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Appunti estivi

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di Francesca Matteoni

Land’s End – Cornovaglia

Così la terra finisce nel granito a picco sull’oceano. Là sotto le onde coprono e scoprono scogli aguzzi, la rovina di imbarcazioni e vite nei secoli. Le leggende dicono che fossero le streghe, sedute sulle sporgenze e le rocce di Land’s End, a far naufragare le navi e poi inviare i loro famigli canini a divorare le anime dei marinai annegati. Le possiamo immaginare accovacciate a parlare nel vento. In realtà nessuna strega di quelle finite nei documenti processuali è stata condannata per naufragi o altri cataclismi. Semmai per la morte di un cavallo da tiro, la malattia di un vicino, lo spegnersi di un neonato, una vacca che smette di dare latte – e ancora meglio se per vari di questi accadimenti, accumulati negli anni in cui la strega si costruisce la reputazione. Ma sulla scogliera le paure quotidiane incontrano il mito: la strega umanissima presta il corpo alla sua controparte soprannaturale dagli occhi spiritati color della tempesta. Questo è un punto mediano. Fra la terra e l’oceano. Fra l’acqua e la roccia. Nonostante i turisti, i camminatori, i surfisti che si dirigono alle piccole baie sabbiose come Sennen Cove, questo luogo non può essere addomesticato. Le rocce prendono nomi suggestivi, come la Irish Lady, un grande scoglio che sembra una creatura ammantata, rivolta all’Atlantico. Una dama irlandese nel senso fatato: una Banshee che geme e ammonisce, il cui sembiante è appena riconoscibile e sembra un drappo, una creatura di stracci svolazzanti e solenni. O i sedili dei giganti, i volti del tale o del tal altro, quasi scolpiti con un’intenzione dalle correnti. Ma nelle correnti non vi è nessuna intenzione che non sia loro stesse. La scogliera è una soglia. Sono già stata qui, vent’anni fa esatti, per l’eclissi di sole: con pochissimi soldi, lo zaino dell’inter-rail, trascorsi la notte nel sacco a pelo poco distante dai picchi, al riparo nella brughiera. Allora volevo solo andare altrove, con la bussola interiore puntata a nord, a queste lande che poi negli anni ho visitato spesso e abitato. Oggi imparo a stare sulla soglia come chi torna.

Viaggiare verso la regione sconosciuta è spesso viaggiare verso casa,

dice Tallis la ragazzina protagonista del libro che ho con me, Lavondyss dell’inglese Robert Heldstock. Cerco le parole e le storie del libro nella propaggine di occidente dove mi trovo. Il nome Lavondyss è il risultato di un incontro fra due isole leggendarie: Lyonesse e Avalon. Terre dove eroi e profeti toccati dalle fate dormono in attesa di un sogno che li riporti all’origine. Lavondyss è la foresta primigenia nata dalla congiunzione di sogno e paesaggio, dove la protagonista si spinge alla ricerca del fratello maggiore, smarrito anni prima in questi luoghi senza tempo o meglio – luoghi dove il tempo non scorre come siamo abituati a pensarlo, ma alterna rinascite, trasmutazioni cicliche del medesimo spazio e dei suoi ospiti che possono svanire o viaggiarci dentro. La forza del libro sta nei nomi che la ragazzina dà ai boschi e campi e terre lavorate che circondano il suo luogo natio: viaggerà sempre dentro di loro, attraverso ere diverse, indietro o avanti, attraverso corpi diversi – di donna, di vecchia, di legno e linfa. E i nomi sono incantesimi infantili e potenti: Vecchio Posto Proibito (Old Forbidden Place); Campo del Trovami Ancora (Find Me Again Field); e poi Landa dello Spirito Uccello (Bird Spirit Land), ovvero la landa sospesa fra la vita e la morte, fra la caduta del corpo e quel volo che fantastichiamo proprio dell’anima, non senza qualche sgomento. I nomi sono la nostra immaginazione che ci iscrive nei luoghi ed è difficile pensare a cosa siano prima di essi. Anche un campo senza nome per noi, quasi inconsapevolmente, può divenire il Campo Innominato o Innominabile, manifestando tutta la sua potenza.

Raccolgo una grossa piuma di gabbiano: la scogliera è una Bird Spirit Land. Gli uccelli marini sono i residenti elettivi, capaci di farsi portare su dal vento, gracchianti, predatori di altri piccoli uccelli, uova e pesci, raccolti a decine là sotto, su uno scoglio. Mi risuona dal libro la definizione che Tallis dà degli sciamani, prima di divenire lei stessa qualcosa di molto simile a una sciamana che ha attraversato paura, dolore e sconfitta:

Sono custodi e maestri di conoscenza. Conoscenza dell’animale nella terra. Nella visione, nella storia, nella scoperta dei sentieri.

Conoscenza dell’animale nella terra: con questa intuizione viene tradotta l’esperienza estatica, ovvero l’andar fuori di sé, all’oltremondo, che sorge metamorfico sulle tracce familiari di questo dove siamo. Non si tratta di andare via, ma di trovare vie, di immergersi, di ripercorrere, di stabilire punti di contatto con il noto, mentre siamo alla ricerca dell’ignoto. Conoscenza dell’animale nella terra – ovvero osservarlo fino a non sapere più nulla di lui, a non avere più pregiudizi, liberarlo dagli apparati simbolici. Sono già stata qui, dicevo, eppure non è qui che torno: sono diversa e il luogo è diverso. Ci cammino portando in lui la terra che anche io sono diventata, cerco di liberarmi da tutte le mie aspettative e perfino dai ricordi. Mi attrae ed entusiasma la prossimità dell’oceano poiché provengo dai monti e dalle colline, dall’interno che nel mio caso è anche un altro paese, a sud.

Esultanza è il recarsi
Dell’anima di terra al mare,
Oltre le case – oltre i promontori,
Nella profonda Eternità –

scriveva Emily Dickinson. E io so che ha ragione. Immagino sempre l’odore del mare, a un certo punto, mentre cammino in alto verso il mio bosco appenninico preferito. Immagino il suo cielo non interrotto. In “Poetry and the Mind of Indirection” un saggio all’interno di un altro libro che ho con me, Jane Hirshfield dice che:

per vedere il mondo davvero, abbiamo bisogno di una consapevolezza  che si sia immersa in molto altro rispetto all’umano – che abbia viaggiato lontano dal domestico, dal familiare, dai limiti angusti dell’io. Nell’avviarsi su un simile sentiero, le difficoltà e durezze sono tutto quanto ci è promesso, tuttavia la conoscenza acquisita in un simile viaggio non è necessariamente tragica.

E ancora il poeta californiano Robinson Jeffers scrive:

Dobbiamo dislocare le nostre menti da noi stessi;
in-umanizzare un po’ le nostre prospettive, e divenire certi
come la roccia e l’oceano da cui sorgemmo.

Conia il termine unhumanize, in-umanizzare, ovvero guardare al mondo stupiti, recuperando quella che chiamiamo intimità, là, nelle sostanze elementali che formano e sostengono. In questo modo procede la lingua poetica e la possibilità di stare dove in effetti stiamo, invecchiamo e torniamo bambini, quasi senza saperlo.

Che cos’è la fine della terra? Una punta, uno scoglio, uno sprofondamento, una mancanza, una presenza altra che modula le voci nell’aria, un nome per domare l’indomabile. Una regione sconosciuta se decidiamo di non prendere il sopravvento. Una forma di esilio: non sono con gli altri che qui camminano come me, come me scattano foto, come me cercano forse il punto d’incontro fra il loro mondo e il mondo. Provenienza e approdo. Un silenzio che parla continuamente e assomiglia all’oblio. E nell’oblio un’interezza incomunicabile.

Torri – Appennino pistoiese

Ho preso casa in montagna nel mio paese paterno per tutta l’estate. Mi trasferisco qui quando non lavoro o non ho impegni di comunità nell’altro paese, a valle, dove abito. Nei mesi di giugno e luglio, durante la settimana, siamo pochissimi: i residenti che non arrivano a dieci e altri dalla città, per lo più pensionati. Da casa, in alto, raccolgo tutti i suoni. Sto finendo di scrivere alcune poesie su una montagna dove si sono rifugiati gli animali, fuori dal tempo, che significa sia in un tempo remoto che in uno a venire. Nella montagna gli animali parlano. Al di là sorge l’oceano o l’oltremondo. Come raccoglierò le loro voci?

Nel pomeriggio mi incammino verso il bosco sulla cima, al Prataccio. È un luogo che conosco bene: un rifugio per vagare, scrivere, leggere, suonare qualche strumento, stare così a far niente, scrutando l’abetaia o attraversando la faggeta che conduce a Forravernio e alle rocce interne, dove ci si affaccia su altri paesi occhieggianti nella macchia verde – Campaldaio, ad esempio. Ancora i nomi – come fai a sapere che la fine di un corridoio di faggi con le rocce esposte al sole è Forravernio? Che significa? Quanti Forravernio ci saranno nell’Appennino? O Casetta Bruciata o Collina o Lagacci. Ai margini della strada, prima di raggiungere l’entrata del bosco, crescono erbe e fiori, fra cui mi soffermo sull’iperico; i fusti alti del verbasco che sono le sentinelle dei boschi come mi ha insegnato la mia amica erborista Cecilia; la digitale bianca che spunta all’ombra, quasi alla fine del percorso, in un punto dove mi fermo per ascoltare il vento. Si forma un vortice d’aria fra gli abeti, che porta l’odore degli aghi e delle cortecce. E naturalmente dei merli, dei cuculi, delle cince che si mescolano qui alle foglie, sfuggono ai rapaci: il gheppio o la poiana. Anche se lo raccontassi molte volte questo specifico tratto di strada resterebbe un segreto: cosa sentirebbe qualcun altro? Come potrei convincerlo del potere che c’è qui? Non potrei e non dovrei. Non sono la traduttrice del vento. Sono un’ospite di lunga data, però – forse per questo a volte riesco a cavarne dei versi, delle parole. Questo tratto ultimo di strada stretta è la mia attesa, prima di riemergere sul burrone e sotto la calura, arrivare ai sassi dove ci si arrampica, si battono le mani per scoraggiare le vipere, ci si addentra, nasce il sentiero.

Qual è la natura di questo momento? Chiede la poesia e non abbiamo tregua finché la domanda non trova soluzione. Poi viene posta, di nuovo,

ancora Jane Hirshfield in un saggio sull’originalità. La natura dell’Appennino, della saggezza che cerco. Della solitudine densa di rumori e ogni rumore una domanda che ha in sé la risposta. Mi scopro a pensare che l’udito conta più della vista, che nel paesaggio siamo in attesa di decifrare una lingua: quanto vediamo è secondario, serve a calare la sostanza nella forma, ma la sostanza è il suono. Suono composto di tutte le vite che poi gli occhi si impegnano a riconoscere. Prima ascolta, poi guarda. Anzi vedi. Dicono le piante e canta quell’uccellino di cui non riconosco il verso. Ascolta per non essere più soltanto te.

Sono colui che è vissuto nel proprio tempo
senza essere sé. Sono il minore della famiglia
degli uomini e degli uccelli, ho cantato assieme a tutti gli altri

Leggo questi versi di una poesia di Arsenij Tarkovskij un giorno in cui è calato il freddo – piove e io resto a casa, con la finestra aperta perché la nebbiolina dai monti si sparga anche sul tavolo. Come si può vivere nel proprio tempo senza essere sé? È un bene o un male? È una perdita o una grazia? O entrambe? Anche io voglio essere la minore di questa famiglia da cui sono circondata. La più piccola, quella che non sa e per questo può ancora ricordare tutto. Mi viene in soccorso Libera, la bambina protagonista di una fiaba di Matteo Meschiari, L’ora del mondo, uscita a inizio estate. Figlia di tutto e di nessuno, è nata senza una mano, un difetto che può farne un’anomalia nella società, ma che ne fa una sciamana nel mondo dello spirito. Tutti gli sciamani erano toccati dalla diversità o dalla deformità, segno elettivo della loro prossimità allo straordinario nel quotidiano. Libera vive nell’Appennino modenese. Ne condivide l’antichità, pur restando una ragazzina, ha in sé i segni del luogo e di tutte le storie non scritte o dimenticate. Pastori di anime, semidei dai tratti teriomorfi come l’Uomo-Somaro, suo maestro che solo nella morte si ricompone completamente nell’animale; dei alteri e sprezzanti come una lince furtiva; creature-albero che mutano per sopravvivere e tramandare. Nell’Appennino, come in Lavondyss, si apre una regione ignota che conosceremmo bene, se solo volessimo svegliarci. Perché esso ci compone tanto quanto la carne o il respiro o l’osso, esso è tutto quello che amiamo. Ci sono Sedi e luoghi piccoli dove nascondersi dalle potenze, ci sono segreti e doni e pericoli che sono anche amici da tenere a distanza. Ho pensato che sapevo quello che stava accadendo a Libera, non perché io sia selvaggia come lei, ma ancora per quell’insieme di sillabe, quel vocabolo così importante – Appennino. Dove sono. Di cui ho nostalgia. Dove, per assurdo, sogno la costa estrema, l’odore del salmastro, la riva a nord, l’oceano. Dove posso rivivere tutte le mie mitologie – inventate, presunte, reali. Dove essere dimenticata e divenire montagna.

