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Cinque poesie inedite

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di Damiano Sinfonico

Ho percorso tante case.
Una diversa dall’altra.
E una uguale all’altra.
Non saprei dire che cos’è una casa.
È più grande di poche stanze.
E più piccola di un’idea.
Ci è noto ogni particolare.
Le casse da cui soffia la musica.
Il colore della spugna per i piatti.
Da dove salgono i rumori del mattino.
Casa è dove abbiamo le ciabatte.

“Gli Orfani” di Davide Nota: 2 estratti, una conversazione

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di Davide Nota

Le prime chatroom del Novantanove, ricordi?
Quando sperimentammo la verità di esistere come puro pensiero. La scuola persisteva. Ritornavamo all’interfaccia spaziotemporale come da un viaggio segreto nelle regioni della simultaneità. Tutti erano pazzi e parlavano indossando antiche maschere di pixel e rovi. Quando tutti fingono, quando tutti sono sinceri. Ma è finito anche quel tempo.
L’epoca impone riconoscibilità e socievolezza. Nessuna tragica confessione, nessuna ricerca del carnefice ululando tra gli alberi infiammati, velo dopo velo: APERICENA E REALTÀ. Il presente ha vinto. Il commissario tecnico dell’infelicità.
Questa città barocca non mi convince. A Roma avevo trovato una liturgia più chiara. Dalla casa al supermercato; alla palestra. Ascoltando Eminem in MP3. Via Pisana, Bravetta e infine Corviale, Corviale, muto enigma, Gautama, enorme OM di moto costeggianti il serpentone.
Oggi turisti sgambettanti festeggiano la grande Restaurazione. Un’allegria si espande tra i coriandoli esplosi da un vetusto marchingegno di scena. Ragazze scintillanti mi chiedono: “E tu, ti senti SPECIAL?”. Ma è tutto già accaduto.
La banda allegrotta suona musica popolare.
Solo si erge nella sua onestà un McDonald, a consolarmi da tanto ottimismo. Mi avvicino a leggere il menù ed è quello di sempre. Ragazzi privi di aspettative mordono timidamente panini. Hanno sorrisi più miti. Dunque parlano ancora di zii o di quel viaggio a Costanza nel duemilatre? Oh, cari…
Tifo declino come preludio al grande avvento degli spiriti del Sud. Gli alberi ondeggiano a uno stesso vento inoltrandosi messaggi di alleanza. I larghi boschi attendono il passaggio ed io sono con loro.
Nel fiume di gente mi sciolgo e il mio corpo è una voce che dice: Euridice…
[…]

*

[…]
Questo lembo di quaderno fu composto in condizioni diseguali, negli anni in cui l’autore simulò il suicidio e la continua perdita lo scaraventò dentro alla storia cinico come un ente provinciale. Ma c’era ancora l’antico ragazzo in lui che gli permise di cadere, finalmente diseredato dai proconsoli cittadini a cui doveva apparire ormai come il fantasma di un potenziale demenzialmente sciupato.
Lui che l’indomani sarebbe stato infibulato come una promessa politica, ora ubriaco e sulla soglia dei trent’anni si masturbava con una foga insensata nel pieno centro della Piazza del Popolo, alle sette della sera.
Oh tutto questo è follia, si disse, ma lui credette veramente di far ridere un amico che passeggiava al suo fianco, quanto bastava per tornarsene a casa spensierato. Ma se la punizione cadde su di lui come una condanna inesorabile, fu per la crudeltà delle organizzazioni pubbliche. L’azione non si svolse entro gli spazi adibiti alla sborra. Una tipologia di errore che si sconta con l’esilio. Ora il mio amico percorre i sentieri delle pecore sulle montagne spelate dove camminano tossici e preti, e un giorno verrà ucciso e si farà cardo.
Io ho speso tredici anni in tragiche fantasie d’amore ed ora l’incanto è finito. Ci ameremo masturbandoci, sognando astratte fisionomie siderali. Ci sbirceremo il timbro della pelle tra le maglie scortecciate dei pixel, forse talvolta ci parrà che un fiato caldo ci accarezzi il collo. Se vuoi parlarmi, se vuoi rispondere a questa mail, ti aspetto. Tuo.
Una specie di febbre mi aveva avvolto per tant’anni di selvagge metamorfosi, che solamente ora ci inizio a pensare veramente. Il cardo fu colto e se ne fece un segnalibro per le pagine secche di un diario.
Era il 4 novembre del 1986, io me ne stavo disteso su un lettino apribile, cigolante. La rete sfondata, la stanza disadorna. Fuori della finestra il buio di Cassina de’ Pecchi disegnava attorno ai lampioni delle macchie inzuppate di luce. Oggi sono venute delle persone a casa ma io non ho sentito niente. C’è questa muffa sopra all’angolo della cucina che è venuta su dalla condensa e ogni giorno pare che si allarghi. Dovrai imparare ad aprire le ante, o le persiane dopo la doccia e la pasta. Ma fa freddo, fuori si muore. La muffa è turchina come un affresco del Trecento. Il vetro s’è velato del vapore della pentola in ebollizione, ci tracci con il dito il segno di una svastica; per riderne con gli altri, quando lo vedranno apparire. Erano venuti tutti qui a studiare, negli anni passati. Ma tutto questo buio e solitudine, il ronzio del lampadario, il cavo annodato e incrostato di calce; non poteva andare diversamente.
Ieri dubitavi persino del sesso. La mano sotto il maglione infeltrito di Nadia ad afferrarne le mammelle lunghe e larghe. È la ricerca dell’adiacenza completa pensavi; il palmo della mano e quel gonfiore di ghiandole. Il ruvido fruscio dei peli al movimento ciclico dei polpastrelli, sotto l’elastico degli slip, ad aprire gradualmente un varco, una voragine d’argilla sotto il cavallo dei jeans. Pensare ad altro poi, fissare le tubature del termosifone o mordersi una mano.
Ora ti tocchi mentre pensi ad altri che la possiedano, con le mani impastate di bava e di lava; come un’alcova racchiusa a nocciolo, in preda alle penetrazioni. Ti sei pulito con un fazzoletto che hai trovato sopra al tavolo della cucina, imbevuto di sugo. L’hai buttato dentro alla busta della spazzatura appesa alla maniglia. Una spina nel fianco, dentro alle buste dell’immondizia; a soffriggere l’aglio in padelle annerite dall’uso. Guardi il disegno appeso al muro e che fu il dono di una ragazza che si chiamava Silvia tanti anni fa, quando il mondo era ancora intatto. Un ragazzino a torso nudo, sul davanzale interno di una finestra, a guardare le galassie lontane.
Io ti sentivo vicina, come un’amica vera ai tempi delle medie, una sorella dei sogni sinceri e delle prime scoperte: Mellon Collie degli Smashing Pumpkins, Edward mani di forbice…
Oh così fragile è l’arrivo della gioia ed impossibile da trattenere. Ci sfiora come un alito improvviso, un odore imprevisto che non riesci a definire e perdi.
Anch’io a sette anni feci la valigia, ero convinto di venire dallo spazio. Dovevo andare a ritrovare l’UFO con il quale ero venuto sulla Terra e mi sforzai di ricordare il luogo dove era stato sepolto. Era il giardino di mia nonna Maria, che ora è crollato e fatto a pezzi. Era un giardino dolce, pieno di violacciocche e quadrifogli.
Tu certo non puoi esserne colpevole perché hai raccolto la saggezza dell’obbedienza, la natura dei fiori che altro dovere non hanno se non quello di esistere e sbocciare.
Io invece mi risveglio da una guerra civile, la casa è divelta e chi conoscevo non si ritrova. E solo adesso mi ricordo di questa patria, dell’albero di nespole che mi alzava come un trofeo esibito al cielo.
Se quei fumetti li hai veramente disegnati a tredici anni sono bellissimi ed è un vero peccato che tu non riesca a trovare il tempo per continuare. Devi trovarlo il tempo ad ogni costo, scavare più rifugi possibile. Altrimenti poi ci si perde, ci si dimentica. E gli abitanti di questo luogo non cercheranno certo di aiutarti.
Ogni libro è un incontro e un paese che amo, che volevo abitare e non ho ritrovato. E quando il Nazzareno mi ha chiamato, io l’ho preferito crocefisso.

*

Estratti da Davide Nota, Gli orfani (Oèdipus 2016)

 

* * *

 

La verità si manifesta giocando. Conversazione con Davide Nota.

di Mario Di Vito

Quella che segue era nata come unʼintervista, poi però ci siamo persi in chiacchiere. Mi succede sempre quando ho a che fare con Davide Nota: parto con un progetto più o meno preciso e finisco da tuttʼaltra parte, non saprei nemmeno spiegare precisamente perché. La stessa cosa, dʼaltra parte, mi era accaduta anche la prima volta che ho incontrato Davide. Sono passati diversi anni ormai: ai tempi ero un giovanissimo cronista che si occupava per lo più di morti ammazzati e processi (mi occupo ancora delle stesse cose, solo sono un poʼ meno giovanissimo) e la mia capa di allora mi disse che avrei dovuto intervistare questo poeta locale a suo dire molto interessante. Ci incontrammo nel retro di un bar ascolano che ora non esiste più e ricordo che tornai in redazione piuttosto brillo e con un pacco di appunti disordinati e sostanzialmente privi di continuità. Non ricordo cosa scrissi di preciso però nel pezzo definii Davide un «agitatore culturale», temo che non me l’abbia ancora perdonato.
Questa intervista – chiamiamola così – è lʼennesimo atto di una chiacchierata che va avanti da anni. Almeno però stavolta siamo partiti da un punto preciso: il suo primo libro di prose, Gli orfani, uscito poche settimane fa per i tipi di Oèdipus.

Allora, cominciamo con una domanda semplice: dopo tanti anni a scrivere poesia sei passato alla prosa. Non dire che si tratta della stessa cosa e che sono comunque due mezzi e non un fine, è un passaggio abbastanza epocale in una vita artistica. Da cosa è nata questa esigenza (se si tratta di un’esigenza)? E cosa trovi di diverso tra il Davide Nota che scrive poesie e il Davide Nota che scrive prose?

Al di là del fatto che la mia prosa nasconde un numero considerevole di versi, la risposta è abbastanza semplice. Questo libro nasce come un flusso di coscienza involontario, un fiume emerso per esigenze private e direi fisiologiche, su alcuni quaderni che mi portavo dietro, in zaino, durante una massacrante stagione lavorativa in un caseificio laziale dove ho passato alcuni mesi di prigionia nel 2012. Lavoravo dalle sei della mattina alle venti di sera, a volte sette giorni su sette, e la scrittura era il solo modo che conoscevo per sfogare le energie in esubero determinate da tale condizione di surrealtà, che poi è la norma attraverso cui la mia generazione talvolta ha un salario. I miei momenti compositivi erano dunque limitati alle pause pranzo, che passavo seduto su un marciapiede di fronte a un piccolo bar, tra la campagna e via di Bufalotta, e ai ritorni in autobus, a sera, che duravano allʼincirca unʼora e mezza. Le scenografie dei racconti di fantasia, allora, erano composte da elementi reali del paesaggio che poi andavo animando di presenze e voci, di alter-ego e fantasmi, di significazioni post-apocalittiche o fantastiche, come in un gioco autistico di bambino. Altre erano invece ricordi, memorie involontarie. Altre sogni o visioni, altre realtà quotidiana vissuta altrove. Questa fonte che emergeva da sé, me nonostante, come scrivo nel racconto “Il ritorno”, che è un ritorno a casa da lavoro ma è anche un ritorno allʼesperienza interiore, chiedeva di emergere in prosa. E se anche sgorgavano endecasillabi o settenari, questi diventavano poi frasi, le pagine si allagavano e io semplicemente ho assecondato questo allagamento, senza alcun progetto che non fosse quello di assistere in prima persona ad un evento estetico di cui non avevo padronanza alcuna. E il libro così si è scritto, in uno stato febbrile e diciamo di trance reale, da stanchezza fisica, nelle forme di una prosa musicale piena di fraseggi metrici, rime e assonanze.
Dʼaltro canto è pure vero che lʼambiente poetico italiano mi pareva così accademico e a me distante che non vedevo da tempo lʼora di “cambiare lingua, cambiare linguaggio”, come scrivo a un certo punto del racconto “Dana”, dove si rivela il mio alter-ego. “Uscire! Uscire!”. Ma non potevo deciderlo, dunque ho aspettato che accadesse.

La figura degli Orfani ricorre spesso, comunque, nella tua produzione. Perché?

Il concetto di orfanità è tragico e complesso e la sua profondità da sempre mi coinvolge e commuove. Può essere proiettato su più piani, dallʼindividuale allo storico, dallʼesistenziale al politico, dal filosofico al teologico. Io mi sento orfano di molte cose. Abolita la realtà, è svanito anche il sogno. Siamo tutti orfani, tanto di Apollo che di Dioniso.

Si è evoluto il tuo concetto di «fantasy no gender», già espresso su Nazione Indiana tempo fa?

La definizione di “no gender” è stata purtroppo degradata dai tradizionalisti del “Family day” che ne hanno fatto il loro slogan orrendo. Io quando lo significavo su “Nazione Indiana”, nel 2013, parlavo di rifiuto della generialità, di onni-generialità. Questo si riferiva ai canoni del maschile e del femminile, che riguardano lʼeros e non di certo la sessualità, come studiare Bataille potrebbe aiutare forse a comprendere, ma anche ai canoni letterari, nel rifiuto della separazione tra prosa e poesia innanzitutto, o tra scrittura colta, autoriale, e quella di genere. Per questo quando scrivevo i miei primi racconti di fantasia, che riusavano alcuni standard della narrativa pop così come nel jazz si riusa uno standard da cui affacciarsi per lʼimprovvisazione, per il guizzo, avevo elaborato questa definizione. Poi il libro si è sviluppato e la realtà è tornata ad essere il corso centrale della storia, le digressioni fantastiche sono divenute così i sogni di Jan, questo alter-ego che al posto dei libri di poesia ha i fumetti.

In più momenti della narrazione affronti temi, per così dire, «di genere»: menage a trois, «io sono lesbica» e così via. Credi che sia possibile azzardare una lettura politica della questione o è solo fiction?

Non è solo fiction, è realtà. E la realtà è sempre politica essendo in conflitto con le istituzioni deputate a normarla. Lo Stato è il conscio, che rimuove e reprime, o maschera nelle forme canoniche del compromesso e dellʼipocrisia. La poesia è un inconscio che insorge musicalmente e dice: “Eppure esisto”. Non solo. La poesia, se non vuole essere sostitutiva della vita, è un invito al viaggio fisico, un diario di bordo dellʼesperienza che chiama ad essere provata. Che questo avvenga in maniera allegorica o realistica, calda o fredda, non è il punto. Né il punto è essere aggiornati alle estetiche delle capitali del Capitale, come Baudelaire dimostra. Il punto è lʼoggetto scoperto che il testo vela. Quello sessuale è lʼoggetto sacro per eccellenza, connesso allʼordine delle civiltà e mai quanto oggi è lʼoggetto politico di un contendere globale. In questo prendo parte e milito, come nella scena dellʼamplesso fraterno sopra lʼaltare di una Chiesa crollata.

Nei racconti – che bisognerà poi stabilire se sono separati oppure se hanno un senso anche se messi in relazione tra loro, in modo da formare una specie di stralunato romanzo – si mischiano pezzi di vita passata, il presente e qualche idea di futuro, insieme a situazioni di fantasia, sogni, incubi e ”svarioni”: sei in grado di dire dove vuoi arrivare?

Scrivendo, perlomeno per quanto riguarda la mia esperienza personale di scrittura, ché ognuno ha la sua e lʼuniverso è grande abbastanza per contenerci tutti, non si vuole arrivare ma si arriva, come in un sogno. Le cose accadono. Ora che lʼopera è conclusa e la guardo come un oggetto esterno posso dire dove sono arrivato. Sono arrivato a Jan, a questo ritratto schizofrenico di un inconscio generazionale composto da molti strati, da infiniti veli, come ponendo una radiografia sopra la pagina di un Dylan Dog, sopra la lettera di un ragazzino in fuga, sul finestrino di un autobus che riflette il tuo volto e incornicia, anche, un frammento orfico di città e di crisi. Siamo complessi e composti da molti livelli. Gran parte del nostro immaginario è determinato, tanto dai fumetti dellʼadolescenza, quanto dalle letture della maturità, o dai ricordi dellʼinfanzia, dallʼeducazione familiare o dal sistema di comunicazione. Sopra questo fondale, che è come un filtro ottico sovrapposto alla realtà in atto, cʼè la coscienza che risuona, il pensiero fonico ed il dubbio filosofico che brucano la scenografia storica e la rivelano infondata. Sono arrivato a questo labirinto, a questo mosaico che chiamo auto-ritratto anche se lʼio narrante non coincide sempre con lʼio biografico, cioè l’autore implicito è un impasto di realtà e fiction. Ma la volontà comunque non cʼentra. Sono arrivato qui casualmente, cadendo.

C’è, in tutta la tua poetica, un filo che non si interrompe. Mi spiego: tu raramente parli per immagini e raramente ti abbandoni al lirismo. Più spesso parli di sensazioni, di umori, odori, sapori. Cioè, se dovessi parlare di una botta in testa non la racconteresti, cercheresti letteralmente di infliggerla al tuo lettore. Alla fine de Gli orfani, in effetti, sembra di aver preso una botta in testa e si va a rileggere alcuni passi (almeno a me è successo così) per cercare di capire quand’è arrivata, questa botta. Non è una domanda, è una mia impressione. Sei d’accordo? Stavi cercando di darmi una botta in testa?

