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Da “La città delle mosche”

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di Benny Nonasky

Pubblichiamo una selezione da La città delle mosche (Gilgamesh Edizioni 2017). Più un testo inedito.

É una città di
merda.

<<Me cumpà, i cosi
càngianu
si cangia
a genti.
Ma a genti
simu nui.
E a nui
sulu a morti
ndi cangia.>>1

Lo ripeto:
è una città di
merda.

**

E le mosche amano la merda.

Le mosche.

Le mosche
sono:
        il popolo.
Le mosche
sono:
        i gnuri.2

Le mosche
sono lo spazio e
i tre participi
temporali.

Presente. Futuro. Passato.

Concatenanti.
La pancia piena/A panza china
          Il pane sul tavolo/’U pani supa u tavulu
          Stiamo bene/Stacimu bonu
Nei nostri piatti.

Le mosche.

**

Le mosche amano la merda.

Nettare per le funzioni vitali;
vettori d’agenti patogeni nefasti.

Sempre lì a ciucciare,
sempre lì.

Purificandosi.
Ronzando.

Riducendo al minimo la grammatica
comunicativa morale.

Rapidi
a costruire nuovi
mostri sul mare
e
cocaina
e
appalti consiliari
a ridosso del mare.

Lavandosi le zampe ossessivamente.

Purificandosi.

**

Le mosche.
Le mosche sono gli
abitanti della città.

La proiezione geometrica
del potere:
dall’apice reale
agli strati invisibili
negl’acidi salienti.

In ascesa patronale.

Cognome fotte cognome.

Bestie putride.

<<Ccà nudu
sciacqua lattuchi. Capiscisti?>>3

Padre a figlio a Spirito Santo.

(Strali di merda e di merda e
di vergogna.
Capiscisti?)

**

Le mosche sono commensali.

Come donne rinchiuse in bozzoli
e tormenti.

<<E la vitti a la missa chi jìa,
chi natichi tundi e chi minni c’avia.>>4

Nell’astro dei cieli, il cuore strappato;
il cuore strappato.

Sei tu:
gelida/tenera come bianco languido
gelsomino. Il corpo t’appartiene.

Grida se puoi.

Sei tu: né
vanto né
salsedine o cipolla tirrenica:
dinastia vaginale, ecco cosa sei.

<<Pruté!>>5

Fìmmini.

**

Ci sono mosche piccole e
ci sono mosche grosse.

Le mosche grosse le
trovi tra i santi e gl’araldi
a divorare con novizia.

Le mosche piccole designano,
costrette,
a volte per un permesso,
a volte per due permessi.

Le mosche grosse sviluppano
patti e congiure.

A discapito di ognuno.

<<Ndannu a testa frisca.>>6

Il popolo.

Ci sono mosche piccole e
ci sono mosche grosse.

Le mosche piccole durano meno.

**

.L’autostrada del Sole.
(poesia inedita)

Quando sbarca la luna di ponente,
saltano fuori i briganti come
rane dal ventre della terra.
Danzano invocando un bottino –
un padrone da depredare.

La legge del taglione ha
lasciato molte mani a
frizzare al sole rivelatore.
La loro puzza attira bestie
e bambini affamati.

Nel millesettecentonovantanove
Murat, cognato del Bonaparte,
fu giustiziato a Pizzo Calabro.
A seguire fucilarono i fratelli
Bandiera. Poi giunse Garibaldi.
Ed è il momento di andare:
miseria, mannajia Giuda,
ancora miseria,
le pietre calde intuppano7
l’intestino, mannajia8 Giuda,
misera, andare
andare e quale
rivoluzione celebrare?

Nel 1861
c’era una sola strada che ci
attraversava da Nord a Sud.

Le mosche si sono sedute
sulle poltrone e hanno
lasciato fare. Nu
lavuru fetusu9.

Strada del Sole.
Strada del Sole.
Strada della minchia.

Le mosche hanno trovato un habitat
adatto per affinare il loro appetito.

Un ennesimo granello di Storia:
una strada,
tanti amici e
amici degli amici.


NOTE AI TESTI

1 Mio (caro) compare, le cose cambiano se cambia la gente. Ma la gente siamo noi. E a noi solo la morte ci cambia.

2 Erano coloro che avevano un titolo nobile (come dei principi) e detenevano grossi campi agricoli – nei quali lavorava il popolino.

3 Letteralmente: qua nessuno pulisce la lattuga. È un detto popolare che significa che nessuno sta mai con le mani in mano e che tutto ciò che compie non è cosa da poco, ma qualcosa d’importante.

4 Pezzo ripreso da un’antica canzone popolare calabrese. In italiano: “E l’ho vista andare a messa, che culo tondo e che grandi tette che aveva”.

5 Verso che usano i pecorari per richiamare le pecore. Un altro è “scité” (o qualcosa del genere – molto difficile da trascrivere).

6 Letteralmente: “hanno la testa fresca”. Anche questo è un detto popolare che significa avere la testa senza pensieri e preoccupazione. Un po’ come la napoletana “capa fresca”.

7 In italiano: intasano

8 Tipico intercalare calabro. In italiano: Mannaggia Giuda.

9 In italiano: lavoro sporco.

AMOS OZ [1939-2018] “Un disastro nucleare.”

1
Amos Oz e il suo gatto

img da qui

da Una storia di amore e di tenebra
Traduzione di Elena Loewenthal
Feltrinelli 2002
 

Fra la stuoia, le gambe dei mobili e lo spazio sotto il letto, scoprivo a volte non soltanto isole senza nome, ma anche nuove stelle, ignoti sistemi solari, galassie intere. Se mi avessero rinchiuso in prigione, certo mi sarebbero mancate la libertà e svariate altre cose, ma non avrei patito la noia, sempre che mi avessero lasciato tenere, nella mia cella, una confezione di domino o un mazzo di carte, due scatole di fiammiferi, una dozzina di monete o un pugno di bottoni: avrei trascorso la mia giornata seduto a sistemarli. Li avrei combinati e poi divisi, montando e allontanando e avvicinando, elaborando piccole composizioni. Forse era tutto riconducibile alla mia condizione di figlio unico: non avevo fratelli o sorelle, e assai pochi amici, che dopo un po’ se ne andavano, perché volevano action e non reggevano tanto il ritmo epico dei miei giochi.
Capitava non di rado che cominciassi un gioco per terra il lunedì, e il martedì passassi tutte le ore del mattino, a scuola, a pensare al seguito di quel gioco; poi, durante il pomeriggio, facevo una mossa o due, lasciando il seguito per il mercoledì e il giovedì. I miei amici si stufavano, mi abbandonavano alle mie fantasie e se ne andavano a giocare a nascondino fuori, mentre io portavo avanti la mia storia pavimentale ancora per molti giorni, spostando truppe, cingendo d’assedio fortezze e capitali, conquistando e distruggendo, disponendo brigate per i monti, violando fortilizi e linee di fortificazione, liberando e conquistando di nuovo, allargando e stringendo confini segnati con i fiammiferi. Se per sbaglio uno dei miei genitori pestava il mio universo, dichiaravo uno sciopero della fame o una rivolta dello spazzolino da denti. Finché alla fine arrivava il giorno del giudizio, mamma non poteva più sopportare i fiocchi di polvere e spazzava via tutto – flotta, fanterie, città, monti e insenature, continenti interi. Un disastro nucleare.

 
[ La scrittura limpida e insieme oscura di Amos Oz – netta – “semplice” in superficie – piena di ironia – immaginifica – ma con un senso profondo di mancanza di speranza per l’umano – piena di amore ma con la tenebra sempre in agguato – che fa quasi sentire in salvo il suo lettore – una volta chiuso il libro – per contrasto – per misteriosa funzione apotropaica – la scrittura che nasce nella solitudine sul pavimento di figlio unico – geografia di piastrelle – di tessere del domino – monete – fiammiferi e bottoni – nella consapevolezza che tutto può essere spazzato via in un soffio – in un fiocco di polvere ]

Da “La visione a distanza”

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di Alessandro De Francesco

I 12 testi che presentiamo sono tratti da diverse sezioni del libro La visione a distanza (Arcipelago Itaca, 2018). Segue una nota dell’autore.

Il burattino, l’asino e i porno, o del nuovo puritanesimo

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di Giorgiomaria Cornelio

All’età di 14 anni abbozzai, insieme ad un minuto gruppo di amici, il progetto di un cineforum che avrebbe dovuto includere “Ecco l’impero dei sensi” di Nagisa Oshima e “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini. Del primo titolo avevo ereditato una videocassetta pubblicata in una collana dell’Espresso dal titolo immaginifico: “I classici proibiti”. Del secondo tentammo di recuperare un dvd alla biblioteca cittadina, convinti della non eccezionalità della richiesta. Eravamo in torto: il film ci fu negato –ça va sans dire– per via della nostra età. Protestammo invano e chiassosamente, come sempre si protesta prima di comprendere la sbrigativa prammatica degli apparati burocratici. Avremmo realizzato in seguito, e non senza ricorrenti dimenticanze, che a denunciare i ladri è naturale che si finisca in galera, e che la parabola di Pinocchio è compendiario della giustizia umana:

“Il burattino e l’asino sono versioni equivalenti del medesimo archetipo: la fatica della vittoria sulla condizione puramente naturale e meccanica. L’una usata da Marco Aurelio, l’altra da Apuleio, al medesimo fine. Collodi adoperò entrambe. Faticosa vittoria! Collodi mostra come per ottenerla si deve rinunciare a ogni fede nelle istituzioni umane, liberarsi interamente dalla illusione della giustizia e dell’utopia.”

Resta il fatto che quella che veniva fatta passare come tutela della nostra “innocenza” era, al contrario, un modo di velare la speciosità d’un sistema paralitico di cui avvertivo, già da allora, la violenza e il ragguaglio, come se fossi spettatore malinformato, comunque inadatto alla “visione”.

Scrivo questo perché non deve giungere come una sorpresa la recente decisione di Tumblr di abolire dal suo sito tutti i contenuti per adulti, ennesima tappa di un processo di cesure industriali che tradisce -dietro al pretesto dell’inclusione- un puritanesimo démodé che credevamo malconcio e inadeguato. Lo ritroviamo invece agghindato di progressismo, come nell’esercizio di sfrondatura del vocabolario accademico, da cui spariscono parole (“frocio”, “troia” …) il cui carattere offensivo rivela nient’altro che la nostra incapacità di affrontarne gli strati densi di memoria e la nostra testardaggine a non voler riconoscere nei nomi una realtà che è più di se stessa.

Poco davvero bisogna sorprendersi, allora, quando a Milano viene ⇨ abolita una mostra per qualche segno pruriginoso e un intenzionale fraintendimento del contenuto, fraintendimento che ad ogni modo manifesta un rigurgito collettivo da cui non scampano neppure quelle opere che penseremo confortate dietro al titolo di “classici” (si veda ⇨ quanto è accaduto al Balthus).

Renderemo conto anche di questa violenza. Per l’immediato, l’alto edificio del progresso è validato dal complesso delle sue statistiche.
 
Fa ombra, è vero, ma per chi vuole sporgersi c’è ancora la Luna.

 

NOTE

Immagina

3

Denis Mukwege per il Nobel

3

di Antonio Sparzani
https://www.youtube.com/watch?v=dV5Qc7elwiI
ascoltate bene, niente di consolante.

