era il capitano della nave, completamente ubriaco. Avanti salite a bordo, avanti bastardi! Quasi 400 anime si allontanarono su quel battello infilandosi nella bufera che non perdona, un piccolo puntino di assi marcite perduto nell’immensità di un mare in delirio. Deepesh si rifugiò nella stiva, mentre le immagini che coloravano di nero la sua vita sfilarono davanti ai suoi occhi. Follia, soprusi, fame, violenza, sangue, morte. Via via portatemi via, dai dai avanti, avanti!

 

Lo schianto, quel fragore che ovunque lo insegue al pari di un mostro assetato di sangue, giunge improvviso. Ferito a morte, il piccolo scafo si sfascia mentre l’acqua inizia a penetrare nella stiva dove in molti, troppi, hanno cercato rifugio. Il buio inizia a ghermire l’anima e l’acqua i polmoni. Trattieni il respiro, Deepesh, trattienilo all’infinito, dai che ce la fai, in fin dei conti tu hai una lunga frequentazione con la morte. Non cedere trattieni, non badare agli altri, non guardare il bianco dei loro occhi che esplode nel nero della notte. Trattieni la vita piccolo uomo, non aprire i tuoi polmoni, no non tentare di respirare! NO! Ed il nero, spumante e denso catrame, spalanca le fauci e ingoia, spezza, annichilisce, ghermisce il respiro e lo accartoccia nel sibilo atroce della resa alla morte.

 

 

Che la piú piccola parte di pelle sia protetta.
Che nulla possa sfiorare il bozzolo nel quale cerchi rifugio e calore.
Il silenzio ti sia amico e plachi il battito veloce, annienti le visioni e ti ripari.
Che anche la piú piccola parte di pelle sia protetta,
tenuta a miglia di distanza dall’abisso della perdita.

Mode d’emploi del progetto

a cura di Gianni Maroccolo

 

ABISSI

Il naufragio della F174, conosciuto anche come “la tragedia di Portopalo”, fu un sinistro marittimo avvenuto in acque internazionali, la notte di Natale del 1996. Circa 30 km al largo di Portopalo di Capo Passero (SR), affondò una vecchia barca di legno, gravemente sovraccarica di clandestini provenienti da India, Pakistan e Sri Lanka. Morirono almeno 283 persone. L’incidente rappresentò all’epoca la più grande tragedia navale del Mediterraneo dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. La storia di questo naufragio è stata già narrata in diversi libri, spettacoli teatrali, fiction e altro.

 

Il Volume II di Alone non intende tanto ri-raccontare in musica quella tragedia, quanto narrare cosa viva e possa provare un essere umano che decide di lasciare il suo paese per costruirsi una nuova vita altrove.

Intende narrare, al “tu” in ascolto, cosa significhi venire privati di ogni diritto e della dignità. Cosa avvenga quando ti rendi conto che la tua vita vale meno di niente. Quando rimpiangi di essere nato e la disperazione lascia spazio a qualcosa che non avevi mai considerato. La tua vita terrena che sta per finire mentre vedi e senti l’acqua entrare nella barca, e non puoi fare nulla perché sei chiuso in una stiva senza alcuna via di uscita.

I minuti diventano eterni, l’acqua sale e ti rendi conto che la tua vita sta finendo. Soffochi lentamente mentre il liquido ti invade i polmoni. È atroce: peggio di una pallottola, della sedia elettrica, di un tumore che consuma. Soprattutto, a nessuno frega un cazzo di te. Prima, durante, dopo.

Questo è disumano, e purtroppo pochi lo comprendono. Forse solo una situazione affine potrebbe farlo intuire, e far capire quanto la logica del profitto, la dualità inculcata con ogni mezzo lecito e illecito ci abbia resi simili a belve insensibili a tutto. Far capire quanto poco valore questa logica dia al nostro passaggio terreno in questo universo ben più grande e ricco (grazie al Cielo) di noi, piccoli esseri umanoidi presuntuosi e incompleti. Siamo sì e no l’uno per cento degli esseri viventi su questo pianeta, e tuttavia pretendiamo di gestirlo come fosse cosa nostra. Come se non bastasse, esercitiamo il potere attraverso convenzioni che ci ingabbiano e ci pongono in una condizione costante di conflittualità in cui l’unico scopo è quello di assomigliare il più possibile a chi sta meglio di noi.

Poi c’è la paura di perdere qualcosa. Qualcosa di nostra esclusiva proprietà: agio virtuale, sicurezze, soldi, lavoro. Sono la paura e la non-conoscenza a trasformarci in belve.

Perdere cosa, poi? Potremmo distribuire più equamente le risorse disponibili, evitare di acquistare cose inutili, senza renderci conto che mentre lo facciamo altri muoiono di fame e di guerre al punto di tentare la fuga su un barcone. Non finirà: appena il surriscaldamento del pianeta ne renderà incoltivabili certe parti, e non vi sarà più cibo, altro che barconi, altro che fenomeno migratorio. Leggi, leggine, frontiere, parlamenti: ma nemmeno le armi potranno impedire un grande esodo di masse umane. Dualità appunto: uno contro l’altro.

Alcuni giorni dopo il naufragio, i pescatori iniziarono a recuperare nelle loro reti resti umani e del relitto, ma non dissero nulla. Temevano che un’eventuale inchiesta avrebbe potuto causare l’interruzione della pesca, unica loro fonte di sostentamento. Solo cinque anni più tardi, un pescatore rivelò a un giornalista sardo il punto dove giaceva il relitto, a 108 metri di profondità.

È difficile immaginare quanto sia stata atroce e lenta l’agonia di questi esseri umani. I “clandestini”, dopo avere pagato circa 7.000 dollari a testa ai trafficanti (altri 7.000, a saldo, li avrebbero versati all’arrivo in Italia), viaggiarono per quattro mesi attraverso Kurdistan e Turchia. Vennero convogliati verso il porto de Il Cairo, e qui, dopo aver versato altri 1000 dollari a testa agli scafisti, vennero imbarcati sulla “Friendship”. La nave non salpò subito, perché si attendevano altri “clandestini” per partire a pieno carico e ben ammassati: come carne da macello.

Dopo dodici giorni, tutti furono trasbordati su una nave da carico honduregna, la “Yohan”, che prese il mare con circa 500 persone a bordo. I “passeggeri” vennero ammassati nella stiva: condizioni igieniche zero, pane e acqua come cibo. In prossimità delle coste italiane, avrebbero dovuto essere trasferiti su un’altra nave per l’ultimo tratto di navigazione.

La nave era un battello maltese senza nome, identificabile solo dalla sigla “F174”, che incrociò la “Yohan” la notte tra il 25 e il 26 dicembre. La “F174”, era un’imbarcazione in legno lunga 18 metri e larga 4. In pessimo stato e con tutti i sistemi di sicurezza fuori uso, poteva imbarcare al massimo 80 passeggeri.

I “passeggeri” della “Yohan” salirono in massa sulla “F174” fino a farla vacillare pericolosamente per il peso eccessivo. I trafficanti decisero allora di far ritornare sulla “Yohan” un centinaio di persone e di partire lo stesso con oltre 400 “passeggeri”. Il Comandante della “F174” si rese conto quasi subito che non avrebbe mai raggiunto le coste siciliane a causa dell’eccessivo peso, ma soprattutto per una falla apertasi a prua durante i trasbordi. Chiamò quindi la “Yohan” in suo aiuto, ed essa raggiunse in qualche minuto la nave che aveva già iniziato a imbarcare acqua in stiva. In quella barca viaggiavano oltre 300 esseri umani, gran parte dei quali nella stiva, con i boccaporti bloccati dagli altri “passeggeri” stipati sul ponte.

Il mare è in burrasca e il comandante della “Yohan” non riesce a governare la nave: sperona la “F174” che si spacca in tre e inizia ad affondare trascinando negli abissi non meno di 283 persone. Il comandante della “F174” e una manciata di superstiti vengono raccolti dalla “Yohan”, che riparte subito verso la Grecia. Lì scarica 170 sopravvissuti, che vengono segregati in un casolare di campagna per evitare che possano raccontare l’accaduto.

Questo avviene nel 1996, non nel Medioevo. Qualcuno riesce a fuggire, e racconta la storia alla polizia greca. Le testimonianze non vengono ritenute credibili. Tutti vengono arrestati.

Nei giorni a seguire, la “Yohan”, continuò a sbarcare in Italia “passeggeri” fino a che non venne sequestrata dalle autorità italiane. Tuttavia, non fu aperta alcuna inchiesta: mancavano prove e riscontri oggettivi sulla tragedia di Natale. Nessuna testimonianza, niente di niente. Nel frattempo, i cadaveri ripescati dai pescatori di Porto Palo, chiamati in gergo “tonni del Mediterraneo”, venivano gettati nuovamente in mare.