No, infatti, stavo cadendo e per sbaglio ti ho colpito. Scusa.

Sul linguaggio: fai un gran minestrone di termini aulici, slang moderni, linguaggio discorsivo, inverti l’aggettivo con il sostantivo. Quanto conta il lavoro di limatura in un processo del genere? In altre parole: ti esce direttamente così o ci devi lavorare come un artigiano?

Il magma musicale esce direttamente in stato di trance, il lavoro artigianale invece consiste nella selezione e nel montaggio degli elementi. A volte di una prosa resta solo un frammento che viene incastonato in un testo nuovo. Come la Quercia del fauno che divora il masso e lo trasforma in altro. Era un masso, adesso è diventato una soglia.

Politicamente, comunque, ne esci come un anarco-insurrezionalista. In altri anni qualcuno avrebbe invocato la censura.

Non credo che oggi ce ne sia un gran bisogno dal momento che nasciamo silenziati. Possiamo ambire, però, a insorgere in noi stessi. A rifiutare lʼirrealtà del cosiddetto reale, lʼabitudine al pensiero che secerne ripugnanze, come definisco nel libro il tradizionalismo. O come dice il mio fratello e amico Stefano Sanchini, poeta di Pesaro: “Aspiro ad essere / lʼanello malato della catena di montaggio, / aspiro alla solitudine e allʼingiuria…”.
Ad ogni modo, politicamente sono un libertario comunardo, dal 1848 parigino al 2001 di Genova, per la confederazione leopardiana delle solitudini e contro la massa socializzata e morale. Odio il moralismo più dellʼindifferenza.

Come credi si inserisca Gli orfani nell’attuale narrativa italiana? Non nel senso di mercato letterario o di «filoni», ma proprio in quella che possiamo chiamare «storia pubblica dell’Italia contemporanea». Mi spiego meglio e in maniera più semplice: come vivi la contemporaneità?

Mi sento molto solo.

Se qualcuno dovesse portare Gli orfani al teatro dovrebbe riesumare il mai troppo celebrato genere della farsa. Hai pensato a un’eventualità del genere?

No, però mi piace il riferimento. Il tragicomico e il grottesco sono cifre estetiche in cui mi riconosco. Questo continuo sgambetto del sentimentale che si rende ridicolo esasperando la posa, del filosofico che gioca tra il sublime e lʼosceno, perché la verità si manifesta giocando. Fingendo di mentire.

THE REVENANT [2015] Purché sia acqua

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[ lezioni americane ] – in Spotlight vengono denuciate senza mezzi termini le violazioni dei religiosi sui corpi di bambini – nessuno può dirsi innocente ⇨ nel “teatro del mondo” di The Hateful Height – e la vendetta porta all’autodistruzione e all’estremo – forse inutile – sacrificio ugualmente in The Revenant – ma è proprio sui corpi fisici degli attori – infrangendo la levigata – la patinata idealizzazione di una bellezza perfetta – che ci arriva una lezione di cinema – di vita e di etica dell’arte – di senso profondo – Daisy di Janet Jason Leigh è “bellissima” per tutto un film nella sua bruttezza ricoperta di graffi – lividi e sangue&vomito – persino Charlize Theron in un frenetico e visionario Mad Max: Fury Road – rasata a zero con un braccio ridotto a moncherino lotta contro dei tiranni freaks e deformi e conclude il film pesta e con un occhio semichiuso – Brie Larson in Room senza trucco – trasandata e fragile – è prigioniera con il suo bambino nella stanza maleodorante dove è stata rinchiusa per anni dal suo rapitore – e anche in The Martian tipica storia americana in cui per “la gloria della nazione” un cosmonauta viene salvato in extremis dopo essere stato abbandonato su Marte – Matt Demon si trasforma in un buon selvaggio sporco – barbuto e puzzolente che coltiva patate fra i suoi escrementi – Leonardo Di Caprio arranca strisciando martoriato di ferite – fra fango e sangue e acqua – solo nella maestosa terribile bellezza della “natura rossa” – grugnendo ogni tanto qualche parola sconnessa – nè più nè meno dell’orsa che lo ha aggredito riducendolo nel fin di vita da cui dovrà tornare “redivivo” – lo stesso girare questo film diventa per il cast una specie di “via iniziatica” – di prova di coraggio e di sopravvivenza – e sicuramente arriva a investire delicati meccanismi emotivi negli attori prima e nel pubblico di conseguenza – ed è proprio da questa sfera di rimandi emozionali che partono gli appunti di Anna Tellini su The Revenant attraverso Tarkovskij e Rubèn Gallego e l’Ivan Il’ič di Tolstoj – [ Orsola Puecher ]


 


 
di ⇨ Anna Tellini

Prologo

Dialogando fitto col proprio tumore, un regista apre il suo ultimo film con
 
un uomo e un bambino che innaffiano un albero morto.
 
Una sequenza di “Sacrificio” che non mi ha dato scampo, e per decenni mi ha scavato dentro.

Antefatto

Tarkovskij ero – molto faticosamente – riuscita a farlo venire nella mia università a parlare di “Nostalgia” (allora in fase di montaggio) e del suo cinema, ma, come spesso capitava coi russi, mi trovai ad ascoltarlo profetare. Sul declino ineluttabile dell’Occidente, orfano di spiritualità, in primo luogo: un piccolo-grande “scontro di civiltà” ante litteram?
 
L’uditorio, all’epoca, non potè tollerare che qualcuno, per di più venuto da una terra di barbari, si ponesse con fare così sprezzante, e l’incontro si trasformò in un ring.
 
Fu allora che toccai con mano il potere vero della traduzione: l’interprete ero io, e – omettendo se necessario, smussando con generosità – riuscii a far rispettare perlomeno i codici del gioco.



 
Dal documentario-saggio di Chris Marker
Une journée d’Andrei Arsenevitch [1999]


 

Atto I

Sono io? Sì, sono io.
 
Dalla vecchia cassetta, insondabilmente non smagnetizzata, la mia voce mi ritorna tranquilla: parole scandite ad arte, dizione esemplare, tono di chi sa il fatto suo. Le mie riserve istrioniche soccorrono il pre-coma emotivo che mi fiorisce dentro.
E’ un giorno del 1983, l’aula magna della mia facoltà è strapiena, ed io sto per giocarmi l’onorabilità, se mai ne ho avuta una: Tarkovskij ha cominciato a parlare…

Atto II

Sono io? Sì, sono io.
 
Oggi – qualche giorno fa.
Nessun aplomb – vero o interpretato, stavolta. Accavallo e scavallo le gambe, assetate di fuga. Mi copro il viso – gli occhi però no.
Mi afferro la nuca – come a sostenermi.
Davanti a me, una fila di adolescenti imperturbabili mi attesta i numerosi gap generazionali sopravvenuti.
Un’orsa ha fatto irruzione sullo schermo Flagranza di artigli.

 
1orsa 2orsa
3orsa 4orsa

Hugo Glass ne è squarciato. Ora è una bambola inerme. Ma urla gorgoglia si contrae
in un vasto supplizio di disintegrazione.
Squarci trionfanti a scoprire ossa e interni grovigli. Evidenza scandalosa del soffrire.
Sangue secrezioni umori poco ostensibili. Nulla ci viene risparmiato.
Sto guardando un film, che – fatto per me ben più micidiale – deve molto a Tarkovskij.
Con un anacronismo per me saturo di tempo e imperioso quanto la marmellata di susine che aveva catapultato il tolstojano Ivan Il’ič ai giorni della sua infanzia, “Revenant” di Iñárritu mi rimaterializza ormai ben labili assenze come la fu Unione Sovietica e un regista con essa in irrimediabile rotta di collisione. E ogni cosa si permea di emozioni, e tutto riprende corpo, sensorialità e peso.
Pensare che sto solo guardando un film – anche se deve molto a Tarkovskij.
La stessa ossessione dell’acqua. Acqua ghiacciata, sgocciolii, acqua violenta dal cielo. Alito che si condensa.

 
 
 
 


Un’acqua forse neanche trasparente si fa strada aggressiva tra radici nodose, ribolle, e noi siamo lì, vicinissimi, anche se magari non sappiamo dove, la vista ingombrata dai vapori.
Il peso dell’acqua e la fatica di affrontarla.
Acqua che qualche volta salva, ma più che altro espone. E poi trascina un corpo già abbondantemente trafitto ai suoi aguzzini finali.
Onirici quasi, in essa appariranno degli alci, immagini creaturali sì, ma qui soprattutto cibo che sfuma alla presa, prima che alla vista.
Acqua che disseta, e che nasconde.
Acqua che ostacola, oggetto intrattabile che obietta e che resiste. Epperò da attraversare: durezza e rischio.
Densità e vischiosità. Astuzia dell’acqua.
Doti trasformative, contenitive: ostensione velata di corpi e presenze ambigue, di creature che non appartengono più del tutto al mondo di sopra.
Malinconia dei corpi.
Altri occhi, più sapienti dei miei, hanno nel frattempo scandito a regola d’arte i debiti di “Revenant” con Tarkovskij, inquadratura per inquadratura. Per me è stato più semplice, a dirmelo è stata la memoria del corpo.

 

 
Vicissitudini del corpo del protagonista. Hugo Glass striscia. In ⇨ un video di anni fa, anche Rubén Gallego striscia, e lo fa con consumata leggerezza, e lo fa con un’abilità preclusa ai più, in una sorta di visione orizzontale del mondo. Come in un’inquadratura fedele all’acqua.
E le immagini si moltiplicano, come in un’arcana, e molto privata, liturgia della resurrezione.

 

Epilogo

 
Una volta a casa, resuscito la cassetta sopravvissuta a traslochi e peripezie di varia portata, un terremoto incluso, e mentre ascolto, ritrovandola dentro di me, la voce di un Tarkovskij redivivo che riprende a profetare, mi preparo una minestra: calda, fluida, rassicurante, ad essa, penso, lo stomaco, anche se un po’ contratto, non si opporrà.
Un cibo-bambino, come quella marmellata di susine che aveva accompagnato gli ultimi giorni di Ivan Il’ič, consigliere di Corte d’appello.

 

CONNESSIONI
(a mo’ di poscritto)

 
Come in un gioco di imprevedibile assonanza, alle spalle de La morte di Ivan il’ič (1882-1886) di Lev Tolstoj, e di Bianco su nero (2002), sorta di autobiografia di Rubén Gallego, possiamo, forse, azzardosamente vedere due eventi lontani – e non solo nel tempo -, ma di eguale, e inaudita, corrosività.
Se nel 1881 l’assassinio di Alessandro II, zar di tutte le Russie, non commosse il “grande vecchio”, ne rese però irreversibile la conversione mistica, l’insofferenza per la follia dell’abituale, per l’inerzia del buonsenso nella vita quotidiana.
Dal canto suo, Gallego approfitterà del disordine generale innescato dalla perestrojka per fuggire dall’ospizio dov’era rinchiuso, tornando dai mondi a parte – istituti per disabili, centri chiusi, centri segreti – dove di volta in volta lo avevano internato in attesa della morte prevedibile per chi, come lui, era marchiato da un handicap grave. Nel suo caso, una paralisi cerebrale alla nascita: anche se, come rivendicherà una volta libero, “con l’indice della sinistra posso scrivere al computer, nella destra ci si può infilare un cucchiaio e mangiare normalmente” [Adelphi 2004, p. 131].
Niente di tutto questo, va da sé, nell’esistenza un tempo addirittura brillante di Ivan Il’ič, non fosse che essa ci viene data retrospettivamente dal punto di vista della sua morte, a sua volta raffigurata dall’interno , dal punto di vista della coscienza del morente. E allora grado a grado tutto si sgretola nei toni della menzogna e del disvalore. E’ qui che, mano a mano che Ivan Il’ič sprofonda nelle vicissitudini del corpo, la marmellata di susine, madeleine proustiana ante-litteram, anche se di materia più dimessa, viene dolorosamente ad evocare in lui, con la memoria dei sapori, tutta una serie di ricordi dell’infanzia, la bambinaia, il fratello, i giocattoli…

 

Andata e Ritorno Vol. 3 – Festival di poesia orale, musica e arte –

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a cura di Blare Out

10-11 marzo 2016 – Venezia

Opening: giovedì 10 marzo ore 17:30
Palazzo Mora, Str. Nuova, 3659, Venezia
Ca’ Bernardo, Dorsoduro 3199, Calle Bernardo, Venezia

Blare Out presenta la terza edizione di Andata e Ritorno – Festival di poesia orale, musica e arte – che si terrà il 10 e l’11 marzo 2016 a Venezia, nelle sale espositive del primo piano di Palazzo Mora, uno degli spazi gestiti dall’European Cultural Centre, che che ogni anno, in occasione della Biennale, ospita mostre di arte contemporanea e architettura.

“I desertificati” – di Daniele Zinni

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di Daniele Zinni

Mattina, esterno: campo lungo di una rovente piana sabbiosa. Una figura avvolta nel bianco e in una nube di pensieri cammelleggia, senza fretta né entusiasmo, lungo una rotta che lei sola vede, come la mano del disegnatore segue una linea che l’occhio già immagina sulla carta. Forse subconscia delle similitudini che la riguardano, la figura sbadiglia; di riflesso sbadiglia pure il cammello.

Controcampo: a censura integrale dell’orizzonte e delle sue lusinghe si innalza dalla sabbia un massiccio brullo, affettato in due da un crepaccio scuro. È lì, verso il sentiero aperto nella pietra, che punta la figura, e ogni giorno si compiace di poter attraversare la spettacolare Gola del Breikh durante l’orario di lavoro. Con ritualità, il viandante inspira e raddrizza la schiena; ammira la striscia azzurra costretta tra le rupi; gode, detto fra noi, del brividino e della leggera vertigine con cui il suo corpo si adegua al fresco ombroso dell’abisso. Quattro minuti di vacanza al giorno: un affare simile, con Allah, non lo si spunta spesso.

Una volta Sumì è in anticipo, e di minuti a disposizione nella Gola ne ha sedici. Scende dal cammello, si avvicina a esaminare la parete di roccia, la scopre rosa e nera – l’amalgama di due minerali diversi. Da bambino, sospetta, ne avrebbe saputi i nomi e ricordate le proprietà, ora deve limitarsi alle apparenze. Si ripromette di prendere a prestito un manuale di mineralogia e tornare alla Gola il giorno dopo, che è un sabato, per oziare con calma, poi però si solleva una tempesta di sabbia e gli tocca rimanere a casa. La domenica il tempo è bello, ma c’è da sistemare una finestra rotta ed è un peccato, perché il fine settimana successivo lui e la moglie sono ospiti da amici quindi se ne riparla ancora più in là.

Nell’animo di Sumì, comunque, si fa strada la convinzione che il suo equilibrio dovrebbe essere invidiato; le sue quotidiane scappatelle tra bellezza, innocenza e libertà. Ne parla a sua moglie, lei tira dritto alle conclusioni: «Il tuo lavoro non ti piace».

Se l’aspettava mica, Sumì. Si abbatte, si arrovella, passa la notte a incolonnare pro e contro. Al mattino, vestendosi, ritira fuori la questione con disinvoltura: «Macché, mi piace! Mi piace! Non devo fare straordinari, i colleghi sono simpatici, a casa ho la mente libera… E poi che c’entra?». La moglie compie l’impresa di seminare discordia in una sola persona: «Mah, fa un po’ come ti pare». Sumì è interdetto, avrebbe fatto più volentieri come pareva a lei, ma a questo punto gli sembra il caso di tenere duro.

Passano i giorni: dubbiosi, ripetitivi, feriali giorni. La ripetitività fa appena in tempo a poter essere considerata tale che è interrotta dall’incontro di Sumì con un perdone del deserto, uno dei tanti ragazzi che finiscono la scuola e decidono di perdersi fra le dune per mesi o anni, senza una preoccupazione né un obiettivo preciso, come se il tempo non fosse denaro. Troppo vestiti, troppo imprudenti, senz’acqua né mappe al seguito, nessuno sa bene come facciano a sopravvivere o perché lo facciano.

Sumì, senza cattiveria, preferirebbe dare un dito, piuttosto che confidenza agli sconosciuti. D’altronde, i funerali ai quali in passato non ha voluto partecipare gli hanno insegnato una verità: puoi trovare tutte le giustificazioni che ti pare, per non fare certe cose, ma perdi più tempo a reprimere i sensi di colpa per non averle fatte di quanto ne perdi a farle. Ecco perché Sumì ormai frequenta anche i funerali di persone che conosceva molto poco, ed ecco perché si prepara a dare un passaggio al perdone, mentre gli si avvicina a dorso di cammello.

«Ciao amico! Grazie per esserti fermato. Me lo daresti uno strappo?»

«Per dove?»

«Non saprei! Tu dove vai?»

«Torno a Dodaih.»

«Non la conosco ma va benissimo!»

Il perdone monta su mentre Sumì ha un attimo di esitazione, indeciso se scansarsi – rischiando di esser preso per uno che ha pregiudizi sull’igiene personale dei perdoni – o restare immobile, rischiando la figura del maleducato. Avverso al rischio ma favorevole al rendimento, Sumì si sposta accennando un sorriso, per sembrare gentile e comunque evitare il contatto fisico. Obbligandosi alla socievolezza, rompe il ghiaccio:

«Dovresti saperti orientare, prima di giocarti la pelle nel deserto.»