Home free

4

di Gianluca Veltri

“Sono tutti vittime delle circostanze
Di antiche campane che recano
Tutta la paura del mondo, timida e nuda

[…]

Ma i conigli hanno abbandonato le loro tane
Si sono riconsegnati alla terra”

(David Sylvian “Gone To Earth”)

Chiedo scusa se parlo di Maria, cantava Giorgio Gaber. Era una maniera per schermirsi, quando il suo tarlo tornava a galla, nel momento in cui quella cartina di tornasole ricompariva a reclamare la sua visione della vita. Come i saggi di Roland Barthes, che pretendevano di vedere il mondo attraverso una fava.

Ognuno ha la sua finestra affacciata sul mondo, la sua feritoia sulla vallata, e David Crosby è la mia.

La vita è un romanzo, dice Alain Resnais. Come l’avrebbe raccontata, lui, la vita di Baffo Van Cortland alias David Crosby? Riemerso da varie vite precedenti come in un serial che però era la sua esistenza, avviluppato sulla scala a spirale del proprio inferno personale. L’ho riascoltato in un disco registrato dal vivo nel 1986 a una radio americana. Si intitola, quel disco privo di grazia, “Silent Harmony”, ed è stato pubblicato solo nel 2017. Il 1986, l’anno a cui risale, è il nadir di David Crosby: sono trascorsi quasi dieci anni dal disco della barca con Stills e Nash: ogni cosa si è rabbuiata, si è spento il sole californiano, tutto è passato e futuro niente. Deriva, droga, carcere. Ascoltare “Silent Harmony” non è bello: quella glossa – “armonia silente” – contenuta nella celestiale “Guennevere” rimanda a tempi – il 1968 – in cui Crosby era al centro del suo mondo, ispirato come un poeta pieno di luce e ascoltato come un profeta o un guru, avvolto in un mantello di sapienza e carisma. Cos’era diventato, dopo? Un attaccabrighe di periferia; un tossico collerico che stava distruggendo la sua mente e il suo fisico. Un uomo infelice, pieno di rammarico e risentimento. Nel live del 1986, Croz è sovraeccitato, presenta in modo logorroico le sue canzoni, splendide ma suonate in modo approssimativo, con un tocco greve sulle corde. Non è più al centro del suo mondo; o forse è al centro di un altro mondo – brutto, buio, sbagliato, pieno di rabbia e rimpianti.

Dopo il suo ritorno sulle scene con “Oh Yes I Can” nel 1989, diciotto anni dopo “If I Could Only Remember My Name”, a Crosby capitavano un sacco di cose interessanti, tra le quali, più di tutte, riscoprire il figlio perduto James Raymond, destinato a diventare alter ego artistico inseparabile. Poi faceva incontri, con artisti già acclamati che volevano collaborare con lui, e con giovani talenti che lo consideravano il loro mentore.

E siamo ai giorni nostri.

È il 2014, e Crosby ha pubblicato a suo nome soltanto tre album:

“If I Could Only Remember My Name” (1971);

” Oh Yes I Can” (1989);

“Thousand Roads” (1993).

A partire da quell’anno – ha 73 anni – il songwriter californiano pubblica quattro album in un lustro scarso, fino al 2018. Più precisamente:

“Croz” (2014);

“Lighthouse” (2016);

“Sky Trails” (2017);

“Here If You Listen” (2018).

Considerando che “Croz” esce a oltre venti anni dal precedente album, è stupefacente registrare la freschezza senile e la felicissima prolificità di un musicista proverbialmente parco: tre dischi in quarantatre anni, quattro nei successivi cinque. Una parabola unica; una doppia anomalia. Ma adesso arriviamo all’incredibile: perché questi quattro album di un artista ultra75enne già leggendario sono tutti e quattro di una bellezza ispirata, stupefacente, abbagliante. È come se Crosby si fosse conservato tanta grazia a bella posta. Come avesse serbato dentro di sé e messo al sicuro una silente armonia, un universo intatto, un pozzo di perle, nascondendole ad arte nei giorni bui, per poi esporle in serie.

Di solito nelle ultime uscite discografiche dei grandi vecchi, dei mostri sacri, ci accontentiamo di qualche zampata, di un lampo antico in mezzo alla mediocrità inevitabile del presente: il passato parla per loro, non pretendiamo di più, ci basta avere un lavoro nuovo che testimonia la loro vitalità, la loro esistenza. Con David Crosby non funziona così, è tutto radicalmente diverso: la sua carriera ellittica si è popolata di capolavori con i Byrds (cinquant’anni fa!), con Stills, Nash e Young; con i tre primi album usciti a tanta distanza l’uno dall’altro. Long Time Gone. Mentre pensavamo a lui come a un vecchio bonario che aveva recuperato almeno la salute e la voglia di vivere, lui sforna quattro capolavori. È un artista che ha un mondo dentro di sé, ha il mondo dentro di sé, e non smette di raccontarcelo. Un’anima traboccante che non cessa di meravigliarci.

Il terzo capitolo di questo poker (“Sky Trails”) si chiude con uno dei suoi pezzi più meravigliosi. Si intitola “Home Free”, una glossa che può significare molte cose: “sicuro di farcela”, o anche “fuori pericolo, in salvo”. Crosby canta delle notti di pioggia e della splendida felicità di avere un tetto sopra la testa; della necessità di non smettere mai di ripetersi “come sono fortunato”. Si sente “come un neonato avvolto in una coperta che non ha niente da temere”; come “un albero che sa sempre dove cadranno le sue foglie”.

“Home Free” è il canto di un uomo che sa cosa significa non avere casa da nessuna parte; che è stato randagio e reietto, senza pace. Un uomo che per anni si è sentito ben diverso da un neonato avvolto in una coperta. È un brano, questo, che contiene la parola home, casa. In musica, quando si torna all’accordo principale del brano (l’accordo di tonica), si dice che l’armonia “torna a casa”, diventa tranquillizzante, ossia riporta tutto a posto, si pacifica, rassicura l’ascoltatore. L’accordo di tonica di “Home Free”, quello che dovrebbe “riportare tutto a casa”, contiene intervalli armonici estremamente dissonanti (è un accordo di sesta nona), che lasciano aperte sospensioni larghe e inquietudini profonde. Anche mentre canta la meraviglia di sentirsi a casa, di percepire se stesso aggrappato alla sua terra, Crosby non rinuncia all’ambivalenza delle sue note oblique. Non è mai rotondo, sarebbe troppo facile: è la sua cifra, è la sua grandezza.

Zangrando a Berlino sulle tracce di Peter Brasch

4

di Roberto Antolini

Questo è un libro che fa venire in mente i primi film di Wim Wenders, quelli in bianco e nero. Anche questo libro è in bianco e nero, con tutte le sfumature del grigio, il colore della Berlino sospesa fra la decomposizione della DDR e l’assorbimento consumistico nella Bundesrepublik. In quell’arco di anni fra la fine dell’una e l’altro, il grigio era il colore dominante: il colore dei portoni scrostati dei vecchi quartieri provenienti direttamente dalla Repubblica di Weimar, passando per il Terzo Reich e la succursale germanica del socialismo reale. Insomma il cuore dell’Europa, «l’Europa prima che sparisca».
L’autore è Stefano Zangrando, scrittore nato nel 1973 a Bolzano, ma con un link sempre in funzione su Berlino, dove ha ottenuto nel 2008 una borsa di scrittura della Accademia delle Arti, e nel 2009 ha vinto un premio italo-tedesco per traduttori. Questo suo terzo libro nasce dall’interesse dell’autore per Peter Brasch, figlio di un ebreo in fuga dai nazi che, diventato comunista, fa una relativa carriera burocratica nella Germania dell’Est, e fratello del più celebre Thomas Brasch, poeta e regista fuggito all’Ovest nel 1976, dove ha raccolto qualche successo (come il film “Ritorno a Berlino” del 1988) ma ha fatto una brutta fine. Peter resterà invece in DDR sperando inizialmente in una riforma dall’interno, ma sempre più critico, fino a venir espulso dall’università per aver espresso solidarietà a Wolf Biermann. Diventerà scrittore e uomo di teatro non di successo, un dissidente appartato della Berlino est, sopravvissuto poco più di un decennio all’unificazione delle Germanie.
Nei suoi momenti di vita berlinese Zangrando conosce gli amici e le ex-compagne di Peter Brasch, trova i suoi libri ormai dimenticati, ed un giorno navigando in rete incappa in due registrazioni televisive degli anni ‘90, restandone impressionato: «c’era qualcosa, in quel giovane uomo tormentato, che toccava una mia corda nascosta. Perché lo sentivo così vicino, così familiare?».
Zangrando adotta nella narrazione uno stile “sperimentale”, basato sul montaggio di materiali diversi: conversazioni e testimonianze, brevi testi letterari e lettere di Brasch, impressioni e descrizioni d’ambiente. Una forma narrativa & saggistica, documentaria ma anche introspettiva. Un’opera aperta, che rivolge al lettore domande senza risposta. Filo conduttore della narrazione è un vagabondaggio per la Berlino “mutata” di oggi, alla ricerca delle tracce sue e di quell’altro tempo, intrecciando un dialogo con l’assenza di Peter. A partire dalla casa dove ebbe il tetto più durevole, sulla Choriner Straße: «è un buon posto per abitare, dopo l’89. Al confine tra Mitte e Prenzlauer Berg, da qui in pochi minuti sei in Alexanderplatz – se vuoi fiutare bene i venti che spirano da ovest e che stanno spazzando via tutto, un po’ alla volta, in un paziente e implacabile lavoro di erosione; oppure in un attimo sei nella Schönhauser Alee, l’asse più in fermento di questo ex-quartiere operaio che, nel giro di un decennio o poco più, verrà colonizzato e tirato a nuovo dai figli di papà occidentali, tedeschi e non solo. Molti autoctoni, i più anziani soprattutto, se ne andranno da qui nei sobborghi, arresi ad affitti sempre più insostenibili; qualcuno della tua cerchia resisterà e lo incontrerò».
La parte centrale e più sostanziosa del libro – come è giusto che sia per il libro su di un uomo di teatro – ha la forma del racconto di una messinscena di teatro-verità, in cui Zangrando utilizza le testimonianze che ha raccolto direttamente dalle testimoni. Le molte donne della sua vita (amanti, amiche, familiari) vengono narrate come se si incontrassero su un palcoscenico per raccontarsi reciprocamente la loro esperienza di Peter, incrociando diversi punti di vista, tramite i quali prende corpo la storia – umana, artistica e (involontariamente) politica – di Peter. Dice la sorella Marion: «non stava da nessuna parte, non con il sistema, non con l’annessione da parte dell’occidente. Neanche a lui del resto andava giù il termine “riunificazione”. L’ho detto, quelli come noi le cose volevano cambiarle dall’interno. Non eravamo neanche nei movimenti per i diritti civili, non eravamo dissidenti sotto i riflettori dell’ovest. Eravamo un’opposizione interna, diffusa, che puntava a liberarsi del vecchiume senza gettarsi nelle braccia del mercato. E siamo quelli che la storia ufficiale ha voluto dimenticare».
Il fratello di Peter (e di Marion), Thomas, fuggito in occidente sarà sotto i riflettori come dissidente, ma trasformerà la sua incompatibilità con la generalizzata competitività occidentale in alcoolismo e tossicodipendenza, fino a venirne travolto. Peter, rimasto ad est fino alla fine, verrà travolto dalla stessa irriducibilità quando l’ovest ingloberà l’est: «il denaro, disse, è la nuova forma della censura» ricorda nella scena di teatro-verità Katja, la miglior amica di Peter. La sua precarietà, sia lavorativa che esistenziale, si aggraverà con la “riunificazione”, o comunque non migliorerà. Proverà anche a scrivere un romanzo, come chiedevano gli editori ed i media occidentali, ma nessuno se ne accorgerà. Gli verrà negato anche un posto da insegnante, e si farà distruggere anche lui dal bere, come il fratello. Lo troveranno una mattina riverso a casa sua. E a questo punto, chiaramente, la tragica traiettoria di Peter viene ad assumere una forma universale. La forma non più solo di una storia della DDR, ma della decadenza dell’Europa mercantile, dell’eclissi dell’intellettuale, della crisi della sinistra, della nostra crisi, della crisi di chi scrive e di chi legge. «È qui – dice Zangrando a se stesso – che ti sembra abbia origine la vostra affinità: si scrive innanzitutto per chi si ama, vivo o morto che sia».
Il libro si chiude con il racconto della commemorazione di Peter Brasch, nel giorno in cui avrebbe compiuto i 60 anni, tenuta nella Kneipe [birreria] gestita dal poeta Bert Papenfuß, che chiuderà il giorno dopo (è quindi insieme una commemorazione di Peter e della Kneipe). «Seduto a lato del palco, fumando e bevendo davanti a quella declamazione sublime e sinistra – dice Zangrando – compresi tutt’a un tratto che stavamo celebrando un addio. Un addio al locale in cui ci troviamo, certo, che tra poco avrebbe chiuso per sempre; ma anche un addio a Peter, poiché il Prenzlauer Berg [quartiere e movimento letterario] che quella sera lo stava ricordando era un mondo in via d’estinzione – perché, così com’era morto Peter, prima o poi tutta quella Berlino sarebbe invecchiata e poi morta, morta». Eh già, si muore, si è tutti in transito. E quindi questa è anche una parabola sulla condizione umana, sulla sua provvisorietà.