Loro sono i Pastori. Quando un’anima viene presa o lascia il suo corpo arrivano i Servitori Notturni. E la portano via.
E dove lo portano?
All’Albero Nero.
Non mi piace.
Non ti piace? Chissà quante volte l’hai visto ma non te lo ricordi. Io invece mi ricordo bene di te. La Neanderthal che non è scampata all’incendio della foresta. L’arvicola uccisa dal falco. La cerbiatta presa dal cacciatore villanoviano. La figlia del cacciatore e la nipote della nipote di sua figlia. La matriarca dei cinghiali con i suoi cento discendenti ai Taburri. La neonata morta di peste a Sant’Anna nel 1633. La cagna del dottor Bertocchi a Frassinoro. La gatta di Beata Monterastelli a Ospitale. E Libera la Selvaggia di genitori ignoti.

Questo dice il Mezzo Patriarca arboreo alla bambina, lei stessa luogo di incontro per le vite oltre i legami temporali. È vero che in noi risuonano più esistenze, che possiamo sentirci profondamente vicini a creature altre, sensibili a epoche remote, richiamati da paesi molto oltre l’orizzonte visibile, e non sappiamo spiegare perché. Lo si avverte in modo nitido lasciando in disparte l’umano, muovendoci verso il posto primigenio, ai primordi della nostra stirpe, qualsiasi essa sia. Con il sangue e le memorie familiari e i volti, si alzeranno in nostra difesa il greto del torrente, il rovo, la saltabecca, le case diroccate, gli occhi di una bestia boschiva, quel certo prato, quel preciso masso che ricopre appena una buca. Da cosa ci difenderanno? Non dal terrore, dai malanni, dalla morte. Dalla nostra impazienza.

 

Regione interna del Penwyth, Cornovaglia

Prendiamo l’autobus verso l’interno a poche miglia dalla costa. Siamo io e mia madre, la sua seconda volta in Cornovaglia, la mia quinta. Scendiamo nel piccolo villaggio di Madron, il cui nome rimanda a un presunto santo cristiano che ha incorporato qualche divinità celtica femminile. C’è una sorgente sacra qui, sgorga direttamente dalla terra in un boschetto: l’ho letto qualche mese fa in un libro di Sharon Blackie, che potrebbe rientrare nella categoria eco-femminismo, If Women Rose Rooted. L’autrice racconta che oggi il luogo è dismesso, pur se segnalato. Ci incamminiamo, è abbastanza facile trovarlo. Prima della fonte i soliti alberi a cui sono stati legati nastrini colorati, braccialetti, foglietti con preghiere e desideri. Se ne incontrano tanti nei luoghi sacri o magici dell’isola britannica. Ripenso a St. Nectan’s Glen, più a nord-ovest in questa stessa contea, o alla collina fatata ad Aberfoyle, nell’interno della Scozia.

La fonte è prosciugata. Siamo già state avvertite da un gruppo di inglesi, arrivati qui con l’auto: “Spero non siate assetate. Non c’è più nulla”, ci ha detto l’uomo con tono sarcastico, di chi in fondo non ha molto interesse in ciò che ha visitato. Lo registro con fastidio. La fonte è protetta da una piccola cappella aperta, formata da quattro mura di pietra al cui interno ci si può sedere. Secondo la leggenda era custodita da nove vergini, nove donne dedite alla terra e ai suoi segreti. Ma ora l’acqua non sgorga – la calura eccessiva, il cambiamento climatico, l’incuria dell’umano odierno, per lo più curioso, incapace di capire perché nascono miti sulle fonti nel bosco, sugli alberi che le vegliano. Mi viene la tristezza, non scatto nemmeno una foto col cellulare. Riprendiamo il cammino verso Lanyon Quoit, uno dei dolmen della regione. Questa parte di Cornovaglia è ricca di monumenti megalitici e del loro mistero: a cosa servivano? Conosciamo le storie, la sorte che hanno avuto con l’arrivo del cristianesimo, ma sull’origine antica ci sono solo ipotesi non verificabili – essi sono lì da prima della scrittura, cancelli che si aprono per la nostra immaginazione. Tombe, templi, osservatori per le stelle. Penso alle Merry Maidens verso Land’s End, diciannove pietre disposte in cerchio. Le fanciulle allegre, dice il nome non senza un’ironia perfida. Questa è la leggenda cristiana. Diciannove fanciulle trasformate in pietra per aver osato danzare la domenica. Che assurdità.

La brughiera intorno è rialzata rispetto alla strada dove camminiamo, tenendoci vicine ai margini per evitare le rare auto. Ovunque, sui cigli, rovi, e nei rovi le more che cominciano a maturare. Le cogliamo: molte hanno un retrogusto aspro, dovuto alle vicinanza della costa. Mi ricordo quando da bambina ci inoltravamo fra i boschi con barattoli e pentolini di latta, alla ricerca di more, mirtilli, lamponi, fragole. Mangiarle così, dai rovi o dalle piante, era una grande soddisfazione: lo è ancora, anche se mi capita poco sulla mia montagna, perché… le lamponaie, i roveti e i mirtilli sono quasi del tutto spariti. Più facile che colga more camminando fra i paesi a valle, dove alcuni rovi sono stati piantati e hanno proliferato, e naturalmente ogni volta che viaggio in questi paesi d’estate: non manco mai di mangiarne mentre camminiamo, è quasi un rito. Accetto il cibo della terra come un dono.

(…) io credo che le vere specie di bacche costituiscano la nostra frutta selvatica, paragonabile a quella più rinomata dei tropici, e per quanto mi riguarda non scambierei altri frutti coi loro, perché il punto non è semplicemente ricevere una nave carica di qualcosa che si può mangiare e vendere, ma anche considerare il piacere che si ricava dalla raccolta.

Scrive Henry David Thoreau in un prezioso saggio, Mirtilli, che ho letto recentemente. Parla del mirtillo americano, certo, ma io lo paragono alle mie more e ai miei lamponi, al rovo che ho avuto nell’orto della casa materna per molte estati. Quando seccò mio nonno impiegò un giorno intero a sradicarlo – pianta tenace, difensiva, generosa. Penso spesso alla poesia che ricerco come a un rovo, carico di spine, di frutti asprigni e dolci. Continua Thoreau:

Mangi le bacche nei terreni aridi su cui crescono non per soddisfare un appetito, ma con la stessa naturalezza e semplicità con cui i pensieri ti sgorgano nella testa, come se fossero esse stesse cibo per la mente, essiccato di per sé, e senza dubbio in grado di nutrire il cervello.

Il suo elogio delle bacche è un inno al gratuito, allo scambio, al godere della natura, all’apprendere nei suoi campi come nella più entusiasmante delle scuole, portando rispetto per coloro che ci camminavano prima di noi, per le altre vite senza prezzo. Imparare a riconoscere chi abita un luogo. Cercare i nomi originari, come, nel caso americano, quelli dati dai nativi alle piante e non quelli importati dai vocabolari greci e latini d’Europa. Addentrarsi. L’opera è anche una condanna al sistema moderno, dove vale solo ciò che è monetizzabile: i bambini nei campi e nei boschi a tingersi le mani di succo violaceo sono roba da sciocchi, da passeri, da animali invisibili. Ma la natura ha vie che riescono ad aggirare i nostri interessi… quasi sempre.

Non facciamo caso al pettirosso che becca un mirtillo come invece facciamo quando il volatile visita il nostro ciliegio preferito, e la volpe si aggira nei campi soltanto quando siamo lontani.

Quante cose accadono mentre non siamo lì, non siamo presenti! Eppure sono proprio queste le cose che dovremmo sforzarci di raccontare. Come? Tornando a immergerci, a scrutare l’orizzonte, a percepire i rumori, a scomparire nel giallo o nel verdastro dei campi. Bacche – cibi delle fate. Se ne mangi nulla sarà più come prima, sarai perduta, perduta! Per sempre incantata dagli esseri del crepuscolo, che intrecciano nodi nei crini del cavalli e cavalcano lepri. Quegli stessi esseri che si aggirano tra i megaliti di cui nessuno sa più cosa fare, se non scattare una fotografia. Quegli esseri che aspettano nei miei boschi, sull’Appennino, anche se nessuno ci crede. Raccolgo i frutti, li assaggio, mi perdo con consapevolezza.

Lanyon Quoit non è lontano, ma sotto il sole del mezzogiorno è una conquista: io e mia madre pranziamo lì. Siamo sole per un po’. I turisti sono nei villaggi pittoreschi dei pescatori, sulle spiagge, nei locali della costa – le dico che è normale: anche quando ho viaggiato nelle regioni più a nord e interne della Cornovaglia ho incontrato poca gente. Certo le persone arrivano a piccoli gruppi durante la giornata, spesso in auto e per pochi minuti. Non si paga un biglietto. A volte penso sia questo, in una società distorta dove il valore è dato dal costo, non dall’esperienza, a rendere un posto poco invitante. Arrivano due coppie di stranieri, poi una famiglia locale con il cestino del pic-nic. Noi vorremmo raggiungere Mên an Tol, la pietra forata, il monumento megalitico più singolare della zona, che sappiamo non molto distante. Potremmo riprendere la strada asfaltata, ma cerchiamo la scorciatoia nella brughiera, che vediamo indicata sulla nostra cartina topografica.

Una coppia francese ci soccorre: vengono proprio da lì. Ci indicano la direzione, ci dicono che sì, c’è una specie di sentiero, sommerso dalla sterpaglia. Ci avviamo ed è una piccola avventura. Il paesaggio sembra sempre uguale a se stesso e racconto a mia madre che i folletti che abbondano nei negozi di souvenir, quali portachiavi o calamite, i pixie, piskie, pesky, pigsy, e via dicendo, non sono affatto innocui  omini, buoni come ricordo delle vacanze: è qui che vivono, dispettosi e irascibili, mimetizzati, pronti a condurre fuori strada il viaggiatore che incautamente metta il piede sulla loro zolla. Io ho i miei amuleti, le dico, scuotendo i braccialetti, e quindi a noi non succederà niente. Mia madre scuote la testa, rassegnata. Arriviamo al rudere della vecchia miniera di Ding Dong: sotto la torre, in una buca nella pietra hanno gettato di tutto fra lattine e confezioni di plastica. Qualche cornacchia svolazza, chissà se prova rabbia verso di noi. Molto distante scorgiamo la sagoma di un cairn, un’antica tomba, ma è tardi e non pensiamo di raggiungerlo.

Ci sono tre sentieri striminziti dietro la miniera – mia madre conduce decisa, seguendo la sua cartina. Attraversiamo altri sterpi, un piccolo fosso segnalato sulla mappa. E in pochi minuti –la pietra forata. Una giovane coppia di francesi si aggira per lì. Li guardo: lei è incinta e a me viene un sorriso. Mên an Tol, che significa proprio “pietra forata”, è formato dai resti di un monumento dell’Età del Bronzo, forse era una vera a propria struttura, un tempio o una tomba, di cui la pietra poteva essere l’ingresso. Ma la verità è che non lo sapremo mai. Quello che sappiamo è quello che ho letto tanti anni fa nei testi di Mircea Eliade sulla storia delle religioni e in altri libri di tradizioni celtiche. Passare attraverso la pietra per nove volte, con un giro antiorario, garantiva alle donne di restare incinta o di portare a termine felicemente la loro gravidanza, ed era un atto curativo per varie malattie, soprattutto deformità e rachitismo. Vado a memoria, ma non credo di sbagliare. La pietra rinsalda, fortifica, fissa e aggiusta quanto è fragile. Salutiamo la coppia. Quando restiamo sole passo anch’io per il foro e così fa mia madre. La giornata è splendida, l’orizzonte ampio, siamo nel passato ancestrale dell’umanità ed esco dai miei libri, dalle suggestioni che mi hanno guidato fin qui, esco, metaforicamente, come rinascendo dal foro in una pietra circolare. Dimentico quello che so. Cerco quello che sono e dove le due realtà si incrociano. Da una parte della pietra questa brughiera sollevata che si estende in una coda fino agli scogli e all’oceano e rovi di more ai margini; dall’altra una lamponaia sepolta, dei faggi magici, un bosco che a volte risuona come le onde, lassù, nel centro dell’Appennino.