«Me l’hanno insegnato, ma dimentico sempre come si fa!»

«Ci vuole allenamento. Io ritrovo tutti i giorni la strada di casa, potrei andare a occhi chiusi.»

«Lavori nel deserto?»

«Come tanti. Faccio l’esploratore.»

«Avventuroso! Torni da un lungo viaggio?»

«No, sono uscito di casa stamattina. Il contratto di categoria prevede paga tripla, se passiamo la notte fuori, perciò il capo ci chiede di non spingerci a più di quattro ore da Dodaih.»

«Eh ma è limitativo!»

«La scorsa generazione ha lottato duramente per ottenere i diritti di cui godiamo oggi.»

Il cammellostoppista rimane in silenzio, Sumì è accigliato. Dopo un po’ riprende a parlare, anche se sembra che parli da solo.

«Mi piace, mi piace, è un bel mestiere, sto all’aria aperta… Anzi, tra un po’ passiamo dalla Gola del Breikh, è un gioiello, la devi vedere. Ma non hai caldo, così coperto?»

«Solo ora che me lo dici. Strano! Sono due settimane, che vado in giro vestito così – lavandomi, s’intende.»

«Chiaro, chiaro.»

***

Giorno di mercato: Sumì passeggia in cerca di un paio di sandali o una mucca, non fa differenza. Mentre sbircia tra le bancarelle è affascinato dalla fortuna del fioraio, che sa i nomi di tutte le piante e certo vive una costante ebbrezza di odori e colori; dalla fortuna della cartomante, che conosce gli affari privati di tutti e quindi tutti la rispettano; dalla fortuna del pizzicagnolo, che può tenere per sé i salumi migliori e più magri e inoltre fa un mestiere con un nome divertente. Sumì si chiede se non abbia davvero sbagliato impiego, se non avrebbe dovuto fare il fioraio, il cartomante o il pizzicagnolo, magari tutti e tre insieme, ciascuno part-time. A essere onesto, sa benissimo come in passato avesse accarezzato con la medesima prurigine l’idea di diventare un esploratore, e un commerciante di tappeti prima di quello, e un farmacista prima ancora. Nessuna professione era riuscita per più di pochi mesi a sedare quell’animo irrequieto; e finché si è giovani, la cosa è fisiologica, ma da adulti un comportamento simile può ricordare quello… della trottola. (Come tutti sanno, anche se pochi sanno di saperlo, darsi della trottola è per i pragmatici abitanti del deserto l’insulto più caratteristico.)

Sumì è immerso in queste congetture e nell’osservare la figlia della merciaia, piegata a raccogliere un barattolo, quando si sente chiamare: ma guarda, di nuovo il perdone, ha deciso di trattenersi a Dodaih per qualche giorno. Una volta tanto, a Sumì fa piacere una compagnia imprevista, che gli permetta di sottrarsi alla pressione dei dubbi. Si susseguono saluti di circostanza, chiacchiere di circostanza, inviti di circostanza: i due vanno a bere un bicchiere di circostanza da Sumì, il quale a ripensarci avrebbe dovuto riparare quella famosa finestra, prima del rientro di sua moglie.

«A proposito, dov’è tua moglie?»

«A proposito di che?»

«Non so, mi è venuto da dirlo. Te ne verso un altro?»

«Sì grazie. Ancora. È uscita, sarà da un’amica.»

«Sicuro? Ieri ho conosciuto Amuah, mi ha detto di essere il suo amante.»

«È… possibile. Può darsi che sia da lui.»

«Non sei geloso?»

«No: Shisma rimane una buona moglie, anche se infedele. Bisogna saper distinguere.»

«Però non sei contento, ti si legge in faccia.»

«In questo periodo sono un po’ demotivato, ma lei non c’entra. Passerà.»

«È il lavoro che ti annoia? Perché non cambi?»

«Guarda ho provato di tutto e mi è successo ogni volta, devo essere proprio fatto così. Mi riempi il bicchiere?»

«Forse sei depresso! Nel raggio di un mese a dorso di cammello, Dodaih è circondata dal nulla.»

«Il deserto bisogna saperlo apprezzare. E poi c’è la Gola, tu l’hai vista, lo sai che un posto così ti rigenera lo spirito.»

«Non sarà  un palliativo? Il buono nella tua vita non dovrebbe essere un’eccezione. Dovresti davvero spostarti un po’.»

«Ma io viaggio! Sono stato in Europa, in America, in Cina; l’anno prossimo io e mia moglie festeggiamo 25 anni di matrimonio e andiamo in Polinesia. Passa la bottiglia, và.»

«Non parlo di turismo, parlo di andarsene per sempre.»

«No, non esiste: io ho i miei amici, mia moglie deve scoparsi Amuah… E gli abitanti del resto del mondo non sono più felici di me; non hanno niente più di me, che in tutto possiedo un cammello e mezza casa. Anzi, io ho la Gola, tutte le mattine, e quella loro non ce l’hanno.»

«A me pare che tu faccia dei sacrifici inutili. Mi versi due dita? Così. Basta, basta.»

«È questione di disciplina, Allah sa. E non mi prendere per uno stupido: lo so che Allah esiste solo nella mia testa, ma è un modo di dire, un modo per riassumere che voglio essere un uomo buono, umile, onesto e generoso. Anzi, se io non fossi così, tu saresti ancora perso in mezzo al deserto.»

«Lo dici come se fosse una cosa negativa! Tu a perderti nel deserto ci vai otto ore al giorno, cinque giorni alla settimana.»

Dopo quella volta, il perdone non si è più visto. Sumì si è tenuto moglie, casa, lavoro e con questi, ogni tanto, una settimana di dubbi laceranti che si risolvono regolarmente a tarallucci e vino. Negli ultimi tempi ha preso a fare delle incisioni sulle pareti della Gola del Breikh: le forme riproducono cammelli, serpenti, oasi, stanze da letto. Si è convinto che un giorno, se continuerà a incidere la montagna animato da una passione disinteressata, s’imbatterà per caso in un filone d’oro o di un altro metallo prezioso. Tale convinzione, va detto, non trova il supporto di alcun dato reale.

 

*

L’illustrazione è di Andrea Chronopoulos, di Studio Pilar

.agone agonia.

0

di Gianluca Garrapa

[una selezione di inediti]

Lingue 2

no preoccupa tu gentile e bravo
uomo va solo con donna
io amo te come amico
no come donna                (scusa)
(adesso sei arrabbiato)
in mio paese queste cose
taglia gola no arrabbiato io
no capisci non vuole
così                                dio.

*

Il monoscopio

1

Culler(ecco il penultimo degli Incontri ravvicinati di tutti i tipi. Oggi andremo in casa addirittura di un premio Nobel! G.B.)

di Alberto Tonti

L’atmosfera al Politecnico di Milano è già bella calda. Si passano giorni interi in assemblea a discutere di tutto e di più, fondamentalmente contro qualcosa o qualcuno. Le idee in gioco non sono ancora confluite in diverse, distinte fazioni, simili fra loro ma con sfumature che andranno dal rosa pallido al rosso sangue. Spesso mi ritrovo su posizioni critiche rispetto al Movimento Studentesco, soprattutto giudico le frange estremiste sconsiderate e, in fondo, assimilabili per certi versi a modalità che puzzano di fascismo. Sono sempre presente alle occupazioni e ai cortei, convinto che una parte di quella rivoluzione sia salutare per la scuola e per il paese. Respiro a pieni polmoni gas lacrimogeni, mi becco qualche manganellata, sono testimone di tutte le occasioni di scontro politico e fisico. Non getto mai la prima pietra e deploro quelli che lo fanno. Conosco di vista chi, coi sampietrini in mano, bersaglia le vetrate del Corriere della Sera, chi si salva per un pelo in Corso XXII marzo, chi spara in via De Amicis.

Le ragioni della mia personale protesta seguono più un filo legato al buon senso che al cambiamento rivoluzionario, al ribaltamento violento, alla negazione assoluta dello Stato. Mando a quel paese chi mi fa notare che a Natale lo scambio di auguri debba essere inteso per ricordare la nascita di Mao Tse Tung e non quella di Gesù. Mi vergogno quando, col libretto universitario in mano, mi metto in fila a ricevere il voto politico per una decina d’esami di cui non conosco neppure i contenuti. Non oso guardare in faccia i professori, tanto più se coinvolti forzatamente nella farsa. E’ in quel frangente che decido di allontanarmi per un po’ dai compagni per chiudermi in casa a studiare le materie per le quali ho ricevuto gratis un trenta, per fortuna senza lode.

Durante una vacanza in Costa Azzurra, organizzata da un assistente di Composizione dalle larghe vedute, ho la fortuna di conoscere Gordon Cullen, un anziano e geniale architetto inglese, di rara simpatia e disponibilità. Mi prendo una cotta per le sue analisi sui segnali muti: una sorta di sistema per “navigare in città” che comprende segnaletica, punti di riferimento, particolari memorizzabili, comunicazione fra città e cittadino, linguaggio e vocabolario visivo. In pochi giorni di incontri con Cullen, raccolgo tutto il materiale che serve per scrivere un lungo articolo e, tornato a Milano, ho la sfrontatezza di proporlo a Domus, la più importante rivista di architettura del momento. Dato che una volta nella vita una botta di fortuna può anche capitare, dopo una settimana mi arriva una lettera della redazione dove mi viene comunicata la decisione di pubblicarlo su sette pagine con tanto di schizzi, foto, e via dicendo. Resto talmente incredulo che non ho il coraggio di dirlo a nessuno.

Devo dire che la vacanza in Costa Azzurra ti ha fatto proprio bene!” esclama l’assistente dalle larghe vedute con in mano una copia della rivista. Potevi anche dirmelo, ma ti perdono: hai fatto proprio un bel lavoro, bravo. Nell’intervallo delle dieci andiamo a berci un caffè, ti devo parlare.”

Confuso e colto da improvviso senso di colpa accenno un sorriso mentre sento che le orecchie s’infiammano, poi annuisco e mi rimetto a tirar righe sul tavolo da disegno.

Al bar il colloquio si svolge rapidamente.

Ho la possibilità di ristrutturare la casa di Salvatore Quasimodo e ho pensato che potresti darmi una mano anzi, per dirla tutta, mi piacerebbe aprire uno studio con te, se te la senti.”

salvatore-quasimodoPer la seconda volta nel giro di pochi giorni resto sbalordito da come all’improvviso tutto stia volgendo verso il meglio: cosa posso sperare di più che avere come primo cliente un premio Nobel e, contemporaneamente, aprire uno studio con il mio assistente universitario preferito? Appena prima che mi vada di traverso il caffè riesco a balbettare qualcosa che assomiglia ad un sì strozzato e, quando comincio a tossire, rosso in viso e coi polmoni in subbuglio che non gradiscono affatto l’arrivo invadente di un po’ di quel liquido nero e bollente, mi becco una violenta manata sul groppone dal mio neo-socio. Botta che traduco sia come mano santa per porre fine alla tosse, sia come apprezzamento maschio dell’appena sancita alleanza.

Detto fatto nel giro di pochi giorni ci organizziamo per trovare in affitto un paio di locali da adibire a studio e fissiamo un appuntamento col sommo poeta per la fine del mese.

Nell’attesa dell’incontro l’agitazione e l’ansia crescono: mi compro una bella bindella da cinque metri, un block notes formato UNI molto chic, forse troppo, uno stock di matite di varie durezze, una bella gomma bianca della Staedtler, insomma mi manca solo il nettapenne, la carta assorbente e il cestino per la merenda e sono pronto per tornare alle elementari. A poche ore dall’appuntamento mi faccio una doccia e la barba, mi pettino con la riga e riesco persino a ritrovare in fondo a un cassetto una bella cravatta tutta colorata che fa molto architetto navigato.

Al quarto piano di Corso Garibaldi 16, appena la porta dell’appartamento si apre la donna di servizio (identica a quella che in uno spot dichiara: “arrivo presto, finisco presto, ma non pulisco il water”) mi guarda come si guarda un ragazzino a cui non affiderebbe neppure il riordino di una cucina o di una camera da letto, figuriamoci la casa del Maestro. Lui, invece, ci riceve con un sorriso cordiale e rassicurante, mi stringe la mano come si fa con un uomo anche se, palesemente, ho proprio l’aspetto di uno sbarbatello alla prima esperienza. E’ basso, sul viso pallido brillano occhi penetranti, parla lentamente, è elegante nei modi, mette a proprio agio e, insomma, dopo un paio di minuti mi ha completamente conquistato.

Ci fa accomodare nel suo studio e, con un gesto della mano per sottolineare le sue parole, dice: Come potete notare vivo in un caos, ho bisogno di mettere ordine in questa casa. Ormai non trovo più niente, lo vedete da voi è tutto accatastato: libri, documenti, oggetti. Dovete essere in grado di trovare soluzioni di arredo ma, soprattutto, tentare di riordinare il più possibile. Se vi lascio carta bianca, ce la farete?”

Annuiamo all’unisono come due bravi soldati.

Certo!” osa esclamare il mio socio “vedrà, alla fine le sembrerà di essere in un’altra casa …”

Beh, spero proprio di no, a questa ci sono affezionato…”

Faceva per dire” mi affretto ad affermare prima che una seconda gaffe convinca Quasimodo a chiamare la signora di cui sopra per farci accompagnare alla porta. “Bene, bene… allora d’accordo: lunedì prossimo partirò per un lungo viaggio in Europa, starò via per un paio di mesi, queste sono le chiavi di casa. Basteranno due mesi?”

Ce li faremo bastare, professore!” risponde il socio senior intascando le chiavi e lanciandomi un’occhiata che sta a significare non c’è nient’altro da aggiungere “e grazie ancora per la fiducia.”

L’appartamento di Corso Garibaldi è molto grande e ricorda alla lontana un campo di battaglia alla fine della stessa: per muoversi all’interno di una qualsiasi stanza è necessario seguire stretti percorsi obbligati che si aprono appena nei punti dove è strettamente indispensabile avere più spazio: attorno al tavolo da pranzo e al letto matrimoniale, davanti al divano, alle poltrone e alla libreria. Tutto il resto dei metri cubi disponibili è occupato da cataste di libri dall’altezza variabile, da altrettante cataste di fogli, cartelline, documenti, da oggetti i più disparati che si sono ritagliati a forza uno spazio e, ovunque, da una serie di riproduttori elettronici tutti contemporaneamente funzionanti. Radio, registratori, giradischi e televisori a volume molto basso che rimandano, ciascuno per proprio conto, soffici e avvolgenti folate di suoni, parole, musica che si rincorrono senza sopraffarsi aleggiando, come un continuo mormorio per le varie stanze, tranne che in cucina, regno incontrastato della vera padrona di casa: la signora Teresa.

Tornati nei due locali del nostro piccolo studio mi viene da dire: Ma sei sicuro che in due mesi ce la faremo?”

Dobbiamo farcela! A costo di lavorare giorno e notte. Se il risultato finale fosse molto buono e lo sarà, hai idea di quanti altri clienti potremmo avere nel giro di poco tempo? Un premio Nobel conosce il mondo e, se saremo stati bravi, il mondo diventerà nostro.”

Ho come il sentore che l’affermazione sia azzardata ma, al momento, non mi sembra il caso di farglielo notare.

Dal fatidico lunedì, saltando alcune lezioni, passiamo intere giornate in casa Quasimodo cercando le soluzioni più appropriate, se non altro per mettere un po’ di ordine in quel groviglio inimmaginabile. Mentre discutiamo e prendiamo appunti, mentre facciamo degli schizzi o misuriamo con la bindella da cinque metri nuova di zecca, ogni tanto incrociamo lo sguardo incredulo della signora Teresa che, sparendo dalla nostra vista, se ne va in cucina scuotendo immancabilmente la testa. La sua fiducia nei nostri confronti è totale.

Una volta riusciti ad individuare il bandolo della matassa, in pochi giorni mettiamo nero su bianco sui nostri bei fogli di lucido: piante, prospetti, sezioni, assonometrie, prospettive, particolari costruttivi, eccetera. Scegliamo accuratamente i fornitori giusti e la piccola, ma efficiente impresa, che eseguirà i lavori. Ci restano circa 40 giorni di tempo per portare a termine il cosiddetto “chiavi in mano”, che poi sono le stesse che il professore ci ha consegnato prima di partire.

Si decide di procedere con i lavori stanza dopo stanza. Se ne svuota una accumulando tutto il contenuto in quella accanto, si porta a termine la scatola come da progetto (pareti, soffitti e pavimento) poi si passa all’arredo e alla distribuzione ordinata di qualsiasi pezzo presente in precedenza. Si va avanti così fino alla fine e man mano che l’appartamento assume un aspetto prima decente poi finalmente impeccabile ci rendiamo conto di aver fatto un buon lavoro. Nonostante l’apprezzamento insperato e incondizionato da parte della signora Teresa non riusciamo a convincerla a metter mano anche alla cucina. Appoggiata con le braccia spalancate agli stipiti della porta ci comunica che: Qui dentro non entra nessuno. Qui dentro va bene così. Chiaro?”

Per farla breve a due giorni dall’arrivo del professore, quindi in anticipo sui tempi, la casa ci sembra perfetta e confrontandola con le varie foto scattate prima del nostro intervento non c’è proprio paragone.