NdR: il romanzo di Stefano Zangrando “Fratello minore : sorte, amori e pagine di Peter B.”, è edito da Arkadia (Cagliari, 2018), nella collana diretta da Luigi Preziosi, Paolo Ciampi e Marino Magliani; nelle immagini che seguono Prenzlauer Berg, di cui si parla nel libro (e nella recensione), oggi e come era sotto la DDR, e un ritratto di Peter Brasch (materiali presi dalla rete).

 

adesso vai (2/2)

7

di Giacomo Sartori

ora vai per conto tuo
ditti anche tu
che per troppo tempo
nessuno di noi
s’è sentito accolto
(o anche solo al riparo)

Pensare l’originalità dei gilet gialli: territorio, rappresentanza, salario

7

di Andrea Inglese

[Apparso in alfadomenica del 16 dicembre.]

 Questo articolo non si propone di fare la cronaca del movimento dei gilet gialli francesi, ma di provare a pensare la sua originalità, riconoscendolo come una creazione collettiva, e non come la semplice replica di modelli d’organizzazione e lotta già codificati storicamente in seno a istituzioni, partiti, organizzazioni sindacali. Il primo segno evidente d’originalità politica è riscontrabile proprio nella difficoltà che testimoni e commentatori esterni hanno nel situarlo “politicamente”.

Pino Pinelli

3
di Antonio Sparzani


oggi 15 dicembre 2018 è l’indimenticato anniversario (quest’anno quarantanovesimo) della strana morte di Giuseppe Pinelli, nei locali della questura di Milano

Il 13 febbraio scorso Stefania Consenti pubblicava sul quotidiano “Il Giorno” questa proposta:

L’idea è alquanto suggestiva. E sarebbe un vero regalo alla città. È questa: esporre in modo permanente nel salone dell’anagrafe comunale di via Larga l’opera – dimenticata – di Enrico Baj, “I funerali dell’anarchico Pinelli”. Opera di dimensioni monumentali, di tre metri di altezza e 12 di lunghezza, con 18 figure ritagliate nel legno e unite con la tecnica del collage. Da anni in cerca di una collocazione definitiva, appartiene alla Fondazione Marconi che proprio in questi giorni la espone nelle sue sale.

A dirlo, intervenendo in Consiglio comunale, è stato l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno: «Stiamo cercando di capire se è fattibile questa ipotesi di esporre il quadro nel salone di via Larga, che ha un valore simbolico per la vicinanza a piazza Fontana ed è frequentato da tantissimi cittadini». Per Del Corno «questa sarebbe la collocazione migliore». Terminata nel 1972 , l’opera racconta la storia di una moglie e due figlie che hanno perso un marito e un padre, sospettato ingiustamente di essere l’autore della strage di piazza Fontana. Allora Baj disse: «Mi si reclamava una rappresentazione e rappresentazione ho fatto, affinchè testimonianza resti del fatto, di lui, delle violenze subite, del dolore di Licia, di Claudia e di Silvia». Fu donata a Licia, la vedova di Pinelli, che non sapeva dove tenerla, così l’artista riuscì a venderla alla Fondazione Giorgio Marconi, donando il ricavato alla famiglia Pinelli.
Mio padre avrebbe piacere di regalarla al Comune – interviene il figlio, Giò Marconi dell’omonima Fondazione – e sarebbe un bellissimo regalo alla città. Siamo disponibili a fare tutte le valutazioni con l’assessore Del Corno circa la collocazione in via Larga e la tutela dell’opera. Se ne parla da diverso tempo e penso che anche alla famiglia di Giuseppe Pinelli farebbe piacere. Un modo per non dimenticare e trasmettere una vicenda storica ed umana alle nuove generazioni». Nel 2012, dopo 40 anni, l’opera fu esposta a Palazzo Reale, nella sala delle Cariatidi, per iniziativa di Giuliano Pisapia.

Gli invernali, capitolo primo

2

Ovvero, per una “Metafisica della sessualità” in Luca Ricci.

di Matteo Pelliti

Cosa c’entra Schopenhauer con Luca Ricci? Ah, saperlo… Fatto sta che, cercando un libro da appaiare in fotografia – le coazioni da libri instagrammabili – alla bellissima copertina di Saul Steinberg di “Trascurate Milano” (La Nave di Teseo, 2018, pp.86), l’ultimo racconto anti-natalizio di Ricci, mi è caduto in mano proprio quel libretto, “Metafisica della sessualità”, in cui il filosofo tedesco mette in fila le sue idee sui paradossi – e la natura – della coniugalità e della procreazione. Cercherò qui di capire il perché quel libro sia caduto dalla mia libreria proprio mentre leggevo l’ultimo Ricci e anche di spiegare come mai i suoi racconti vengano talvolta fraintesi: sembra che parlino di sesso e invece stanno parlando di scrittura. Milano è un pretesto perfetto, a partire dal titolo preso in prestito da Buzzati, e poiché a Roma l’inverno è inibito dal suo umidore mediterraneo, spostandoci dai recenti “Gli autunnali”, l’ultimo romanzo di Ricci là ambientato, non potevamo che ritrovarci nella capitale del Nord per vivere questo apologo dark, sospeso sul “baratro dell’abisso” morale, nella capitale morale, appunto.

Il primo sospetto che prende il recensore è quello di trovarsi di fronte al primo capitolo di una nuova raccolta di figure della contemporaneità censite da Ricci, Gli Invernali appunto, che costruisce narrazioni di antropologia fantastica intorno al tema della coppia, dell’amore, delle relazioni di forza (possesso, dipendenza) nelle infinite declinazioni dell’eros (la cui massima perversione, come è noto, sta nella monogamia). “In definitiva ciò che attira con tanta esclusività e con tanta forza due individui di sesso diverso l’uno verso l’altro è la volontà di vivere dell’intera specie la quale anticipa un’oggettivazione della sua essenza corrispondente ai suoi fini nell’individuo che quella coppia può generare”, e ancora: “L’impulso che nella coscienza individuale si manifesta come istinto sessuale in generale, e non si indirizza verso un determinato individuo dell’altro sesso, tale impulso è, in se stesso e fuori dal fenomeno, la semplice volontà di vivere. Invece l’impulso che appare nella coscienza come istinto sessuale rivolto a un determinato individuo, tale impulso è, in sé, la volontà che un ben determinato individuo ha di vivere. Ora, in quest’ultimo caso, l’istinto sessuale, che pure è in sé un bisogno soggettivo, sa assumere molto abilmente la maschera di un ammirazione oggettiva e riesce così a ingannare la coscienza: la natura ha bisogno infatti di questo stratagemma per realizzare i suoi fini”. Sembra un cinico filosofema di quelli che, solitamente, gli amanti di Ricci si mettono a fare a letto, monologando con le partner dopo un rapporto, invece è la voce di Shopenhauer. Il molestatore del nostro racconto riflette sulla perversione più grande che l’uomo abbia mai inventato, un atto di palese violazione di tutte le regole imposte da madre natura, cioè la monogamia, il decidere di vivere tutta la vita con un’unica persona; risuonano anche qui le pagine Schopenhauer: una natura che ci guida e ci tiranneggia. Quando Ricci fa dire al suo molestatore che la nostra follia sta nell’avere innescato – ingannati dall’eros – “il processo generativo” e non c’è modo di tornare indietro di “riportare il seme dentro i coglioni”, esprime in realtà questa vertigine: la consapevolezza che in ogni scopata fecondativa siamo scopati dalla Natura stessa. In questa illusione di seduzione vi è qualcosa di profondamente simile al meccanismo seduttivo della scrittura, al potere seduttivo che l’autore vuole esercitare sul lettori. Molto dense e perfettamente cesellate, poi, sono le pagine dove viene evocata la galleria di fantasmi dei progenitori dai quali deriviamo, e la nostra progenie come risultato ultimo di questa selva di fantasmi scomparsi (riemerge qui il tema, già presente in Manganelli, della famiglia come “associazione a delinquere”). Segnalo, a margine, alcune pagine di densa prosa poetica del racconto: un monologo del nostro protagonista intrecciato allo studio della tabellina del nove da parte della figlia prima di entrare a scuola, pagine che – a mio gusto – valgono l’acquisto del libro.

C’è una certa continuità tra i monologhi sul sesso, sulla coppia, come se queste coppie di amanti trasmigrassero tra i letti nelle stanze di alberghi tra un libro all’altro per proseguire un unico trattato teorico (vedi la figura bianciardiana di uno dei racconti de I difetti fondamentali, ma anche certe pagine de Gli autunnali) per le quali si può dire che esista un unico libro che Ricci sta scrivendo, tessendo, con ostinata vocazione. Al recensore si chiede, di solito, di dare anche un accenno di trama senza rovinare il gusto della sorpresa, e allora dirò solo che c’è una ragazzina violenta e nichilista che si fa molestare in metropolitana, uno sporcaccione fedifrago con moglie, figlia e amante storica che molesta la ragazza per un confuso male di vivere, una città capitale morale (ora non ricordo bene i dati sul consumo di cocaina a Milano, ma fa niente…) ritratta nel precipizio del Natale, distopia dei buoni sentimenti commerciabili, con una luce esatta (ecco un altro tratto caratteristico di Ricci: usare la luce per descrivere l’urbanità).