Datità: tutto quello che è non rimane nell’essere

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[Ospito qui una partitura poetica tratta da Datità di Giovanna Frene, dal titolo Per l’operazione subita, insieme ad una nota critica sul libro scritta da Elisa Vignali ]

 

 

Per l’operazione subita

  siamo per noi stessi

  la stessa immagine per gli altri

  sia da vivi che da morti

La morte di Sordello nel Baldus

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di Giorgio Mascitelli

 

Che il personaggio di Sordello, il poeta già presente nel Purgatorio dantesco, si trovi anche nel Baldus potrebbe essere tranquillamente letto come un localismo: il mantovano Folengo che in un’opera ambientata in parte anche a Mantova evoca un genius loci per nobilitare la materia macheronica. Forse però le cose non stanno del tutto così.

Sordello da Goito appare alla fine del terzo libro del Baldus. Baldus ancora ragazzino sta per essere arrestato dal bargello e dai suoi sbirri per aver ucciso a Mantova nel corso della festa delle calende di maggio un assalitore. Lo stesso Baldus chiede a Sordello di essere giudice nella contesa con la sbirraglia e ovviamente l’antico trovatore darà ragione a Baldus e anzi lo prenderà sotto la sua protezione. Folengo lo descrive come ormai vecchio, ma sostanzialmente secondo i canoni di rappresentazione della tradizione letteraria: insomma il Sordello del Baldus non è a prima vista troppo diverso da quello dantesco e agisce e parla con aristocratico senso dell’onore e della giustizia. Intima al bargello di lasciare il ragazzo, ma questi vuole procedere con l’arresto e portarlo in città da Cipada. Allora Sordello riprende la parola e, approfittando del fatto che si è radunata una piccola folla di contadini per assistere alla contesa, denuncia con vigore la malvagità e la corruzione degli sbirri, costringendo il bargello a rinunciare al suo proposito.

Sebbene egli riconosca in Baldus un suo pari travestito da contadino, per salvarlo richiama la natura di oppressi dei contadini di fronte al potere poliziesco e cittadino, inaugurando così un’inedita alleanza tra valori aristocratici e mondo contadino oppresso. Ovviamente parlare di valori aristocratici qui significa parlare di ideologia cavalleresca, ossia l’aristocrazia degli squattrinati e dei secondogeniti, e probabilmente significa parlare con più precisione di valori umanistici. La scena dello pseudocomizio è descritta da Folengo secondo i dettami dell’arte macheronica e dunque il poeta ci informa che Sordello è sì vecchio, ma si tiene bene tant’è vero che non sputa o scoreggia involontariamente come fanno gli altri vecchi. La vecchiaia e la saggezza rette da giusti valori dovrebbero consigliare e guidare il giovane Baldus, che non a caso si è messo nei guai durante la festa di primavera. Ma si sa che le cose nella vita non vanno mai così lisce e la vecchiaia è anche debolezza. Sordello nel quarto libro, chiamato a Mantova a difendere Baldus da nuove accuse, dovrà confessare i limiti della sua protezione, che è anche una paternità spirituale, perché gli manca la forza ormai di lottare contro il pretore della città. Difatti tre giorni dopo morirà o per il dispiacere o per l’avvelenamento procurato dallo stesso pretore Gaioffo.

Le sue ultime parole nel poema sono emblematiche: “At plures video de vobis torcere testam,/nasutosque mihi oranti deducere nasos./Sat bene nunc vestri pensiria nosco magonis,/ quare nolo meas ventis gittare parolas./ Quam doleo quod longa bovi paleria vecchio/ iam mihi nunc pendent, quam quod mihi bolsa  cavalla est./ Non animus, fateor, mancat, sed forza volavit.” ( IV,vv. 542-548: ma vedo che molti di voi girano la testa e allontanano da me che chiedo i loro nasi arricciati. Ora conosco abbastanza bene i pensieri del vostro magone perciò non voglio gettare al vento le mie parole. Ciò di cui mi lamento è il fatto che una lunga giogaia pende a me vecchio come ai buoi, e che la mia cavalla è bolsa. Non mi manca il coraggio, lo confesso, ma la forza se ne è andata). E’ una drammatica confessione d’impotenza che prelude alla morte ed è sorprendente che Folengo con un lingua dalle connotazioni comiche come il macheronico regga anche questa confessione così drammatica. La morte di Sordello potrebbe essere una sorta di passaggio di consegne allo stesso Baldus di quei valori, ma in realtà non è così perché al vecchio trovatore è mancato anche il tempo per istruire il suo pupillo. Allora quella morte rappresenta la morte dei valori umanistici, che non sono più patrimonio della cavalleria e non trovano nel mondo contadino chi li possa riprendere. La specificità di Folengo non sta però nella dichiarazione della fine del mondo cavalleresco, o meglio della fine dell’ideale di quel mondo, della qual cosa non mancano certo esempi illustri anteriori, contemporanei e posteriori, ma nel fatto che venga cercata come estrema salvezza di quei valori l’accordo con quella parte della società, i contadini, che è senz’altro la più lontana nella gerarchia sociale. Infatti la dichiarazione della fine della cavalleria, e più in generale della fine di un’idea aristocratica della vita, non è certo una caratteristica del solo Baldus, come si è detto, ma piuttosto una contraddizione interna dell’umanesimo che riprende, in realtà trasformandolo, un ideale aristocratico di vita proprio nel momento storico in cui la borghesia europea comincia la sua lunga ascesa che terminerà con il 1789 o il quarantotto. E’ invece peculiare di questo poema l’idea che tale concezione della vita possa essere ripresa solo dagli ultimi ed è comprensibile che sia isolato in ciò: chiedere alla plebe contadina, alla schiuma della società di comportarsi aristocraticamente significa essere per la rivoluzione. Il problema storico è che non c’è nessuna rivoluzione ( al massimo il sogno di questa per chi non sa che Lutero si è subito messo d’accordo con i principi), il problema letterario è che Sordello ormai vecchio muore senza poter correggere Baldus. E muore con pathos il combattente irriducibile, il poeta satirico che prende in giro i potenti ( gli storici hanno restituito un’immagine del Sordello reale, come era lecito aspettarsi, piuttosto diversa, ma qui è in questione il Sordello personaggio letterario introdotto da Dante), che anche nel Purgatorio non si piega a domandare favori per la propria anima, muore con il pathos, e la disperazione, di chi si deve arrendere (forza volavit, fateor ) perché non ha più energie.

Sordello richiama ai termini della loro oppressione i contadini, benché essi siano avidi e creduloni, come li descrive Boccaccio, il cittadino e borghese Boccaccio, e vorrebbe prestare loro un po’ della sua coscienza di sè, conferire loro la sua dignità come strumento di lotta, ma non è possibile, non ci crede nessuno, nemmeno Folengo temo. E Sordello paga questo errore con la sua incomprensibilità per i posteri. Infatti un curioso destino lo attende: Sordello viene rievocato anche in un grande romanzo del XX secolo, il Molloy di Beckett, quando ormai la civiltà cittadina del lavoro ha trionfato da tempo.  In un passo di questo romanzo Sordello viene confuso, ovviamente dal protagonista non dall’autore, addirittura con Belacqua, il personaggio dantesco che incarna la pigrizia; la confusione è giustificabile per un moderno, entrambi i personaggi nella Divina Commedia evidenziano una certa indolenza non affannandosi a venire incontro al poeta e alla sua guida, anche se una simile confusione avrebbe sorpreso non poco Folengo e Dante. Molloy, uno dei barboni beckettiani, si paragona a Belacqua o Sordello, non si ricorda neanche lui bene, perché pigrizia e nobile ritegno si confondono inevitabilmente nell’epoca dell’etica del lavoro (e a maggior ragione ancor di più nell’epoca dell’autoimprenditorialità).

Questa incomprensibilità di Sordello rispetto ai criteri ideologici del moderno e del postmoderno illumina anche l’incomprensibilità del macheronico. Non alludo qui alla difficoltà linguistica di questa mescolanza lessicale e sintattica di italiano, dialetto lombardo e latino, ma a un’incomprensibilità radicale di un linguaggio che nella sua alterità comica mantiene una tensione utopica, certo nel senso bachtiniano del carnevalesco. E una prova di tale tensione è offerta da quei pochi versi riportati sopra in cui un linguaggio comico, pastoso e scurrile riesce a tenere anche in un contesto di drammatica serietà. L’incomprensibilità del macheronico dunque è più radicale di quella linguistica ed è relativa al senso stesso della sua scelta come lingua e al significato della sua comicità. L’incomprensione è del resto il destino che tocca a coloro che hanno provato a percorrere vie che si contrapponevano a quelle dominanti e non sono riusciti a farcela, ai perdenti che non hanno potuto realizzare neanche un brandello della propria utopia. E’ un prezzo da pagare pesante, ma è il rischio che bisogna correre talvolta per giungere a testimoniare la propria porzione di verità.

 

 

 

I poeti appartati: Nichita Stanescu

1

Nota a cura

di

Alida Airaghi

 

Di Nichita Stanescu, in Italia sappiamo pochissimo.

Nato a Ploiești, in Romania, nel 1933, compì i primi studi nella città natale, quindi si trasferì a Bucarest, dove si laureò in letteratura, sposandosi tre volte e collaborando per tutta la vita a varie testate giornalistiche. Come poeta debuttò nel 1960 con la raccolta di versi Sensul iubirii (Il senso dell’amore); il suo ultimo libro uscì nel 1982, un anno prima della morte, provocata dalla grave epatite di cui soffriva a causa dell’abuso di alcol. Vinse diversi premi letterari (Premio Herder nel 1976, Premio Struga nel 1982…): nonostante la diffidenza riservatagli dalla politica repressiva di Ceausescu e lo stigma sociale da cui veniva segnato per il suo inquieto anticonformismo, anche in patria si riconosceva e celebrava la forza innovativa e sperimentale dei suoi versi, lontani da ogni retorica e propaganda civile.

Stanescu è riuscito infatti a creare nella scrittura un universo immaginario in cui ideale e fantastico convivono con realismo e concretezza, utilizzando un linguaggio inedito e straniante, che sa prendersi gioco delle regole grammaticali, servendosi di neologismi e connessioni discordanti, di non semplice decifrazione, per raggiungere effetti di giocosa visionarietà.

Se nelle sue liriche hanno una netta prevalenza i temi amorosi (ma sempre dirottati verso un simbolismo surreale e talvolta grottesco, nemico di ogni facile tono idilliaco), sono pure frequenti le rielaborazioni di concetti filosofici e teologici, il recupero di miti classici, l’interesse scientifico per la fisica e la matematica, l’invenzione costante di un’esistenza parallela (distopica, diremmo oggi), che si fa beffe della logica razionale, smontando la realtà in un insieme di fenomeni non ricomponibili, come in un puzzle impazzito, e accomunando i suoi testi all’arte astratta più labirintica e alienata.

Nei versi qui riprodotti, ad esempio, è evidente l’interesse per la mutazione delle forme, in un interscambio continuo tra mondo vegetale e animale, che confonde il piano mentale con l’ossessione di sentimenti perturbanti, in una metamorfosi costante di ciò che è materia in spirito, e viceversa.

L’unico volume di Nichita Stanescu pubblicato in Italia è La guerra delle parole (con testo a fronte), uscito nel 1999 da Le Lettere, curato da Fulvio Del Fabbro, e tradotto da Fulvio Del Fabbro e Alessio Tondini, e oggi introvabile. Possiamo tuttavia recuperare alcune poesie in antologie o in rete, proposte e commentate da studiosi di letteratura romena.