Il mattino seguente il suo arrivo notturno all’aeroporto di Linate ci diamo appuntamento in studio alle nove. Per stemperare la tensione che incombe nell’attesa di un colpo di telefono ci incartiamo in una accesa discussione pseudo politica sulle strategie del Movimento Studentesco nel bel mezzo della quale veniamo interrotti e placati da un trillo importante, un trillo che mi vibra nelle ossa e che mi fa assumere l’aspetto di un qualsiasi ebete in circolazione.

Pronto. Buongiorno professore…si mi dica. Oh grazie, grazie davvero, sono felice che le sia piaciuto. Nel pomeriggio? Verso le cinque va benissimo. Ci saremo. A dopo allora e grazie ancora.”

Sempre come un qualsiasi ebete mi alzo dallo sgabello e con le braccia alzate, tipo dopo un gol, mi metto a urlare per la stanza, poi abbraccio il socio, mi astengo dal baciarlo perché sarebbe troppo e, continuando a saltellare, vado in bagno prima di farmi la pipì addosso.

monoscopioIl nostro premio Nobel adorato ci riceve nel soggiorno dove, comunque, appoggiati su mensole e tavolini, rumoreggiano un paio di radio, un registratore, un giradischi e un televisore. E’ molto contento del “miracolo” (così lo definisce lui) che siamo riusciti a compiere in soli due mesi, ci ha messo circa sei ore a capire come e dove avevamo posizionato tutto quel ben di dio che prima invadeva ogni centimetro quadro delle stanze ma, in compenso, una volta scoperta la logica da noi adottata per mettere ogni cosa al suo posto, si è sentito pienamente appagato di un ordine che ormai credeva aver perduto per sempre. E di questo ci era veramente grato. Nessun altro complimento avrebbe potuto renderci più felici, al punto che il socio senior, eccitato da quelle parole, decide di raccontare per filo e per segno tutti i passaggi che ci hanno portati a quel risultato. Mentre è nel bel mezzo della spiegazione mi rendo conto che il Sommo Poeta è interessato allo schermo del televisore, che a quell’ora manda in onda l’immagine fissa del monoscopio ad uso dei tecnici, e non alla valanga di parole che stanno invadendo il suo padiglione auricolare. E’ vero, ogni tanto sorride, ogni tanto annuisce, ogni tanto sussurra qualcosa, ma per lo più è attratto in maniera irresistibile da quell’immagine in bianco e nero con sfumature di grigio, tanto da assumere un’espressione dubbiosa, altre volte interrogativa, altre volte addirittura cupa. La storia del mio partner non è ancora giunta al termine che, alzando una mano, il professore chiedendo la parola lo blocca sul più bello, chiede venia per un minuto, prende in mano la cornetta del telefono, compone un numero e alla risposta dice:

Buona sera, sono Salvatore Quasimodo, può cortesemente passarmi il tecnico che manda in onda il monoscopio” e rivolgendosi a noi sussurra “ è la RAI, scusate solo un istante.”

Si pronto… buona sera a lei, sono Salvatore Quasimodo mi spiace disturbarla ma, solo per curiosità, rispetto a un paio di mesi fa avete per caso cambiato il monoscopio che mettete in onda al pomeriggio?” Silenzio, poi un lieve sorriso, poi ancora silenzio e finalmente: Ah, ecco volevo ben dire, c’erano troppi particolari che non mi tornavano, quindi da una settimana avete dovuto mettere in onda il vecchio monoscopio perché quello nuovo si è rovinato… ecco, ecco… capisco. Ma si figuri, cose che succedono…no grazie a lei e buon lavoro.”

Scusatemi, a questo punto vi devo una spiegazione se no potreste prendermi per matto. Alla RAI ormai mi conoscono, sono molto cortesi, ogni tanto li chiamo per delle informazioni e così ho…come dire…insomma le porte spalancate. Guardando attentamente il monoscopio, che come credo sappiate viene utilizzato per calibrare luminosità, contrasto, sintonia e altre diavolerie simili, mi sono reso conto che non era quello solito mandato in onda prima della mia partenza e così ho voluto sincerarmene. Avevo ragione: sono stati costretti a sostituirlo con uno precedente perché quello nuovo, in onda da più di un anno, per un incidente non era più utilizzabile. Tutto qui.”

Se ci avessero fotografato in quel momento con un flash saremmo sembrati due deficienti con la bocca spalancata, gli occhi sbarrati causa incredulità crescente e inarrestabile.

Complimenti” riesco solo a dire dopo essermi ripreso. “Complimenti davvero per la sua straordinaria memoria visiva e…”

Grazie ma no, niente di particolare, lasciamo stare. Piuttosto torniamo a noi: allora fra una decina di giorni ho deciso di organizzare una cena con pochi amici e mi farebbe piacere avervi ospiti, giusto per inaugurare la nuova casa, che ve ne pare?”

Beh” balbetta il socio “ che dire, non avremmo sperato di meglio, saremo felici di esserci.”

quasimodoBene allora grazie e ancora complimenti, domani se passate dalla mia assistente troverete il saldo della vostra parcella e verrete chiamati fra un paio di giorni per la data della cena. A presto.”

Esattamente dieci giorni dopo alle 20.30 siamo entrati, stavolta in qualità di ospiti, nell’appartamento di Corso Garibaldi. Era tornato, più o meno, come la prima volta che lo avevamo visto: impraticabile.

Accomodatevi: ecco amici, vi presento gli architetti che mi hanno riprogettato la casa da capo a piedi, meritano un applauso o no?”

Non mi ricordo se c’è stato l’applauso, però mi ricordo le loro facce.

E’ inutile sottolineare che il “mondo” che avrebbe dovuto diventare nostro cliente non ci ha cercato né il giorno dopo, né per il resto della nostra lunga carriera.

Educazione sentimentale 1: Erich M. Remarque, Tre camerati

2

di Antonio Sparzani

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Per quel che riesco a ricostruire oggi, la mia educazione sentimentale è cominciata, nella tarda adolescenza, con i libri di Erich Maria Remarque (1898–1970). Autore tedesco di Osnabrück, bassa Sassonia, notissimo per aver scritto quello che davvero fu un best-seller mondiale, e che gli permise di vivere tutta la vita di ricche royalties, Im Westen nichts Neues, tradotto spesso col titolo sovrabbondante di Niente di nuovo sul fronte occidentale e talvolta più sobriamente con All’ovest niente di nuovo.

Io non lessi subito questo, ma pescai, con criteri tutti miei, tra i libri di mia madre, che di Remarque aveva posseduto vari titoli, e scelsi per primo Ama il prossimo tuo, e poi, decisivo, Tre camerati. È di questo che voglio parlare, dato anche che di recente è stato riedito da Neri Pozza.

Sabbia

2

di Marino Magliani

carlos paz copertina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da casa sua il mare non si vedeva, bisognava attraversare un ponte romanico, poi risalire la mulattiera fin su dove non cresceva nulla, giusto l’erba tra le pietre.

Momo (Parodia)

1

di Daniele Ventre

Poi al passare dei mesi, al correre delle stagioni
al declinare dei giorni, compiendosi lune su lune,
Momo rimase in angoscia rinchiuso in un’urna di bronzo:
si accumulavano intanto le carte e cedevano i muri
e ragnatele sui muri tessevano reti di oblio
e arcobaleni dell’ombra. Per Momo era tutto un bilancio
e bofonchiava così sbilanciando l’urna di bronzo:
“Certo che sono di quelli che pensano di risuolare
sempre le scarpe degli altri al meglio e lasciarne anche il segno.
Io non ho dubbi a scavarci cadaveri sotto i giardini
e se le scarpe suolate non creano traccia né impaccio,
io sono qui a risuolarle -e a chiedermi dove ho sbagliato.
Ma rivediamo con ordine il tutto e spulciamoci a modo:
sì lo spulciarsi è di moda –dell’ordine sparso mi rodo.
Non ci considera musa in collegio o anche da sola-
non ci considera voce di Zeus che diffonde la fama-
non ci considera più diceria né grido di strada-
non ci considera più mormorio o sussurro nel chiuso-
non ci considera più rumorio o bisbiglio di bosco-
non ci considera più l’abbaio dei cani la notte-
non ci considera più chiacchierio di vecchie comari
non ci considera più scaracchio o bugia di sipari.
Certo la somma di tutte le parti è diversa dal tutto:
pure il totale di tutte le parti è ridotto a un bel nulla.
Sì, non dovrei compiacermi -però mi compiaccio davvero:
amo altresì superarmi -altre volte no: mi declasso.
Sì, dovrei farne ironia -però di ironie non è tempo:
anche se il dolce sapore del nulla è un ripudio in tripudio:
anche se tutto il valore del mondo è segnato in ribasso.
Certo dovrei compiacermi di vivere da clandestino,
pur acclamato dal clan e pur desistendo al destino.
Pure veniamo al dettaglio. Fra i piccoli rivenditori
barcamenarsi è la norma: la forma è menarci fra noi.
L’arte del buon gossipparo -il termine copia conforme
l’eco di Truman Capote -per me mi ritengo uno speaker-
l’arte del buon gossipparo -che investiga selve già scure
quello che giudica e accetta i panni e li taglia di scure-
l’arte del dissodatore cartografo puericultore,
di immaginario malato che immagina qualche salute,
di coniugato da verbo perché verbigrazia cucino
l’arte di spappola-scroti che è poi la più momica al mondo
l’arte di Asclepio dei gatti e silvicoltore per ratti
(da involontario volente volutosi senza volerlo)
l’arte di ogni arte artefatta per artificiosi artigiani
sempre si mescola all’arte auto-imbonitrice di araldo
della mia propria virtù, per cui di umiltà mi rivesto
e seppellisco superbia -e mi do da fare e da dire
anche col mare di mezzo -e non c’è traghetto che passi.
Ecco perché mi rivolsi ai pitici sputa-responsi
e dei responsi sputati qui computo facile il conto:
quattro risposero a Delfi che non si forniva responso-
due mi risposero a Delo che non rispondevano in forse-
uno rispose che aveva lasciato il santuario e le bende-
due mi lodarono molto e ai responsi chiesero tempo-
uno rispose a sfottò “Però le faremo sapere”-
uno rispose annoiato “Oracolo fuori servizio”-
uno rispose seccato “Però le sapremo ridire”-
uno rispose da Cuma “Ci stancano troppi responsi”-
uno rispose a Dodona “Lo sai che non poto più querce”-
uno rispose: “Non sèi gradito e non serve che chiedi”-
uno che mi conosceva e non si degnò di predire-
tre che non mi conoscevano oracoli manco a parlarne-
mi ha trascurato anche Apollo giocando alla palla di Apelle-
mi hanno ignorato anche Asclepio e Igea per igiene mentale.
No, non si sentono muse -ma ne ho risuolate di scarpe,
arte da buon gossipparo -sarà che non merito meno.
Forse le scarpe suolate valevano meno da sole
senza che le risuolasse alcun suolatore dabbene
o ci spendesse responso un pitico -giochi di sponda.
Certo parrebbe che io accrescessi cumuli e mucchi
-troppi- di suole sfondate, che già se ne ammucchiano in tante.
Certo non sono un ingenuo, se all’ingenuità pur mi ingegno,
fosse anche stato un po’ meglio il rivenditore di turno,
fossi una divinità da oroscopi, stelle ed incesti,
forse sarebbe già un altro l’oracolo, altro il responso”
Si lamentava così, Momo attento, il buon gossipparo,
né si sentivano Muse a esaudirgli qualche preghiera.
E ricontava le spese postali agli oracoli vani
e ricontava le spese dei farmaci per digerire
tutta la bile del mondo e tutto il suo mondo di bile
a rimanersene sempre rinchiuso in un’urna di bronzo,
mentre una voce in bachata cantava a sua voglia dal lido:
“La cuentecita que hizo el pobre otra vez ha salido”
(anche se Orlando è finito e non è più questa la sede).

Seia nove: Charles Webb

1

il-grand-slamIl grande Slam

di Seia Montanelli

Se la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, quella che porta all’olimpo della letteratura è costruita sulle lapidi di quanti sono stati dimenticati – anche se buoni scrittori, belle mani e teste di narratori, sensibili artigiani della penna -; tutti uniti da un destino che li ha relegati nell’oblio, per sfortuna, per mancanza di tempismo, o perché considerati degli outsider, e dunque sospinti ai margini di un sistema selettivo e vorticoso che celebra chi si adegua e dimentica chi non vuole fare parte del circo(lo).

Ogni tanto qualcuno però riscopre qualche nome o ripubblica un libro da decenni introvabile restituendo a Cesare quel che è di Cesare. Capita così che Nicola Manuppelli, editor e traduttore di Mattioli1885 rammenti al pubblico italiano un autore che, quando era ancora al college, ha scritto un romanzo destinato a conquistare Hollywood e a sconvolgere un’intera generazione con il film che ne è stato tratto. Scommetto che il suo nome, Charles Webb, non dirà molto a parecchi di voi, ma se dico “Il laureato” allora la nebbia comincia a diradarsi per forza. Il famoso film con Dustin Hoffman che ha sdoganato la passione per le Milf di milioni di giovani uomini in tutto il mondo e ha segnato una generazione, è tratto in realtà da “The graduate” di Charles Webb, che non è nemmeno stato citato nei credits della pellicola, nonostante la sceneggiatura si basi per più dell’80% sul romanzo.

In realtà non è colpa vostra se il nome di Webb vi dice ben poco, è quasi dimenticato anche in America, nonostante abbia scritto ben otto romanzi, l’ultimo dei quali – “Home school” – è una sorta di sequel del suo libro più famoso. Non solo: “Il laureato” a parte, dal romanzo “New Cardiff” viene il soggetto di un altro film, “Hope Springs” con Colin Firth.

Nel caso di questo particolare outsider però ogni pensiero di tristezza per la sorte che gli è toccata è però fuori luogo perché Charles Webb è il più anticonvenzionale degli scrittori (ma sarebbe stato fuori dagli schemi anche come avvocato, o medico o imbianchino). Del successo o dei soldi non ha mai voluto saperne, e ci ha messo del suo per essere considerato fuori dal sistema editoriale. La verità è che è un artista vero, uno di quelli per cui la stessa vita è un’opera d’arte: coi primi soldi guadagnati, un bel po’ peraltro, ha comprato una casa che però ha regalato molto presto, insieme ai mobili e altri beni, perché possedere delle cose lo faceva sentire oppresso e perché «le cose migliori nella vita sono gratis».

Webb, che ora è un arzillo settantasettenne che vive di espedienti nel sud del’Inghilterra e scrive ancora qualche opera teatrale, ha costruito “Il laureato” quasi interamente su memorabili dialoghi, (alcune delle battute scambiate dai protagonisti sono rimaste nella storia): ma essendo l’autore un geniaccio con molta sregolatezza che si annoiava a ripercorrere sempre la stessa strada, succede che nel ‘78 scrive un libro del tutto privo di dialoghi, “Booze”, tradotto in italiano come “Il grande slam”.

È la storia di Calvin Barnes, un artista di provincia, senza alcuna pretesa se non quella di continuare a dipingere: «non devo raggiungere la fama o il riconoscimento o il successo in senso commerciale, ma quello che è importante per me è continuare a farlo, continuare a dipingere e mantenere viva quella sensazione che ho quanto metto i colori sulla tela e faccio sembrare le cose che dipingo il più possibile simile a come le vedo. Nient’altro importa», spiega lo stesso Calvin nel romanzo.

In realtà la sua vita non è scandita solo dai quadri pieni di arance che dipinge, ma anche dai cicli del “grande slam”, come lui chiama le sbronze periodiche in cui si perde per tempi indefiniti e che all’inizio non riesce a riconoscere come alcolismo, considerandole invece un momento catartico in cui liberarsi dalle tensioni cui è sottoposto, soprattutto quelle sessuali, ma che nel corso del romanzo finisce con l’individuare come fasi epifaniche di una vera e propria dipendenza da cui cercherà di salvarsi.

Intorno a Charles si muove uno sparuto gruppo di personaggi singolari: una coppia di galleristi, Faith e Garreth, che tentano di convincerlo di essere un grande artista e gli offrono la possibilità di esibire le sue opere in una mostra (Garreth, sparisce il giorno prima del vernissage e Faith si mette in testa di “civilizzare Calvin e salvarlo dall’alcolismo”); Angus (una sorta di guida spirituale) e due donne con cui ha dei rapporti complicati, Donna e Yolanda, la prima sopraffatta dai problemi e sempre in bilico tra il suicidio e la sopravvivenza, la seconda un po’ sbandata, succube di Faith all’inizio, e che finirà con il diventare la compagna di Colin.

“Il grande slam” è un romanzo complicato per molti versi: lettura densa in quanto priva di dialoghi, è un ininterrotto discorso indiretto, in prima persona (salvo per la suddivisione in tre capitoli intitolati alle tre protagoniste della storia, che danno un po’ di respiro al lettore che altrimenti si troverebbe davanti un lungo muro di parole.) Calvin racconta e interpreta: tutto passa dai suoi occhi e dalle sue parole, sembra un moderno stream of consciousness e rischia di sembrare gravoso, soprattutto se paragonato all’agilità de “Il laureato”, coi suoi dialoghi vivaci e continui. Lo stesso Webb in un’intervista sostiene di aver scritto “Booze” di fretta e male e di aver preteso che non comparisse sulla copertina la scritta che lo identificava come un’altra opera dell’autore de “Il Laureato”. Ma era troppo severo con se stesso: se vi prendete il tempo di leggere “Il grande slam”, con l’intenzione di farlo davvero, di soffermarvi sulle parole e di guardare il mondo con gli occhi di Calvin, allora vi troverete di fronte a un romanzo notevole, pieno di ironia intelligente e a volte un po’ malinconica, in cui da una parte c’è il racconto della presa di coscienza da parte del protagonista del proprio alcolismo e del modo in cui la vita e le persone che ha incontrato lo abbian salvato; dall’altra, come in ogni opera di Webb a partire dal suo esordio fulminante, c’è un profondo senso di smarrimento di fronte a un mondo fasullo, artificiale, insincero. E ancora, dopo l’esperienza del primo libro, è chiaro il riferimento autobiografico nella vicenda di un artista di provincia improvvisamente scaraventato nel mondo dell’arte “che conta”.