Nell’epoca del #metoo, quale migliore occasione che scrivere una favola natalizia scura che abbia come protagonista un molestatore? E riuscirà il nostro autore a difendersi dalle accuse di misoginia, sessismo, istigazione alla violenza di genere? Il recensore lo spera, appellandosi alla libertà della creazione letteraria e all’intelligenza, ormai poco diffusa, di capire che l’autore – in virtù di quella libertà – non necessariamente coincide con le azioni e i pensieri dei personaggi che s’inventa. Ma, si sa, viviamo tempi un poco dogmatici e scarsamente intelligenti, per questo abbiamo un gran bisogno di buona letteratura.

Il trauma e le radici ( veniva da Mariupol)

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di Valentina Parisi

Natasha Wodin Veniva da Mariupol, L’orma, 2018, pp 384, euro 21, traduzione di Marco Federici Solari e Anna Ruchat

Tra le pagine più rimosse della storia europea che, malgrado l’accelerazione temporale veicolata dai media, non possiamo non considerare recente, almeno in virtù dei legami di consanguineità che ci legano ai protagonisti più o meno involontari di tali vicende, v’è indubbiamente quella degli Zwangarbeiter, ossia dei “lavoratori forzati” deportati durante la guerra in Germania e nei territori annessi dal Terzo Reich e costretti a contribuire allo sforzo bellico come manodopera ridotta in stato di schiavitù. Un fenomeno che riguardò anche il nostro paese, dal momento che circa seicentomila uomini dell’esercito italiano catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943 si rifiutarono di continuare a combattere al fianco di Hitler e Mussolini e scelsero di restare nei campi di detenzione nazisti, benché lo status di internati militari (e non di prigionieri) elaborato appositamente dal Führer per designarli li ponesse al di fuori delle garanzie stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 1929, consegnandoli a condizioni di vita particolarmente dure.

Se chi tra loro sopravvisse poté comunque far ritorno a casa, in un’Europa devastata dai bombardamenti, seguendo itinerari tortuosi come quelle descritti da Primo Levi nella Tregua, così non fu per i molti Ostarbeiter provenienti dai territori orientali annessi al Reich che non rientrarono mai più in Unione Sovietica – sarebbero stati immediatamente accusati di collaborazionismo. Come tutti gli ex deportati che rimasero segnati per sempre dall’esperienza della riduzione in schiavitù e dell’annientamento della propria dignità individuale, anche loro avrebbero certamente sottoscritto l’affermazione di Mordo Nahum, il “Greco” della Tregua: “Guerra è sempre”. Sempre, e assume di volta in volta le forme della disperazione, dell’obnubilamento psichico, dello spossessamento non solo nei confronti di se stessi, ma anche della propria infelice progenie, messa al mondo in un estremo slancio di attaccamento alla vita.

Ed è proprio la prospettiva di questi ultimi – figli o nipoti – a risultare oggi centrale, stante la scomparsa dei testimoni oculari, in quei testi di carattere memorialistico che continuano a ruotare, ossessivamente, intorno al secondo conflitto mondiale e alle sue conseguenze. Se fotografie, lettere e altri documenti attinti dagli archivi familiari spesso si rivelano reliquie-relitti, frammenti muti interrogati invano, un aiuto inatteso nella riscoperta delle proprie radici arriva talora da quel calderone eterogeneo che è Internet. O, almeno, questo è lo spunto di partenza di Veniva da Mariupol  di Natascha Wodin, autrice tedesca di origini ucraine nata nel 1945 a Monaco di Baviera, di cui Einaudi aveva già pubblicato nel 1995 il romanzo Avrò vissuto un giorno nella resa di Paola Albarella.

Il viaggio nel tempo che ha condotto la Wodin a ricostruire quasi per intero la storia della propria famiglia inizia quasi “per gioco”, quando in una notte d’estate l’io narrante (una traduttrice e scrittrice già in là con gli anni) digita il nome completo di sua madre sulla barra di ricerca dell’equivalente russo di Google. Notevole è il suo stupore nel vedere che il motore di ricerca le restituisce subito i dati anagrafici di lei, rinviandola a un sito dal nome curioso, Azov’s Greeks. Dunque Evgenija apparteneva a quella sparuta minoranza greca che risiede tuttora nella cittadina ucraina di Mariupol’, sulle rive del mar d’Azov? Ma la nonna Matilda non era piuttosto italiana, come le sembrava di ricordare? Assediata da questo e mille altri dubbi, l’io narrante intraprende una lunga ricerca a ritroso, a dispetto delle strategie di rimozione che avevano caratterizzato fino a quel momento la sua esistenza.

Una scelta non sorprendente, stante l’eredità tragica che le era stata involontariamente imposta. L’autrice aveva infatti solo dieci anni, allorché sua madre era uscita di casa in un giorno d’ottobre del 1956 per togliersi la vita non lontano dall’insediamento di baracche in cui abitava con altre displaced persons – così venivano eufemisticamente chiamati nella Germania del dopoguerra gli Ostarbeiter come Evgenija, che a ventitré anni aveva lasciato Mariupol’ insieme al marito per lavorare in una fabbrica del gruppo Flick, vicino a Lipsia. Comprensibile dunque che la Wodin, fin dall’infanzia trascorsa nel ghetto degli ex deportati, avesse tentato di costruirsi un’identità alternativa a quella di partenza, dimenticando anche quel poco che ricordava della madre. Veniva da Mariupol riflette il processo inverso e cioè un’irresistibile, tardiva urgenza che la spingerà quasi parossisticamente a indagare quanto fin lì aveva solo desiderato ignorare.

Un viaggio a ritroso che la costringerà anzitutto a rivedere l’immagine stereotipata che si era fatta del luogo di nascita di Evgenija – una specie di Siberia eternamente ricoperta di neve, ben diversa dall’assolata Mariupol’ della realtà. La protagonista rimarrà piacevolmente sorpresa nello scoprire che da bambina non si era poi tanto allontanata dal vero quando, per impressionare i coetanei tedeschi che la maltrattavano, sosteneva di discendere da nobili russi. I suoi avi materni d’origine italiana erano infatti tra gli abitanti più facoltosi di Mariupol’, avendo messo insieme una piccola fortuna con il commercio di legname.

Tuttavia dalla ricerca emergono particolari sempre più drammatici, come ad esempio l’arresto della zia Lidia negli anni del terrore staliniano e il doppio suicidio della prozia Ol’ga e della cugina Marusja (che negli anni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre non aveva potuto iscriversi all’università a causa della sua origine privilegiata). Il senso di vuoto che aveva perseguitato Evgenija non era dunque dovuto esclusivamente alla deportazione, ma era iniziato già in patria, a causa delle tante sciagure familiari e dell’atteggiamento anaffettivo della nonna Matilda. Eppure per l’autrice lo shock maggiore sarà scoprire come Kirill, il nipote di Lidia ritrovato sempre grazie a internet, abbia ucciso sua madre Svetlana senza apparente motivo: “Sapevo che c’erano degli assassini in giro per il mondo, sapevo anche che tra questi alcuni avevano ucciso la propria madre, ma era possibile che proprio io fossi imparentata con uno di loro? Io che per tutta la vita non ero mai stata parente di nessuno?”

Storia di una riappropriazione “in rete” delle proprie radici, Veniva da Mariupol è dominato da un’intonazione tutta particolare. La sua cifra principale è un’emotività trattenuta, smorzata, quasi in sordina, si potrebbe dire con una metafora musicale che pare tanto più giustificata, visto l’amore della Wodin per il canto. Perfino i dettagli più terribili sono riportati con estrema asciuttezza – si pensi a quando l’autrice, nel riferire che Lidia era stata violentata durante l’interrogatorio nella sede dell’Nkvd a Mariupol’, aggiunge laconicamente che questa era la procedura standard adottata nei confronti delle arrestate. Tale sobrietà si accompagna a un’inevitabile malinconia di fondo: man mano che avanza nella sua indagine, la Wodin si rende conto che Lidia è morta solo nel 2001 e quindi avrebbe potuto benissimo conoscerla, così come avrebbe potuto incontrare il fratello di lei, lo zio Sergej, celebre cantante lirico che abitava a Kiev non lontano dal Majdan: “…Continuavo a cliccare sul file con la voce di Sergej e non sapevo cosa fosse più forte in me, se la felicità per ciò che avevo trovato o il dolore per quel che avevo perso”.

Se le pagine dedicate a Lidia sono basate sulle memorie che ella stessa aveva messo su carta a ottant’anni (e risentono di un effetto di relata refero un po’ goffo), molto più coinvolgente è la terza parte, in cui l’autrice è costretta a dare la stura alle proprie supposizioni per ricostruire l’approdo dei genitori a Lipsia. Significativa è la penuria di documenti su questo capitolo della loro vita, a ulteriore riprova del fatto che il tema degli Ostarbeiter è stato finora cancellato dalla coscienza europea, anche, come ammette la Wodin, a causa della stessa generazione dei figli, impegnati a prendere le distanze dal surplus di tragicità che i genitori avevano consegnato loro. Proprio per questo s’immagina quale sforzo sia costato all’autrice settantenne figurarsi Evgenija ridotta nella fabbrica di Flick “a quello stadio di denutrizione al di là della dignità umana, per cui si pensa solo ed esclusivamente al cibo”. Oppure affrontare a viso scoperto il trauma del suicidio di lei, cercando di comprendere quale abisso di dolore l’avesse condotta a quel gesto.  O, più semplicemente, tornare alle discriminazioni patite in prima persona durante l’infanzia, quando ai Russenkinder figli degli odiati “vincitori” sovietici – in realtà ex schiavi della Germania nazista – si faceva pagare quotidianamente il fio di una sconfitta troppo cocente.

 

 

 

Il loro campo e il nostro

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di Fabrizio Bajec

Ci è stato detto che quando il popolino insoddisfatto delle proprie condizioni sociali si arrabbia ha l’apparenza di una massa informe, disarticolata, piena di rancore, con la bava alla bocca, ma incapace di organizzarsi.

Tasàr. Animale sotto la neve

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di Francesca Matteoni

C’è un rifugio, c’è un monte lì vicino. C’è un campo, qui vivono confusi i solitari. Ogni tanto gli esseri salgono sul monte per guardare dall’alto la terra di Zard all’orizzonte.

Così inizia il nuovo libro di Ida Travi, quinto e ultimo capitolo di una vera e propria saga poetica che ha per protagonisti i Tolki, i parlanti (dall’inglese talk), coloro che hanno un corpo di parola. Abitano la terra di Zard, familiare e ignota al tempo stesso; parlano da un vuoto, uno spazio innevato, portando le cose in essere, quasi a dare senso a un mondo disgregato e, soprattutto, al tempo.

Ti ricordi le rose? Ti ricordi
Quando c’erano le rose?

Un altro tempo racchiuso nel fiore, un tempo forse solo in attesa di tornare dopo un lungo inverno. Scrive Daniele Barbieri nella sua nota conclusiva al libro: “Non è mai chiaro del tutto che cosa distingua il mondo dei Tolki dal nostro (…). Attraverso tutte le cinque raccolte la sensazione che qualcosa di terribile possa sempre accadere; che si viva, insomma, sull’orlo dell’abisso. Non se ne parla mai, in verità. Il discorso è sempre legato al dettaglio, alla situazione del momento, alle piccole paure o necessità del presente. Ma è forse il tono a tradire la potenzialità della tragedia: non quello che le parole dicono, insomma, ma il modo in cui lo dicono”.
I versi sono frammenti di dialoghi fra i personaggi – mormorano nel campo, sulla neve, nel casolare, dall’orizzonte indefinito di luogo ai margini della civiltà, poco prima dei boschi, o di pianura da cui salire, ma dove è facile smarrirsi e il cielo è lontano.