Seguirono cinque anni di silenzio abissale. Poi, grazie alle ricerche del giornalista, il relitto venne finalmente localizzato. Nonostante le proteste dei parenti dei defunti e il ritrovamento del relitto, lo Stato italiano non permise il recupero dei rottami e dei cadaveri, né l’apertura di un’inchiesta. Questa fu una delle tante mattanze di “tonni del Mediterraneo”, e non fu l’ultima.

Pochi anni dopo, vi fu la strage di Lampedusa. Sentirne parlare o vederne le immagini alla televisione non basta: è necessario andare oltre. È opportuno sentire ciò che le vittime hanno vissuto. Provarlo sotto la pelle, vedere i loro occhi nei nostri mentre una morte orrenda e priva di senso li porta via, soffrire quanto loro. Lo scopo è guardarci dentro fino a provare ribrezzo per la nostra cinica indifferenza.

Siamo carnefici quanto i trafficanti: non possiamo continuare a far finta di nulla o limitarci a provare tristezza durante un TG, magari a tavola, tra il primo e il secondo. Né basta mandare qualche offesa ai governanti di turno, le cui colpe sono pari alle nostre. Non possiamo essere così stronzi da permettere ancora mattanze di “tonni”: che siano del Mediterraneo o meno poco importa.

Alone Vol II nasce per descrivere con l’unico mezzo a mia disposizione (la musica) cosa si provi ad affrontare un viaggio simile, per poi morire in maniera atroce. La speranza è che magari, tra il primo e il secondo, qualcuno pianga invece di pensare che “se la sono cercata”. Gli uomini sono fatti per viaggiare, conoscersi, condividere culture, tradizioni e speranze. Inutile costruire muri, confini, barriere… inutile abboccare a chi ci mette gli uni contro gli altri e ci infonde paura fino a tirare fuori la parte peggiore di noi.

Sono consapevole che un disco non abbia il potere di cambiare granché, ma continuo a credere, come diceva Claudio Rocchi, che una canzone possa salvare una vita. Credo che ogni musicista, anche per la fortuna di essere tale, abbia dei doveri oltre che dei privilegi, nei confronti degli altri e del pianeta in cui viviamo. Sarò un sognatore, un visionario del cazzo forse retorico, ma sono fatto così. In questo disco racconto la morte perché amo la vita e amo e rispetto ogni singolo essere vivente del pianeta che abitiamo.

 Alone Vol II

Alone Vol II è un LP senza una vera divisione in “lato A” e “lato B”. Al di là della necessità tecnica di avere due lati, gli stessi non saranno identificati, perché l’opera è intesa come unitaria. A maggior ragione questo varrà per la versione in CD.

I due lati fisici dell’LP di Alone Vol II sono occupati da un lungo brano ciascuno: IMUS, suddiviso in sei temi. Un lato conterrà i temi (provvisoriamente chiamati 1-2-3-4-5-6) suonati da me soltanto; l’altro lato, gli stessi temi in ordine inverso (6-5-4-3-2-1) rivisitati liberamente attraverso il contributo compositivo e creativo degli ospiti di questo volume.

La struttura ha un significato metaforico e circolare: i sei movimenti del primo brano rappresentano il viaggio verso la morte dei passeggeri della nave, dalla partenza fino all’affondamento. Il secondo brano, al contrario, rappresenta una ri-emersione e un ritorno alla vita. Il senso finale è positivo: il movimento verso il basso è solitario e claustrofobico, quello verso l’alto non può prescindere dalla presenza di nostri simili con i quali condividiamo idee, energia e bellezza. Si tratta, quindi di un viaggio di andata/ritorno. Il dualismo delle immagini (luce/buio, superficie/abisso, vita/morte, discesa/innalzamento) rappresenta, paradossalmente, proprio ciò che personalmente ritengo essere la causa di molti nostri mali: la dicotomia, la divisione in categorie rigide. Unendo in un tutt’uno armonico questi concetti opposti, si riesce a comprendere che il Tutto è maggiore della somma delle singole parti, e che una moneta ha sempre due facce – ma non sarebbe tale senza di esse, unite tra loro.

 

Letteratura a fumetti? Le impreviste avventure del racconto

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di Daniele Barbieri

Questo breve libro delinea un lungo percorso, storico e teorico, attraverso cinque nozioni i cui reciproci collegamenti si sono molto trasformati da un’epoca all’altra: immagine (cioè rappresentazione visiva di un elemento del mondo), scrittura, oralità, serialità, romanzo. Ciascuna di queste nozioni ne comporta, implicitamente, una sesta, che è racconto. Potremmo pensare questo libro come una storia (molto parziale) del racconto in relazione all’immagine, alla scrittura, all’oralità, alla serialità, al romanzo.

Dare senso a una nozione come quella di letteratura a fumetti richiede questo percorso, che dà senso alla specificità del fumetto e del suo modo di comunicare e di raccontare. Il fumetto è una forma di scrittura, e il corpus di queste scritture forma una letteratura; ma, come vedremo, si tratta di una scrittura molto diversa da quella, alfabetica, che utilizziamo per memorizzare la parola, e produce di conseguenza una letteratura molto diversa da quella fatta esclusivamente di parole.

La storia che raccontiamo nelle prossime pagine parte da quando le distinzioni che a noi appaiono oggi naturali erano inesistenti o minime, e quelle che noi oggi chiameremmo arti e quello che noi oggi chiameremmo rito erano una cosa sola. La storia prosegue a cavallo tra improvvisazione omerica e scrittura, quando la scrittura non era una cosa sola, e anche la sua distinzione dall’immagine restava incerta. All’epoca di Omero e degli altri aedi, la narrazione aveva per sua natura caratteristiche che oggi definiremmo, sotto certi aspetti, seriali: solo la scrittura cambia – e solo in parte – le cose.

La separazione tra immagine e racconto viene sancita solamente nel Rinascimento, quando l’immagine arriva a conquistare un’autonomia concettuale che prima le era sconosciuta. È proprio nel Rinascimento, però, che si impone anche un’altra distinzione cruciale, quella tra alta cultura e cultura popolare. E alla fine della medesima epoca Miguel Cervantes inventerà la forma del romanzo, che sopravvivrà serpeggiando tra cultura alta e bassa per un paio di secoli, sino alla sua definitiva legittimazione nell’Ottocento.

La serialità rinasce, avviandosi verso le forme che conosciamo oggi, con la nascita della stampa periodica, nella Francia del XVII secolo. Il suo sviluppo è parallelo e intrecciato con quello del romanzo. A partire dal Settecento, anche la narrazione per immagini incomincia a uscire dalla marginalità a cui il Rinascimento l’ha condannata. Del resto, l’Ottocento è il secolo in cui le fondamenta dell’opposizione tra alta e bassa cultura iniziano a sgretolarsi: certo, lo sgretolamento non è ancora del tutto compiuto nemmeno oggi, ma molta strada è stata comunque fatta.

Il fumetto ha percorso questa strada nel corso del XX secolo, non senza difficoltà, e ha conquistato solo recentemente una dignità culturale condivisa. Ed è proprio guardando tra le maglie di questa conquista che se ne comprende l’ideologia, e il travestimento attuale del pregiudizio aristocratico che domina la nostra cultura da mezzo millennio.

Questo libro non racconta una storia del fumetto, ma una storia della cultura occidentale sotto quegli aspetti che hanno condotto il fumetto a essere quello che è.[i]

[…]

4. Narrazione per immagini

Le immagini restano. È per questo che possono essere considerate una sorta di protoscrittura o parascrittura, e si trovano comunque all’origine della scrittura in senso stretto.

Le immagini restano e possono permanere, nei luoghi adatti, per migliaia di anni. Ne bastano molti di meno per farle diventare qualcosa che persiste in un mondo in continua trasformazione, e soprattutto che persiste mentre la vita delle singole persone deperisce e trapassa.

Queste immagini permanenti, investite di racconti trasmessi e reinventati di generazione in generazione, si prestano bene a simboleggiare qualcosa che persista al di là di tutto ciò che fluisce. Alla fine, rappresentano ciò che permane all’interno di tutto quello che scorre, come i racconti. Ci vuole poco a vederle, prima o poi, come qualcosa di diverso da tutto il resto, come qualcosa che oggi noi, uomini della Storia, chiameremmo magari dei.

Si accostano in questo modo le due fondamentali funzioni storiche delle immagini (incluse le statue): supporto stabile del racconto e oggetto di adorazione. Sino a tutto il medioevo e ancora in parte nel Rinascimento (e poi ancora sino a oggi, in misura minore e parziale) statue e dipinti sono state sostanzialmente questo.