Charles Webb resta tra le voci più originali di una generazione di scrittori che hanno raccontato alcuni degli anni più vivaci della storia dell’uomo, ed è sicuramente il più controcorrente: la sua vita (dal rifiuto del matrimonio degli agi materiali, sino all’educazione casalinga dei figli) come la sua opera (abitata da personaggi spesso perdenti ma terribilmente umani) sono una costante ribellione, un lungo grido di disprezzo per ciò che non è libero, autentico e sincero.

Con figure

2

di Eleonora Pinzuti

Herstory
La ruota si mangia il fango stamattina,
fra serti di brina, sassi, un suono d’altalena.
La lena di chi s’affanna nella corsa.
Non è niente, questo andare.
Solo la vita che
gioca il suo mestiere,
fin dove non traspare:
una legge che tiene tutti
(non la ricorderemo). Poi scompare.
E mentre mi figuro in questa
tela, come tutto, sfumo. Ma in tanto
lo spago di Cloto lavora carne viva
co’ suoi lacci.
E incontro una signora che si lava
il viso alla fontana, si immerge nella piana
verde: forse attende.
Mentre si stringe le fasce (quasi bende)
sui polpacci.

 

Memorie dal sottosuolo

1.

Ho incontrato per caso, oggi,
Bruno Biagetti. Mi guarda da quell’otto settembre
dell’89 infisso nei caratteri del suo necrologio
letto in fretta dalla corriera pullman che mi portava
all’esame di riparazione.

E ora, mentre attraverso le tombe infisse in terra,
profonde come il niente che affetta
l’erba, i ciottoli, le scritte,

lo vedo quasi sorridente,
spuntare in foto a colori
dal cono del tempo,
con le sue orecchie diritte.

2.

Sento ovunque il ticchettio del bastone
sulla ghiaia, oggi. I vecchi, prossimi al salto, vengono
più spesso. Quasi a rendersi conto con i propri sensi
dei posti, a farsi il luogo familiare, così prossimi
ai congiunti.

Sembra forse meno nera l’ombra, meno freddi i tocchi
di ciò che si chiama morte,
se ci si prepara per tempo, se giunti ai punti,
al nero spesso,

ci si abitua prima
gli occhi.

——

Con figure è in uscita per l’editore Zona nel  2016.

Intellettuali declassati

1

di Andrea Amoroso
Gli intellettuali, l’impegno e la fine delle utopie

Pubblichiamo un estratto del saggio contenuto ne Le nuove forme dell’impegno letterario in Italia, a cura di Federica Lorenzi e Lia Perrone (Giorgio Pozzi Editore, 2015)

Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
Sandro Penna

La letteratura non è un mestiere, è una maledizione.
Thomas Mann, Tonio Kröger

 

Intellettuali declassati

Quello della fine dell’”intellettuale-legislatore”, per riprendere ancora la definizione di Bauman, è un mantra che in Italia va avanti non da anni, bensì da decenni. È già a metà degli anni Settanta (in un saggio poi confluito nella volume Il critico senza mestiere), che il critico Alfonso Berardinelli parla di  prendere atto di una

avvenuta dissoluzione di un corpo ideologico al cui interno sono state vissute quasi tutte le vicende italiane degli ultimi trent’anni [nei quali] poesia e letteratura sembrano, inoltre, aver perduto del tutto il loro carattere di relativa e simbolica centralità all’interno del sistema culturale. [1]

Paesaggi di poesia 7 (Bologna, febbraio-maggio 2016)

3

Rassegna di incontri e dialoghi a cura di Sergio Rotino e Luciano Mazziotta

 

26 febbraio – Nadia AGUSTONI, “Lettere della fine” (Vydia editore); “[mittente sconosciuto]” (CollanaIsola), introduce Vito BONITO

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3 marzo – Marco SIMONELLI, “Il pianto dell’aragosta” (D’If), dialoga con l’autore Luciano MAZZIOTTA

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11 marzo – Leila FALÀ, “Mobili e altre minuzie” (DARS), dialoga con l’autrice Daniele BARBIERI

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17 marzo – Matteo BIANCHI, “La metà del letto” (Barbera editore)

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22 marzo – Marco GIOVENALE, “Maniera nera” (Nino Aragno editore), introduce Cecilia BELLO MINCIACCHI

Ibs.it bookshop ore 18

 

1 aprile – Vincenzo FRUNGILLO, “Le pause della serie evolutiva” (Oedipus)/Laura DI CORCIA, “Epica dello spreco” (Dot.com press), introduce Luciano MAZZIOTTA

Ibs.it bookshop ore 18

 

6 aprile – Vito BONITO, “Soffiati via” (Ponte del sale)/Marilena RENDA, “La sottrazione” (Transeuropa), introduce Luciano MAZZIOTTA

Ibs.it bookshop ore 18

 

15 aprile – Stelvio DI SPIGNO, “Fermata del tempo” (Marcos Y Marcos), dialoga con l’autore Gianni MONTIERI

Ibs.it bookshop ore 18

 

16 aprile – Elio TALON, “Che dei sogni che resta” (Kammeredizioni), interviene Loredana MAGAZZENI

Libreria Trame ore 12

 

20 aprile – Loredana MAGAZZENI, Fiorenza MORMILE, Brenda PORSTER, Anna Maria ROBUSTELLI presentano con Maria Luisa VEZZALI e a Silvia ALBERTAZZI “La tesa fune rossa dell’amore. Madri e figlie nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese” (La vita felice)

Libreria Trame ore 18

 

27 aprile – Laura SERGIO, “Il filo della scure” (Manni editore)

Libreria Trame ore 18

 

29 aprile – Afric Mc GLINCHEY, “La buona stella delle cose nascoste” (L’arcolaio), ne parlano con l’autrice Gino SCATASTA e il traduttore e curatore del volume Lorenzo MARI

Libreria Trame ore 18

 

maggio – Luca RIZZATELLO/Giusi MONTALI, “Faria” (Dot.com Press)

Ibs.it bookshop ore 18

 

12 maggio – Francesco TARGHETTA, “Le cose sono due” (Valigie rosse)

Ibs.it bookshop ore 18

 

*

 

Ibs.it bookshop, piazza dei Martiri, 5 – Libreria Trame, via Goito 3/C

Bologna

Da Osorgin a Chicca Gagliardo

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Gagliardo_LdSdi Romano A. Fiocchi

Chicca Gagliardo, Nell’aldilà dei pesci, La Libreria degli Scrittori, 2014, pubblicazione digitale; Ponte alle Grazie, 2006, pubblicazione in brossura.

La Libreria degli Scrittori è una casa editrice digitale molto particolare. È un editore di libri scomparsi. Vuoi perché esauriti, vuoi perché fuori mercato, vuoi perché non considerati ma meritevoli di considerazione. Prende il nome da una libreria realmente esistita a Mosca negli anni tra il 1918 e il 1922, quando il mondo editoriale della vecchia Russia veniva schiacciato dalla censura bolscevica. Qui, non potendo più stampare nuove opere, venivano raccolti e messi in commercio libri di tutti i generi, compresi quelli invisi al regime. La Libreria degli Scrittori vendeva e comprava volumi con il solo scopo di opporsi al declino culturale, quasi fosse l’ultimo presidio di sopravvivenza della lettura. E forse lo era, almeno: certamente della lettura libera. Michail Osorgin ne fu uno dei promotori, nonché il cronista di quella straordinaria avventura che durò finché il regime non ne comprese l’importanza. E di conseguenza la “pericolosità”.

Tutto questo lo sappiamo – ci informa la stessa casa editrice digitale in una nota in fondo ai suoi e-book – grazie a L’impronta dell’editore di Roberto Calasso, uscito per Adelphi nel 2013. Il tema, in verità, era già stato trattato dallo stesso Calasso nel breve saggio L’editoria come genere letterario, letto pubblicamente nel 2001 nella sala del Museo di architettura Schusev di Mosca in occasione di una mostra dedicata alla casa editrice, quindi uscito nella rivista in volume Adelphiana. Pubblicazione permanente (Adelphi Edizioni, 2002) e ripubblicato nella raccolta di saggi e articoli dal titolo La follia che viene dalle Ninfe (Adelphi Edizioni, 2005).

Cosa c’entra Chicca Gagliardo con Osorgin. Il volumetto della Gagliardo Nell’aldilà dei pesci è uscito nel 2006 e poi finito nell’aldilà dei libri, il mondo dove confluiscono le idee e le storie nate e poi scomparse. Ma qui la Libreria degli Scrittori digitale l’ha ripescato (espressione che calza a pennello, dato il titolo) e i pesci, le donnastre, i giochi di parole, i sogni fantasiosi della Gagliardo sono tornati nell’aldiquà leggibile – certo, solo in versione libro elettronico, ma comunque leggibile.

Quella di Chicca Gagliardo è una carrellata di personaggi femminili grotteschi, vere e proprie caricature spietate di donne in carriera, “donnastre” come le chiama lei, che mangiano sushi e hanno come soli riferimenti l’ingresso nell’alta società e il mito del corpo magro e perfetto. In mezzo a loro sbucano le antidonnastre (questo invece è un mio neologismo per meglio sintetizzare l’idea), quelle che sognano, che si nutrono di poesia.

Il libro è composto da diciassette capitoli più una introduzione (La vita di un libro) e un epilogo o meta-epilogo (Un mattino, i pesci). Dei diciassette capitoli, tredici riportano nomi di donna e comunque tutt’e diciassette hanno come protagonisti delle donne, dai nomi che non si ripetono mai. Più precisamente: Rosa, Cecilia, Agata, Amanda, Ambra, Bianca, Chiara, Maddalena, Letizia, Sofia, Teresa, Elena, Desideria, Sara, Giulia, Marta, e lei, la stessa Chicca, anche se in realtà non viene mai nominata. Il libro è insomma un donnario con le più svariate tipologie di donne. A fare da contrappeso nel corso della narrazione, benché non altrettanto particolareggiato, è un analogo uomario, con tipologie di uomini costruiti sulla stessa linea grottesca delle donnastre: individui maschili bellissimi, dai riccioli neri, occhi verde alga che ti fissano, “uomini che odorano di sandalo e scarpe stringate, di dopobarba e di dopotichiamo e primaopoicirivediamo”.

Ma se da un lato quella della Gagliardo potrebbe sembrare una scrittura al femminile, nell’apparente semplicità del testo traspaiono immagini di autentica e surreale poesia, dal cuore del tempo che batte in senso contrario facendo tac tic, tac tic, tac tic, alla comparsa di creature a metà strada tra realtà e immaginazione che realizzano grandi cose e si divertono a farle apparire piccole “perché le cose grandi diventano pesanti”. Sino a velate citazione bulgakoviane, come una Marta nuda che si alza in volo. C’è il gusto per la parola, per il gioco di parole (“i fati non esistevano, c’erano solo le fate”), per i voli di fantasia (dai vestiti carnivori alla pelle “color delfino che salta”), e per la meta-narrazione, ossia quella narrazione che ne va del suo stesso narrare (come il meta-epilogo accennato più sopra, dove la stessa scrittrice si fa personaggio e racconta ai pesci le storie che il lettore ha appena letto).

Una buona dose di ironia alleggerisce il tutto, alleggerisce sofferenze interiori e momenti di disperazione, persino la morte di donnastre come Desideria: “Ecco qual era la cosa da fare che non ricordavo! Che bisognava morire. Detto e fatto, morì su due piedi. Le pratiche sono state sbrigate in fretta, un pool di esperti della Gestione Risorse Umane ha subito trovato un’altra Manager Suprema per l’azienda di città, l’azienda al mare e quella di campagna”.

C’è poi questa aspirazione alla leggerezza, la stessa leggerezza dell’amica scomparsa che appare in sogno nel racconto finale (Cosa ci sarà di là). È un incontro surreale e suggestivo, come sono gli incontri che avvengono nei sogni. L’amica se ne va poi per sempre, salvo appunto lasciare la sua leggerezza che “ogni tanto appare e fa un salto nell’aria”. È probabilmente da qui che Chicca Gagliardo prende spunto per la sua opera successiva: Il Poeta dell’aria. Romanzo in 33 lezioni di volo, uscito nel 2014 per le edizioni Hacca. Che prima poi leggerò, ne sono certo.

Un’ultima nota. Chicca Gagliardo, fra le altre cose, gestisce un blog dedicato ai libri, da un po’ di tempo a questa parte diventato blog collettivo: Ho un libro in testa. È leggero come la sua scrittura, merita farci “un salto”.

Notizie dalla Descrizione del mondo ° 23/2/2016

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(sommario: Aleksei Shinkarenko, Elisa Davoglio, Pietro d’Agostino, Jacques Jouet, Giulio Marzaioli, Dj criticism)

Descrizione del mondo oggi è in modalità: suggerimenti a un poeta morto, ma → NON vi parla di “morte della poesia”, “morte della critica”, “morte del romanzo”, “morte di mio nonno”,

Auto-antologie- 1. Vincenzo Frungillo

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di Vincenzo Frungillo

 

Scenografie

Nei tempi, nella ricerca dei tempi

delle battute vitali, essenziali,

nei tempi, anche questi tempi,

vogliono il colpo dei piedi,

l’equilibrio degli sguardi,

la giusta linea nei capelli.

“Capirli tutti gli arresi.” Ripeti, ripeti:

“È nei tempi, anche questi tempi.”

E più t’affini e più ti perdi.

 

Scarna e senza fasto la verità d’una frase.

Ciò che scrivo è il clinamen.

Batte sul quarzo il nome,

batte la variante che segna le distanze.

 

 

Tutti i bersagli hanno colpito nel segno.

Guarda questo sguardo, la pupilla che straripa,

noi siamo ciò che non abbiamo scelto.

Ogni tanto qualcuno, un tempo più lento, assorbito,

mi assicura che per tutto questo ho già deciso.

(da Fanciulli sulla via maestra, Palomar, 2002)

 

 

Ute sa di essere la più brava e s’allena,

senza sosta, tre ore al mattino e tre ore la sera,

il suo corpo cresce, s’adegua alla lena

e muta coi giorni la forma che era

esile e ossuta sotto il biondo pallido della pena

ma non scompare sotto agli occhi la cera

tesa di una bambina che brucia lenta

quando è sola, guarda chi chiacchiera e non s’allena.

 

Ute è severa con quelli che restano a terra

e non capiscono la necessità di una mano a pinna,

chi sotto il petto la resistenza dell’acqua afferra,

lei è severa con se stessa e per questo s’affina

contro l’immota casualità della sua terra.

Si sente aliena ma decisa contro la massa che la mina.

Ute è l’azzurra testimonianza d’una promessa,

il corpo cristallo liquido di campionessa.

 

[…]

Per strada c’è chi parla senza l’eco

che pulsa forte dietro l’orecchio

-“se una parola cade in pubblico è uno spreco”-

puntuale a lei rimprovera il silenzio,

tutti hanno una soluzione per il riverbero

sulla via che porta in fabbrica o in ufficio,

tutti credono ad Honecker che grida a muso duro

“noi siamo l’avvenire del popolo, noi siamo il futuro!”

 

Il dott. Starkino, con il suo ridicolo soprannome,

sotto gli occhi pazienti e le lenti ovali,

sembra il solo che possa capire come

il mondo di Ute è fatto di continue spirali

che nascono dall’incontro del suo nome

con le voci che vengono a metterle le ali,

a fare di ogni suo passo tra la gente un ciglio

“dottore, io solo in acqua trovo un appiglio.”

 

Sentire subito dopo la vergogna sulla bocca

ma di fronte a lui è spontanea la confessione,

lui che con un gesto paterno la testa le tocca

e con la mano le impartisce l’unzione.

L’ostia che nello spogliatoio le imbocca

è il segnale che Ute riguadagna la sua posizione.

Prende il petto il colore del fondale,

prende forma il suo mondo a spirale.

 

[…]

I palazzi contengono i giorni e i giorni e i giorni

di visi di luci di annunci

sullo Strassenbahn registrati di nuche e di ritorni

di stazioni con pilastri e rifiuti (     e tu che non rinunci    )

di serrande abbassate sui negozi di vestiti ed i contorni

di neve sporca (      e tu che pronunci

con gli occhi come unici amici vicini)

“in questa parte di città sono alienati persino i manichini.”

 

(da Ogni cinque bracciate. Poema in cinque canti, Le Lettere, 2009)

 

———


 

Se le donne sono paragonate alle oche,

direzionate negli affetti, portate lontano

dalla faglia di natura che l’ha generate,

allora gli uomini sono come i cani,

addestrati per stimolo e risposta,

e un capo può condizionarli,

guidarli nella discussione,

esacerbarli gli uni contro gli altri,

o tenerli insieme, i maschi,

farli sentire parte di un organismo

senza distinzione – l’azienda,

il mostro senza testa.