Saliremo sul monte
la neve sopra di noi
l’asino sotto di noi
e intorno le volpi
gli angeli, gli spiriti, i villaggi.

Variano dall’asserzione alla domanda, trascendono il quotidiano cui pure fanno continuo riferimento, diventano lingua spirituale, scarna – la lingua di chi deve stare nella verità. E la verità è sempre insostenibile, va detta sghemba, suggeriva Emily Dickinson, evocata nelle cose povere di una vita – un pettine, una brocca, del pane, un bottone, un chiodo. Reliquie che assicurano il vivente umano della sua presenza, che sembra sempre minacciata e cerca conforto nell’altro cui si rivolge. Noi non leggiamo semplicemente i versi, li udiamo e vediamo, siamo portati dentro da Katrin/Katarina, Fedòr, Ur, Kraus, Sunta,  in modo “affilato e vorticoso”, per parafrasare una definizione di Alessandra Pigliaru, fin dall’inizio attenta osservatrice dei Tolki.  La poesia della Travi scava in responsabilità antiche (qualcosa è stato fatto e non si trova riparo), così come nei desideri, nel vagheggiare  un passato incollocabile, che ci riguarda.  Non seguiamo una storia, siamo afferrati da un discorso che ci travalica, travalica l’ordinario in un sogno lucido dove avviene di incontrare cosa non siamo mai stati, sebbene ci assomigli. Questa sospensione dell’incredulità, un incantamento reale, è la stessa che riconoscerà chiunque abbia sentito Ida Travi dire le sue poesie. E per me è impossibile scindere i libri dalla voce di Ida, ferma, gentile, straniante a tratti oracolare, che rende dignità al nominato e nominabile. Un invito a credere e ricordare, quasi fossero infine lo stesso verbo. Ma chi, cosa?
Forse, mi sono detta più volte, la terra di Zard non è altro che quel paese dell’infanzia divenuto inaccessibile a causa del tempo, eppure fisso, tradotto in modo sciamanico negli oggetti. C’è un bambino prezioso, Antòn, verso cui la poesia si raccomanda:

Devi trattarlo come un uomo, il bambino
devi trattarlo bene, fin dalla nascita
come se avesse la sua volontà

C’è la neve, epifanica e totale, che azzera e spinge lo sguardo verso l’esperienza interiore.
In questo libro tuttavia affiora a tratti quanto è avvenuto in un momento antecedente, una regione e un vivere da cui i personaggi sono stati costretti a partire o che hanno volontariamente lasciato indietro. Siamo alla conclusione e quindi a una risoluzione, per quanto intuitiva e aperta.

Scrive Alessandra Pigliaru: “Diversamente dalle sillogi precedenti, qui i Tolki acquistano la struttura temporale di un tempo trascorso prima che viene restituito a una modernità nota, seppure abbandonata”.  Si parla di schermo, giostra, accendino, automobile oggetti che infrangono la dimensione arcaica e ci riportano al contemporaneo, di cui i Tolki sono consapevoli.  E insieme ai relitti del moderno appare l’animale, l’asino Tasàr, memore del fratello Balthazar nel film di Bresson.  Zampa, coda, muso: attraverso di lui l’immobilità in cui sembra immersa la terra cede, si infrange;  verso di lui c’è un moto affettivo, che dà un nuovo valore alle cose.

C’è del sentimento nella neve,
 
ed ha consistenza e respiro: è nell’occhio animale, nella sua sopravvivenza, nel suo portare, senza lamento, un destino.

L’animale è sacro, non dovete
trattarlo così. Non lo vedete il lampo?
Il diluvio sta per venire
ed è per cattiveria, è solo
per la vostra cattiveria
 
Ha due occhi come voi
ha il naso come voi, come voi
quando portavate gli zoccoli
 
Ha la fronte, come voi, e dietro
la fronte si stende il cielo nero
 
E le nuvole, e il volo degli uccelli
e l’amore che arriva di notte
l’amore che arriva di notte
e si siede sulla branda
non appena si spegne la luce
 
Non appena si spegne la luce
Come voi, come voi
Tasàr, è con voi, nelle tenebre.

Grazie al raglio di Tasàr cade il velo illusorio, perfino i nomi rivelano la loro natura di compromesso col reale; l’asino  fa la carità ai personaggi,

Voi non sapete da dove venite

E no, tu non sei Katarina
e Fedòr non si chiama Fedòr
chissà come si chiama Fedòr.

Essi tornano, si spogliano grazie all’animale, possono finalmente restituirsi al fiume, alla pietra, alla terra. Può la poesia liberare se stessa dal senso e dalle spiegazioni, per dare solo una piccola luce, il piccolo coraggio di guardare.
Nell’asino si condensa tutta la capacità di provare compassione, di difendere quel che resta del bene, un’accettazione dell’esistenza e della sua grazia, più grande dei personaggi che parlano, più grande degli umani che si affannano e perfino più umile e quieta. La parola viene data quindi a chi parola non ha, a chi sta e spera speranze semplici, impronunciabili.
Il bambino verso cui bisogna essere responsabili si avvicina all’animale su cui gettiamo fatiche e crudeltà,  e che pure resta accanto: l’altro, l’altra vita, la fratellanza del tempo d’oro, che forse non si può riattuare, ma chi chiede di essere protetta, preservata,  ultimo e definitivo dei doveri, prima e più forte delle bellezze.

Il bambino e l’animale
sembrano fratelli, sono uguali
aspettano così tranquilli
 
Li chiamo, e non girano la testa
sono d’oro, sono nel tempo d’oro
io non li stacco dalla loro eternità
 
Dovrebbero farci scuola, dovrebbero
dirci cosa c’è nell’oro
perché io l’ho perduto l’anello
e tu?

Ida Travi, Tasàr. Animale sotto la neve (Moretti & Vitali, 2018)

adesso vai (1/2)

2

di Giacomo Sartori

 

 

 

 

 

 

adesso esci da me
scendi i gradini
scarruffati dal maestrale

Pasolini traduttore di Eschilo. Il caso dell’Orestiade

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di Francesco Ottonello

«La trilogia dell’Orestiade è probabilmente il pezzo del teatro greco che io amo di più, o perlomeno che ho amato di più»[1], con queste parole Pasolini si espresse in un’intervista per raccontare del suo incontro con la trilogia di Eschilo, il primo padre della tragedia occidentale. La traduzione pasoliniana, che si svolse nel giro dei pochi mesi concessigli (tre circa) e fu consegnata il 15 gennaio 1960 a Vittorio Gassman che gliela propose, rappresenta un punto di svolta nella biografia artistica dello scrittore.

Risaputa è la presenza del mondo antico nell’opera pasoliniana, studiata approfonditamente riguardo la grecità nel notevole saggio La Grecia secondo Pasolini di Massimo Fusillo (1996), che sottolinea il carattere ossessivo e l’ecclettismo intermediale nella ripresa di motivi legati soprattutto al mito, al rito e al sacro. Basti pensare alle peculiari reinterpretazioni delle tragedie greche in chiave cinematografica quali Edipo Re (1967), Appunti per un’Orestiade africana (1968-1969), Medea (1970), lo spettacolo teatrale Pilade (1966-1967). Meno nota forse, ma particolarmente interessante, è l’attività di traduttore di Eschilo, nello specifico dell’Orestea, o Orestiade come Pasolini stesso preferiva chiamarla. Ci si può legittimamente chiedere se la trilogia tragica portata in scena il 19 maggio 1960 al teatro di Siracusa (per l’INDA) possa essere ancora la stessa opera dell’autore greco, o meglio – se non la stessa – un’opera che seppure trasposta in altra lingua ed epoca, in maniera originale e ricreativa, sia ascrivibile all’autorialità eschilea. La risposta non è certo immediata e a questo interrogativo è dedicato il mio saggio intitolato Pasolini traduttore di Eschilo. “L’Orestiade”. Possibilità e limiti traduttivi nella tragedia greca (GRIN Verlag, 2018), da cui cercherò di mettere in luce qui alcuni punti.

 

Necessaria una premessa circa l’occasione di tale operazione. Difatti, non fu propriamente Paolini sua sponte a decidere di prendere tra le mani il testo eschileo, per renderlo in un nuovo habitus, ma l’opportunità nacque per un evento che potremmo dire fortuito, ovvero la richiesta da parte di Gassman di tradurre l’intera trilogia per una messa in scena che avvenne sotto la regia di Gassman stesso e Luciano Lucignani, rientrando all’interno del progetto di Teatro Popolare di Gassman. La scelta di Pasolini come traduttore atipico – in linea con gli scopi di una netta e intransigente interpretazione “storica” – fu ricercata dai registi, che rifiutavano una resa “archeologica” o “estetica”, condividendo le teorie marxiste contenute nell’Aeschylus and Athens (1941) di G.D. Thomson. Al di là di ciò, come sottolinea l’autore nelle Nota del traduttore[2], seppure il pretesto fosse allora «in un certo senso causale», «non è stato un caso» decidere di tradurre l’opera. Nella stesa intervista già citata Pasolini dichiarò:

«Da allora ho cominciato ad avere per il teatro greco un amore che è rimasto per molto tempo come sopito in me, ed è improvvisamente rifiorito con violenza e addirittura con irruenza in questi ultimi due anni [1966 e 1967] in cui ho scritto io stesso per il teatro, e scrivendo per il teatro sono stato incapace di uscire dallo schema del teatro greco».

Infatti proprio dal 1960, a partire da questa traduzione, ci fu il fiorire di lavori ispirati più direttamente dalla grecità, che comprende l’opera cinematografica e teatrale, ma anche il romanzo incompiuto Petrolio, considerato dall’autore come un poema «che avrebbe dovuto contenere delle strane Argonautiche»[3]  oltre che dei «versi greci della parata dell’Iliade – o latini dell’Eneide»[4]. Inoltre, il 1960 coincise con la “conversione” all’attività di regista cinematografico (iniziò a scrivere il soggetto di Accattone), capitale nel suo percorso artistico, poiché l’espressionismo finisce quando inizia il cinema, il cosiddetto “cinema di poesia”, rappresentante nella visione pasoliniana una forma esasperata di espressionismo. Proprio un gusto espressionistico, in parte, può essere visto come una delle cifre stilistiche del suo dibattuto lavoro traduttivo, caratteristica propria anche delle raccolte poetiche precedenti alla sua Orestiade.

Tralascerò in questo contesto di parlare estesamente delle accese polemiche circa l’operazione pasoliniana, che indubbiamente a livello di messa in scena ebbe un grande successo di pubblico, come riportato da un giovane Andrea Camilleri per “RADIOCORRIERE TV” (N° 12 del 18.06.1960):

«Gli spettatori del Teatro Greco usano comprare, assieme ai cuscini, anche il volumetto della traduzione e con esso si comportano un po’ come i frequentatori dei teatri lirici. Negli anni scorsi abbiamo avuto modo di osservare come il volumetto si rivelasse in certi momenti indispensabile per la comprensione delle battute e non per difetto d’acustica o di dizione ma proprio perché i traduttori, rispettosi del testo originale, si erano preoccupati più della fedeltà filologica che non della necessità di far chiaramente capire quanto veniva detto. Quest’anno invece il volumetto, durante gli spettacoli, è rimasto chiuso sulle ginocchia dello spettatore».