 

Quinta elegia
                                       La tentazione del reale

Non sono mai stato adirato con le mele
perché sono mele, con le foglie perché sono foglie,
con l’ombra perché è ombra, con gli uccelli perché sono uccelli.
Ma le mele, le foglie, le ombre, gli uccelli
si sono improvvisamente adirati con me.
Eccomi portato al tribunale delle foglie,
al tribunale delle ombre, delle mele, degli uccelli,
tribunali sferici, tribunali aerei,
tribunali tenui, freschi.
Eccomi condannato per ignoranza,
per tedio, per irrequietezza,
per inerzia,
Sentenze scritte nell’idioma dei noccioli.
Atti di accusa timbrati
con viscere di uccello,
fresche contrizioni grigie, apposta per me.
Sto in piedi, la testa scoperta,
tento di decifrare ciò che mi spetta
per ignoranza,
e non posso, non posso decifrare
nulla,
e questo stato d’animo, esso stesso,
si adira con me,
e mi condanna, indecifrabile,
ad una perpetua attesa,
ad una tensione dei significati in se stessi,
fino a buscarsi la forma delle mele, delle foglie,
delle ombre,
degli uccelli.

**

Chiaro di cuore

Le ore fluttuano accanto alla tua spalla,
sfere azzurre, e fra di esse c’è Saturno.
E mentre trascorrono, diminuiscono
più serali e più notturne.

Non mi dispiace, non mi dispiace per loro.
Dritta come stai, il loro passare
quasi infantile e soave
brilla nel tuo occhio immobile.

E mi dimentico di loro, te ne dimentichi anche tu,
e nell’oscurità della stanza si accendono,
si spengono, si accendono, si spengono
i tuoi occhi allungati, morendo,
risorgendo.

**

Segno 12

 

Lei era divenuta pian piano parola,

fili di anima nel vento,

delfino negli artigli delle mie ciglia,

pietra che disegna anelli nell’acqua,

stella dentro il mio ginocchio,

cielo dentro la mia spalla,

io dentro il mio io.

 

**

 

 

 

 

L’abbraccio

 

Quando ci siamo intravisti, l’aria fra noi

ha gettato d’un tratto

la sua immagine degli alberi, indifferenti e vuoti,

da cui si lasciava attraversare.

 

Oh, ci siamo lanciati, chiamandoci per nome,

l’uno verso l’altro, e così velocemente,

che il tempo si è schiacciato fra i nostri petti,

e l’ora, colpita, si è frantumata in minuti.

 

Avrei voluto conservarti tra le mie braccia

così come tengo il corpo dell’infanzia, nel passato,

con le sue morti irripetibili.

E avrei voluto abbracciarti con le costole.

 

**

 

Storia sentimentale

 

Poi ci vedevamo sempre più spesso.

Io stavo su un margine dell’ora,

tu – sull’altro,

come due manici d’anfora.

Solo le parole volavano tra noi,

avanti e indietro.

Il loro volteggio si vedeva appena,

e di colpo

piegavo un ginocchio

e conficcavo il gomito nella terra,

solo per vedere l’erba inclinata

dalla caduta d’una parola,

come sotto la zampa d’un leone in corsa.

Le parole ruotavano, ruotavano tra noi,

avanti e indietro,

e più t’amavo più

ripetevano, in un volteggio appena visibile,

la struttura della materia, da capo.

 

**

 

 

Altra matematica

 

Sappiamo che uno per uno fa uno

ma un unicorno per una pera

non sappiamo quanto fa.

Sappiamo che cinque meno quattro fa uno

ma una nube meno un vascello

non sappiamo quanto fa.

Sappiamo, noi sappiamo, che otto

diviso otto fa uno

ma un monte diviso una capra

non sappiamo quanto fa.

Sappiamo che uno più uno fanno due

ma io e te non sappiamo,

ahimè, non sappiamo quanto facciamo.

 

Ah, ma una coltre

per una lepre

fa una rossa, certo,

una verza divisa una bandiera

fa un maiale,

un cavallo meno un tranvai

fa un angelo,

un cavolo più un uovo

fa un astragalo…

 

Solo tu ed io

moltiplicati, divisi

sommati e sottratti

restiamo uguali…

 

Muori nella mia mente!

Tornami nel cuore!

 

**

 

Al nord del nord

 

Anche ciò che non esiste può morire,

come la vita di un animale boreale

del cui stato crepuscolare

non ho mai saputo niente.

Appariva talvolta

nel tuo modo di camminare,

ma ero troppo sonnolento per vederlo.

Cantava talvolta nelle tue occhiate

quando guardavi attraverso di me

alla mia adolescenza.

Ti allungava talvolta la mano.

Aggiungeva al tuo odore

il soave odore di decomposizione

d’uno scheletro di fiocco di neve.

Mai ne ho sentito la presenza

nemmeno in questo secondo

che infreddolito sono di colpo solidale

con tutto ciò che non esiste.

Ahi, anche ciò che non esiste può morire.

 

**

 

Poema

Dimmi, se un giorno ti prendessi
e ti baciassi la pianta del piede,
non è vero che dopo zoppicheresti un po’,
per paura di schiacciare il mio bacio?

 

∗∗∗

Le non-parole

Lui ha teso verso di me una foglia come una mano con le dita.
Io ho teso verso di lui una mano come una foglia con i denti.
Lui ha teso verso di me un ramo come un braccio.
Io ho teso verso di lui il braccio come un ramo.
Lui ha piegato verso di me il suo tronco
come un melo.

Io ho piegato verso di lui la spalla
come un tronco nodoso.
Sentivo la sua linfa accelerare pulsando
come il sangue.
Sentiva il mio sangue rallentare salendo come la linfa.
Io sono passato attraverso di lui.
Lui è passato attraverso di me.
Io sono rimasto un albero solo.
Lui
un uomo solo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Un’educazione milanese

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 di Gianni Biondillo

Alberto Rollo, Un’educazione milanese, 320 pagine, Manni editori, 2017

Come si forma una persona? Grazie a chi o cosa? I genitori, gli amici, gli incontri fortuiti, gli ambienti frequentati, le strade percorse… non è tutto questo, in una parola, la città stessa dove si è vissuti?

Il protagonista di questo libro – né romanzo, né saggio, letteratura ibrida, che usa i ricordi personali per renderli condivisi – aspetta l’arrivo della metropolitana che lo deve riportare a casa. Questo frangente ctonio diventa la metafora di una condizione della memoria profonda, che scava nelle viscere del passato.

Alberto Rollo, l’autore e protagonista di Un’educazione milanese, ritorna ai momenti necessari, formativi della sua infanzia e giovinezza. Trova nella città operaia delle fabbriche, dei cavalcavia, dei cantieri, delle periferie, nella Milano del dopoguerra e del boom il suo paesaggio interiore, la definitiva lezione esistenziale.

Essere milanesi, in quegli anni, significava appartenere a una classe sociale, sentirsi parte di un progetto di emancipazione collettiva, guardare al futuro con ottimismo. Un’educazione milanese ha in molte pagine il passo del romanzo familiare – quello che rammenta i nonni emigrati dal sud, o i lavori umili dei genitori – in altre quello del romanzo di formazione – le nuove amicizie adolescenziali, l’impegno politico negli anni dell’università, la perdita tragica di amicizie fraterne.

Ma su tutto, è la condizione di milanesità che Rollo cerca di dimostrare. Giganteggia, in questo senso, la figura del padre, il metalmeccanico comunista dalla morale integerrima, dal quale per ribellione giovanile il protagonista cerca di emanciparsi. Rendendosi conto, ora, seduto su quella panchina della metropolitana, con gli anni di suo padre allora, quanto gli sia riconoscente. A lui e alla città che pullula sulla sua testa.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione numero 37 del 12 settembre 2017)

La scomparsa di Anice Zolla

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di Vincenzo Celano

Smarrito, confuso nella città di Firenze, come colui che ha perso le coordinate del tempo e dello spazio, Anice comprava ogni giorno il giornale con immutata puntualità, ma non riusciva più a leggerlo. Lui, che pure scriveva per alcuni importanti periodici, intratteneva ora con la carta stampata un rapporto particolare, parecchio somigliante a quello di un dongiovanni rimbambito che, ritrovandosi quotidianamente disponibile un’invitante ragazza, ogni volta s’affretta più che può a spogliarla per abbandonarsi subito dopo all’ebete contemplazione dei nei scoperti sulla fresca pelle di lei, senza fare neanche un tentativo di andare più oltre.

Ulisse tecnologico #3

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di Giuseppe Martella

3. Raggiri e rendiconti

Nell’Odissea, i canti dal VI allo VIII, sono il cuore pulsante del poema. Alla fine del V, Ulisse è scampato all’annegamento grazie al velo della ninfa Ino Leucotea (velo semitrasparente della tradizione orale, in cui le figure si leggono in palinsesto). A questo velo, o drappo misterico, che segna il limite di ciò che può essere tramandato, spuma dell’onda del divenire, aura dell’identità individuale, si aggrappa Ulisse per non annegare nell’indistinta fluidità primordiale.

Mots-clés__Portogallo

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Portogallo
di Marco Viscardi

Amália Rodrigues, Uma Casa Portuguesa -> play

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ph. Giorgio Lotti, “Re Umberto di Savoia” (in esilio a Cascais, ndr) – 1965

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Da Reinhold Schneider, Portogallo. Diario di viaggio, trad. Sarina Reina, Torino, EDT, 1995.

Probabilmente non è il paesaggio ad attirare il viaggiatore in Portogallo, forse nemmeno l’architettura, pure unica nelle grandi opere di questo paese; ciò che davvero incanta è la sua anima; ciò che intimamente ci scuote è la linea spietata, eroica del suo destino. Sono l’anima e il destino che irradiano le montagne scoscese e le valli velate, le campagne deserte, i giardini abbandonati e i grandiosi viali costieri fiancheggiati da palme, riflettendosi persino nel mare, creatore e distruttore a un tempo; l’anima e il destino lambiscono ogni pietra toccata dall’uomo e ogni rudere che il tempo dissolve. Qui è l’uomo che affascina, così come la sua sorte; qui l’uomo si aggrappa ai margini del continente, al principio del mare, e poiché la sua presenza si avverte in ogni pietra che la sua mano ha sollevato e in ogni zolla di terra che egli ha calpestato, l’intero litorale lungo e sottile alla fine appare come un’esperienza irripetibile. Qui non si tratta di comporre un’esperienza rintracciandone il percorso nelle opere storiografiche, di portare a fatica qualcosa di antico in un presente vuoto e al tempo stesso sovraccarico; chiunque abbia mai contemplato Lisbona dall’alto della piccola cappella di Nossa Senhora do Monte o abbia camminato, abbagliato dalla luce, lungo le sue strade sfavillanti e perennemente incompiute, sa che la sventura di questa città è ancora inspiegabilmente vicina, ne vede lampeggiare il segreto nell’azzurro intento del cielo, sa che è come se il grande impero fosse andato perduto in una sola notte – la notte appena trascorsa -, sente ancora l’eco di un crollo colossale risuonare dalle alture al di là del Tago. Il destino è il tempo presente e ne è impregnata l’aria che si respira; l’enigma che ci pone questa vicenda giocata nei continenti si scioglie nella terra in cui il gioco ha avuto origine, nel ritmo di questa vita non europea, un ritmo così sconosciuto che il nostro orecchio deve prima di tutto imparare a coglierlo.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave. Poiché l’agosto è lento, questo mese il post esce nella seconda domenica.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

 

Francesco Durante (tribute)

3

di

Francesco Forlani

Di lui mi ritorna in mente il viaggio fatto in macchina da Napoli al cuore degli Abruzzi, dal Molo Beverello a Torricella Peligna. Quattro parole magiche che se pronunciate una dopo l’altra, articolando bene le sillabe, ti suggeriscono quell’altra che è destino. Quasi un moto d’emigrazione, il nostro, ma di ritorno. Del resto il sogno “sospeso” di Francesco è sempre stato quello: far sorgere poco distante dal luogo del nostro appuntamento, all’Immacolatella vecchia, un museo dell’Emigrazione in grado di raccogliere oggetti, testimonianze scritte e orali, una memoria viva del viaggio non solo fisico ma anche linguistico di intere popolazioni delle nostre regioni catapultate nel mondo. Un luogo in cui raccogliersi. Perché lui era dalla loro parte, da vero aristocratico nutriva una stima profonda per i penultimi, un profondo affetto per quelli che avrebbero potuto “non farcela”. Chi altri, del resto, se non lui,  pioniere delle lettere, rigoroso e sperimentale, poteva far rivivere i destini di un centinaio di esploratori italiani del vasto campo della lingua e della vita americana, attraverso il magnifico progetto di Italoamericana, opera in due volumi dedicata proprio a nostri illustri o per nulla compaesani.