Io ho conosciuto tardi i maschi,

durante i miei viaggi;

rapporti fugaci negli studentati,

è successo quando avevo ormai trent’anni.

È allora che ho iniziato a sperimentare,

con un tedesco, all’apparenza

un medico compassato, nel privato

appassionato di bondage e di sado-maso.

Il sesso a quindici anni è un gioco,

a trent’anni è ossessivo come la morte,

dopo i trenta, con l’esperienza,

è la lingua più sincera, l’unica che si adotta.

 

[…]

Il vantaggio di studiare la scienza

è vedere tutto nella sua funzione,

prepararti all’amministrazione,

lasciare la linea d’ombra dell’adolescenza.

Una cosa è importante nelle leggi:

sabotare le costanti,

metterle alla prova,

rinvenire la variante,

ciò che resta pur se cambia.

Nelle cavie da laboratorio

si ripete il sacrificio,

l’innominato destino

di chi sorseggia il vuoto

come se fosse fonte prima.

Per millenni l’hanno fatto i maschi,

io sono stata la prima donna,

questo ha suscitato tanto scalpore,

sono Tatiana che distrugge il suo eroe.

 

[…]

Io volevo trattenere ciò che avevo,

perché nella vita si trovano cose,

e a volte sono buone,

lo si capisce tardi, a quarant’anni suonati,

quando sei troppo vecchia per illuderti

e troppo giovane per rassegnarti.

 

(da Il cane di Pavlov. Resoconto di una perizia, edizioni d’If, 2013)

 


 

 

Meccanica pesante

 

Bisognerebbe scrivere un galateo dei silenzi,

sottolineare che ce ne sono di diversi,

dai più bassi e volgari ai più alti e religiosi,

che i due estremi si toccano, si tengono insieme,

che in questa tangenza rientra ogni nostra forma.

Eppure la nostra natura è fatta di parole,

la nostra natura è tradire, spostare l’ombra,

risanare ogni volta l’assenza che ci forma.

 

In questo meccanismo, se una parte eccede sull’altra,

ci sarà un rumore di fondo come di cinghia

che esce dalla sua puleggia, ci sarà un’eco

per tutta la specie. Capisco allora la sfida

di chi accetta la distonia, perché nel corpo,

ma anche in cielo, nello spazio universo,

all’azione risponde sempre una reazione

contraria e inversa, e si può far finta di non sentire,

 

dissimulare, che non è tradire,

ma il cordone ombelicale della regola prima

non si stacca mai del tutto,

riprende la frustrazione, la malattia,

il fruscio di fondo della macchina,

il suo motore che continua ad andare,

ci unisce gli uni agli altri, anche se con gli anni

ci sentiamo sempre più soli e distanti.

 

Ma tentare,  bisogna tentare,

perché il vuoto valga per ciò che vale,

resti una variante, sia lo sguardo pulsante,

ci distragga per un solo istante, ci porti a fondo,

ci porti a trasformare il tempo in spazio,

in camere e strofe, ci ricordi le parole,

la nostra scommessa finale. Una volta Celan

chiese al maestro l’ultima parola.

 

Heidegger rimase scosso da tanta innocenza.

Ripeto la formula, una semplice equazione:

non si afferra ciò che ci precede.

E allora si pone sulla bilancia la propria vita,

e la propria morte, chi tenga in equilibrio il tutto

non si conosce. La chiamo meccanica pesante

questo stare fermi a guardare il sistema di leve

in cui siamo entrati senza far rumore.

 


 

L’estinzione dell’orso bianco

 

Se queste pietre avessero pietà

per le mie ferite, io avrei ragione,

in quanto animale tra le creature,

perché l’accento che tu noti, il dolore,

 

è solo memoria che si corrompe

e, pensa bene, non vale niente.

Ora il mio modo d’avere voce

è un rantolo che non m’appartiene,

 

che mi distrae dal battito del cuore.

E tu pure, dall’altra parte,

ti rassegnerai alla forza che si sprigiona

 

nel momento estremo della caccia,

alla preda, che non si nasconde,

che si è estinta dalla faccia della terra.

(da Le pause della serie evolutiva, Oédipus edizioni, 2016)

 


 

L’antologia che presento ripercorre il mio percorso poetico a cominciare dal primo libro contenente testi che risalgono all’inizio degli anni novanta. Già allora ero alla ricerca di una poesia che non fosse solipsistica, confessionale. Sentivo l’esigenza di un cambiamento di sguardo sul mondo circostante, un’uscita dall’egotismo che aveva caratterizzato gli anni ottante a novanta del secolo ventesimo. I testi di Scenografie sono un rifacimento della poesia fredda e metricista in voga in quegli anni, si immergono nelle strutture vuote palesate dai versi di autori come Dario Villa o Gabriele Frasca. Il testo che chiude questa micro sezione recita tutti i bersagli hanno colpito nel centro, allude ad un rovesciamento di prospettiva: accogliere voci nuove e nuove storie nella propria. Non tutto il libro però è riuscito nell’intento. Altre letture sarebbero dovute venire, altre esperienze esistenziali e intellettuali perché questo progetto si facesse più chiaro. Con Ogni cinque bracciate. Poema in cinque canti ho creduto trovare la storia che potesse essere allegorica, a suo modo mitica ed esemplare, almeno per i lettori della mia stessa generazione. Si tratta della vicenda della squadra di nuoto femminile della DDR che ha vinto molti ori nelle Olimpiadi di Mosca del 1980. Le sequenze che propongo sono incentrate sulla figura di Ute, la stileliberista della staffetta femminile. Lei, così come le altre nuotatrici dell’ex Germania dell’est, ebbe il corpo minato dal doping di Stato. Sono venuto a conoscenza di questa vicenda solo dopo la caduta del muro di Berlino, verso la fine degli anni novanta ed ho subito pensato che la sospensione delle nuotatrici dell’est, inarrivabili nei record prima della caduta, ma altrettanto sole dopo la caduta, perché corrotte dai farmaci ormonali, potesse alludere alla situazione di un’intera generazione. La gabbia metrica usata è l’ottava, tutta la struttura del testo doveva avere un senso metaforico preciso. Allora il mio non era il partito preso del metricista o del tradizionalista, non mi interessava il riutilizzo della tradizione fine a se stesso, credevo piuttosto che lo strumento metrico potesse potenziare il senso della poesia, veicolare l’intenzione di un testo. L’espediente, in questo caso, è stato assumere la sequenza del 5: i personaggi del libro sulle nuotatrici sono 5 (le 4 staffettiste più il dottore che somministrava le pillole), 5 sono i canti in cui è diviso il testo, 5 sono le sequenze di cui è composto ogni canto, 5 sono le ottave di cui è composta ogni sequenza, 5 sono le bracciate che fa Ute prima di respirare. Il testo doveva essere la simbiotica connessione tra il corpo delle protagoniste e quello dell’autore, il mio fiato era il fiato della nuotatrici. La scelta della voce femminile è stata poi dettata dalla necessità di spostare, mettere in crisi l’io lirico. Allo stesso modo Il cane di Pavlov. Resoconto di una perizia chiama in causa direttamente il lettore-ascoltatore, gli chiede di giudicare un fatto di cronaca. Anche qui la protagonista è una donna. La voce è quella di una segretaria che vive a Milano. Una “ragazza Carla” che ha imparato a gestire i traffici della metropoli e i maschi, conosce il senso delle relazioni alienate e non crede che i rapporti umani siano garantiti da leggi naturali. Per questo motivo sperimenta il sesso con i suoi coetanei così come farebbe Pavlov con i suo cani. Qualcuno ha definito l’est sovietizzato il subconscio collettivo dell’Europa, nell’era dell’economia globalizzata, dell’amministrazioni delle coscienze desideranti, l’inconscio di Martina (questo è il nome della protagonista) agisce come risposta al dettato del tempo. Le quattro fasi dell’esperimento pavloviano vengono riproposti sul corpo di un collega. La sezione finale di questa breve antologia è dedicata ai testi che saranno compresi in Le pause della serie evolutiva. Il titolo è ricavato da una frase di Osip Mandelstam che parla di Lamarck. Il poeta russo afferma che lo scienziato aveva intravisto il vuoto tra le classi e per questo si era ritratto non avendo prove materiali per dimostrarlo. Qui la poesia abbandona in parte la parabola e l’allegoria in versi per dichiarare il senso dell’operazione messa in atto. Il meccanismo riflette su stesso. Il componimento che chiude questa scelta di versi è uno dei tanti che nel mio ultimo libro darà voce alle creature. Il protagonista è l’orso bianco, suo è lo sguardo sul mondo e l’estinzione riguarda la sua specie. La meccanica pesante s’innesca sulla soglia della fine.

(Vincenzo Frungillo)

 


 

Vincenzo Frungillo nasce a Napoli nel 1973. Dopo aver studiato filosofia, letteratura e storia a Napoli, ha vissuto a Freiburg, a Saarbrücken (in Germania) e a Milano dove tutt’ora risiede. In versi ha pubblicato Fanciulli sulla via maestra (Palomar, 2002), Ogni cinque bracciate. Un estratto (finalista premio Delfini, edizioni Galleria Mazzoli, 2007), Ogni cinque bracciate. Poema in cinque canti (con una prefazione di Elio Pagliarani e una postfazione di Milo De Angelis, Le Lettere, 2009), Il cane di Pavlov. Resoconto di una perizia (Premio Russo-Mazzacurati, edizioni d’If, 2013), La disarmata (AA.VV. CFR edizioni, 2014), Le pause della serie evolutiva (Oédipus edizioni, 2016). È presente in diverse antologie di poesia contemporanea tra le quali 7 poeti campani (2007), Poesia dell’inizio del mondo (a cura di Nanni Balestrini, 2008), Il miele del silenzio (a cura di Giancarlo Pontiggia, 2009), Hyle. Selve di poesia (a cura di Gianluca Chierici, con Dvd video contenente interviste e video, 2013), XI Quaderno di Poesia Italiana Contemporanea (a cura di Franco Buffoni,  2012), Registro di poesia # 5 (a cura di Cecilia Bello Minciacchi, finalista Premio Russo-Mazzacurati, 2012). Per il teatro ha scritto Il cane di Pavlov. Un monologo (Premio di drammaturgia Fersen. Ottava edizione, Editoria & Spettacolo) e Spinalonga. Drammaturgia sulla corrruzione. Dai suoi testi sono stati adattati due recital per la voce di Viviana Nicodemo, entrambi presso la Casa della Poesia di Milano. Una sua proposta di poetica è raccolta nei tre saggi Il poema contemporaneo tra bios e storia. (L’Ulisse, Lietocolle, n. 15, pp.131-137), Considerazioni circa una poetica della relazione (Tu se sai dire dillo. Terza edizione, ora in https://www.nazioneindiana.com/2014/12/11/considerazioni-circa-una-poetica-della-relazione/, 2014), Una riflessione su una poetica dello spazio (L’Ulisse, Lietocolle, n. 18, pp.48-50). Ha scritto interventi saggistici su Elio Pagliarani, Milo De Angelis, Paul Celan, Biagio Cepollaro, Giorgio Cesarano, Beppe Fenoglio ed altri. Sulla sua poesia hanno scritto tra gli altri: Andrea Cortellessa, Elio Pagliarani, Milo De Angelis, Giancarlo Pontiggia, Giancarlo Alfano, Giorgio Manganelli, Alberto Bertoni, Alberto Sebastiani, Luciano Mazziotta, Francesco Filia, Luigi Bosco. Suoi versi sono stati tradotti in tedesco e sono in corso di traduzione in lingua inglese-americano. È redattore di Puntocritico, Absoluteville, Carteggi letterari.

 


 

[Auto-antologie è una sorta di rubrica a-periodica che si propone di mostrare una minima documentazione del percorso poetico di alcuni autori. Tale intervento fa seguito a quello dedicato a Francesco Tomada che si può leggere qui. Ai testi poetici fanno seguito una pagina di presentazione e di riflessione del poeta sul proprio lavoro e una scheda bio-bibliografica. Una mia breve lettura del percorso di Vincenzo Frungillo si può trovare qui B.C.]

 

Braccia rubate (al cinema) Atto III

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Ecco, con un po’ di ritardo, il terzo e ultimo atto della rubrica « Braccia rubate (al cinema) », corredato da una breve bio-filmografia dell’autore e da un link a un film che evoca il testo (o viceversa).

Le ultime braccia rubate sono quelle di Ivan Polidoro, con la sua storia che edifica poco, ma bene.

 

Una storia poco edificante

 

 

Il giorno in cui la signora Santi morì c’erano tutti e tre i suoi figli. Non li vedevo da tempo, per motivi di lavoro erano andati via da Napoli e si erano stabiliti altrove. Avevano messo su famiglia e da quel che ricordo facevano ritorno saltuariamente. Aldo, il maggiore dei tre, fu il primo ad andarsene. Fece un po’ di pratica presso un’azienda del Varesotto, poi si mise in proprio. Materiali di gomma e simili. Profili, trafilati, lastre calandrate, guarnizioni per termoformatrici, raschiatoi, soffietti, membrane, ventose. E con ogni tipo di mescola. Dai siliconi al poliuretano alla gomma naturale. La sua aspirazione erano però i tubi industriali, tubi raccordati e rigidi, me ne parlò in occasione del compleanno del padre, era l’autunno di cinque anni fa. I giardini del parco erano cosparsi di foglie, ne rastrellai abbastanza da farne quattro pile della grandezza di un sacco. Lui non fece che parlare di questi tubi e di quanto il mercato in quel settore fosse in espansione. L’animo dell’imprenditore o ce l’hai o non ce l’hai, e lui ne aveva da vendere. La Santi Gomme ha alle sue dipendenze una dozzina di persone, non poche di questi tempi. Aldo è sposato e ha due figli, un maschio e una femmina. Li ho visti un Natale di tre anni fa, belli e biondi come la madre, Margaret. Margaret credo sia austriaca o belga, comunque mezza e mezza, di padre italiano e mamma straniera. O viceversa. Margaret è una bella donna, elegante, sempre gentile, un fisico asciutto e longilineo da gran signora. Riservata al punto che di lei si sa poco o nulla, e hai voglia a chiedere. Quelle rare volte che è venuta l’ho sempre salutata con discrezione, quasi ne avessi timore. Non mi sono mai arrischiato a un baciamano perché non so se sia il caso, mi sono sempre tenuto alle mie disposizioni: cordiale e rassicurante. Come mi ha insegnato mio padre.

Il portiere questo fa, questo deve fare. Tutti i santi giorni, che ci sia pioggia o neve, che faccia freddo o caldo infernale, lui deve essere quello a cui affidi la casa prima di recarti al lavoro. E quando fai ritorno vuoi sapere se è tutto a posto, o se è scoppiato un tubo dell’acqua. E allora basta un cenno o un sorriso per chiudere la giornata. Perciò è giusto che sia cordiale e rassicurante. Anche se la sua vita va a rotoli o gli è morta la madre.

Matteo, il secondo, è sempre stato il più fannullone, sfaticato per natura. Non faceva altro che starsene seduto sulla panchina con quei suoi fumetti. Ne leggeva in quantità disarmanti, ciancicando i suoi chewing-gum alla fragola o che so io. E lo pregavo di non buttarli a terra o appiccicarli alla panchina, sennò sarebbe stato un bel casino, a togliere quella roba ci metti una vita e imprechi tutti i santi possibili. Perché mai li hanno inventati i chewing-gum? A Ilaria per un po’ gliel’ho vietati, tassativamente vietati.

– Fanno male ai denti, fanno venire le carie – le dicevo.

Mia moglie sorrideva, lasciava che queste schermaglie rimanessero tali. Credo che sotto sotto lei qualche chewing-gum glielo concedesse. D’altronde tra donne c’è quell’intesa che non potrai mai capire, inutile che ci sbatti il grugno, per loro sarai sempre e solo un uomo. Uno stupido uomo, testardo e cocciuto. Le ho voluto bene a Maria, un gran bene. E ce ne siamo voluti fino alla fine, fino al giorno in cui ha esalato l’ultimo respiro. Gran donna, mi ha insegnato un mucchio di cose, per esempio come rammendare un calzino, ora non si fa più, ma un tempo si faceva eccome, a mandare avanti la casa, a fare i conti, robe del genere, non buttava via niente quella donna. Ma soprattutto mi ha insegnato a vivere. A passarci sopra. Ero uno che non mandava giù tante cose, permaloso, sospettoso, credevo che il mondo intero ce l’avesse con me. Insomma, ogni accidente che mi capitava doveva avere una causa, e di solito era qualcuno che voleva il mio male. Non era difficile per me stanarlo, ce n’erano di persone a cui non andavo a genio, forse il mio aspetto, il mio carattere riservato, non so, fatto sta che le cose stavano così. La colpa di quello che mi succedeva era sempre di qualcuno e quel qualcuno, una volta individuato, per me diventava croce nera. Meglio evitarlo.