Le due diverse funzioni sono comunque collegate: l’idea di Dio è un prodotto del mito, che trova nelle immagini un supporto cruciale. Un’immagine di Dio è comunque il fulcro ideale di una galassia di racconti.

La nascita della scrittura trasforma progressivamente le cose. In Palestina la scrittura si concretizza in un libro, anzi nel Libro. In questo Libro (biblium, Bibbia) trova spazio una forma di pensiero astratto che non era concepibile prima della scrittura, e Dio può diventare qualcosa che si può esprimere attraverso una parola, perché ormai anche le parole sono diventate persistenti come le immagini. Esprimere attraverso una parola, sì, ma senza esagerare; perché siccome le parole, specie se scritte, ci permettono di controllare il mondo, se conoscessimo il vero nome di Dio potremmo magari controllare pure lui. E quindi a Dio, nella tradizione ebraica, ci si può riferire solo per appellativi.

Nessuna parola unicamente orale potrebbe godere di un tale privilegio, perché le parole unicamente orali fluiscono e si perdono in un momento. Ma se possono essere trascritte, diventando a loro volta immagine, ecco che restano per sempre, come i bisonti delle grotte del Paleolitico.

La nascita della scrittura porta la Grecia da Omero a Platone, dal mito alla filosofia, dagli dei come protagonisti di grandi narrazioni all’invenzione dell’anima, al regno delle idee, all’idea del mondo come una caverna dove percepiamo solo le ombre del mondo vero che gli sta fuori; sino ad arrivare all’aristotelico Primo Motore Immobile. Con la scrittura, la divinità può diventare una questione filosofica, astratta: Dio non è più un’immagine, è l’essere; e l’essere, in quanto tale, non si può certo vedere.

Non ci si può quindi stupire se le religioni del libro hanno perseguitato le immagini. La lotta iconoclasta che dilania l’Impero Romano d’Oriente tra il settimo e il nono secolo potrebbe essere interpretata come una lotta tra la scrittura e l’immagine, tra una concezione astratta e filosofica della divinità e una concreta e figurale. La tensione a Costantinopoli scoppia come risposta alle accuse di idolatria mosse dagli arabi, neoconvertiti all’Islam e in potente espansione, ma si basa su secoli di discussione precedente. La posizione, netta, dell’Islam rimette in gioco quella incerta dei Cristiani.

Il Concilio di Nicea, nel 787, condanna l’iconoclastia, ma ne recepisce le ragioni, affermando che le immagini possono essere venerate come simbolo della divinità, ma non adorate in quanto non sono né rappresentano la divinità stessa. In Oriente, dunque, si potranno continuare a realizzare immagini sacre, ma con una serie di limitazioni che ne impedisca un’eccessiva seduttività; e così, l’arte visiva bizantina, o quel poco che ne resta, si condannerà a secoli di monotone icone.[ii]

L’Occidente, per nostra fortuna, aveva problemi ben più gravi a cui pensare, e l’iconoclastia rimase un problema astratto e lontano. La ritroveremo in epoca di Riforma, quando il Libro farà la sua grande rientrata.

Il Medioevo nostrano è perciò pieno di immagini sacre, di immagini narrative e di immagini che sono un po’ l’uno e un po’ l’altro. A volte, nelle cupole decorate per sezioni, si trova al centro la figura di Dio, o dello Spirito Santo, una, immobile ed eterna; immediatamente intorno, al livello appena più basso, ci sono le figure dei beati e dei santi, molteplici ma anche loro immobili; più sotto ancora, occupando uno spazio più ampio e più periferico, ci sono le vicende del mondo umano, piene di movimento e di racconto.

Sappiamo che i cicli affrescati delle chiese del Medioevo erano fatti per essere accompagnati dalle parole di un predicatore, il quale, come i narratori di Altamira, raccontava le storie di Cristo o dei santi indicando l’immagine al momento pertinente. A volte, come nel caso degli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova, realizzati da Giotto ai primi del Trecento, lo spettatore ritrovava sulle pareti le stesse scene che aveva appena visto dal vivo sulla pubblica piazza, in forma di Sacra Rappresentazione, ovvero di teatro. La pittura era insomma sostanzialmente la parte dell’immagine di una complessiva narrazione per immagini, in cui la componente narrativa rimaneva di solito orale – anche considerando la scarsa alfabetizzazione della popolazione.[iii]

Resta però il fatto che i pittori del Medioevo non hanno particolari remore a mescolare immagine e parole, e inseriscono con disinvoltura cartigli e filatteri tra le figure, creando comunicazioni sostanzialmente sinsemiche; qui, a dominanza di immagine, mentre magari in quelle contenute nei libri vi sono più facilmente dominanti le parole.

Certo, Giotto era tecnicamente molto molto più avanzato dei suoi colleghi di ventimila anni prima, e, soprattutto, la familiarità con la scrittura e le sue organizzazioni del racconto in libri, capitoli, episodi ecc. aveva reso del tutto naturale l’idea di organizzare lo spazio stesso della parete in maniera analoga, creando cornici che permettessero di distinguere un episodio dall’altro, e magari pure di riconoscere l’episodio stesso, una volta che ci fosse stato già raccontato. La sequenza degli episodi visivi riprende e riproduce la sequenza della scrittura. Pur continuando a essere supporto della parola, l’immagine diventa a sua volta almeno un poco parola; magari non dentro ciascun singolo riquadro, ma certamente nel rapporto temporale tra un riquadro e il successivo.

5.  Gli aedi

Abbiamo parlato di immagine e di scrittura, ovvero fondamentalmente delle componenti visive di quello che nella grotta di Altamira già incominciava ad accadere. Tuttavia, come abbiamo detto, la fascinazione fondamentale per chi stava nella caverna non dipendeva da questo.

Facciamo dunque un salto avanti di molte migliaia di anni, e arriviamo alle soglie della nostra era, cioè a Omero, oltre 10.000 anni dopo la frana che occultò la caverna, e appena 3.000 prima di noi. Omero era un aedo, ovvero un cantore orale, in un’epoca in cui non esisteva la scrittura, non diverso da cantori orali che ancora esistono o sono esistiti sino a poche decine di anni fa, in Africa, nei Balcani, in India… Come tutti gli aedi, Omero improvvisava versi raccontando e riraccontando le stesse storie di eroi, quelle in seguito trascritte sotto i titoli di Iliade e di Odissea. Sempre che sia esistito, doveva essere molto bravo, il più bravo di tutti; al punto che gli aedi venuti dopo di lui hanno cercato di riprodurre al meglio quello che lui aveva fatto, e quelli venuti ancora dopo hanno sentito il bisogno di mettere al sicuro le sue parole così com’erano, adottando i segni fenici. È così che gli aedi, improvvisatori orali, si sono trasformati col tempo in rapsodi, abili vocalizzatori di testi comunque scritti.[iv]

Improvvisare in versi richiede una notevole competenza e abilità, ma non così straordinarie come si potrebbe credere oggi. Da un lato, la forma metrica fa da supporto alla memoria (come per le parole di una canzone che abbiamo ascoltato un paio di volte); dall’altro ci sono ricorrenze lessicali, sintattiche, narrative, che a loro volta aiutano. L’esperienza degli antropologi con gli aedi moderni mostra che i versi cambiano volta per volta, pur mantenendo caratteristiche simili; mentre ciò che si racconta è relativamente costante, pur subendo a sua volta modifiche e introduzioni tematiche.

In ogni caso, nelle saghe raccontate da Omero e dagli altri aedi della Grecia arcaica i personaggi e le situazioni ricorrevano, si ripetevano, si incontravano, interagivano. Era in atto, insomma, qualcosa di simile a quella che oggi chiameremmo serialità.

Chiameremo serialità primaria questa condizione narrativa in cui, oralmente e ricorrentemente, ma senza alcuna scansione preordinata, si costruivano o reinventavano storie basate sui medesimi personaggi, sui medesimi luoghi e le medesime situazioni. Si trattava, ovviamente, di molti personaggi, qualcuno più centrale qualcuno meno, di molti luoghi e di molte situazioni; ma era comunque un numero chiuso, e dotato di relazioni interne.

Se conoscete almeno un poco la mitologia greca, capirete che cosa intendo. Si comincia con la Teogonia, che racconta l’origine degli dei, e si finisce in un’area che, per noi, è praticamente Storia, con i Trecento delle Termopili, attraverso tutte le interallacciate vicende degli eroi, delle quali il ciclo omerico rappresenta un’importante ma piccola parte.