Di quel viaggio agile, danzante, mi ritornano in mente le canzoni ascoltate, evocate e perfino cantate, ma anche la tratta in cui mi ritrovai a fargli da audiolibro. In quell’edizione 2010 del festival John Fante di Torricella Peligna, Francesco avrebbe infatti dialogato con Jonas Hassen Khemiri a proposito del romanzo Una tigre molto speciale e poiché aveva bisogno di rivedere alcuni passaggi del secondo capitolo mi chiese di leggerglielo strada facendo. Cosa che naturalmente feci con piacere adoperandomi, con vocine ed effetti speciali a seconda dei personaggi e delle scene, a che la narrazione fosse quanto più avvincente possibile. Ridemmo molto.

Di lui mi viene in mente la sua arte della conversazione e del cazzeggio, l’idea di letteratura e della vita come una grande recita in cui è appunto il gioco dell’attore a fare la differenza, la purezza del giocatore a rendere ogni partita degna di essere giocata, a prescindere dal risultato. Tante sono state le testimonianze di stima, di vero affetto nei suoi confronti, in questi giorni. Particolarmente toccanti sono state quelle di Giovanna Di Lello, direttrice artistica del Fante, di Titti Marrone sul Mattino e di Antonio D’Orrico sul Corriere. Ho chiesto proprio a Titti, curatrice del bel volume collettivo dedicato a Pino Daniele, Ho sete ancora, di rendere disponibile per i lettori di Nazione Indiana, blog che ha sempre seguito da fiancheggiatore, il racconto e la canzone che Francesco Durante aveva scelto. Ho pensato che questo sentire la sua voce d’autore fosse il modo migliore per ricordarlo, insieme alla nota che Marco Petrillo, suo storico amico friulano, ha redatto per noi. Mi raccomando, leggetelo ad alta voce, fatelo rivivere anche solo per un po’, perché la musica possa farci da compagna per il resto del viaggio. Ciao Fra. On the road again.

 

 

 

Quanno chiove

Ascoltare Pino Daniele sul raccordo autostradale Pordenone-Portogruaro

di Francesco Durante

Alla fine dell’estate 1979 scambiai il mio meraviglioso spider Triumph con una Citroen CX vasta e lunga come un piroscafo. Ne era stato proprietario

il mio amico Claudio detto Piripicchio, bassista del “Tormento Interiore”, il quale s’era evidentemente stancato di avere una macchina troppo grande per una persona sola, esattamente come io non ne potevo più di averne una troppo piccola. Lo scambio era avvenuto alla fine dell’estate perché all’inizio, invece, la Triumph mi era servita per andarmene in vacanza verso Sud, senza una direzione precisa, ma semplicemente recandomi dove si recavano le autostoppiste che incontravo ai caselli dell’autostrada. Era una due posti, una potenziale alcova, e ci poteva salire un’autostoppista alla volta. Erano altri tempi, ci si poteva fidare, e le ragazze – tra le quali spiccavano per salute e simpatia le canadesi dai grossi zaini decorati con la foglia d’acero – sullo spider ci venivano di buon grado. Fu così che quell’anno arrivai fino a Vieste, sul Gargano, a capo di una serie di ghirigori che mi avevano fatto deviare spessissimo, e con grande soddisfazione, dal tracciato dell’Adriatica.

Le ragazze straniere non avevano pregiudizi nei confronti della Triumph. Anzi: si divertivano. Con le italiane era diverso. Il mio statuto di “young professional”, però di sinistra, pareva a loro in aperta contraddizione con un’autovettura dall’aria un po’ troppo fighetta. Ebbi una contrastata relazione con una studentessa di Trento che su quella mia macchina ci saliva soltanto in incognito, e non riuscii a farle accettare l’idea che guidare uno spider non era di necessità un gesto antiproletario, bensì, prima di tutto, una cosa molto divertente. Con la CX era tutto un altro discorso. Era enorme ma a suo modo più sobria. Aveva questa cosa bellissima che, quando la mettevi in moto, dovevi prima aspettare che si sollevasse sulle ruote. Munita di alzacristalli elettrici (una rarità all’epoca), era silenziosissima, spaziosissima, comodissima anche in occasione di utilizzi un po’ più informali. In più, era dotata di un formidabile impianto stereo Pioneer, di quelli che, come si diceva una volta, spaccavano il culo ai passeri.

Lavoravo come cronista al quotidiano “Il Piccolo” di Trieste. Mi avevano incaricato di curarne le pagine friulane, e dunque facevo la spola tra Udine e Pordenone. Erano tempi in cui la giornata di lavoro non finiva praticamente mai: fino a oltre la mezzanotte ci si doveva dar dentro, magari per andare a far le foto di un incendio. Poi, però, c’era per l’appunto la notte, e passarla sostanzialmente in bianco era quasi un dovere.

Piripicchio una sera venne a trovarmi in redazione accompagnato da Kramer, il cantante di blues soprannominato “il negro bianco”. Vennero col Triumph che gli avevo ceduto e ricordo che mi fecero notare un problema di carburazione di cui, al momento dello scambio, non avevo fatto menzione (e del quale, probabilmente, non m’ero mai accorto). Non fu una recriminazione, tutt’altro. Piripicchio si rendeva perfettamente conto della mia totale ignoranza in fatto di motori, dunque non metteva in dubbio la mia buona fede. Gli dissi che nello scambio ero stato certamente io quello che c’era andato meglio, perché lui, invece, di motori ne capiva, e la CX era assolutamente perfetta in ogni dettaglio. Quella notte la usammo per tirar mattina tutti e tre insieme.

“Ho una nuova cassetta che voglio farvi ascoltare”, annunciai. E verso l’una partimmo.

Sul sedile posteriore, Piripicchio rollava canne, Kramer e io parlavamo del più e del meno, lui soprattutto di quella stronza per la quale aveva perso la testa, tanto da inviarle anche sei lettere d’amore al giorno senza che mai lei si fosse degnata di rispondergli. In cinque minuti fummo all’imbocco dell’autostrada Pordenone-Portogruaro, 26 kilometri molto rettilinei e soprattutto (a quell’ora) sostanzialmente deserti. Fu allora che inserii la cassetta nello stereo, alzai il volume al massimo, sigillai i finestrini e feci partire il secondo album di Pino Daniele. Nel silenzio raccolto dell’attesa, esplose Je sto vicino a te. L’auto era arrivata all’altezza di Azzano Decimo quando Piripicchio rilasciò il primo commento. Disse: “Non capisco una minchia, ma il sound è proprio buono. Mi acchiappa. Sembra George Benson”.

(A beneficio di quanti potrebbero ritenere impossibile tanta ignoranza di Pino Daniele a quel tempo, debbo chiarire che noi, in fatto di gusti musicali, si era ancora fieramente anti-italiani. Non ci pareva possibile che in Italia si facesse della musica accettabile, anche se qualche eccezione ormai c’era: la Premiata Forneria, il Banco, poco altro tra cui qualche cantautore, ma in dosi omeopatiche. Sapevamo invece tutto delle band americane o inglesi, e perfino del rock elettronico tedesco.)

A Portogruaro uscimmo dall’autostrada per riprenderla in senso inverso mentre partiva Chillo è nu buono guaglione. Il negro bianco si entusiasmò poco dopo all’ascolto di Ue’ man (che a me per la verità ha sempre detto poco), e poi – più o meno all’altezza del casello di Chions – tutti concordammo sul fatto che la canzone che ora stavamo ascoltando, vale a dire Donna Cuncetta, era semplicemente strepitosa. Talmente strepitosa che, giunti a Pordenone, riprendemmo la via per Portogruaro, per poi tornarcene e ripartire e rifare il tragitto ancora un altro paio di volte, tutti e tre ormai preda di una esilarante sensazione di straordinaria lucidità mentale dentro il fumosissimo, musicalissimo, ritmatissimo abitacolo: benandanti felici nel pieno di una magica notte stellata in mezzo alla pianura del Friuli occidentale.

Piripicchio e Kramer venivano da Sacile (“il giardino della Serenissima”) e non avevano la benché minima idea del dialetto napoletano. Così mi misi a spiegargli le parole di Donna Cuncetta.

“C’è questa vecchia che si chiama Concetta, una che rimpiange i bei tempi andati, e dice che il tempo delle ciliegie è già finito.”

“Ti credo: è autunno.”

“Ma no, il tempo delle ciliegie nel senso di un’età benedetta e ormai lontana. Ed è come se nella massa nera dei suoi capelli raccolti fossero racchiuse tutte le paure di un popolo che cammina rasente il muro.”

“I napoletani? Rasente il muro?”

“È una metafora. Come dire che il popolo napoletano – il popolo basso, il popolino – da sempre è stato abituato a sopportare, a tenersi tutto dentro, a dissimulare, dunque a non esporsi. E poi considera che nei vicoli, anche se non vuoi, finisce che cammini sempre rasente il muro, perché altrimenti ti mettono sotto coi motorini. Ma insomma, ecco che poi Pino esorta Donna Concetta. Le dà del voi, come si fa a Napoli, e le dice: tirate fuori tutti i ricordi dal cuore, e mettetevi finalmente a gridare come mai avete avuto il coraggio di fare nella vita.”

“Una cosa rivoluzionaria?”

“Direi di sì. Poi però arriva questo pezzo così dolce, così sognante. Donna Concetta è come se avesse una visione: se volesse Dio, se lui volesse dare una mano a questa mia fantasia, getterei tutto a mare. Però sono vecchia, posso soltanto dormire, mi sento come uno straccio in mano alle gente e posso soltanto stare a guardare. Ma se fossi un ragazzo, se avessi l’energia di un ragazzo, di sicuro sarei un caporione, e quando soffia il vento – il vento della ribellione? ma sì – allora senza paura direi la mia. Ah, se soltanto lo volesse Dio!”

Ci fu un momento di pausa. Poi, e sia pure impastando un poco le parole, Kramer ci consegnò una perla di adamantina acutezza.

“Siam sempre lì che cantiamo in inglese, il più delle volte dopo esserci tirate giù le parole mentre ascoltiamo i dischi, e succede spessissimo che le parole ce le inventiamo perché non le abbiamo veramente capite. Quando canto Living, Loving dei Led Zeppelin non so bene che cosa dico, ma vado avanti con molta convinzione, tanto la gente non si accorge delle bestialità che bercio. Insomma: per tutto questo tempo tutti noi abbiamo schifato la musica italiana, e soprattutto le parole italiane, no? Giustamente, devo dire. Pensate, che ne so?, a Senza luce: se la paragoni a A Whiter Shade of Pale, è a dir poco imbarazzante. Ma ora forse sta succedendo qualcosa. Questo qua, questo Pino Daniele, per esempio, canta in napoletano, e mi sembra che abbia delle cose belle da dire. Insomma, non sono le solite cazzate.”

“Guarda Kramer, sono già un bel po’ di anni che a Napoli si fa una musica nuova piuttosto interessante. Gli Osanna, il Balletto di Bronzo. Per non parlare della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Ma che te lo dico a fare? Tu non hai mai avuto la pazienza di ascoltarti tutta la Gatta Cenerentola. A Padova, all’università, abbiamo fatto le notti con Jesus Christ Superstar, ne conosciamo ogni virgola, e invece quel capolavoro piaceva solo a me. Sai che ti dico? Napoli, e non solo per evidenti ragioni geografiche, è la nostra West Coast.”

“Comunque la mia teoria è che noi italiani, per fare qualcosa di buono in campo musicale, dobbiamo cercarci una lingua che sia sì italiana, ma in modo diverso. Meno condizionata dalla tradizione.”

Piripicchio ascoltava nel frattempo, per l’ennesima volta, Je sto vicino a te, e menando fendenti con le braccia e con le mani sottolineava il ritmo delle anticipate nell’inciso “ma che parlammo a ffà”. Siccome era un bassista, gli piaceva particolarmente il ricco corredo ritmico, il complesso e intrecciato lavoro di basso e batteria. “Pompa che è una meraviglia. Ma chi se ne fotte delle parole? Io dico che se non c’è la musica, se non ci sono i musicisti con i controcazzi, il resto non conta niente”.

Parole sante, a modo loro.

***

In quei mesi del 1979 non potevo neanche lontanamente immaginare che di lì a poco la mia vita sarebbe radicalmente cambiata: che dal “Piccolo” sarei passato al “Mattino”, e da Trieste a Napoli. Benché vi transitassi ogni estate per andare a Capri, Napoli era per me soltanto la Stazione Centrale, via Marina ancora coi segni dei bombardamenti, e il Molo Beverello. Poteva starci al massimo una rapida sosta da Pizzicato, in piazza Municipio, e poi era il ponte di un traghetto o il pozzetto di un aliscafo da cui assistere allo squadernarsi della bellezza man mano che si prendeva il largo.