Dicevo, Matteo, il secondo dei Santi, era il più sfaticato. I suoi fecero di tutto per fargli prendere il diploma e seppure con qualche difficoltà alla fine ci riuscì. Non ebbe un voto degno di quella famiglia, ma era pur sempre un diploma! Il padre era professore di Storia medievale alla Federico II, aveva pubblicato diversi libri e per un certo periodo di tempo fu un valido esponente della Democrazia cristiana, insomma era uno che contava a Napoli. Sapere che il figlio si era diplomato per il rotto della cuffia non lo fece certamente sorridere. Di continuare gli studi Matteo non ne volle sapere, perciò si mise ben presto a lavorare. Con le conoscenze che aveva, al signor Santi non fu difficile trovargli una giusta collocazione. Entrò così al Banco di Napoli, e da semplice impiegato divenne in pochi anni direttore di filiale. Ora credo sia un pezzo grosso di una banca del nord. Anche lui ha due figli, un maschio e una femmina che studiano a Londra, e sua moglie, oltre che andare al cinema, al teatro e alle sfilate di moda, non fa che organizzare cene e aperitivi. A differenza di Margaret, Betta è una che fa parlare e molto di sé. – Organizzo eventi culturali cool – la sentii dire una volta. Quarant’anni portati come una ragazzina e un corpo burroso che non puoi non guardare. Immagino che fare sesso con lei sia una gran bella soddisfazione. Da quel che so hanno una splendida villa a Bergamo, una a Saint-Tropez e persino un appartamentino a Miami. Insomma, avrebbero di che essere felici. È che non esiste una regola per questo genere di cose.

Quel giorno Matteo mi sembrò particolarmente giù di corda. Mentre tutti sfilavano per fare le condoglianze all’ultimo piano, lui se ne restò da solo su quella panchina per diverso tempo. Lei fumò un certo numero di sigarette e i due non si scambiarono una parola. Come fossero due estranei. Due macchie nere tra i pini secolari del parco.

Avrei voluto avvicinarmi, dirgli qualcosa, insomma l’ho visto crescere. Era un ragazzo simpatico, gioviale, uno con la battuta pronta. Ora lo vedevo appesantito e depresso, e non era la morte della madre a renderlo così, c’era dell’altro. Ma rimasi al mio posto. La riservatezza, quando ci vuole, è la prima cosa. È il tratto distintivo di un buon portiere. Persino una confessione deve rimanere un segreto, e in questa guardiola, credetemi, me ne hanno fatte.

Stefania è la più piccola. Ho sempre avuto un debole per lei, forse perché mi ricordava Ilaria, hanno la stessa età. Quarantun anni spaccati. Era la tipica adolescente irrequieta di buona famiglia, che amava viaggiare, fare nuove amicizie, diceva che avrebbe fatto il giro del mondo con due uomini: – Come Catherine! Catherine di Jules et Jim. Non sembrava affatto una Santi, altre idee, altre aspirazioni. Al contrario dei fratelli si circondava di gente strampalata, figli di papà con la vena artistica. Con loro organizzava letture nel box che poi finivano, non so perché, sempre con qualche scazzottata. Io li lasciavo fare, sebbene parecchi condomini si lamentassero. Li ho protetti finché ho potuto. Si diceva che facessero uso di droghe, che ogni tanto qualcuno rubava e lo sbattevano dentro, ma lei non c’entrava nulla con tutto questo. Era di una vitalità travolgente. Nessuno di loro, dei Santi, aveva quella vitalità. A diciotto anni disse ai genitori che sarebbe andata alla London Film Academy a studiare cinema. Aveva superato le selezioni. Loro non ne furono contenti. Girò alcuni piccoli film, poi le cose non andarono per il verso giusto. Un matrimonio sbagliato, una figlia. A quel tempo stava a Parigi, si manteneva facendo la cameriera, e per un po’ riuscì ad andare avanti, ma poi decise di tornare. Ora vive a Savona, fa la mamma a tempo pieno. Il suo nuovo compagno è uno stimato architetto industriale, anche lui separato, con una figlia.

Mi sorprese quando li sentii discutere. Ero lì, non potevo certo dissolvermi nel nulla, né loro si preoccuparono della mia presenza. Me ne sarei potuto andare, ma mi avrebbero sentito, avrebbero sospettato che io mi fossi appostato per spiarli. Erano infervorati, anche se cercavano di contenere i toni. Aldo fumava e con il suo fare saccente interrompeva di continuo, soprattutto Matteo.

– Che stupidaggine – disse. – Dobbiamo assolutamente fare qualcosa. È assurdo!

– Sì. Ma è la volontà di mamma – rispose Matteo.

– E con questo?

– Forse dovremmo rispettarla. Se è questo che vuole, che ha scritto.

– E se non fosse così? Se si fosse lasciata convincere?

– Sì, può essere, rimane il fatto—

– Vaffanculo. Con te è inutile.

– In fondo noi non le siamo stati troppo vicino in questi anni – disse Stefania.

– Ti ci metti anche tu?

– È la verità.

– Però, noi siamo i figli. E questa, se ben ricordo, è la nostra casa. Siamo cresciuti qui, giusto?

– Si tratterebbe solo di un periodo, fino a quando Maria—

Qui intervenni, non potevo non farlo. Mi mossi appena e le foglie sotto i miei piedi scricchiolarono.

– Vi attendono di sopra.

Matteo sbuffò. – Che situazione – disse.

– Vi prego, non aggiungete una parola. Non in mia presenza almeno.

Aldo chinò il capo, fece un altro tiro di sigaretta e la buttò via.

– Scusa, ma non è con te che ce l’abbiamo, – disse – solo che è strano. Non pare anche a te?

– Sì, un po’ lo è – risposi.

Eravamo solo noi in quel punto del parco, immersi in un piccolo silenzio imbarazzante. E anch’io in qualche modo mi sentii in colpa. Lungo il viale passarono delle persone che Stefania salutò. Ci girammo tutti quando sentimmo il pianto di una signora. Matteo provò a metterci una pezza, ma non fece altro che peggiorare le cose.

– Non capisco perché ci tieni tanto – disse al fratello. – Hai tutto, non hai bisogno anche di—

– Matteo, non essere patetico, anche tu non mi sembra che te la passi male.

– No, rigraziandoiddio. Per questo dico che se mamma vuole così, così sia.

– Cos’è tutto questo buonismo?

– Non è buonismo.

– E allora cos’è? Non capisco.

– Diamoci una calmata – disse Stefania. – C’è gente.

– Sai che mi interessa. Allora?

– Non so che dire.

– Non hai mai saputo che dire, questa è la verità. Quando c’è da prendere qualche decisione, tu non sai mai che dire. Sei sempre stato così. Un pavido, anche con papà.

– Cosa c’entra papà adesso? Che tiri fuori? Vuoi litigare, è questo che vuoi?

– Lascia perdere, ne avrei cose da dire.

– E dille, dài, tira fuori il rospo!

– Come va con Betta, eh?

– Ma che ti viene in mente? Che dici?

– Non andate d’accordo, si vede. È da un pezzo che il vostro matrimonio sta andando a rotoli, che aspetti a mollarla?

– Non è come credi. Che ne sai tu com’è il nostro rapporto. Mica le sai le cose che sono successe.

– E allora dille, perdio!

– Non mi va. Tanto meno dirle a un coglione come te.

– Mi avete rotto! Siete i soliti, non fate altro che litigare!

– Tu sta’ zitta che è meglio. Te ne sei sempre sbattuta.

– E tu allora? Che hai fatto?

Quante se ne dissero. Tirarono fuori il peggio. Quando gli animi si calmarono, mi limitai a dire che ne avrei parlato a mia moglie, avrei fatto in modo che tutto si risolvesse per il meglio. Maria avrebbe capito, in fondo che dovevamo farcene di quella casa? Noi due soli, in una casa così grande, con terrazzo e panorama. Avremmo continuato a starcene nella nostra, come sempre, la nostra vita non sarebbe cambiata di una virgola.

– Maria ha servito vostra madre per più di trent’anni, e negli ultimi tempi le è stata accanto giorno e notte.

– Sì, ma l’abbiamo pagata per questo.

– Certo.

– Voglio dire, è stata magnifica, non so come avremmo fatto senza di lei, ma—

– Vi aspettano di sopra – dissi. Poi mi allontanai.

E pensare che lei non sapeva nulla di tutta questa storia. La signora Santi confidò solo a me quali fossero le sue volontà.

– Voglio farle una sorpresa – disse. – I miei figli capiranno.

L’idea di andare ad abitare in quella casa non mi allettava, naturalmente ci sarei andato, se Maria avesse voluto, ma questo non cambia le cose.

Maria morì due giorni dopo, di crepacuore. Non aveva retto al dolore.

Non ebbi neppure il tempo di dirglielo.

 

FINE

 

Ivan Polidoro si diploma come attore presso l’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica “S. D’Amico”. Intanto si laurea in Lettere alla II Università di Roma. Lavora a teatro con Luca De Filippo, Mario Missiroli, Armando Pugliese, Federico Tiezzi e al cinema con Paolo e Vittorio Taviani, Antonietta de Lillo, Vincenzo Terracciano. Nel 2003 con il cortometraggio “Rapina” ottiene la menzione per la sceneggiatura ai Nastri d’Argento. Nel 2006 firma la regia e la sceneggiatura del film “Basta un niente” presentato in vari festival nazionali e internazionali, e premio del pubblico MaremetraggioFF 2006. La sceneggiatura “Amore catodico”, tratto da un suo testo teatrale “Boh”, ottiene il Premio del Pubblico al MitreoFF 2009. Nel 2011 pubblica il suo primo romanzo “Le coincidenze” per i tipi della 66thand2nd. Nel 2015 scrive e dirige il suo secondo lungometraggio “La sorpresa”.

 

Illustrazione:   Giardino con casa rossa di Edvard Munch.

Elogio di Franti

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di Umberto Eco (1932-2016)

monumento viva Bresci
(da Diario Minimo, Mondadori 1963)
“E ha daccanto una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, che fu già espulso da un’altra sezione.”
Così alla pagina di martedì 25 ottobre Enrico introduce ai lettori il personaggio di Franti. Di tutti gli altri è detto qualcosa di più, cosa facesse il padre, in che eccellessero a scuola, come portassero la giacca o si levassero i peluzzi dai panni: ma di Franti niente altro, egli non ha estrazione sociale, caratteristiche fisionomiche o passioni palesi. Tosto e tristo, tale il suo carattere, determinato al principio dell’azione, così che non si debba supporre che gli eventi e le catastrofi lo mutino o lo pongano in relazione dialettica con alcunché.
Franti da Franti non esce; e Franti morirà: “ma Franti dicono che non verrà più perché lo metteranno all’ergastolo”, si scrive il lunedì 6 marzo, e da quel punto, che è a metà del volume, non se ne farà più motto.
Chi sia codesto Enrico è sin troppo risaputo: di mediocre intelletto (non si sa che voti prenda né se riesca promosso a fine anno), oppresso sin dalla più tenera infanzia da un padre, da una madre e da una sorella che gli scrivono nottetempo, come sicari dell’OAS, lettere pressoché minatorie sul suo diario, egli vive continuamente immerso in umbratili complessi, un po’ diviso tra l’ammirazione prona per un Garrone che non perde occasione per far della bassa retorica elettorale (“Son io!” e il maestro, babbeo: “Tu sei un’anima nobile!”; e se qualcuno dà noia al supplente, subito Garrone dalla parte del potente e dell’ordine: “guai a chi lo fa inquietare, abusate perché è buono, il primo che gli fa ancora uno scherzo lo aspetto fuori e gli rompo i denti!”, così il supplente rientra e vede tutti zitti, lui, Garrone, con gli occhi che mandavan fiamme “un leoncello furioso, pareva” – e gli dice “come avrebbe detto a un fratello” ti ringrazio Garrone, e via, Garrone è a posto per tutto l’anno, ditemi se non era figlio di mignotta) e d’altro lato una sorta di attrazione omosessuale per il Derossi, che è “il più bello di tutti”, scuote i capelli biondi, prende il primo premio, si
fa baciare dal giovane calabrese e sembra insomma certi personaggi dei libri di Arbasino.

Tra questi poli è l’Enrico: di carattere impreciso, incostante nei suoi propositi etici, schiavo di ambigui culti della personalità, non poteva essere gran che diverso col padre che si ritrovava, torbido personaggio costui, incarnazione di quell’ambiguo socialismo umanitario che precedette il fascismo, e in cui l’ideologia dolciastra stava alla lotta di classe come il repubblicanesimo di Carducci alla rivoluzione francese (odi alla regina Margherita, nonne e cipressi che a bolgheri alti e stretti, ma repubblica, ciccia): questo padre che parla di rispetto per i mestieri e le professioni,
esalta la nobiltà degli umili, incita il figlio ad amare i muratori, ma si demistifica in
quella terribile pagina del 20 aprile (giovedì) in cui esorta il figlio a gettare le braccia al collo a Garrone quando tra quarant’anni lo ritroverà col viso nero nei panni di un macchinista, “ah non m’occorre che tu lo giuri, Enrico, sono sicuro, fossi tu anche un senatore del Regno” – e non lo sfiora neppure il sospetto di quel che potrebbe (dovrebbe) accadere, che cioè Enrico possa ritrovarsi nei panni di un macchinista ad incontrar l’amico Garrone senatore del Regno (conoscendo Garrone, arrivato alla camera alta per via Acli, va bene, ma ciononostante è il principio che conta, vero? ).
Che poi chi sia questo padre, questo Alberto Bottini dalla oscura professione (non la dice neppure quando va a visitare il vecchio maestro a Condove), viene fuori abbastanza bene pagina per pagina, e si esemplifica infine in quelle linee in cui questo squallido filisteo protofascista esplode nell’elogio dell’esercito:

“Tutti questi giovani pieni di forza e di speranze possono da un giorno all’altro
essere chiamati a difendere il nostro Paese, e in poche ore essere sfracellati tutti
dalle palle e dalla mitraglia. Ogni volta che senti gridare in una festa: Viva
l’Esercito, viva l’Italia, raffigurati, di là dai reggimenti che passano, una campagna
coperta di cadaveri e allagata di sangue, e allora l’evviva dell’Esercito ti escirà più
profondo dal cuore, e l’immagine dell’Italia ti apparirà più severa e più grande”.

E la domenica 11 ottobre, e il martedì 14 costui scriverà ancora una lettera guerrafondaia al figlio, parlando di Roma meravigliosa e eterna, di Patria sacra, di sangue da donare e ultimo bacio alla bandiera benedetta; e sempre senza la minima chiarezza ideologica, sì che a distanza di pochi giorni intesse con il medesimo tono l’elogio di Cavour e di Garibaldi, dimostrando di non aver capito nulla delle forze profonde che divisero il nostro Risorgimento. E ti educava così questo figlio alla
violenza e alla retorica nazionale, all’interclassismo corporativista e all’umanitarismo
paternalista, sì che svolgendosi la vicenda nell’ottantadue, possiamo immaginarci Enrico interventista quarantenne (e quindi a casa, da tavolino), all’inizio della guerra, e professionista fiancheggiatore delle squadre d’azione nel ventidue, lieto infine che il Paese sia andato in mano a un uomo forte garante dell’ordine e della fratellanza.