Che cosa distingue la serialità primaria da quella vera e propria, moderna? Direi, sostanzialmente, una serie di aspetti, comunque legati alla periodicità regolare di pubblicazione. I cantori orali, ovviamente, non pubblicavano; e non possiamo assimilare alla pubblicazione le loro esibizioni pubbliche, che avvenivano a intervalli irregolari di fronte a pubblici differenti. In assenza di scrittura non c’è garanzia sufficiente di omogeneità delle trasmissioni al pubblico, e in assenza di un apparato di distribuzione non c’è fidelizzazione dell’utente al racconto, e a una sua eventuale continuità. Di fatto, non esiste serialità moderna prima dell’invenzione della stampa.

Qualcosa di appena più simile alla serialità moderna si verifica qualche secolo dopo Omero, quando i drammaturghi riprendono il mito per creare, sulla scena del teatro, qualcosa di corrispondente alle gesta degli aedi. La differenza cruciale è che mentre gli aedi improvvisavano, gli attori recitavano un copione scritto; tuttavia, in un modo come nell’altro, quelle che al pubblico venivano raccontate erano sempre le stesse storie di dei ed eroi. Si tratta però di una differenza marginale rispetto a quello che separa la serialità antica da quella moderna: di fatto, il pubblico sapeva bene che si trattava, ogni volta, di un modo diverso per raccontare una storia esistente, e già nota ai più. Nella serialità primaria, insomma, i racconti di base non erano inventati: sostanzialmente, erano sempre quelli, e quelli dovevano essere. Al massimo potevano essere variati – e certo poteva accadere che le variazioni si stabilizzassero e che, così, variazione per variazione, i miti nel tempo si arricchissero e trasformassero.

Quello che avvicina maggiormente, invece, la serialità primaria dei drammaturghi alla serialità moderna è il fatto che i drammi venissero tradizionalmente organizzati in trilogie, nelle quali ciascuno degli elementi era dotato di una propria chiusura narrativa, salvo essere riaperto dall’episodio successivo, secondo un modello abbastanza tipico della serialità moderna. Per esempio, la tragedia Agamennone, di Eschilo (458 a.C.), racconta di come il comandante dell’esercito greco, di ritorno da Troia a Micene, venga assassinato dal cugino Egisto, con la complicità della moglie Clitemnestra. Nel secondo episodio della trilogia, Le coefore, il figlio di Agamennone e Clitemnestra, Oreste, torna a Micene per vendicare il padre, uccidendo la madre e lo zio. Nel terzo episodio, Le Eumenidi, Oreste viene perseguitato dalle Erinni, divinità del rimorso, sino a trovare soluzione in una purificazione rituale. Si racconta una storia ben nota al pubblico, certo, ma in tre episodi separati e parzialmente autonomi, da mettere in scena a breve distanza di tempo. Siamo in un contesto sociale e di consumo ben più strutturato di quello di mezzo millennio prima, e la presentazione al pubblico di un dramma di nuova scrittura ha in effetti caratteristiche di pubblicazione.

Per il momento, comunque, e per i duemila anni successivi, non si andrà molto più in là di così. Teniamo comunque presente che definire serialità primaria quella situazione è semplicemente funzionale a mostrare le somiglianze con la serialità moderna. Non bisogna però dimenticare che la nostra percezione della serialità è fortemente basata sulla contrapposizione a quello che seriale non è, come il romanzo, oggetto narrativamente unitario e autoconclusivo, dove si racconta tipicamente una vicenda del tutto autonoma. Niente di simile esisteva nell’antichità, dove le storie che si raccontavano avevano comunque radici in altre storie, e, di conseguenza, l’idea di narratività prevalente non era, come per noi, quella di un arco autonomo, dotato di un proprio attacco e di una propria conclusione; era piuttosto quella di un flusso complessivo, o, se preferiamo, una serie di flussi, da cui estrarre al momento del bisogno un eventuale arco narrativo dotato, per l’occasione, di attacco e conclusione, ma del quale erano comunque ben noti al pubblico i precedenti e le conseguenze. In parole molto povere e contemporanee, ogni singola storia dell’antichità era il sequel di qualche altra storia e il prequel di altre ancora.

Al di là degli specifici racconti del mito greco, che il Medioevo in gran parte dimenticherà, quello che permane ne è invece la struttura, il modello di narratività che abbiamo appena descritto. Se prendiamo il ciclo medievale di re Artù, vi ritroveremo il medesimo andamento a saga, il medesimo intrecciare e proseguire racconti parzialmente autonomi, dove i medesimi personaggi ricorrono con ruoli narrativi diversi. Quando noi pensiamo a Tristano, per esempio, lo associamo inevitabilmente alla sua storia d’amore con Isotta, al tradimento di re Marco, e alla sua nobile morte. Ma si tratta di un effetto del tutto moderno, probabilmente in larga parte dovuto alla grande e meritata fama del melodramma di Wagner. Se leggiamo i romanzi cavallereschi medievali, Tristano è protagonista o personaggio collaterale di innumerevoli gesta, e anche la storia d’amore con Isotta è molto più lunga, complicata, e costellata di altri eventi, di quanto non appaia nelle riduzioni moderne, Wagner primo tra tutti. Evidentemente, le esigenze narrative del pubblico del Medioevo sono differenti da quelle del pubblico moderno.

Ancora in pieno Rinascimento questo modello mantiene larga diffusione. I poemi cavallereschi rinascimentali (Pulci, Boiardo, Ariosto, e persino Tasso) sono reticoli di storie degni delle attuali soap operas. Al di là delle differenze di qualità (che evidentemente ci sono – e l’Orlando furioso non è meglio di Sentieri solo perché santificato dalla Storia) e di medium, l’articolazione complessiva delle singole vicende ha tanti tratti in comune ed è comunque discendente dal modello greco mitologico. Non a caso una narrazione del genere è fatta per durare all’infinito, perché non ci può essere una conclusione sensata a un flusso narrativo polifonico. Ariosto se la cava (perché deve pur mettere la parola fine) approfittando della morte di un cattivo, Rodomonte; ma qualcun altro poteva ben riprendere da dove lui aveva smesso, come pure lui stesso aveva fatto con l’Orlando innamorato del Boiardo.

Quello che un po’ distingue i poemi cavallereschi rinascimentali dalle saghe precedenti, avvicinandoli ulteriormente alle soap, è il fatto di limitarsi ad essere semplicemente ispirati alle mitologie cavalleresche, mentre si raccontano di fatto storie nuove, d’invenzione dell’autore. È una cosa che si fa già da un po’, magari con la precauzione – come nel nostro caso – di rifarsi comunque a una tradizione esistente: forse le storie di Orlando e degli altri paladini raccontate da Boiardo e da Ariosto non le aveva mai raccontate nessuno, ed erano quindi nuove, frutto di invenzione, ma rientrano nel modello narrativo cavalleresco, e potevano quindi anche essere tradizionali, e semplicemente riscoperte e riraccontate.

Benché Ariosto si muova in un contesto di scrittura assestato da millenni, le forme narrative dell’oralità continuano ad aleggiare in quello che scrive. D’altra parte, Ariosto scrive in poesia, e la poesia è quel genere letterario che meno ha tagliato i ponti con la vocalità. Vocalità e oralità non sono la stessa cosa ma, soprattutto in epoche di scarsa alfabetizzazione, conservano ampie aree di sovrapposizione.

 

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[i] Poiché gran parte dell’argomentazione di questo libro è di carattere storico, è inevitabile e doverosa una quantità di riferimenti alle fonti. Per evitare di appesantire troppo la lettura, ho però cercato di ridurre il numero delle note, accorpando, quando possibile, diversi riferimenti vicini in un’unica nota. Ho evitato di introdurre riferimenti per i dati storici di facile verifica, in quanto assestati e sufficientemente noti. Le opere elencate in bibliografia sono indicate nel testo e nelle note con il nome dell’autore, l’anno ed eventualmente le pagine; l’anno è sempre quello della pubblicazione in lingua originale; le pagine fanno invece riferimento alla traduzione italiana indicata.

[ii] Sul Concilio di Nicea e sulle conseguenze delle sue decisioni per le culture europee, vedi, per esempio, Tagliaferri (2006).

[iii] Il libro fondamentale su questo tema è Bolzoni (2002).

[iv] Su questi temi, vedi Svenbro (1988 e 1995), Havelock (1986) e Detienne (1967). Sugli aedi moderni, vedi Goody (1986) o il grande classico Ong (1982).