A Napoli ci arrivai nella primavera del 1980 a bordo della mia formidabile CX. Coi miei nuovi colleghi facemmo in tempo a usarla poche volte. Per esempio, un giorno che, al termine di un’assemblea, era stato proclamato uno sciopero dei giornalisti, partimmo issofatto per Positano. Per il resto, tragitti brevi e brevissimi, in città. Scendevamo dal Casale di Posillipo, dove si coabitava in tre, e andavamo al giornale dove, all’epoca, si faceva sempre molto tardi.

Insomma, potevano essere passati quindici o venti giorni da quando ero arrivato, una notte esco dal giornale e la macchina non c’è più. La cerco per un’ora o due, conscio del fatto che non mi ricordavo mai bene dove l’avevo parcheggiata. Poi ritorno su in preda all’agitazione e un collega della nera prova a telefonare a due o tre “scassi” per vedere se per caso qualcuno gliel’aveva portata. Alla fine realizzo che me l’hanno proprio, e definitivamente, rubata. Soprattutto, il giorno dopo, chiamando l’assicuratore in Friuli, apprendo che non l’avevo mai assicurata contro il furto. Entro insomma in una nuova fase più francescana dell’esistenza, caratterizzata da una serie di Maggioloni Volkswagen, tutti rigorosamente usati e provvisti di una deliziosa aria un po’ vintage. I miei cinque anni successivi, da questo punto di vista, sarebbero stati tutti tedeschi, a parte un vespino che credo mi venne trafugato non più di quattro o cinque ore dopo l’acquisto.

Tutto sommato, andava bene così. L’esperienza mi insegnava che una delle più evidenti differenze tra il vivere a Napoli e il vivere nel Friuli-Venezia Giulia consiste nel diverso grado d’importanza del mezzo di trasporto. A Napoli il macchinone non mi serviva proprio, anzi: sarebbe stato una condanna. Vuoi mettere una macchina al di sotto di ogni tentazione, che puoi parcheggiare dove ti pare, con la quale puoi farti largo nei viluppi del traffico senza tema di rigarla, di strisciarla, di esporla a ogni forma di usura? Il mio collega Antonio Fiore, da questo punto di vista, faceva scuola: la sua arcaica 124 coupé era talmente malmessa che nelle commessure del cofano ci cresceva l’erba. Carlo Nicotera, un altro collega, aveva un trabiccolo da cui ogni tanto, soprattutto in salita, si staccava una ruota che rotolava a valle e tutti noi dovevamo precipitarci a rincorrerla. Quanto a Michele Bonuomo, quando fece il gran salto e dalla Vespa passò all’automobile, ne comprò una di color grigio metallizzato con certe inspiegabili venature auree: pacchianissima. L’architetto Giannì, suo storico sodale noto per il rigore un po’ snobistico dei gusti estetici, la liquidò senza pietà: “Pare la macchina di un grossista di mozzarelle di San Sebastiano al Vesuvio”. Al confronto, i miei Maggioloni, per quanto scassati e comunque sempre efficienti come quello del “Dormiglione” di Woody Allen, andavano che era una bellezza.

Ho già raccontato in un libro (Scuorno, Mondadori 2008) come diventai rapidamente napoletano, e non mi ripeterò. Lo diventai il primo giorno. E capii che in quella città, come poi avvenne, avrei trascorso anni tra i più felici della mia vita. Questo anche se pochi mesi dopo il mio arrivo al “Mattino” mi toccò andare incontro a una tremenda e straordinaria esperienza lontano da Napoli. Parlo del terremoto in Irpinia. Ad Avellino, con molti validi colleghi, ci rimasi mesi, girando tutti come trottole nei paesi del cratere e contribuendo a fare un giornale di cui andavamo giustamente orgogliosi. Ogni tanto, ma piuttosto di rado, scendevamo a Napoli, per qualche riunione o per spezzare il ritmo e rifiatare un momento. Fu in una di queste occasioni che, per esempio, vidi per la prima di almeno diciotto volte il film The Blues Brothers, con John Belushi e Dan Aykroyd. E ricordo che quella volta, durante il viaggio, ascoltai per intero il nuovo disco di Pino Daniele, intitolato Nero a metà. È un album in cui ci sono tante tracce interessanti, e anche molto trascinanti. Ma fin da subito fui colpito da quella che, con ‘A pucundria, era senz’altro la più intimista, la meno rock: Quanno chiove. Ricordo che mi fece l’effetto di certe ballate dei Genesis prima maniera, tipo quelle di Nursery Cryme, ma come depurate di tutti gli orpelli barocchi che Peter Gabriel e compagnia erano soliti affastellare. Tant’è che oggi, nonostante la mia adolescenza polemicamente anti-italiana, debbo riconoscere che Quanno chiove è ancora lì, viva e pulsante e meravigliosamente malinconica, mentre quelle cose dei Genesis sono fatalmente invecchiate e quasi non le sopporto più. Pino Daniele era insomma un musicista post-progressivo di straordinaria sensibilità, di una qualità sopraffina, e aveva dentro un calore, una passione che rinviavano direttamente alla vita, senza vani cerebralismi, ma non per questo poteva risultare corrivo, tutt’altro. Io, del resto, poco tempo prima l’avevo conosciuto di persona: “Il Mattino Illustrato” mi aveva mandato a intervistarlo a Formia, in estate, e ci avevo passato insieme una giornata sana. Non mi pare che, mentre mi spiegava che ‘o feeling è un colore, e che la sua unica preoccupazione era quella di mantenersi vero, e che la musica “pe’ mè è tutto”, e che gli piacevano Ella Fitzgerald, Aretha Franklin e i Weather Report mentre non sopportava i cantautori “ca se lamentano”, e che la popolarità “te dà ‘nu poco ’e fastidio pecché nun può ffa’ niente chiù, nun può piglia’ ‘nu pullman”; mentre mi diceva tutto questo non si separò mai, foss’anche per un solo momento, dalla chitarra sulla quale continuava a esercitarsi.

Tornando a Quanno chiove, la prima cosa che mi piacque di quella canzone fu la sua sostanza tendenzialmente infinita, come il celebre assolo di sax di James Senese che la impreziosisce. Mi spiego: è un meccanismo musicale perfetto, con dentro un’armonia complessa e molto varia (un gruppo come gli Oasis, per dire, se si fosse imbattuto in questa sola canzone, ne avrebbe potuto trarre materiale per almeno un paio di album), che nel segno di Pino fonde insieme tutte le settime del blues e tutte le accensioni liriche della tradizione napoletana, facendone una mescola inimitabile. Specialmente l’inciso, che trovo bellissimo, compie il miracolo di staccarsi nettissimamente, eppure con una morbida naturalezza, dalla strofa che lo precede, mutando completamente il piano musicale, e attingendo un ritmo dolcissimo e sognante, la cui aderenza al reale andavo scoprendo proprio in quell’autunno piovoso: “E aspietta che chiove / l’acqua te ‘nfonne e va / tanto l’aria s’adda cagna’”, parole sostenute da una musica così urgente e necessaria da dover essere ribadite sopra una ulteriore costruzione armonica gemmata dalla precedente: “ma po’ quanno chiove / l’acqua te ‘nfonne e va / tanto l’aria s’adda cagna’”.

Ora dovrei dire che cosa mi ritorna in mente quando ascolto quella canzone, giacché si sa che le canzoni hanno questa fondamentale caratteristica, di essere la colonna sonora della nostra vita, dei momenti più memorabili che abbiamo vissuto. Ma il problema è che talora le canzoni – le belle canzoni – scelgono la nostra vita per sottolinearne certi snodi anche a posteriori; e il resto lo fa la nostra memoria selettiva, capace com’è di essere del tutto arbitraria, e di scegliere, poniamo, che mentre Pino cantava Quanno chiove ci eravamo innamorati di quella ragazza lì, di quella e non di un’altra. Ma io non posso sostenere seriamente un’ipotesi del genere. Di fatto, questa canzone non mi rimanda un singolo episodio o una situazione particolare. Col tempo, posso dire di averla eletta al rango di una specie di inno che sa far rivivere per un momento tutta una stagione felice, e che a mano a mano che quella stagione si allontana nel tempo è capace di eccitare ancora la mia commozione, perfino di farmi spuntare una lacrima.

Curioso effetto: perché poi in Quanno chiove vibra anche un notevole dinamismo: c’è qualcuno che scende le scale di corsa “senza guarda’”, e c’è chi ridendo va al lavoro. Ma è come se a ogni fuga vitalistica facesse da correlativo una pausa intimistica e francamente malinconica. Tu corri, ridi, vai al lavoro, ma tutta la tua vita se ne va lontano, tanto che cerchi di conservarla (di “astipartela”) per non morire… E poi per l’appunto quell’inciso che assomiglia a un “adda passa’ ‘a nuttata” rivisitato quarant’anni dopo. C’è del fatalismo, sì, nell’aspettare che piova, e che un’acqua lustrale ci inzuppi, animati da quella piccola fede elementare secondo cui, dopo lo scroscio, l’aria dovrà cambiare e, chissà, qualcos’altro prima o poi succederà.

A differenza di tante canzoni di Pino Daniele, qui non si racconta una storia, anzi: nemmeno una ipotesi elementare di storia, né si descrive un personaggio. È una canzone rarefatta, senza tempo, puramente impressionistica, e debbo dire che fin dall’inizio mi è venuto da pensare che le parole siano state necessitate dalla musica, che la musica le abbia generate con una specie di automatismo. Sì, d’accordo, ci sono lacerti di situazioni, c’è per esempio la difficoltà di confessarsi le cose, aggravata in questo caso da “’o scuorno ‘e te ‘ncuntra’”. Ma il tessuto è labile, quasi astratto. Ci sono, a presidiarlo, solo pochi fantasmi benigni: oltre alla pioggia, all’acqua che “te ‘nfonna”, c’è per esempio la luna, che quando fa scuro si mette a parlare.

Quando stavo ancora in Friuli, un paio d’anni prima di trasferirmi a Napoli, mi capitò di leggere il romanzo di Nicola Pugliese Malacqua. Era una cosa nuova, garantita da Calvino in una collana di scritture sperimentali. In quel periodo leggevo soltanto quella roba lì, oppure classici o semiclassici. Malacqua mi colpì perché ribaltava l’immagine consueta di Napoli. Anni dopo avrei imparato che l’immagine piovorna della città era tutt’altro che abusiva, e, per esempio, m’imbattei in titoli di opere letterarie come Prologo alle tenebre di Carlo Bernari, o Una spirale di nebbia di Michele Prisco, per non dire de La morte della bellezza di Giuseppe Patroni Griffi, le quali rinviavano un’idea radicalmente diversa a proposito di un luogo che tutta Italia è abituata ad associare al sole, alla luce piena, persino impietosa e sferzante, veicolata dalle canzoni, o da molta letteratura di successo (penso a Giuseppe Marotta). Ecco: Quanno chiove – e a Napoli, ormai lo sapevo, chiove spesso e in modo abbondante – mi diceva la stessa cosa, che cioè la luce, il sole, l’esibito e impudico pulsare della vita possono anche essere illusori e nascondere più segreti corrispettivi. Inoltre, mi suggeriva un’altra caratteristica che avrei imparato a cogliere soltanto vivendoci, perché standone fuori se ne ha un’idea del tutto opposta. Che, cioè, Napoli è un luogo di profonde malinconie, e la malinconia – e perfino l’umor nero, l’ipocondria – è il tratto saliente del carattere dei napoletani, e ciò che di molti di loro fa degli artisti.

È per tutti questi motivi che Pino Daniele, fin da quella remota e limpida notte sotto il cielo stellato del Friuli – andando con Pasolini “viers Pordenon e il mont”, verso Pordenone e il mondo: cioè seguendo docili e pazienti l’unico destino possibile per i vecchi contadini di Casarsa, quello dell’emigrazione – mi è rimasto caro sempre, anche quando per alcuni il suo estro s’era ormai piegato a sensi più commerciali e magari un po’ troppo edulcorati. Quell’uomo dalla debordante fisicità, in così palese contrasto con quel filo di voce afona, aveva un modo speciale di dire le cose, e di farle diventare condivise, universali, buone per essere cantate in coro con un’emozione che ancor oggi, dopo tanti anni, appartiene a tutti.