Questo fatto, seppure eloquente, non è necessariamente indice di quella mancanza di fedeltà all’opera eschilea che gli verrà rimproverata da alcuni filologi, quali al tempo Enzo Degani (1961) e più recentemente da Federico Condello (2012), e che verrà apprezzata, invece, da altri studiosi più sensibili al contesto realizzativo della traduzione (quali Nadia Fagioli, Umberto Albini, Massimo Fusillo, Paolo Lago). Questa bipartizione della critica non deve sorprendere, dato che in primis ciò che è fonte sotterranea di contese dialettiche e divergenze è spesso proprio il manchevole accordo sul concetto di fedeltà di una traduzione e sulle possibilità e i limiti che un traduttore debba costringersi a rispettare. Risulta fondamentale considerare, infatti, la differenza di una traduzione eseguita per ambienti settoriali, o non pensata per una sua messa in scena, da quella realizzata per un evento teatrale, atta a trasmettere qualcosa anche a livello più immediato per avere un riscontro positivo. Per riuscire in ciò ed espletare la «valenza teatrale»[5] (Albini), una traduzione non può che essere viva a livello linguistico e stilistico, ovvero utilizzare una lingua contemporanea, inserendosi nel contesto realizzativo con un senso del presente.

 

Ora, possiamo addentraci nelle modalità con cui Pasolini si avvicinò ad Eschilo; come rapportarsi a un testo classico, con quale coraggio e con quale umiltà, con quale ardore e con quale timidezza? Questo pare essere l’originario interrogativo con cui dovette scontrarsi Pasolini per l’approccio a questa traduzione incentrata sulle vicende mitologiche di Oreste.

La prima parola chiave che nella pagina iniziale della Nota del traduttore compare ben tre volte è infatti «istinto»: non potendo che essere «impreparato» di fronte a un confronto di tale portata e da condurre in così breve tempo, il poeta scommise sul suo istinto, sull’enthusiamós, sulla propria naturale vicinanza alla sensibilità dell’opera eschilea e sui mezzi tecnici atti a realizzare tale traduzione, ovvero la lingua del suo idioletto. Al poeta, quasi come se non avesse altra scelta per una resa ottimale, «non […] è restato che seguire il […] profondo, avido, vorace istinto», fruendo dei tre testi consultati per la traduzione (francese, inglese, e italiano, rispettivamente a cura di Paul Mazon, George Thomson, Mario Untersteiner) con la «brutalità dell’istinto», e «nei casi di discordanza, sia nei testi, sia nelle interpretazioni» fare «quello che l’istinto […] diceva». A proposito di un mezzo espressivo da egli posseduto e utilizzabile per questa traduzione, ovvero fondamentalmente l’«italiano […] delle Ceneri di Gramsci», egli aggiunge: «sapevo (per istinto) che avrei potuto farne uso».

Tuttavia, accanto all’istinto, che rappresenta la fase dell’impulso, si può notare un momento di pausa, meditazione, ragione, che si esplica quando egli decide di «combattere» pazientemente contro l’istinto, quando compare «la timidezza di fronte a un grande testo […], che si presenta sotto l’aspetto linguistico dell’inibizione alla traduzione», quando procede «limando» il «sapore» istintivo della prima stesura, quando attua una «correzione di ogni tentazione classicista», seppure «disperata».

Come nella produzione artistica pasoliniana e nell’esistenza stessa condotta dal poeta, è riscontrabile anche in questa operazione un binarismo dialettico che tentenna, oscilla, entra in crisi, si contraddice e fa della contraddizione la sua caratteristica, tanto da essere spesso refrattario ad una sintesi, ad un terzo momento. Ciò nonostante, in questo caso il “terzo momento” è il risultato traduttivo, la trasposizione di una trilogia, in cui nelle Eumenidi – col termine della catena di espiazioni che verte da più generazioni sugli Atridi – «le Maledizioni si trasformano in Benedizioni», ciò che si rivelerà poi essere per l’ultimo Pasolini “apocalittico” solo una grande illusione per il presente. Il finale dell’Orestiade – a differenza dell’Edipo Re sofocleo e della Medea euripidea – si conclude con un finale positivo e redentivo, non è un caso infatti che il film pasoliniano a riguardo non sia mai stato portato a compimento, sfociando soltanto nella forma aperta e in-concludibile degli Appunti per un Orestiade africana. Ed anche nel Pilade, che è l’altra delle tre opere pasoliniane ispirate al mito di Oreste e quella più mitopoietica in assoluto – una personale ed inventata continuazione della trilogia greca – l’utopia della sintesi rappresentata dalla trasformazione delle Erinni in Eumenidi è incrinata; rimanendo sospesa nell’incertezza, nel dubbio. Tuttavia, in quel momento, la visione del poeta era ancora nutrita da un’idea di tempo lineare, da una speranza, da un’utopia, e la lettura dell’episodio delle Eumenidi e del suo acme, ovvero «quando Atena istituisce la prima assemblea democratica della storia», al poeta «dà una commozione più profonda e assoluta» di qualsiasi vicenda di alcun’altra tragedia.

Non mi soffermerò qui troppo a lungo sull’interpretazione ideologica. Mi limito a evidenziare che Pasolini elaborò una vera e propria reinterpretazione personale, pur rimanendo influenzato dall’ipotesi di Thomson per cui il mito di Oreste rappresenterebbe il passaggio da una civiltà prerazionale e tribale basata sul ghenos e retta da un ideale di vendetta, a una società civile e democratica retta da un’ideale superiore di giustizia. Nonostante Pasolini affermasse la preminenza assoluta del significato politico nella tragedia eschilea, la politicità dell’opera non appare esclusiva o limitante, anzi, a mio avviso presuppone una dimensione antropologica. Infatti, all’interpretazione pasoliniana si può meglio associare quella antropologica di Johann Jakob Bachofen, che colse nella trilogia eschilea l’avversato passaggio da diritto matriarcale a diritto patriarcale e per cui la legge materna verrebbe dal basso, da una realtà più ctonia del mondo naturale, mente il Dio padre dall’alto, da un’idea di natura/realtà celeste.

 

Al di là dell’interpretazione ideologica, fu proprio la traduzione in sé a presentarsi come totalmente nuova rispetto alle precedenti. Per prendere in esame il punto di vista stilistico e inquadrare la tipologia di traduzione eseguita da Pasolini sono illuminanti le parole da egli pronunciate nella già precedentemente citata intervista:

«Ho cercato di ridare il testo greco non attraverso una traduzione letterale, che è impossibile, perché i significati delle parole cambiano in ogni era, e non ho cercato nemmeno una mediazione classicistica, ho cercato solo di rifare una traduzione un po’, come si dice, per analogia».

È chiaro da questo passo che Pasolini rifiutò una traduzione più letterale, non ritenendola di giovamento alla restituzione del senso profondo dell’opera, oltre che impossibile per lo scopo prefissato. Pasolini mirava infatti a valorizzare l’incontro/scontro tra la poetica del traduttore e la poetica del tradotto. Attraverso un processo di varie sostituzioni per «analogia», puntava a «ridare il testo greco» e non a esprimere meramente sé stesso o una sua propria e originale ideologia. Difatti, egli rivive personalmente nell’intimo il testo eschileo per arrivare all’Einfühlung[6], traduce entusiasmandosi. Seguendo il procedimento descritto da Steiner in After Babel (1975), prima dell’«incorporazione» e dei finali «restituzione» o «reciprocità» e dopo l’iniziale «fiducia», è ben descritta da Pasolini stesso la fase di vera e propria «aggressione»[7] al testo eschileo, la quale non è finalizzata a disintegrare, ma a preservare. Egli infatti scrive nella nota di essersi «gettato sul testo, a divorarlo come una belva, in pace: un cane sull’osso, uno stupendo osso carico di carne magra, stretto tra le zampe, a proteggerlo, contro un infimo campo visivo».

Nonostante l’istintività e la consonanza con il sentire eschileo (Pasolini in conclusione alla Nota del traduttore scrive che Eschilo è «un autore come io vorrei essere») permangono delle problematicità all’interno del processo traduttivo. Un problema fortemente percepito è quello del linguaggio, poiché mancava un autentico italiano parlato e Pasolini non voleva di certo utilizzare un linguaggio retorico e altisonante, quale quello adoperato da Ettore Romagnoli  (1921, traduzione in endecasillabi). Il testo eschileo non è pomposo o ampolloso come saremmo portati a pensarlo, ma denso concettualmente e scarno allo stesso tempo, ovvero per Pasolini «estremamente strumentale, talvolta fino a una magrezza elementare e rigida» con «una sintassi priva degli aloni e echi» a cui il classicismo ci ha abituati. Pertanto, egli tende a «modificare continuamente i toni sublimi in toni civili» e «da ciò un avvicinamento alla prosa, all’allocuzione bassa, ragionante»[8]. Ciò non significa volgarizzare o appiattire il testo; la sua operazione traduttiva è pur sempre poetica tanto nella sostanza quanto nella forma, poiché utilizza versi liberi e la traduzione seppure si avvicini alla prosa, rimane poesia. La poeticità è conservata attraverso riproduzioni di figure retoriche quali assonanze, allitterazioni, parallelismi ed impiego, talvolta, di termini preziosi vicini alla poesia ermetica. Ben riscontrabile nella traduzione di Pasolini è la tecnica che Franco Fortini chiamerebbe «compenso poetico»[9], per cui il traduttore non può riprodurre gli stessi effetti espressivi dell’originale, ma può riprodurne di nuovi cercando di compensare la perdita. Secondo questa modalità compensativa, «il traduttore attinge ad un repertorio personale di forme e stilemi e procede ad una loro combinazione in presenza, o in occasione, del testo che traduce» e poiché «la traduzione costituisce un nuovo testo, il problema di quest’ultimo è un problema di forma e di stile e quindi di pienezza o solidità o embricazione o attitudine centripeta del nuovo testo».

Una cospicua dose centrifuga è innegabile nella traduzione pasoliniana, come anche un considerevole utilizzo di “parole chiave” tipiche della propria poetica, quali «ossesso»[10] (Eum. v. 83, v. 236, v. 306, v. 859), «impuro» (Eum. v. 204, v.237) con i corrispettivi corradicali, che traducono svariati termini eschilei. In più, per rafforzare i concetti espressi e veicolarli in modo più immediato, è indicativo il fatto che si utilizzi spesso il discorso diretto, anche quando nell’originale greco era presente la forma indiretta. Ancora, Pasolini spesso ricrea le immagini eschilee e trasforma i concetti, per renderli autentici di nuovo, con parole più vicine a un pubblico degli anni Sessanta.

Dobbiamo ricordare, infatti, che il testo dell’Orestea fu composto da Eschilo, oltre che con un senso politico più universale, anche con uno maggiormente legato allo specifico contesto di realizzazione, ovvero la democrazia ateniese in un momento di forte tensione tra forze progressiste e conservatrici. Il 458 a.C. fu l’anno della prima messa in scena alle Grandi Dionisie, ed essa è da intendersi come un “rito teatrale”, con legame alla sfera religiosa ed allo stesso tempo con una valenza civica, in quanto il teatro diventava una piazza cittadina, luogo di discussione della vita politica e culturale della polis ateniese; un luogo in cui il passato mitico a cui la tragedia si riferisce veniva percepito come la rappresentazione trasfigurata della società ateniese. Proprio per dare concretezza alla sua interpretazione ideologica, Pasolini utilizza l’espediente linguistico della sostituzione per «analogia» in modo sorprendente, distaccandosi dall’originale testo eschileo, a volte in maniera azzardata. Essa diede adito alle astiose recensioni da parte dei rappresentanti della filologia tradizionale, rimanendo spesso incompresa e non contestualizzata (al di là di sbrindellature grammaticali sporadiche e talvolta stretta aderenza alle traduzioni altrui più che al testo greco).