 

 

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Daniele Barbieri, Letteratura a fumetti? Le impreviste avventure del racconto, Roma, ComicOut 2019

 

Bibliografia e immagini sono liberamente disponibili sul Web all’indirizzo http://letteraturaafumetti.blogspot.com/ 

Di parole perdute e di crateri lunari

4

di Luca Trifilio

A volte penso che, se non avessi fatto questo o quello, non avrei mai incontrato Marian. Ma il punto non è questo, vero? Cioè, avrei sempre incontrato Marian. La stavo aspettando. Non so se capite cosa voglio dire, ma Marian mi faceva sentire essenziale, salvo.

La conobbi il giorno in cui persi la parola Resta. Mi era già capitato con altre parole. Forse, ma non ci giurerei, la prima volta accadde con bua, un sabato pomeriggio al parco. Fu poi il turno di amico, che pareva troppo da femmine tra i compagni di scuola e quelli conosciuti d’estate. I villeggianti, li chiamava mia nonna. Non ricordo quando i villeggianti sono diventati turisti: nel dubbio, però, ho smesso di chiamare anche loro.

Vidi Marian la prima volta il venti di luglio. E come potrei dimenticarlo? Mancavano poche ore allo sbarco sulla luna, ma per me sarebbe stato un giorno come tanti altri, una montagnola di ore da abbattere, un po’ alla volta, fin quando non sarebbe rimasto più niente. Le immagino così, le mie giornate: un cumulo di sabbia che si forma mentre dormo e che ritrovo al mattino. Penelope disfaceva la tela di notte; io ho disgregato le mie ore ogni giorno.

Non avevo mai parlato con una straniera. Neanche con uno straniero, a dirla tutta. Marian era diafana, e non saprei cos’altro dire del suo aspetto se non che, quando si muoveva, tutta l’aria intorno sembrava vibrare, e dalla sua pelle irradiava una luce tale da far pensare che lei fosse un’apparizione. O forse, e non mi stupirebbe, ero solo io a guardarla così, incantato come se non si trattasse nemmeno di un essere umano, come se non facesse parte del mondo in cui mi muovevo anch’io. Come sarebbe stato possibile, poi? Io sgraziato e nerastro, lei capace di attirare sguardi e di generare meraviglia in virtù del semplice fatto che esistesse.

Attraversai la strada nelle mie ciabatte troppo piccole, diretto in spiaggia quando lei già tornava, irreale e fuori posto quanto me. E già allora avrei dovuto capire che eravamo fatti di opposti, che gli opposti a volte si completano e a volte non trovano il modo – ma proprio nessun modo – per potersi unire.

Era l’estate dei miei sedici anni, non avevo mai dato un bacio a una ragazza e quel giorno pensai a lei in maniera caotica, fino all’ora di cena. Era uso, a casa mia, che d’estate mangiassimo leggero a pranzo e a cena facessimo un pasto vero, come lo chiamava mio padre. Quella sera mia madre preparò gli spaghetti aglio, olio e peperoncino: il pepe macinato portava colori e odori che avrei cercato per il resto della vita.

Mia madre prese a tossire, portò una mano al petto cercando di aspirare aria. Il collo le si allungò fin quasi a spezzarsi e pensai, per un attimo di pura follia, che avrebbe continuato a estendersi fino a raggiungere il soffitto. Mi cadde la forchetta di mano quando mio padre la chiamò e lei cadde in avanti, la faccia negli spaghetti. Lui le prese le spalle per sollevarla: sotto l’occhio destro di mia madre c’era un pezzetto d’aglio, sul volto i granelli di pepe sembravano lentiggini dal colorito troppo intenso.

Chiama il 118, mi disse mio padre mentre io ancora masticavo. Non mi è rimasto alcun ricordo di quello che dissi nella cornetta bianca, ma l’ambulanza si portò via mia madre, di nuovo sveglia e sofferente, con un respiratore e uno sguardo terrorizzato fisso nei miei occhi. La bocca mi pizzicava per via del peperoncino quando salii in macchina con mio padre e seguimmo le sirene blu sul viale che costeggia il lungomare, mentre le persone si tenevano per mano, sceglievano un gelato, spingevano passeggini, guardavano il mare, senza farsi passare per la testa il fatto che a pochi metri ci fosse mia madre che non riusciva più a respirare e che io fossi talmente spaventato da essere calmo. Mi passò davanti agli occhi l’immagine della ragazza diafana, mi aggrappai a quei contorni indefiniti e surreali per cercare una via di fuga. Emerse in quei minuti la mia natura di codardo, e non avrei fatto altro che fuggire ogni singolo giorno, con l’ansia di dover distruggere, nel modo più indolore possibile, la montagnola di ore che mi era concessa.

Parcheggiammo al pronto soccorso, seguimmo la barella in un corridoio lunghissimo dalle pareti azzurrine e dalle luci pallide e mortuarie. Mia madre continuava a guardarmi, avrei voluto dirle di smetterla, di smetterla di star male e di smetterla di guardarmi in quel modo, di smetterla perché mi stava costringendo a legare tutti i miei ricordi giovanili a quegli occhi, mentre io avrei voluto legarli al tiramisù che preparava la domenica mattina e al grembiule a fiori rosa che indossava in cucina.

Le dissi di non andare via, senza pensarci, senza rendermene conto. Mio padre si fermò a guardarmi, lo notai con la coda dell’occhio perché la mia attenzione era solo per lei, per la donna che mi aveva messo al mondo alla quale dissi, in un sussurro, Resta.

Ma lei non restò. Se ne andò dopo poche ore. Complicazioni in seguito ad arresto cardiocircolatorio. Qualcosa del genere. Cose che accadono, anche se hai quarantuno anni e non hai ancora avuto tempo di dedicarti a tutte le cose che avresti voluto fare. Mia madre se ne andò il giorno in cui l’uomo posò il piede sulla luna e io vidi Marian, e quello fu il giorno in cui compresi – e credetemi, su questo non ho mai cambiato idea – che non c’è modo, nella vita, di ottenere qualcosa senza perderne un’altra. E non puoi mica essere sicuro che quella che ottieni valga di più di ciò che hai perso, oppure che resti. È uno scambio alla cieca, un azzardo puro.

Quella fu la notte in cui persi la parola Resta, che mi sarebbe servita una manciata di anni dopo: Marian aveva smesso di essere la figura eterea che aspettavo ogni mattina alle dieci, quando lasciava la spiaggia e la immaginavo rifugiarsi nel suo mondo incantato, ma era diventata una ragazza della mia età, col sogno di abbandonare la Polonia per vivere in Italia. Qui avrebbe voluto fare l’università, e trascorreva i pomeriggi invernali a studiare l’italiano, a cercare di leggere Buzzati e Volponi, ad appuntare su un quaderno tutte le parole nuove. E così i mesi passavano, io perdevo le parole, lei ne acquisiva sempre di più e riempiva ogni mio vuoto.

Ho rinunciato a tutte quelle che non mi erano servite, a quelle che avevo detto per sbaglio, a quelle che avevo detto troppe volte e che avevano finito per perdere di valore; ho smesso di usare le parole deludenti, quelle che mi avevano ferito, quelle con le quali avevo fatto del male. Ho cancellato dal mio vocabolario le parole che non mi piacevano e quelle che mi piacevano troppo, e mi ritrovo oggi a non poter dire quasi nulla, ma sapete cosa ho scoperto? Che ne servono poche, e che alla fine ce ne sarebbe stata una, comune e semplice, che avrebbe cambiato il corso della mia vecchiaia. Perché le parole sono rivestite del significato e dei ricordi che noi appiccichiamo loro addosso, con buona pace dei dizionari.

Avevo finito per convincermi del fatto che non mi servissero più, non ora che c’era Marian a riempire le mie vacanze estive e la cassetta delle lettere. La dipingevo di rosso il primo settembre, il giorno dopo la sua partenza, per far sì che fosse visibile per il postino. Non volevo che le lettere di Marian, piene di parole in italiano che io non usavo più, potessero andare perdute, che il postino non vedesse con chiarezza la cassetta postale della mia famiglia.

Non saprei dire se fossi un clone di mio padre a venticinque anni di distanza, ma anche lui ormai non diceva più un sacco di cose e mi sembrava perdesse pezzi ogni giorno; sopra ogni altra cosa aveva perso quel sorriso stanco che regalava a mia madre e a me la sera, quando tornava a casa dal pastificio. Eravamo fiori secchi entrambi, ma io sbocciavo ogni estate; lui non lo fece più, si estinse piano, e capii che stava finendo quando iniziò a farmi carezze impacciate: un gesto di debolezza, per uno come lui, al quale imparò ad abbandonarsi. Io dedicavo ogni domenica mattina a preparare il tiramisù di mia madre, la sua ricetta incollata con lo scotch al frigorifero. Erano identici gli ingredienti, le marche, le quantità, i contenitori e gli strumenti, eppure non veniva mai come il suo. Mio padre lo mangiava e mi diceva che ero diventato bravissimo, anche se la mano e le labbra gli tremavano.