Frank

di

Marco Petrillo

“Onnisciente”, mi piaceva definirlo così, ma quando glielo dicevo, lui glissava sorridendo e scuoteva la testa con un “Ma figurati!” a seguire.

Su argomenti del genere era schivo, non ne voleva proprio sapere.

Eppure è la verità, fidatevi, lo conoscevo ormai da più di cinquant’anni, quando già disegnava mappe geografiche dettagliatissime di paesi e città inesistenti, perché l’atlante ufficiale non gli bastava più.

Ora dopo lo scippo ingiustificabile di chi per me era un fratello, una vigliaccata della vita quando ti viene a scovare a tradimento, aggiungo anche “amatissimo”.

Gli volevamo tutti un grandissimo bene, per quel suo sorriso che gli illuminava gli occhi e che poi si apriva in una gran risata, che fosse con gli amici davanti a un gin tonic o sul palco di un teatro a cantare le sue belle cose intinte nel repertorio napoletano che tanto amava.

Quello stesso sorriso con cui cantava “Reginella” alla sensibile professoressa di lettere del liceo.

Era fatto così, voleva la leggerezza attorno a sé, dispensandola a piene mani, amava giocare con un’eleganza che non tutti hanno, pur preso da mille impegni che sapeva affrontare e controllare con precisione svizzera.

Parlare di tutto quello che è riuscito a fare nel suo campo è superfluo, gli articoli tutti sinceri si sono affollati in questi giorni e chi l’ha conosciuto e ci ha lavorato assieme non è riuscito a nascondere la domanda sottintesa “Ma dove trovava il tempo per fare tutto?”.

Risposta mia: “Non aveva bisogno del tempo indispensabile per gli altri, era un fulmine d’inventiva e di capacità critica con un patrimonio culturale inesauribile e di pronto impiego”. Tutto qua.

Era in grado di affrontare qualsiasi argomento letterario, una traduzione, una lettura con la sua bella voce, un’intervista o una recensione, che fluivano con una naturalezza incantatrice, senza esagerare, senza che trasparisse il minimo autocompiacimento.

In mezzo a tutto questo aveva anche modo di fare lo scrittore.

Ora che non c’è più, mi mancherà quella sua capacità di comparire all’improvviso con un messaggio o una telefonata, facendomi delle offerte che secondo lui non avrei potuto rifiutare, a volte matte e a volte sensate, venate da una goliardia mai sopita, ma comunque sempre sue.

Mi mancheranno i suoi bei modi napoletani che mi parlavano di sogni e di imprese, di musica e storie vere o inventate lì per lì, di voglia di vivere e di ricordi belli.

Mi mancherà il suo abbraccio.

Come scriveva Mauro Marè alla fine della sua poesia “Er cinematofrego”:

…..La luce in sala, s’apreno le porte.

Aspetti er bibitaro

e arriva quella stronza della morte.

 

 

Campo d’onore ( Bagatella delle iniezioni)

2

di Giorgio Mascitelli

 

   Con gesto muzioscevolico Guido della Veloira protende la mano verso quella del dottore che gli consegna la prescrizione di un ciclo di iniezioni. Non c’è da preoccuparsi, non è nulla di grave. Eppure questa prescrizione gli lascia l’amaro in bocca quasi si trattasse di qualcosa d’impensabile nell’oggi, quasi fosse un’improvvisa riapparizione di un passato che non vuole passare; ineffetti c’è da dire che il suo dottore, che a questo punto sarebbe più giusto chiamare sciur dutur, è abbastanza avanti con gli anni, come fosse un fossile congiuntamente conservato al lavoro dalla legge Fornero e dall’estromissione dai vantaggi di Quota Cento in ragione magari di oscuri e infernali trascorsi contabili, e nessuno avrebbe il coraggio di apostrofarlo, come fanno i pazienti aggiornati già più autentici clienti che semplici pazienti, con il più consono appellativo di Doc. Quanto a sé, quanto a quel che s’aspetta per sé, Guido della Veloira vorrebbe non dico una cura più contemporanea, anche se è chiaro che nel futuro qualsiasi malattia ( a parte che le malattie di ognuno le prevederanno già dalla nascita anche esattamente nel giorno in cui iniziano a parte le virali che non si può prevedere) le cureranno con un microchip, due staminali e un calcio nel culo e via, ma s’accontenterebbe di una pastiglia, di un integratore, di una nebulizzazione al limite.

E’ ovvio che per Guido della Veloira le iniezioni sono il suo campo d’onore, tanto più che, non essendosi dichiarato abile alla mansione nessuno tra i suoi cari, ha dovuto rivolgersi all’infermiera Carlotta. Chissà perché anche le infermiere non vengono chiamate Sister dal paziente, ma la spiegazione probabilmente è che esse non vengono chiamate dal paziente, ma dal doc, allora esse vengono, eseguono prontamente e si ritirano senza indugio.

Quando sa della prescrizione ( o punizione?), un vicino di casa un po’ saputello gli spiega che lui mai rischierebbe una  fine del genere e gli mostra orgoglioso sul telefono la sua più recente app. E’ un’app che tiene conto di tutti i parametri della perfetta salute di ogni singolo valore importante, dal colesterolo alla glicemia fino alla pressione, e che provvede a dare consigli sui farmaci giusti per ottenere il raggiungimento e il rispetto dei predetti valori in occasione del controllo trimestrale di routine tramite gli esami del sangue. Questa app è indispensabile al giorno d’oggi, visto che la tendenza nei trials è quello dell’affinamento e del miglioramento, ovvero dell’innalzamento o abbassamento, di ogni parametro e ciò che un dì fu salutare oggi non lo è più, cosicché la farmacopea e i comportamenti virtuosi che da essa nascono devono costantemente tenere il passo di questi progressi. Con questo metodo il vicino sa già con legittimo orgoglio che non incorrerà mai nell’umiliazione della puntura.

C’è da aggiungere che quello di Guido della Veloira è un condominio molto animato e variamente popolato. Così appena due piani sopra a quel vicino abita una giovane madre che invece, sulla via della guarigione, segue i consigli del Maestro Zam Bon. Il Maestro Zam Bon suole spiegare che la presenza di microbi, bacilli e quelle altre robe così nel corpo sono solo il segno di un insufficiente grado di meditazione del soggetto; pertanto le malattie infettive non sono altro che la somatizzazione di questa insufficienza. La giovane madre volle esporre questa teoria con riscontri difficili da decifrare alla vicina ottantenne, allorché costei non riusciva a riprendersi dall’influenza invernale. E’ positivo invece che chi sta percorrendo il proprio cammino di salvezza, solo se si è inoltrato oltre un certo segno però, è perfettamente immune. Questo spiega tra l’altro perché la varicella è molto più fastidiosa e pesante negli adulti che nei bambini, giacché in fondo è fisiologico che un bambino non mediti molto. Sulle vaccinazioni poi il Maestro Zam Bon, che è uomo in cui la fede nella saggezza è contemperata dalla prudenza nelle cose secolari, ha una posizione articolata: egli afferma che chi è avanti nel cammino non ne ha più bisogno, mentre chi non si sente pronto è meglio che le faccia. Quando la vicina, che doveva decidere se vaccinare il figlio, gli ha chiesto se lui la vedeva pronta, ha risposto che questo doveva percepirlo lei stessa sentendo dentro di sé una voce interiore che ne attestava la prontitudine. Siccome a lei sembrava di sentirla ha deciso di non vaccinare il bimbo. Di una cosa è certa la giovane madre ed è che a lei, seguendo la via della meditazione, mai capiterà l’umiliazione della puntura.

Quando attende l’infermiera Carlotta, che giunge per fargli l’iniezione, Guido della Veloira ambirebbe a mostrare a sé e agli altri quell’ammirevole serenità d’animo che il Duca d’Enghien mostrò dormendo profondamente la notte avanti la battaglia di Rocroi, ma sa già che la sua discesa sul campo d’onore sarà forzatamente più travagliata. Su tutto il resto Guido della Veloira sente di avere espresso la propria non definitiva opinione, anche se per la verità nessuno l’ha udita, e quando sente l’infermiera Carlotta suonare al citofono si ridice facendosi coraggio ‘ stretta è la foglia, larga la via, dite la vostra che ho detto la mia’; ma ciò è profondamente impreciso, anzi sbagliato, giacchè non sfuggirebbe neanche all’osservatore più svagato che la via va facendosi sempre più stretta.

Ulisse tecnologico #2

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di Giuseppe Martella

(Qui la prima puntata.)

2. Il gioco delle parti  

E’ solo la costanza delle versioni dell’intreccio a garantire l’identità dell’autore-eroe. Odisseo e Omero che si scambiano le parti del narratore nel mezzo del poema, in quella splendida scena cerimoniale alla reggia dei Feaci, non sono Nessuno senza la fissazione della polytropia, della figuralità vagante del linguaggio orale, nel medium della scrittura incipiente. Essi rimangono dei funtivi narrativi vuoti e liberamente appropriabili ad ogni nuova performance dal rapsodo di turno che, invasato dal Dio, pieno di énthousiasmos e in possesso della mnemo-tecnica formulare, dà loro “a local habitation and a name” (Shakespeare), per un uditorio occasionale.

Undici. I miei anni allora

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di Federica Rigliani

Trascorsi la ricreazione in bagno. Tornata in classe non mi mossi dal posto e non andai alla lavagna quando la maestra me lo chiese, aspettavo la campanella di uscita e ogni tanto scostavo il grembiule per sbirciare tra le gambe. Alla fine suonò, ma non feci la fila con i compagni, temevo di alzarmi. Rimasi sola, strinsi con un nodo le maniche della felpa sui fianchi e guardai la seduta. Era pulita.

– Siamo a pranzo da nonna – disse mia madre fuori dalla scuola.
– Per favore, andiamo a casa – risposi.

Con un cenno brusco mi invitò a chiudere lo sportello della Renault e a non fare la solita. Io, così brava a rovinarle le giornate. Canticchiava fissando la strada, fuori tutto correva e dentro la musica era alta. Quando mi costrinse a tirare su il finestrino perché l’aria non le spettinasse la messa in piega, mi sentii morire. Avrei dovuto raccontarle del fastidio bagnato tra le gambe e di quell’odore che non riconoscevo. Per bisogno, non per confidenza. Ma la nostra normalità non me lo permise.

Non siamo mai state amiche, noi.

Il nostro è un legame obbligato che è così poca cosa…

Indifferente ai miei segreti di bambina, mia madre ha ascoltato la mia vita con distacco tra una faccenda e l’altra. Era interessata solo a mio fratello, il primogenito capace di accenderle lo sguardo senza far niente. A quarant’anni sono ancora nulla rispetto a Sandro, il figlio maschio che ai suoi occhi ha sempre avuto ragione.

Come il giorno che portammo il tavolo della cucina, le sedie e la cassapanca. Di anni ne avevo cinque e non ci eravamo ancora trasferiti; le stanze erano vuote, le pareti fresche di pittura, i pavimenti sporchi di tempera. Quando mia madre mi rimproverò per aver gettato il cappottino a terra, io glielo dissi che era stato lui. Sandro negò. Allora lei mi mise in piedi su una sedia, altezza sguardo, e le rughe di espressione le si strinsero intorno agli occhi come artigli.

– Perché non dici la verità?
– Non sono stata io.

Tante volte me lo chiese. Tante volte risposi la stessa cosa.

Ad ogni risposta uno schiaffo, prima la guancia destra, poi la sinistra.

Non sono stata io, ripetei fin quando mi voltò le spalle dopo l’ultima sberla. Solo allora le mie guance roventi si bagnarono.

Nonna aveva apparecchiato in salone con il servizio bianco dal bordo rosso, nelle scodelle la lasagna era gialla, rossa e fumante. C’erano zia Anita con il marito e la famiglia di zia Adelaide, i suoi due figli adolescenti erano gli unici cugini maschi che avevo.

– Vado a lavarmi le mani – dissi.

Raggiungere il bagno e provare sollievo fu tutt’uno. Dopo aver poggiato felpa e grembiule sul lavandino, cercai l’equilibrio sul bordo vasca con la maglia sollevata. Guardare i miei seni allo specchio non suggeriva cambiamenti, erano piccoli bottoni di carne uguali a sempre. La novità ce l’avevo dentro al naso e tra le gambe: abbassando i pantaloni mi raggiunse un odore di ferro arrugginito, forte da farmi scostare il viso; guardando le mutandine ebbi la certezza che la carta igienica non bastava più. Dovevo chiamare mia madre.