Qui, non posso addentrarmi nell’analisi del testo greco e pasoliniano (per cui rimando alla lettura dell’intero mio saggio Pasolini traduttore di Eschilo), limitandomi a pochissimi esempi. È interessante notare come il traduttore si sia comportato nei confronti di termini ed espressioni più strettamente legati al contesto mitologico e religioso dell’epoca di realizzazione. Essi vengono in genere omessi, oppure modificati, proprio perché troppo stranianti ed intesi come ostacolo ad un’immediata comprensione. Esempi emblematici della sua creatività attualizzante si colgono quando decide di tradurre logos con «storia sacra» (già dal v. 4) e Zeus con «Dio» (già dal v. 17), rendere la Pizia con «religiosa», trasformare i “templi” in «chiese», o ancora inserire nella processione finale del coro nelle Eumenidi l’iterata esclamazione «Osanna». Questi pochi elementi presi ad esempio, considerabili “incongruenti” dai puristi, nonostante facciano parte di un lessico di eredità cristiano-cattoliche, sono piuttosto da vedersi solo come analogie sostitutive per attualizzazione, che trovano giustificazione nell’interpretazione ideologica di Pasolini. Viene rimarcata da egli stesso l’allusività del testo eschileo, per una traduzione che potrebbe essere definita anti-filologica secondo una definizione classica della filologia, ed assimilabile quindi, seguendo la storica dicotomia, a una “bella infedele”. Tuttavia, spesso è sfuggito nell’analisi di una tale soggettività traduttiva, il fatto che “soggettività” non è sinonimo di “infedeltà” e che la traduzione di Pasolini non aveva un “obiettivo filologico”. Non bisognerebbe dimenticarsi, infatti, che tradurre significa anche interpretare e che la ricerca di una resa puramente filologica e letterale potrebbe finire proprio, in taluni casi, con lo smarrire il fulcro di un testo poetico. Pertanto, in questo caso, ritengo assai confacente utilizzare il lessico di Franco Buffoni a riguardo, ovvero il termine «lealtà»[11] come sostitutivo di “fedeltà” al testo.

 

Concludendo, da una parte, risulterebbe banalizzante e limitante – volendo stabilire “una volta per tutte” chi sia Eschilo e cosa sia la sua opera – definire il concetto stesso di fedeltà[12] (o tradimento) in traduzione, dall’altra, non sarebbe forse nemmeno corretto tentare di individuare una sola e unica lettura – immobile per sempre – di un testo letterario. Nonostante una dimensione di perdita e rottura, il “rapimento appropriativo” di chi traduce può lasciare all’originale un residuo dialetticamente enigmatico, al punto che l’opera tradotta può venirne anche intensificata. Ricollegandomi a Jacques Derrida, in qualche modo un testo vive sopravvivendo e per sopravvivere deve presentare anche un carattere di intraducibilità, accanto ad uno di traducibilità, dunque «l’originale si dà modificandosi; questo dono non è un oggetto dato, vive e sopravvive in Mutazione»[13]. Concludo, ricordando il concetto di hospitalité langagière di Paul Ricoeur, per cui «al piacere di abitare la lingua dell’altro corrisponde il piacere di ricevere presso sé, nella propria dimora d’accoglienza, la parola dello straniero»[14]. A fronte di tutto ciò, parlerei di un “incontro trasformazionale” tra due autori, che può dare vita a un’opera antica e nuova allo stesso tempo. La dizione e il senso dell’opera eschilei, di cui Pasolini si appropria, subiscono una metamorfosi per venire ad integrarsi con l’idioletto ed un significato pasoliniani, e che questo lo si voglia considerare fedeltà o tradimento, in fondo, è solo una questione di prospettive.

Riporto, dunque, un curioso caso di consonanza, a partire dai vv. 932-937 di una delle parti focali del canto commatico delle Eumenidi, in cui da “metapoeta” Pasolini esprime in sintonia con Eschilo la sintesi utopica tra cultura arcaica e razionale:

«Chi non capisce che è giusto accettare

tra noi queste primordiali divinità,

non capisce i contrasti della vita:

è la barbarie dei padri che si sconta

davanti ad esse: e un’inconscia empietà,

malgrado i gridi della sua coscienza,

può portarlo a un’oscura rovina».

Tali versi, i quali sono al “limite della riscrittura”, mi hanno riportato al finale del pasoliniano Il canto popolare (1952-1953), per la presenza dell’interazione contrastata tra «incoscienza» e «coscienza» nella «storia» dell’«Uomo», oltreché di termini ricorrenti anche nell’opera eschilea, quali «violenza», «memoria», «ansia di giustizia»:

«Nella tua incoscienza è la coscienza

che in te la storia vuole, questa storia

il cui Uomo non ha più che la violenza

delle memorie, non la libera memoria…

E ormai, forse, altra scelta non ha

che dare alla sua ansia di giustizia

la forza della tua felicità,

e alla luce di un tempo che inizia

la luce di chi è ciò che non sa».

Eschilo nell’intera trilogia scelse di far leva sull’emotività, raccontando una serie mitologica di luttuose lacerazioni giunte a ricomposizione solo nel finale, per proporre non una creazione ex novo, ma una rifondazione etico-religiosa dello Stato. Pasolini riconobbe tale progetto di sintesi come fulcro, lo fece suo per poi riprodurlo. Lo universalizzò, allo stesso tempo attualizzando quello che individuò come senso profondo della tragedia eschilea; realizzando, in definitiva, una traduzione a cui si può imputare il difetto di distaccarsi dal testo fonte, ma a cui non facilmente si può negare il pregio di avere tradotto un Eschilo poeticamente vitale.

[1] Intervento di Pasolini sulla rubrica radiofonica a cura di Ruggero Jacobbi Le belle infedeli, ovvero i poeti a teatro, RAI, gennaio 1968.

[2] Nota del traduttore, in P.P. PASOLINI, ESCHILO, Orestiade, Einaudi, Torino 1960, 19882.

[3] M. FUSILLO, La Grecia secondo Pasolini, La nuova Italia editrice, Scandicci (Firenze) 1996 (20072), p. 6.

[4] PASOLINI, Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, in Pasolini. Opera completa, Mondadori, Milano 1998, p. 1659.

[5] U. ALBINI, Il banco di prova delle Coefore, in La traduzione dei testi teatrali antichi, Atti del VII Convegno internazionale di studi sul dramma antico. «Dioniso», 50, 1979, p. 51.

[6] L’Einfühlung indica «il raggiungimento del senso interno dell’opera» ed è «un atto sia linguistico che emotivo», in G. STEINER, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Garzanti, Milano 1994  (19751), p. 52.

[7] STEINER 1994  (19751), pp. 354-490.

[8] PASOLINI 1960 (19882),  p. 176,

[9] F. FORTINI, Lezioni sulla traduzione, Quodlibet, Macerata 2011 (19891), pp. 124-125.

[10] Cfr. FUSILLO 1996, pp. 205-206: «L’ossessione è infatti un termine chiave di tutta l’opera pasoliniana, legato alla sfera emotiva, all’indistinzione logica dell’inconscio, alla barbaricità astorica dei sottoproletari, alla ripetizione del rito e del sesso».

[11] «Il termine fedeltà connota guanciali, lenzuola e sotterfugi; il termine lealtà due occhi che fissando altri occhi dichiarano amore ammettendo un momentaneo “tradimento”»; in F. Buffoni, Una piccola tabaccheria. Quaderno di traduzioni, Marcos y Marcos, Milano 2012, p. 14.

[12] Cfr. STEINER 1994 (19751), p. 361: «L’intera formulazione, così come l’abbiamo trovata ripetutamente nelle dispute sulla traduzione, è disperatamente vaga. Il traduttore, l’esegeta, il lettore è fedele al proprio testo, dà una risposta responsabile, soltanto quando cerca di ristabilire l’equilibrio delle forze, della presenza integrale, che la comprensione appropriativa ha sconvolto. La fedeltà è etica, ma anche, nel senso pieno del termine, economica».

[13] J. DERRIDA, Psyche. Invenzione dell’altro, Jaca book, Milano 2008 (19871), p. 242.

[14] P. RICOEUR, La traduzione. Una sfida etica, a c. di D. Jervolino, Morcelliana, Brescia 2001, p. 50.

In difesa della Polveriera di Firenze

6

Apprendiamo con stupore che il CdA dell’Azienda Regionale per il Diritto allo Studio ha approvato, con il solo voto contrario delle rappresentanze studentesche, lo sgombero degli spazi della Polveriera, presso la mensa di Sant’Apollonia.

In questi cinque anni la Polveriera, creata autonomamente da studenti che hanno ripulito, attrezzato e messo in uso tre stanze abbandonate del complesso, ha funzionato, oltre che come aula-studio, come sede e luogo di diffusione di oltre trenta diversi progetti culturali, in campo accademico, tecnologico, artistico, musicale e letterario, non ultimo quel Festival delle Letterature Sociali che da tre anni offre alla città, a costo zero, un festival letterario di livello, cosa tanto più notevole se si considera il grave fallimento, in città, di altri tentativi privati in tale direzione.

Se questo si aggiunge lo spopolamento in corso del centro storico di Firenze, sempre più piegato alle esigenze del turismo di massa, e la difficoltà crescente per i cittadini di condurvi una vita piena, fatta anche di studio e socialità, si capisce come i pochi spazi culturali rimasti in centro risultino indispensabili. Non è un caso che in altre città – si veda ad esempio Milano con lo spazio Macao – si sia deciso di confrontarsi con chi fa cultura dal basso, onde tutelare e valorizzare tali esperienze, cosa tanto più necessaria nell’attuale e difficile situazione politica nazionale.

Come accademici, scrittori, artisti, critici e curatori che fanno base a Firenze, e che sono stati spesso ospiti di eccellenti iniziative culturali in tali spazi, chiediamo all’ARDSU e alla Regione Toscana di aprire un dialogo con il coordinamento della Polveriera, oltre che un tavolo in cui si lavori in modo condiviso per stabilire il futuro del luogo, tenendo conto dei risultati dell’attuale gestione, e cercando di garantire la sopravvivenza dei molti progetti che lì hanno trovato casa.