Marian si iscrisse al DAMS a Bologna, perché aveva paura di Milano ed era intimidita da Roma. Nei piani di mia madre, io avrei dovuto continuare gli studi. Non capivo perché non volesse che seguissi le orme di mio padre: lui faceva un lavoro speciale, portava a casa la miglior pasta fresca che io abbia mai mangiato, e a me sarebbe piaciuta un’attività manuale che mi facesse dire, arrivato all’imbrunire di ogni giorno, di aver realizzato qualcosa che prima non esisteva. Mi iscrissi a Bologna anch’io, perché non distava molto da casa. E perché, naturalmente, lì avrei trovato Marian.

Marian riempiva le serate bolognesi di sogni, di film visti e di vicoli da scoprire. Preparavo il tiramisù, lei scriveva sceneggiature e ogni tanto veniva ad assaggiare la crema e a darmi un bacio sul collo. Aveva la capacità di farmi sentire necessario, perché se non ci fossi stato lei non avrebbe potuto sorridere in quel modo, e allora cosa si sarebbe perso il cielo!

Mio padre, nel frattempo, declinava rapidamente: si ammalò di assenza e si vestì di una vecchiaia precoce. Appese una corda al soffitto e furono i vicini a evitare il peggio. Dimenticò pezzi interi del suo passato, tutto quello che non poteva più sopportare. Ne parlai con Marian, lei mi strinse e in quell’abbraccio colsi la tensione vitale di chi non può rimanere imprigionato. Cosa vuoi che faccia?, mi chiese nel suo italiano pieno di congiuntivi ben posizionati. Resta, avrei voluto dirle, ma non potevo. E non potevo non solo perché non ero più capace di articolare quella parola; ma perché mi sentivo troppo fortunato ad avere Marian, e quando ci si sente troppo fortunati si è più propensi alla rinuncia.

Rinunciai a essere felice e all’università, rinunciai a lei. Mi disse che mi avrebbe scritto e che ogni tanto sarebbe venuta al paese, il mare le piaceva così tanto, ma le promesse sono fatte per avere significato solo mentre vengono pronunciate: un attimo dopo stanno già volando via, raggiungono la luna e si accoccolano sul fondo di un cratere dal nome impronunciabile di un fisico tedesco o di un astronomo russo. E lì, depositate e inermi, ci guardano ogni notte mentre noi, col naso all’insù, cerchiamo di trovare nel cielo le cose che abbiamo perduto.

Ho cercato Marian nelle interviste sui giornali, nella sala scura dell’unico cinema del paese, affondato in poltrone rosse che hanno ospitato i sogni e la noia di migliaia di persone. Ho provato a cercarmi nelle immagini dell’astro nascente del cinema mondiale, la regista polacca salita alla ribalta con un film malinconico e privo di speranza. Quando usciva un suo nuovo film andavo al primo spettacolo, guidavo per chilometri se necessario, e non ero soddisfatto se non memorizzavo ogni fotogramma. Smontavo e rimontavo le sue storie nella mia testa, cercando una traccia di me, anche flebile: un vezzo, un’espressione, una postura, una battuta di dialogo. Mi sembrava di vedermi dappertutto; finii per convincermi di non esserci, di essere stato dimenticato come la cassetta delle lettere vuota e arrugginita che avevo smesso di verniciare.

Lessi sui rotocalchi dei suoi due matrimoni falliti, riuscii a fingere un sorriso e ad augurarmi che fosse felice mentre la mia vita solitaria procedeva immota, divisa tra il pastificio e le domeniche mattina in cui non smettevo di preparare il tiramisù che, a volte, nemmeno mangiavo.

Pochi mesi fa, scoprii che aveva intenzione di girare un nuovo film proprio nel mio paese. Diceva di sentirsi pronta a tornare nei luoghi della sua giovinezza più spensierata e sognante. Avvertii una sensazione sopita da quell’estate del 1969 in cui lei era apparsa. Mi aggirai per casa inquieto, rimestando negli armadi e nei cassetti, rileggendo ogni sua lettera. E nel farlo cercavo di scovare tra le righe ciò che ero stato per lei. Mi allenai per tornare a essere il ragazzo che aveva amato, ma lo specchio rimandava immagini di un uomo cupo e senza nulla da raccontare.

Quando sono iniziate le riprese del film, ho preso l’abitudine di trattenermi nei luoghi in cui si girava, attento a non farmi notare: indossavo il fedora beige di mio padre e gli occhiali da sole, me ne stavo in mezzo alla gente certo che Marian non avrebbe potuto vedermi. Ma io, lei, la vedevo sempre. Sotto il sole di fine primavera faceva vibrare l’aria come cinquant’anni prima, come se il tempo avesse potuto incidere la sua pelle, ma non la sua energia vitale. Estasiato, rimanevo ad assistere fino a quando mettevano via l’attrezzatura e la folla di curiosi si disperdeva. Allungavo il collo oltre le recinzioni temporanee per scorgere qualcosa di me e di lei sui volti dei giovanissimi attori che, nella mia mente, interpretavano noi due.

Ieri sera, seduto in veranda con un bicchiere di whisky, cercavo di distinguere il mare oltre le luci della strada, e di ascoltarne i suoni. Le riprese erano finite nel pomeriggio, e pensavo che non l’avrei più rivista. Già mi ero pentito di non aver provato ad avvicinarmi a lei, ma poi un taxi ha parcheggiato di fronte casa.

È scesa Marian, si è stretta nella giacca leggera mentre la brezza le sollevava i capelli color cenere. Si è rivolta verso la mia casa, la casa di mio padre, e i nostri sguardi si sono incrociati. Lo abbiamo capito entrambi, nonostante i metri di distanza e le luci spente del patio. Ha sorriso, i denti luminosi sotto la luna piena, anche lei curiosa di assistere al miracolo.

Saliti i tre gradini della veranda, Marian si è seduta sulla sedia a dondolo. Io ho preso un bicchiere e le ho versato due dita di whisky allungato con acqua, ma lei ha scosso il capo.

Siamo rimasti seduti finché il vocio lungo il mare non è sparito; ma lei era lì, gli occhi incollati ai miei.

Poi, senza alcun segnale premonitore, abbiamo parlato all’unisono.

In quelle interviste, ho detto. Sai, ha detto lei.

Abbiamo sorriso, tenendoci legati attraverso gli sguardi, senza bisogno di altre forme di contatto. Una lacrima le è scivolata sulla pelle bianca. Si è alzata per andarsene, in silenzio, passandosi il dorso della mano sotto gli occhi.

L’ho guardata senza riuscire a dire l’unica cosa che avrei voluto. Nel panico, mi sono sforzato di pronunciarla, quella maledetta parola. Marian si stava allontanando e io stavo per perderla di nuovo

Ho preparato il tiramisù, sono riuscito a dirle di getto.

Lei ha fatto ancora qualche passo verso il resto del mondo, come se la mia voce non fosse più adatta a essere udita.

Poi si è fermata, e si è girata a guardarmi.

Ne mangiamo un po’ insieme?

Paolo Godani, o la salute nella febbre

1

 

di David Watkins

 

 

Una strana musica lega i dolori che scandiscono la nostra vita alle nostre scoperte più gioiose. Non occorre scomodare chissà quale evento tragico per mettersi in ascolto e origliare l’esistenza di questo legame. Possiamo farne esperienza, ad esempio, ogni volta che buschiamo una brutta febbre. Sdraiati nel nostro tremore, esclusi dal traffico che avanza di là dalla finestra, capita talvolta di trovare nello stesso male che ci costringe a letto la grazia che ci libera dai nervi tesi del giorno, l’analgesico che scioglie il ritmo ansiogeno dei nostri desideri e delle nostre ambizioni. Se fino a ieri la smania di raggiungere questo o quel traguardo ci ronzava in testa come un imperativo categorico capace di riassumere in sé il grafico del nostro destino, adesso le nostre esigenze si aprono e si chiudono nel cerchio semplice di un respiro, del bicchiere d’acqua con cui ci bagniamo le labbra, dell’aria che facciamo girare nella stanza, del volto amico che viene a farci visita nel dormiveglia e con cui ci sembra di parlare. Tutto il mondo che siamo è diminuito e si è dilatato ad un tempo. Sentiamo allora una brezza attraversare il nostro torpore, una calma dimenticata chissà quando accomunare la febbre ai più bei giorni di vacanza. Non abbiamo tagliato nessun traguardo, abbiamo soltanto intravisto che non c’era nessun traguardo da tagliare. Magari le parole per dirlo, nel frattempo, sono venute meno, e la conversazione immaginaria che aleggiava a mezz’aria tra noi e il nostro amico è ormai svanita in un sogno, ma il nostro corpo ha già compreso che l’aldilà della febbre non è altrove, che la salute è anzi un certo modo di stare nella malattia.