Pensavo a come dirglielo mentre ascoltavo i suoi tacchi avvicinarsi. Quando smisero di picchiettare sul pavimento, la maniglia si abbassò. Trattenni il respiro.

– Mamma… io…
– Che hai ricombinato?

Non ricordo cosa dissi. Ricordo un gridolino, la sua stretta, le mie braccia lungo i fianchi, l’imbarazzo mentre mi tirava giù la cerniera e subito dopo il fastidio dell’ovatta.

– Mi porti a casa?
– Più tardi. Ora dobbiamo festeggiare.

Non feci in tempo a dirle di non parlarne con nessuno, che sentii il cuore battere nel polso stretto intorno alla sua mano mentre mi trascinava in corridoio.

– È diventata signorina! È diventata signorina!

Trovai mio padre e mio fratello in salone. Gli adulti alzarono i bicchieri e nonna mi invitò a sedermi a capotavola. Mi umiliò sentirla dire a mia madre adesso devi controllarla e mi sentii alla gogna quando vidi Sandro e i miei cugini parlarsi all’orecchio, proteggevano la bocca con la mano sotto sguardi beffardi. Fu allora che cominciai a vorticare immobile al centro della stanza mentre le parole arrivavano deformate in echi sovrapposti: è un grande momento, sostenevano tutte, sei una donna ora, potrai diventare mamma, ripetevano tra congratulazioni e abbracci.

Ero terrorizzata dal pensiero che si avvertisse il mio odore estraneo e tenevo i movimenti stretti per non muovere l’aria, mentre loro srotolavano il futuro sul mio presente paralizzato.

Ora grido. Ricordo che lo pensai mentre prendevo posto. Mi trattenni.

Assaggiai il primo, il secondo rimase nel piatto.

Da allora il nostro rapporto obbligato è rimasto ben poca cosa.

Ho provato più volte a raccontarle quanto mi mortificò, non ci sono mai riuscita. Le sedute dallo psicologo mi hanno aiutata a superare criticità, trovare un equilibrio nel mio essere donna e mamma, comprendere qualcosa di lei. Non era l’assenza di bene a muoverla, era l’orgoglio per il maschio. Lo vedo da come tratta i miei figli: indifferente con Francesca, attenta con Giorgio.

Oggi io e Francesca siamo sedute a un tavolo nella veranda di un piccolo ristorante, sulla piazza dietro casa. Le tovaglie sono a scacchi rossi e bianchi e al centro c’è un vasetto con fiori primaverili.

I bicchieri di spumante hanno fatto tic, per lei solo un sorso. È piccola la mia bambina, ma dovevamo brindare. Frequenta la prima media e oggi è tornata a casa con un grande sorriso e la felpa annodata al punto vita. Per il disagio dello spessore, ha detto, pensava si vedesse l’ingombro tra le gambe. Ha stretto la sua mano intorno al mio polso e mi ha trascinata in bagno sussurrandomi:

– Vieni, mamma. Corri…

Era successo tutto come pensava, tutto come le avevo detto, e tenere per tanti mesi un assorbente nella tasca interna dello zaino era stata una genialata. Questo mi ha confidato.

L’ho guardata con gli occhi lucidi, l’ho risentita sulla pancia quando me l’hanno data la prima volta e avevo paura di toccarla. L’ho vista adulta. L’ho vista andar via. E ho pianto.

Ha appena ordinato una lasagna la mia piccola donna. Io pasta con le vongole.

Io la lasagna da allora non l’ho più mangiata.

Un adulterio

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 di Gianni Biondillo

Edoardo Albinati, Un adulterio, Rizzoli, 2017, 126 pagine

Uscito dall’esperienza elefantiaca del romanzo precedente Edoardo Albinati torna in libreria con una piccola storia: Un adulterio. Già dal titolo si respira un’aria inattuale, viene da dire ottocentesca. Si può ancora parlare di adulterio nel XXI secolo? Chi tradisce chi? Clementina ed Erri, i due giovani amanti, sono sposati entrambi. Hanno chi un marito, chi una moglie, ai quali nulla va rimproverato. Hanno entrambi una vita soddisfacente, una buona condizione sociale, Clementina un figlio nato da poco, Erri due figli.

Ma questa vita così piena, così soddisfacente sembra non basti. C’è come una febbre che li attanaglia fin dal loro primo fortuito incontro. Il racconto di come abbiano deciso di tradire i loro cogniugi arriva tardi; Albinati ci presenta i due protagonisti già al culmine del loro adulterio, quando stanno traghettando verso un’isola a un’ora di aliscafo dalla costa e, idealmente, dal mondo intero.

Si sono presi un fine settimana, due giorni fuori dalla quotidianità per amarsi senza sconti, senza remore. Più che la trama, labile per quanto puntuale, compilatoria, ad Albinati sembra interessi raccontare il desiderio, i sentimenti dei due protagonisti. Il suo è un esercizio di stile: come trasmettere l’amore fisico, carnale di due persone sostanzialmente sconosciute, evitando una deriva virilista, una scrittura sessualizzata? Albinati scrive, in questo libro, come ci immaginiamo debba scrivere una donna, non un uomo, ribaltando i pregiudizi di genere letterario. La sua è una scrittura erotica e ben educata.

Il fine settimana dei due amanti, come è ovvio, passa in fretta. L’isola di libertà dai vincoli sociali dev’essere abbandonata. Si torna a casa. Ma chi alla fine, dei due ne soffrirà di più ricordando questo sogno ad occhi aperti che si stanno lasciando alle spalle?

(precedentemente pubblicato su Cooperazione ma non ricordo il numero del 2017)

Storia con gatto

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di Andrea Inglese

 

Vedo un uomo. Corre via. Non è un filosofo. Io stesso corro. Io corro a perdifiato. Vedo un uomo. Corre via di nuovo. Non è lo stesso uomo. Non è neppure lui un filosofo. Io corro. Io corro da un bel pezzo. Vedo anche altre persone, oltre agli uomini. Ci sono persone e ci sono uomini. Sono misti.

Flavio Ermini: Edeniche

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Tre poesie, con una nota critica di Antonio Delogu

 

 

il crinale pietroso

 

nell’attestare con l’inchiostro quanto altrove svanisce

testimonia il mortale l’interminabilità del cadere

incessantemente manifestandosi come verbale presenza

nell’imperfetta sua aderenza al pietroso crinale

per un altissimo grado di estraneità alle tenebre

Violenza, creatrice di diritto

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Gabriel Natale Hjorth bendato nella caserma dei carabinieri

 

«La funzione della violenza nella creazione giuridica» scrive Benjamin «è, infatti, duplice, nel senso che la posizione del diritto, mentre persegue come scopo, con la violenza come mezzo, ciò che viene instaurato come diritto, pure, nell’atto di insediare come diritto lo scopo perseguito, non depone affatto la violenza, ma ne fa solo ora in senso stretto e immediatamente violenza creatrice di diritto, in quanto insedia come diritto col nome di potere non già uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma intimamente e necessariamente legato ad essa.»

Post in translation: Antonella Anedda/ Jean-Charles Vegliante

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Esilii
di
Antonella Anedda

 

 

 

 

 

 

Pieno il mare di esuli; gli scogli coperti di sangue
Tacito Historiae

Oggi penso ai due dei tanti morti affogati
a pochi metri da queste coste soleggiate
trovati sotto lo scafo, stretti, abbracciati.
Mi chiedo se sulle ossa crescerà il corallo
e cosa ne sarà del sangue dentro il sale,
allora studio – cerco tra i vecchi libri
di medicina legale di mio padre
un manuale dove le vittime
sono fotografate insieme ai criminali
alla rinfusa: suicidi, assassini, organi genitali.
Niente paesaggi solo il cielo d’acciaio delle foto,
raramente una sedia, un torso coperto da un lenzuolo,
i piedi sopra una branda nudi.
Leggo. Scopro che il termine esatto è livor mortis.
Il sangue si raccoglie in basso e si raggruma
prima rosso poi livido infine si fa polvere
e può– sì– sciogliersi nel sale.

Pleine la mer d’exilés, les rochers couverts de sang
Tacite, Historiae

Aujourd’hui je pense aux deux, parmi d’autres, noyés
à quelques mètres de ces côtes ensoleillées
retrouvés sous le bateau, étroitement embrassés.
Je me demande si sur leurs os poussera le corail
et ce qu’il adviendra du sang dedans le sel,
alors j’étudie – je cherche parmi les vieux livres
de médecine légale de mon père
un manuel où les victimes
sont photographiées avec les criminels
pêle-mêle : suicidés, assassins, organes génitaux.
Pas de paysages sous le ciel d’acier des photos, rarement une
chaise
un torse recouvert d’un drap, les pieds sur un brancard nus.
Je lis. Découvre que le terme exact est livor mortis.
Le sang se rassemble en bas et se coagule
d’abord rouge puis livide enfin devient poussière
et peut, oui, se dissoudre dans le sel.

(trad. J.-Ch. V.)

Ulisse tecnologico #1

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di Giuseppe Martella

  1. Marchingegni

Ulisse, ingegnoso e mendace, è uno dei più noti eroi culturali di ogni tempo. Le sue astuzie proverbiali rimangono impresse nei nostri ricordi e tra esse spicca quella da lui messa in atto nella grotta di Polifemo, dove secondo alcuni si svolge “lo scontro tra chi si muove e chi sta fermo: l’opposizione originaria, il cui esito, favorevole alla mobilità, ha fatto di quest’ultima la condizione fondamentale per tutto quello che chiamiamo cultura.”

Andrea Camilleri – Sud

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Per il numero 1 di Sud, Andrea Camilleri scrisse per noi questo magnifico racconto (effeffe)

Scultore di sé

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di Daniele Muriano

 

Quanto gli piaceva scolpire nel giardino, mentre in estate gli uccelli svolazzavano attorno senza posarsi sul marmo, o mentre in diverse stagioni, se il tempo era calmo, la natura sembrava trattenere il respiro intorno a lui per guardare. Aveva scolpito una volta, d’inverno, con tutta la neve sparsa per i prati e sui tetti: dopo cena, gli era parso davvero che il busto si fosse deformato, ma poi guardando meglio aveva notato i nuovi fiocchi nel vento, di là dalla finestra. La natura era sempre viva, e tutti i giorni il cielo era un testimone ingombrante che reagiva ai colpi di scalpello incurvandosi come un ventre che testimonia il respiro.

Cielo di stelle

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  di Gianni Biondillo

Erminio Ferrari, Cielo di stelle, Casagrande, 147 pagine

Era una notte di febbraio del 1966 quando quindici operai italiani e due pompieri ticinesi trovarono la morte nella galleria d’adduzione dell’impianto idroelettrico in costruzione fra le valli Bedretto e Bavona. Uccisi in modo subdolo, da un gas tossico ristagnate nel cunicolo.

Cielo di stelle racconta questa storia. Ma, prima ancora, questo libro ci racconta come l’autore, un quarto di secolo dopo la tragedia, sia incappato in questa storia all’apparenza lontana e come l’abbia ossessionato. Cercando testimoni, documenti, riscontri. Il cipiglio di Erminio Ferrari è quello del giornalista d’inchiesta, ma la scrittura è di tutt’altra natura. Ferrari ci racconta il più rovinoso incidente sul lavoro del Ticino senza usare toni scandalistici. A lui, passate ormai due generazioni, interessa l’umanità perduta, interessa la pietas.

Con dovizia, con fermezza, ha parlato con i minatori sopravvissuti, ormai in pensione, con le vedove, con la figlie ormai donne e madri. Non ha cercato il nome di un colpevole – anche se molte sono la pagine dedicate ai processi dell’epoca. Ha, con questa indagine, voluto scrivere la storia di una terra, il Ticino, che a passo forzato voleva modernizzarsi e di un popolo migrante e miserabile, l’italiano, che voleva emanciparsi dalla fame, pronto per questo ogni giorno a rischiare la vita.

Uno dei pochi doveri della letteratura è “fare memoria”. Non perdere le piccole storie dei viventi, quelle macinate dalla Storia con la S maiuscola. Fare memoria significa avere consapevolezza che il paesaggio che si attraversa, oggi all’apparenza idilliaco, è stato scenario di dolori e perdite. Che certe parole d’ordine, certi razzismi quotidiani che oggi riaffiorano, hanno origini lontane. È chiedere di non ricadere negli stessi errori dei nostri padri. Questo fa Ferrari: fa letteratura.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione numero 24, del 13 giugno 2017)