Francesco Ammannati, storico
Simona Baldanzi, scrittrice
Luca Baldoni, poeta
Carlo Benedetti, curatore
Diego Bertelli, critico
Raoul Bruni, critico
Sara Cassai, curatrice
con.tempo, rivista
Collettivomensa, rivista
Andrea Caciagli, redattore
Salvatore Cherchi, redattore
La Cité, libreria
Francesca Corpaci, scrittrice
Silvia Costantino, curatrice
eFFe, editor
Effequ, casa editrice
Firenze RiVista, festival
Francesco D’Isa, scrittore e artista
Federico Di Vita, scrittore
KweenD.O.L.O., MC
L’Eco del Nulla, rivista
Daniele Gambit, scrittore
Giuseppe Girimonti Greco, traduttore e editor
Ilaria Giannini, scrittrice e giornalista
Machine Funk, crew
Simone Lisi, scrittore
Gregorio Magini, scrittore
Vincenzo Marasco, sociologo
Ferruccio Mazzanti, scrittore
Francesca Matteoni, scrittrice
Gabriele Merlini, scrittore
Elisabetta Meccariello, scrittrice
Valerio Nardoni, scrittore e editore
Francesco Quatraro, editore
Matteo Pascoletti, giornalista
Daniele Pasquini, scrittore
Giulio Pedani, scrittore
Alberto Prunetti, scrittore
Alessandro Raveggi, scrittore
Edoardo Rialti, critico e traduttore
Filippo Rigli, scrittore
Fabiagio Salerno, architetto
Matteo Salimbeni, scrittore
Marco Simonelli, poeta e traduttore
Vanni Santoni, scrittore
Street Book Magazine, rivista
Associazione Three Faces,
The FLR, rivista
Andrea Zandomeneghi, scrittore

aderiscono dall’Italia:

Mariasole Ariot, poeta
Marco Balzano, scrittore
Alessandro Bertante, scrittore,
Gianni Biondillo, scrittore
Laura Bosio, scrittrice
Caterina Bonvicini, scrittrice
Azzurra D’Agostino, poeta, scrittrice
Claudia Durastanti, scrittrice
Angelo Ferracuti, scrittore
Giorgio Fontana, scrittore
Fabio Geda, scrittore
Lisa Ginzburg, scrittrice
Helena Janeczek, scrittore
Nicola Lagioia, scrittore, direttore del Salone Internazionale del Libro
Marco Mancassola, scrittore
Bruno Luca Maida, scrittore
Marina Mander, scrittrice
Federica Manzon, scrittrice
Michela Marzano, scrittrice
Antonio Moresco, scrittore
Renata Morresi, scrittrice
Michela Murgia, scrittrice
Davide Orecchio, scrittore
Francesco Pacifico, scrittore
Lorenzo Pavolini, scrittore
Laura Pugno, scrittrice, direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura di Madrid
Christian Raimo, scrittore
Alessandro Robecchi, scrittore
Evelina Santangelo, scrittrice
Alessandra Sarchi, scrittrice
Tiziano Scarpa, scrittore
Igiaba Scego, scrittrice
Antonio Sparzani,fisico, scrittore, Nazione Indiana
Carola Susani, scrittrice
Andrea Tarabbia, scrittore
Nadia Terranova, scrittrice
Filippo Tuena, scrittore
Chiara Valerio, scrittrice
Giorgio Vasta, scrittore
Wu Ming, scrittori
Alessandro Zaccuri, scrittore

Infanzia

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di Barbara Lisci

Io quando sono nata me lo ricordo. Mia madre strinse le labbra fra i denti, che tanto sapeva che gridare non le sarebbe servito a nulla. E nemmeno imprecare. Io ero il suo secondo, atroce, dolore. Lo sapeva dal primo: mio fratello. Aveva sputato, gridato infamie, pregato Iddio. Ma il dolore non era cessato. Anzi, era stato un crescendo vorticoso che la faceva impazzire. In quelle grida strazianti, vi si poteva leggere di tutto: il terrore di finire come tzia Mariedda, inferma sulla sedia a rotelle, l’orribile fracasso degli ossicini rotti, com’era accaduto a signorina Elvi, quando avevano dovuto estrarle con la forcipe il bambino ormai morto, la frustrazione di una vita passata senza gioie, ma solo rassegnazione e sacrifici.

Eppure venni al mondo rosea e liscia, come se non avessi ereditato alcuna sofferenza. I primi anni li passai nella totale incoscienza, ma con una curiosità irresistibile verso il mondo delle cose, delle persone e dei colori. Mio fratello, di quindici mesi più grande, era il mio eroe. Io lo emulavo in tutto, persino quando pisciava nel vasino. Anch’io machio – dicevo, abbassandomi i calzoncini e le mutande. Mi tiravo il bottoncino dell’ombelico e con una mano tenevo il vasino. Ma poi la pipì usciva da “ancora più sotto”, formando una pozza calda sul pavimento. I miei ridevano, ma certe volte mia madre strillava che aveva appena lavato il pavimento. E io non capivo cosa avessi sbagliato.

Fervente cattolica, all’asilo mia madre ci mandò dalle suore in su bixiau becciu. Capii presto che lì, era vietato sbagliare. Vietato sporcarsi il grembiulino rosa, vietato portare i calzoncini per le bambine, vietato urlare di gioia scendendo dallo scivolo. La trasgressione veniva sancita in punizioni corporali, castighi che duravano ore restando immobili nel corridoio e nel continuo stillicidio psicologico del “Gesù si arrabbia”! L’ultima volta che Gesù si arrabbiò avvenne quando mio fratello scappò dall’asilo. Stanco di stare in piedi a contare le pietruzze incastrate nelle mattonelle, quatto-quatto, Andrea aveva varcato l’uscio, attraversato il cortile di ghiaia e scavalcato il cancello. Le suore l’avevano cercato dappertutto, prima di chiamare i carabinieri, svuotando persino la vasca dei pesci rossi. Mio fratello era semplicemente tornato a casa, a riposarsi. Aveva attraversato mezzo paese, e pure i binari della ferrovia, fermandosi davanti alle locandine del cinema, per leggere la programmazione in corso.

Le suore avevano nomi inusuali. Si chiamavano suor Candida, suor Immacolata, suor Maria. Qualche tempo dopo scoprii che non erano altro che nomi fittizi, scelti nel noviziato da loro stesse. In realtà, all’anagrafe, avevano nomi lunghi e desueti: Ermenegilda, Veneranda, Eustachia. Io, ingenuamente, ne avevo dedotto che se alla nascita ti appioppavano un brutto nome, l’unica salvezza che ti restava per cambiarlo, era quella di diventare suora! Quello che non riuscivo a capire però, era perché la parola divina del vangelo dispensasse tanto amore e loro, le serve di Dio, fossero così cattive.

La volta che mi toccò la più grande punizione eravamo sotto Natale, quando il “Gesùbambino” dell’asilo mi aveva portato una bambola di pezza. Fu anche la mia prima delusione, perché avevo pregato tutto l’anno e speravo di ricevere il camion come quello di mio fratello. Invece tra le mani, lo sguardo terrorizzato della bambola di pezza, guardava proprio me. Avevo strillato e pianto come un’ossessa tutto il pomeriggio, fino a farmi mancare il respiro. Quando mio padre arrivò a prenderci, io me ne stavo buttata a terra con la faccia tutta rossa e i pugni stretti in una morsa di rabbia e disperazione. Ma non c’era verso di farmi ragionare.
– Le femmine giocano con le bambole, disse mio padre.
Ma non aveva molta pazienza, e nemmeno argomenti convincenti. Così, mi strappò dalle mani quell’orrore di pezza, lo portò dalle suore e tuonò: – Datele il camion!
Loro, rosse dalla vergogna, avevano dovuto ricapitolare e io sapevo che l’avrei pagata cara.

A cinque anni, curiosa come una scimmia, mi apprestavo a compiere il mio primo progetto di sabotaggio della Fede. Da sempre, ebbi la convinzione che sotto il loro velo, le suore portassero i capelli corti come quelli dei soldati. Se fossi riuscita ad averne le prove, giurai a me stessa che non avrei più indossato una gonna. Misi le dita a mo’ di pinzetta e tirai con tutte le mie forze di bambina. La testa svelata di suor Candida era rasata e grigia, piena di forfora e chiazze rosse. Per poco non bestemmiò, tirandomi un ceffone e riprendendosi il suo velo nero. Le altre suore erano accorse in suo aiuto e io fui portata per un orecchio dalla direttrice. Mia madre fu chiamata a rapporto, mi picchiò anche lei e tornammo a casa con la pena di venticinque preghiere al giorno e con la promessa che non l’avrei fatto mai più.

All’epoca mi ero messa in testa che da grande volevo fare la missionaria. Scoprire mondi lontani, viaggiare con l’aereo, andare a conoscere i bambini che morivano di fame, perché quando non volevo mangiare il minestrone coi cavoli, le suore mi obbligavano a finire tutto nel piatto dicendomi: – Per ogni volta che non vuoi mangiare il minestrone, un bambino sta morendo nel Biafra. E io, per quanto spremessi le meningi del mio piccolo cervello, non riuscivo a capire il nesso tra il minestrone e il bambino che muore di fame. Ma nonostante tutto, il mio senso di colpa era perenne. Un giorno dell’ultimo anno d’asilo, ch’era il 1978, faceva un’afa insolita, tant’è che le suore abbassarono tutte le saracinesche perché il vento, simile a quello che emetteva il phon, non disturbasse il quotidiano riposino pomeridiano. Stavamo tutti chini con la testa sul banco a far finta di dormire, per far piacere a Suor Maria quando bussarono alla porta e Suor Giovanna entrò in lacrime: – Hanno ucciso Aldo Moro, disse, e si abbracciarono tra le lacrime e le convulsioni. Quando tornai a casa dissi a mia madre: – Mamma oggi è morto un vicino di casa delle suore. Mia madre cominciò a piangere anche lei, però alternando risate e lacrime e io non ne capivo il perché.

Ho fatto la comunione vestita da monachella con l’abito di mia cugina, perché mia madre non aveva soldi per comprarmi il vestito da sposina come quello di Flavia, la mia amica del cuore. Dopo di che, ho cominciato a bigiare la messa; un po’ per la vergogna di essere stata immortalata con quella orribile tunica color crema e quel velo ch’era simile a quello di suor Candida; un po’ perché la messa era uguale a quella della domenica precedente e dell’altra ancora e io ne conoscevo a menadito tutto il procedimento: in piedi, seduti, in ginocchio. E quando mia madre ci dava le 100-200 lire per l’offerta ai poveri, io uscivo di casa col vestito della domenica e trainavo mia sorella ai giardinetti. Con quei soldi compravo un sacchetto di patatine, e dividendocele, convincevo Emanuela a non dire nulla a mamma, che tanto eravamo poveri anche noi.

Quando trovarono il ragazzino, nudo, sulle gambe di Don Lecca, nel mio vicinato scoppiò un casino: c’era chi parlava di pedofilia (ma io non sapevo cosa volesse dire), chi ritirò i suoi figli dal catechismo, chi difendeva il parroco dicendo che le sue mani erano quelle di gesù, ricordando i versetti del vangelo: Lasciate che i pargoli vengano a me. Io, dal quel giorno, non misi più piede in una chiesa e smisi di credere nelle favole.

La letteratura italiana con gli occhi di fuori #2 : mandato sociale, posterità, riviste

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Francesco Forlani, Andrea Inglese, Giacomo Sartori e Giuseppe Schillaci, ossia Il Cartello, hanno curato su invito di Luigi Grazioli un intero numero di “Nuova Prosa”, il 69. Presentiamo qui le ultime tre voci dell’editoriale scritto a otto mani e la nostra nota introduttiva sulle modalità di realizzazione del numero.

EDITORIALE A PIÙ VOCI

MANDATO SOCIALE (A. I.)
Oggi si tende a fare questo ragionamento: una volta gli scrittori (narratori, poeti, drammaturghi) avevano un mandato sociale, la loro arte letteraria riguardava la nazione, o il popolo, o la formazione dei cittadini. Questo accadeva ancora nel Novecento.