Volessimo affrancare questa salute dalla contingenza che ce l’ha fatta conoscere, volessimo far passare questo vento calmo nella febbre meno evitabile degli ultimi secoli e dei nostri giorni, dovremmo leggere Sul piacere che manca. L’etica del desiderio e lo spirito del capitalismo di Paolo Godani (DeriveApprodi, pp. 159, euro 13). Non ci costerà molta fatica: è un libro agile nei suoi affondi, che scende nelle spirali del metodo genealogico per riportare in superficie soltanto ciò che gli è strettamente necessario, in uno stile limpido, capace di vibrare, una scrittura che è forse un primo sintomo di convalescenza, un primo modo, implicito ma concreto, di agire contro quella mancanza di piacere di cui essa stessa svolge la diagnosi.

Diagnosticare un’assenza sistematica del piacere nello stato di cose presente è infatti il gesto paradossale con cui questo bizzarro epicureo ci fa entrare nel suo giardino (“perché è forse solo alla luce di ciò che manca che si può acquisire la capacità di lottare contro il proprio tempo”). Riassumendo una tesi che nel corso del libro verrà declinata da diverse prospettive, diremo subito che il piacere che Godani non vede e di cui avverte la mancanza non è il piacere che deriva dalla messa in atto di un desiderio, né tanto meno il riconoscimento che appaga lo sforzo di una qualche ambizione; diremo anzi che se il piacere si è reso invisibile ai suoi occhi, è appunto perché esso è quasi interamente sommerso e, per così dire, asfissiato dalle dinamiche del desiderio e dell’ambizione che governano la nostra attuale forma di vita: “lo sforzo di diventare qualcuno, che nelle nostre società si presenta come un compito infinito, finisce per coincidere con il sacrificio della propria stessa vita. Non si tratta certo di una novità assoluta e anzi si potrebbe dire che il capitalismo come tale si fondi su questa logica dell’accrescimento fine a se stesso e dell’intensificazione parossistica del desiderio, ma il tratto di novità portato dal regime neoliberale consiste precisamente nel fatto che questa logica sia estesa alla vita nella totalità dei suoi esercizi.” Se per piacere intendiamo invece un’esistenza che fruisce se stessa senza asservire alcuno scopo né alcun imperativo, allora il piacere è il rimosso delle nostre società, è ciò che il nostro corpo, preso nell’“andirivieni bipolare tra eccitazione e depressione che caratterizza le nostre esistenze”, non può tollerare.

La diagnosi di Godani non si limita a rilevare e descrivere questa “nuova forma di nevrosi”, questa febbre del desiderio che dà alla nostra stessa vita la forma di un lavoro e di un compito da realizzare, ma si dirama in una “genealogia del desiderio nella cultura del Novecento” che, come ogni buona genealogia, lascia comparire in controluce la possibilità di un modo altro di vivere e pensare.

Un merito essenziale di questa genealogia è quello di far emergere il punto in cui la nevrosi che caratterizza le nostre vite e le principali formulazioni teoriche del secolo scorso stringono come una tacita alleanza. Rileggendo alcuni momenti emblematici sia della psicoanalisi sia dei suoi più ostinati avversari anche alla luce di ciò che essi non dicono, Godani vi osserva una medesima incapacità di pensare, dunque di sentire, un piacere che non sia subordinato al desiderio o al ritmo discontinuo degli avvenimenti che interrompono il decorso ordinario di una vita, ma che sia connaturato alla vita stessa, inscritto nel sentimento più elementare dell’esistenza, per quanto ordinario e discreto il suo decorso possa apparire. Che il piacere venga inteso come il “soddisfacimento, per lo più improvviso, di bisogni fortemente compressi” (come nel caso di Freud nel Disagio della civiltà) o come “l’interruzione del processo immanente del desiderio” (è il caso di un Deleuze che rivela, sotto questo aspetto, un’insospettabile “filiazione freudiana”), il discorso di fondo non cambia: in entrambi i casi, il piacere vi si appiattisce e si comprime nella figura di un esito subalterno, un momento puntuale che appare e scompare nella vita di un corpo, un’intensità che sopraggiunge soltanto in seconda battuta, come il fine o la fine, comunque l’eccezione, di un processo che in sé sarebbe pertanto privo di piacere.

Stringere il piacere nel dominio del desiderio, negare la sua indipendenza dagli esiti del processo, significa dunque imprigionare il senso delle nostre attività nella tristezza della logica strumentale. È contro questa logica e la tristezza che ne deriva che Godani recupera, immaginandone “un uso attuale”, le parole di Epicuro. Perché nulla è forse oggi più inattuale dell’idea di un piacere, com’è quello epicureo, tanto discreto da coincidere con l’atmosfera stessa della vita, nulla, forse, più inattuale di un pensiero che dica il piacere essere non l’accidente estrinseco di un’esistenza che desidera ma il fondo inamovibile di un corpo che sente e respira.

Il piacere che Godani ritrova in Epicuro non ha nulla di eccezionale, ma è tutto ciò che resta ovunque una vita non sia sottomessa alle sue opere, ogni volta che il respiro di un corpo non sia assoggettato alla logica dei mezzi e dei fini. La vita del saggio epicureo è oziosa nella felice misura in cui non consente al lavorio del desiderio di rendere impercettibile questo piacere di fondo, agli affanni dell’ambizione di soffocare questo respiro; immaginare un modo attuale di essere epicurei non vuol dire, allora, pensare il lavoro da una parte e l’ozio dall’altra, né irrigidire il piacere e il desiderio nelle polarità di un ennesimo dualismo che non avrebbe alcuna presa sulla realtà della nostra vita, né tanto meno recidere il desiderio nell’ebetudine di una noluntas schopenhaueriana; piuttosto, “riconquistare, pur in presenza del desiderio, l’idiozia o la beatitudine del piacere puro vuol dire revocare le finalità del desiderio – non per cancellarle, ma per goderne come semplici variazioni sul tema del piacere”. In una parola, essere epicurei oggi significa rifiutare non tanto il lavoro, quanto la forma di vita che il lavoro sembra implicare.

Di questo rifiuto, di questa possibilità di “piegare il desiderio al respiro” che lascia intravedere una via d’uscita da quella nevrosi che ci siamo abituati ad assumere come l’eterno sinonimo delle nostre esistenze, l’amicizia e la filosofia costituiscono forse l’esempio supremo, per la semplice ragione che né l’una né l’altra sarebbero possibili se il finalismo e la logica strumentale non ne venissero costantemente messi fuori uso. Ed è per questa stessa ragione che ridere e filosofare insieme – per citare uno degli ultimi capitoli del libro – non è soltanto il modo più gioioso di perdere tempo (il riso non è d’altronde la lettura più profonda di un pensiero?), ma è anche “una sfida politica rivolta contro la politica”, “l’affermazione di una forma di vita incompatibile con l’ordine sociale esistente e con il tipo di umanità che questo vorrebbe produrre”.

 

«Si tratta dunque di un libro pieno di speranza?»

«No, amico mio. Ma il tramonto inesorabile che facciamo vanto di essere ha già i suoi ottimi avvocati. È forse tempo di cercare parole buone a dire l’infinita vivibilità della nostra disperazione.»

E molto vi è oltre. Un saluto per Rubina Giorgi

2

[Pubblico qui una lettera -come tentativo di saluto- per Rubina Giorgi, poetessa e filosofa venuta a mancare questa notte.]

Cara Rubina,

«Molto c’è da trovare, e di grande, e molto vi è oltre» dicevi con Hölderlin, e io non so come fare appello a questa vastità che lasci spalancata, e di cui tutta la tua vita è stata -credo- un formidabile indizio. Non è nostra abitudine scriverci a quest’ora, senza la chiarità della notte gonfia di frammenti, e di messaggi. Oggi, queste poche righe nascono gelate, fanno voto all’incompiuto, e io davvero non riesco a spiegarmi quanto respiro vien meno al mondo ora che d’improvviso mancherà una tua risposta. Tu mi hai iniziato alla legge del nutrimento, e del continuo “rivenire alla realtà”: perché ogni tuo capello era fuoco coperto, e la generazione della Vita è una lotta e un lavoro permanente.

Giacché non ci è possibile congedo, custodisco l’intima consapevolezza che la morte non ti è stata d’impedimento, e che soprattutto per questo ci è mancato un vero saluto: «Strano che l’angelo sia tacente? […] Bisogna avere un tempo pari, infinito».

Avrei voluto invitarti per un altro pancotto: lascio qui, invece, una cartolina da uno dei nostri incontri più felici, insieme alle righe che ci consegnasti quel giorno: «Il traino favoloso dell’amore è l’immagine. Se la nostra immagine dell’amato riuscisse a perdurare sempre in un modo vivido l’amore non avrebbe mai fine.»

La tua scienza amorosa non può trovare riparo nella finitudine: rimane ancora da far girare il mondo, da sbigottirlo.

Ti abbraccio forte,

Giorgiomaria

Overbooking: Titti Marrone

4

Nota di lettura
di

Francesco Forlani
al romanzo La donna capovolta di Titti Marrone

Dei libri mi piace cogliere i segni che sono un po’ ai margini, ancora più dei ringraziamenti, come per esempio gli indici, la titolazione dei capitoli, l’esergo che apre o la citazione che chiude la narrazione, se ve ne fossero. Possono essere gli elementi grafici scelti per la copertina o più banalmente il contesto editoriale, l’anno di pubblicazione o, più semplicemente, il nome della collana. L’ultimo romanzo di Titti Marrone, La donna capovolta, è il frammento numero 69 di una collezione che per l’appunto si intitola frammenti di memoria.

Poiché non credo alle coincidenze, al caso e dunque al fatto che determinate cose non siano più di quanto non ci appaiano, mi sembra essenziale al racconto in questione l’evocazione attraverso il segno 69 di quella che particolarmente in voga negli anni della rivoluzione sessuale veniva definita  filosofia dello Yin e Yang, simboli spesso tatuati sul polso o su una spalla. Come molti ricorderanno questi due segni detti in Cina pesci rappresentano proprio il Tao, soffio materno del mondo, matrice di tutte le cose reali, e rappresentato  dal simbolo che ingloba i due principi opposti della luce e dell’ ombra, del sole e della luna, e via dicendo, agguerriti contendenti al gran gioco della vita e del mondo.

Prima di addentrarci nella storia ma solo quel tanto che basta per spingere voi potenziali lettori a varcare la soglia di questa casa-libro, estremamente accogliente, vi consiglierei di tenere bene a mente queste tre cose: memoria, teoria degli opposti e, soprattutto, poetica del mutamento come del resto ci insegna l’ I CHING, nella preziosa edizione Adelphi che molti di voi sicuramente avranno nella propria libreria.

La storia di Una donna capovolta è quella di una casa e come in una pièce di Yasmina Reza, attraverso un delicato susseguirsi di campo e controcampo, le due protagoniste Eleonora e Alina si alternano sulla scena madre di tutto il romanzo ovvero la condizione della mamma di Eleonora, che una progressiva e inesorabile malattia degenerativa sta consumando insieme alla memoria ridotta sempre più a frammenti slegati e alla deriva. Eleonora che è un’intellettuale, una femminista da anni impegnata in un corpo a corpo con le teorie di genere, si scopre d’un tratto poco attrezzata ad affrontare la realtà come certi sociologi che dall’alto delle proprie teorie si ritrovassero all’improvviso sul terreno e senza via di scampo.

Alina, quasi coetanea di Eleonora, è un’intellettuale moldava che il crollo dell’impero sovietico ha scaraventato oltre cortina per riuscire con un lavoro da badante a mantenere i propri uomini rimasti senza lavoro o come nel caso del figlio che vive in Spagna, talmente obnubilati dal meraviglioso mondo occidentale da non riuscire nemmeno a farsi carico del minimo sindacale dei sogni, ovvero di guadagnarsi da vivere durante il giorno. Una casa essenzialmente al femminile? Per lo più, come del resto ci dice Eleonora in uno dei suoi squarci di luce sulle cose:

Ormai posso dire di vivere in un mondo di sole donne. Nel mio corso di quest’anno non c’è neanche uno studente. I convegni a cui partecipo sono popolati unicamente di presenze femminili. Le rare volte che esco per svagarmi, andando al cinema o a mangiare una pizza, lo faccio in compagnia di poche amiche. In famiglia ho a che fare principalmente con mia figlia e con mia madre, mentre sempre più volatili e sfuggenti si fanno le figure di mio marito Paolo, di mio fratello Carmine e di mio padre. Gli amici maschi battono in ritirata oppure – codardi – si trincerano dietro la formazione della coppia, non mostrandosi in giro se non al riparo di mogli o fidanzate.

Per ricomporre le due voci monologanti all’interno della storia, Titti Marrone mette in scena una terza voce che lei chiama Loro e che scopriamo in realtà essere la voce ma soprattutto l’occhio che dall’esterno segue le vicende in atto fornendo al lettore la genealogia dei caratteri dell’una e dell’altra, dei loro tic e soprattutto della prossimità che esiste tra loro, loro malgrado. La tentazione del lettore va detto è quella di assegnare immediatamente una medaglia all’una a scapito dell’altra da fucilare sul campo per diserzione dai sogni e la funzione di questa voce narrante super partes è a mio avviso principalmente quella di trattenere il lettore dal farlo non privandolo in siffatto modo del ruolo di testimone del mutamento.

Un Loro dunque demiurgico molto diverso dal loro impiegato da Alina, affratellato al noi e loro di cui ci racconta per descrivere due mondi, un tempo separati dalla cortina di ferro e ora, proprio in quella casa, incredibilmente rovesciati nei rispettivi destini al punto che se tra dire e fare, di sinistra, c’è di mezzo il mare, possiamo senz’altro dire che tra  loro due c’è un oceano a separarle dalle rispettive rive.

Certo, nella nostra parte di mondo abbiamo fallito anche nell’utopia più imprendibile di tutte: il compito di “edificare l’uomo nuovo” che c’indicavano a scuola, nei raduni, nei roboanti discorsi pubblici. Ma io non scambio i nostri più colossali fallimenti con questa vischiosa ipocrisia mescolata alla vita di tutti, con la loro disinvoltura nel vendersi responsabilità dovute verso genitori e mogli per comprarsi la libertà di vite comode e svuotate di senso. Mio padre segui ogni momento della malattia di mia madre. Da medico le assegnava le terapie, vigilava sui suoi farmaci, da marito l’accompagnava un passo dietro l’altro senza pensare neanche per un momento di fuggire, scrollarsene il peso di dosso. Credo che gli uomini e le donne, da noi e da loro, siano proprio fatti in modo diverso. E preferisco mille volte il nostro.

Alina e Eleonora sono Yin e Yang, l’una è la parola, l’altra il silenzio che le serve a dissimulare l’intelligenza e la cultura, cose poco apprezzate nel mestiere della badante, scambiandosi i ruoli al passo veloce di una narrazione che Titti Marrone conduce con estrema maestria. La penna non induce mai al lirismo a cui molti autori della sua generazione post 68 ci ha reso avvezzi e anche un po’ allergici, ma facendo leva su dispositivi umoristici e caricaturali riesce ad affabulare il lettore con il suo teatro come quando ci vengono raccontate le vicende della famiglia in cui lavorava Alina prima di prendere servizio da Eleonora.

Se come troviamo scritto, sono tre i tipi di relazione che si possono spiegare in termini di Yin e Yang, ovvero di opposizione, d’interdipendenza e per finire di reciproca mutazione, La donna capovolta ci racconta proprio tutto questo. A libro chiuso mi ritorna in mente la scritta che sul finire degli anni settanta alcuni compagni avevano a colpi di vernice rossa composto sulla facciata del Liceo scientifico Armando Diaz a Caserta: ciò che non cambia è la volontà di cambiare, perché è vero, ed è un po’ la tesi di fondo del romanzo, che possiamo soltanto non volere ciò che siamo come quando Eleonora ci racconta la partita a ruoli invertiti con la madre:

Lei regredita nella penombra amara della vecchiaia, lei sospinta verso la mortificazione di pannoloni zuppi come quelli della neonata che io fui nelle braccia sue – che lei cambiava sorridendo, cospargendomi le gambette di talco –, dovrebbe poter ricevere dalla figlia adulta lo stesso naturale accudimento che venne riservato a me. Tu hai dato a me, io adesso darò a te. Chiusura del cerchio.

E chiusura di questa nota. Anche.

Post Scriptum

Quando ho esplorato le prime pagine del volume mi sono imbattutto in questa dicitura: iacobellieditore è un marchio di proprietà della società Trerefusi srl. Nel post ho deciso di lasciare tre refusi. Il primo che sarà in grado di ritrovarli avrà in regalo la mia copia del romanzo, magari autografato dall’autrice se ne avesse il tempo e la voglia.