Il Derossi a quell’epoca era già morto sicuramente in guerra, volontario, caduto
scagliando la sua medaglia di primo della classe in faccia al nemico, Votini era
passato spia dell’Ovra e Nobis, che doveva avere possedimenti in campagna, e già da
piccolo dava dello straccione ai figli di carbonai, agrario fiancheggiatore delle
squadre, sicuramente era già federale. C’è da sperare che il muratorino e il Precossi si
fossero almeno presi il loro olio di ricino e tramassero nell’ombra; e forse Stardi,
sgobbone com’era, si era letto tutto il Capitale, senonaltro per puntiglio, e quindi
qualcosa aveva capito; ma Garoffi di certo si era allineato e non faceva politica, e
Coretti, con quel padre che gli passava calda calda la carezza del Re, chissà che non
facesse la guardia d’onore all’Uomo della Provvidenza.
Questo il clima: ed Enrico ne era l’esponente medio, paro paro. Da un ragazzo di
quella fatta non possiamo aspettarci qualche lume su Franti: anzi doveva esistere tra i
due una sorta di incomprensione radicale per cui se Franti un giorno avesse raccolto
un passerotto da terra e gli avesse sminuzzato briciole di pane, Enrico non lo avrebbe
mai detto.
Logico che Franti, se raccoglieva passerotti, li portasse a casa per metterli in padella,
perché l’unica volta che Enrico si tradisce e ci mostra la madre di Franti che si
precipita in classe a implorare perdono per il figlio punito, affannata “coi capelli grigi
arruffati, tutta fradicia di neve”, avvolta da uno scialle, curva e tossicchiante, ci
lascia capire che Franti ha dietro di sé una condizione sociale, e una stamberga
malsana, e un padre sottoccupato, che spiegano molte cose.
Ma per Enrico tutto questo non esiste, egli non può capire il pudore di questo ragazzo
che di fronte all’impudicizia feudale della madre che si getta, davanti alla scolaresca,
ai piedi del Direttore e di fronte all’intervento melodrammatico di quest’ultimo
(“Franti, tu uccidi tua madre!”, eh via, dove siamo?), cerca un contegno nel sorriso,
per non soccombere nello strame: e lo interpreta da reazionario moralista qual è:
“E quell’infame sorrise”.
Ma se vogliamo giocare a questo gioco allora giochiamo. Franti non ha sostrato, non
si sa come nasca e come muoia, egli è l’incarnazione del male? Ebbene sia,
accettiamolo come tale e come tale vediamolo, elemento dialettico nel gran corso
della vita scolastica deamicisiana, momento negativo in tutta la sua evidenza
trionfante. Ma prendiamolo come tale, e non lasciamoci confondere dai piccoli
particolari di contorno: che se Franti non ha sfondo sociologico non devono averlo
neppure le persone di cui egli pare prendersi beffa, la mamma di Crossi che egli
scimmiotta nella sua condizione di erbivendola, e il muratore caduto sul lavoro al
passaggio del quale Franti sorride: se facciamo della demagogia sul muratore e
sull’erbivendola, allora facciamola anche su Franti e sulle determinazioni economiche
della sua perfidia.
Se no accettiamolo come un principio senza fondo e senza storia, e affrontiamolo
pensando che di lui Enrico ci abbia parlato come gli storici romani dei cartaginesi:
che erano popolo industre e laborioso, gran mercanti e navigatori, ma siccome non
possedevano un’industria culturale non commissionavano elogi e libelli, mentre i
romani, meglio organizzati quanto a uffici studi, avevano buon gioco a affidare alla
storia terribili notizie sul conto dei nemici, dicendo che mettevano i bambini nel
ventre di una statua infuocata; che se poi loro, i conquistatori, distruggevano
Cartagine e spargevano sale sulle rovine, quello era ben fatto.
Ciò che Franti fa è vario e assai complesso: sale su un banco e provoca Crossi, e fa
male, ma quando Crossi gli tira un calamaio egli fa civetta, e il calamaio va a colpire
il maestro che entrava. Civetta meritoria quant’altre mai, dunque, perché questo
maestro è lo stesso ributtante leccapiedi che in un diverbio tra Coraci (il calabrese) e
Nobis, dà ragione a Coraci e torto a Nobis, ma a Nobis dà del voi mentre a Coraci
dà del tu. Dà del tu anche a Franti, naturalmente, perché costui non ha un padre
distinto con una gran barba nera.
Più avanti vediamo Franti che ride mentre passa un reggimento di fanteria; Enrico
tiene a precisare che Franti “fece una risata in faccia a un soldato che zoppicava”, ma
non si vede perché in una sfilata preceduta dalla banda (come Enrico ci dice), qualche
colonnello autolesionista avrebbe infilato un soldato che zoppicava. Dunque
verosimilmente il soldato non zoppicava, e Franti irrideva la sfilata tout court: e
vedete che la cosa cambia già aspetto.
Se poi si considera che, istigati dal direttore, i ragazzi salutano militarmente la
bandiera, che un ufficiale li guarda sorridendo e restituisce il saluto con la mano e un
tizio che aveva all’occhiello il nastrino delle campagne di Crimea, un “ufficiale
pensionato”, dice bravi ragazzi, allora ci accorgiamo che il riso di Franti non era poi
così gratuitamente malvagio ma assumeva un valore correttivo: costituiva l’ultimo
grido del buon senso ferito di fronte alla frenesia collettiva che stava prendendo i
ragazzi che già cantavano “battendo il tempo con le righe sugli zaini e sulle cartelle ‘
e con “cento grida allegre accompagnavano gli squilli delle trombe come un canto di
guerra”. E’ in circostanze del genere che Franti sorride e ride:
“Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei Funerali del Re; e Franti rise”.
Franti sorride di fronte a vecchie inferme, a operai feriti, a madri piangenti, a maestri
canuti, Franti lancia sassi contro i vetri della scuola serale e cerca di picchiare Stardi
che, poverino, gli ha fatto solo la spia.
Franti, se diamo ascolto ad Enrico, ride troppo: il suo ghigno non è normale, il suo
sorriso cinico è stereotipo, quasi deformante; chi ride così certo non è contento,
oppure ride perché ha una missione.
Franti nel cosmo del Cuore rappresenta la Negazione, ma – strano a dirsi – la
Negazione assume i modi del Riso.
Franti ride perché è cattivo – pensa Enrico – ma di fatto pare cattivo perché ride.
Quello che Enrico non si domanda è se la cattiveria di chi ride non sia una forma di
virtù, la cui grandezza egli non può capire poiché tutto ciò che è riso e cattiveria in
Franti altro non è che negazione di un mondo dominato dal cuore, o meglio ancora di
un cuore pensato a immagine del mondo in cui Enrico prospera e si ingrassa.
Per questo Enrico deve rifiutare Franti: perché se Franti appare un inadattato al
mondo in cui vive e lo coinvolge in un sogghigno epocale (Franti mette tra parentesi
qualsiasi fatto che invece coinvolga emotivamente gli altri) l’unico modo di
esorcizzare la scepsi negativa di Franti è quello di denunciare Franti come strega. E di
non accettarlo a priori.

E infatti nel gran mare di languorosa melassa che pervade tutto il diario di Enrico, in
quell’orgia di perdoni fraterni, di baci appiccicaticci, di abbracci interclassisti, di
galeotti redenti e gaudenti in maschera che regalano smeraldi a bambine smarrite tra
la folla, tra madri che si sostengono a vicenda, maestrine dalla penna rossa, signori
che abbracciano carbonai e muratori che biascicano lagrime di riconoscenza sulla
spalla di ricchi possidenti, là dove tutti si amano, si comprendono, si perdonano, si
accarezzano, baciano le mani a voscienza, leccano il cuore a tamburini sardi,
cospargono di fiori vedette lombarde e coprono d’oro patrioti padovani, una sola volta
appare una parola di odio, di odio senza riserve, senza pentimenti e senza rimorsi: ed
è quando Enrico ci traccia il ritratto morale di Franti:
“Io detesto costui. È malvagio. Quando viene un padre nella scuola a fare una
partaccia al figlio, egli ne gode; quando uno piange, egli ride. Trema davanti a
Garrone e picchia il muratorino perché è piccolo; tormenta Crossi perché ha il
braccio morto; schernisce Precossi che tutti rispettano; burla persino Robetti, quello
della seconda, che cammina con le stampelle per aver salvato un bambino. Provoca
tutti i più deboli di lui, e quando fa a pugni, s’inferocisce e tira a far male. Ci ha
qualcosa che mette ribrezzo su quella fronte bassa, in quegli occhi torbidi, che tien
quasi nascosti sotto la visiera del suo berrettino con una faccia invetriata, è sempre
in lite con qualcheduno, si porta a scuola degli spilloni per punzecchiare i vicini, si
strappa i bottoni della giacchetta e ne strappa agli altri, e li gioca, e ha cartella,
quaderni, libri, tutto sgualcito, stracciato, sporco, ha la riga dentellata, la penna
mangiata, le unghie rose, i vestiti pieni di frittelle e di strappi che si fa nelle risse.
Dicono che sua madre è malata dagli affanni che egli le dà, e che suo padre lo
cacciò di casa tre volte: sua madre viene ogni tanto a chiedere informazioni e se ne
va sempre piangendo. Egli odia la scuola, odia i compagni, odia il maestro. II
maestro finge ogni tanto di non vedere le sue birbonate, ed egli fa peggio. Provò a
pigliarlo con le buone, ed egli se ne fece beffa. Gli disse delle parole terribili, ed egli
si coprì il viso con le mani, come se piangesse, e rideva. Fu sospeso dalla scuola per
tre giorni ed egli tornò più tristo e insolente di prima. Derossi gli disse un giorno:
– Ma finiscila, vedi che il maestro ci soffre troppo, – ed egli lo minacciò di piantargli
un chiodo nel ventre”.
È naturale che in questo crescendo di accuse e di infamie la nostra simpatia vada
tutta a Franti (pensate, “si copri il viso con le mani, come se piangesse, e rideva!”.
Anche De Amicis non rimane indifferente di fronte a tanta grandezza, e mai la sua
scrittura è stata più tacitiana, nobilitata dalla materia): ma è vero del pari che tanto
accumularsi di nefandezza è troppo wagneriano per essere normale, sfiora il titanico,
deve avere un valore emblematico e riecheggiare un momento di civiltà; una figura
della coscienza universale, lo voglia o no l’autore; e se la nostra dotta memoria cerca
solo per un poco ecco che questo ritratto finisce per evocarne un altro, quasi
parallelo: ed è il ritratto di Panurge.
“Altre volte poi disponeva, in qualche bella piazza per dove la detta ronda doveva
passare, una striscia di polvere da sparo, e al momento giusto ci dava fuoco,
divertendosi poi a vedere i gesti eleganti di quei poveretti che scappavano, credendo
di avere ai polpacci il fuoco di Sant’Antonio. In quanto poi ai rettori dell’università e
teologi, li perseguitava in altri modi; quando ne incontrava qualcuno per la via, non
mancava mai di far loro qualche brutto scherzo: ora mettendogli uno stronzo nelle
pieghe del berretto, o attaccandogli delle code di carta e strisce di cenci dietro la
schiena, o qualche altro fastidio… E soleva portare un frustino sotto il vestito, col
quale frustava senza remissione i paggi che erano in giro per qualche commissione,
per farli andare più svelti. E nel mantello aveva più di ventisei taschette e ripostigli
sempre pieni: l’una di un piccolo dado di piombo e di un coltellino affilato come il
trincetto di un calzolaio, che gli serviva per tagliar le borse; l’altra, di aceto, che
gettava negli occhi a quanti incontrava; l’altra di lappole, con attaccato piumetti d’oca
o di cappone, che gettava sulle vesti e sui berretti dei pacifici cittadini; e spesso
attaccava anche lor dietro due belle corna, che quelli si portavan per tutta la città, e
qualche volta per tutta la vita. E ne metteva anche alle donne, sui loro cappucci, di
dietro, ma fatti a forma di membro virile; e in un’altra, teneva una quantità di cornetti,
tutti pieni di pulci e pidocchi, che trovava dai poveri di Sant’Innocenzo, e con delle
cannucce, e piume per scrivere, li gettava sui colletti delle più azzimate giovinette che
trovava per la via, e così in chiesa…” (e via di questo passo, nella bella traduzione di
Bonfantini; e poi basti pensare alla beffa dei montoni per vedere in Panurge un Franti
ante litteram, o in Franti un Panurge post, che è poi lo stesso).
Ora Panurge non nasce e non arriva a caso: non è gigante né Dipsodo, e non entra
nella regale società pantagruelica con l’aria di chi voglia sovvertire un ordine dalle
radici; la società in cui vive l’accetta e vi si integra – ci beve e ci si ciba, chiedendo
anzi ristoro in molte lingue – vive la vita di corte e segue il sovrano nei suoi viaggi,
accetta dispute con dottori d’oltremanica e frequenta la borghesia dei dintorni. Ma si
integra à rebours, ogni suo gesto appare sfasato rispetto alla norma, accetta le
convenzioni (la messa) per sovvertirle dall’interno (occasione per distribuir pidocchi),
intraprende discorsi ma per turlupinare l’interlocutore, veste come gli altri ma fa delle
sue vesti nascondiglio per i suoi trucchi, nessuno dei quali mira specificatamente a un
utile particolare, ma tutti nell’insieme a una deformazione degli umani rapporti.
Proprio per questo, se Gargantua et Pantagruel è il libro che chiude un’epoca e ne
apre una nuova, esso lo è proprio per la centralità che vi ha Panurge, poiché il
Gargantua è, rispetto alla cultura tardomedievale che si sfa, proprio quel che Panurge
è per la corte di Pantagruel, qualcosa che si installa dentro a un ordine e lo mina
dall’interno deformandone la fisionomia con atti di gratuita iconoclastia. Compagno
di Panurge in questa impresa, è il Riso. Anche Panurge, l’infame, rideva.
Ecco dunque profilarsi l’idea di un Franti come motivo metafisico nella sociologia
fasulla del Cuore.
Il riso di Franti è qualcosa che distrugge, ed è considerato malvagità solo perché
Enrico identifica il Bene all’ordine esistente e in cui si ingrassa. Ma se il Bene è solo
ciò che una società riconosce come favorevole, il Male sarà soltanto ciò che si
oppone a quanto una società identifica con il Bene, ed il Riso, lo strumento con cui il
novatore occulto mette in dubbio ciò che una società considera come Bene, apparirà
col volto del Male, mentre in realtà il ridente – o il sogghignante – altro non è che il
maieuta di una diversa società possibile.
Per cui bene aveva fatto Baudelaire a identificare il Riso con il Diabolico ed a vedervi
il principio del Male. Agli occhi di Colui che tutto sa, il riso non esiste, e scompare
dal punto di vista della scienza e delle potenze assolute: è chiaro: dal momento che di
un ordine esistente si ha certezza e corresponsabilità, dal momento che vi si assente
dogmaticamente o vi si aderisce consustanzialmente, quest’ordine non può essere
messo in dubbio, e il primo modo per credervi è di non riderne.
Il riso, dice Baudelaire, è proprio dei pazzi: di coloro che non si integrano all’ordine,
dunque. Per colpa loro, nel caso dei pazzi; ma nel caso sia colpa dell’Ordine? Chi sarà
allora il Ridente? Colui che ha avuto coscienza della caduta, e quindi della
provvisorietà dell’ordine dato. Il cattivo dunque, colui che ha colpevolmente
mangiato all’albero del bene e del male? Ma questa è l’interpretazione del Ridente
data da chi non ride, e accetta l’Ordine. Per lo scolastico messo alla berlina da
Panurge, nel dialogo con Thaumaste fatto a gesti e a sberleffi, il gioco di Panurge è
un attentato diabolico. Per noi, nati da Rabelais, il gioco di Panurge è allegra profezia
di una nuova dialogica, e comunque messa a punto della vecchia, resa dei conti.
Chi ride è malvagio solo per chi crede in ciò di cui si ride. Ma chi ride, per ridere,
e per dare al suo riso tutta la sua forza, deve accettare e credere, sia pure tra parentesi,
ciò di cui ride, e ridere dal di dentro, se così si vuol dire, se no il riso non ha valore.
Ridere del piegabaffi, oggi, è un gioco da ragazzi; ridete dell’usanza di radersi, e poi
discuteremo.
Chi ride deve dunque essere figlio di una situazione, accettarla in toto, quasi amarla, e
quindi, da figlio infame, farle uno sberleffo. (Franti a parte, solo di fronte al riso la
situazione misura la sua forza: quello che esce indenne dal riso è valido, quello che
crolla doveva morire. E quindi il riso, l’ironia, la beffa, il marameo, il fare il verso, il
prendere a gabbo, è alla fine un servizio reso alla cosa derisa, come per salvare quello
che resiste nonostante tutto alla critica interna. Il resto poteva e doveva cadere.)
Tale è Franti. Dall’interno idilliaco della terza classe in cui alligna Enrico Bottini, egli
irraggia il suo riso distruttore; e chi si aggrappa a ciò che egli distrugge, lo chiama
infame. Fatto nascere dall’immaginazione di De Amicis e dalla visione astiosa di
Enrico come principio dialettico, Franti viene troppo presto eliminato di scena perché
si possa intravvedere quale reale funzione avrebbe egli svolto in questo quadro: se il
comico è l’Ordine che, accettato ed esasperato a bella posta, esplode e si fa Altro,
Franti non ha neppure abbozzato il suo compito.
Tenuto a freno dalla visione sospettosa di Enrico, non ha saputo espandersi come
dialettica voleva: e solo noi possiamo ora intravvederne e svilupparne i germi
liberatori e correttivi. Troncato sul nascere, il “Principio Franti” non si è risolto, come
avrebbe dovuto, nella forma compiuta del Comico: e “comica” rimane solo la
dialettica Franti-Enrico vista da noi, ora, e come tale messa in rilievo. Bloccato nella
situazione Cuore nella misura in cui Enrico lo aveva immobilizzato – escludendo
dogmaticamente che Franti potesse avere coscienza del significato dei suoi gesti –
l’Infame, anziché sacerdote dell’epoché ironica, rimane soltanto un non-integrato e
uno schizoide.
Ma di lui – e da lui – ci rimane un monito, acché la sua infamia sia la nostra virtù.
Saremo capaci di ridere, a ciglio asciutto, di nostra madre? Eliminato dal contesto
fantastico in cui viveva, Franti è accantonato dal cronista dell’Ordine e della Bontà:
ed è supposto finire all’ergastolo, dove appunto si raccolgono i non-integrati.
Franti è così rimasto come un abbozzo di Comico possibile: per riuscire egli avrebbe
dovuto assumere – ostentando buona fede – i panni di Enrico e scrivere lui stesso il
Cuore. Col sogghigno – invece che col singhiozzo – facile. Siccome non ha
raccontato, ma è stato raccontato, non ha assunto la funzione di giustiziere comico,
ma è rimasto come un’ombra, una tabe, una falla nel cosmo di Enrico, una presenza
inspiegabile e non risolta.
Noi sappiamo però che, al di fuori del libro, gli è stata lasciata un’altra possibilità (di
cui Enrico non aveva avuto mai sentore): perché l’Ordine o lo si ride dal di dentro o lo
si bestemmia dal di fuori; o si finge di accettarlo per farlo esplodere, o si finge di
rifiutarlo per farlo rifiorire in altre forme; o si è Rabelais o si è Cartesio; o si è, come
Franti ha tentato, uno scolaro che ride in scuola, o un analfabeta di avanguardia. E
forse Franti, con la memoria accesa del gesto di papà Coretti che dava al figlio, con la
mano ancor calda, la carezza del Re (impeditogli da Enrico di sorridere ancora una
volta, cancellato con un tratto di penna), si apprestava in una lunga ascesi a esercitare,
all’alba del nuovo secolo, sotto il nome d’arte di Gaetano Bresci.

Overbooking: Carolina Cigala

1

78601_respiriDei respiri: una nota ancora

di

Tommaso Ottonieri

Nota critica alla raccolta Respiri di Carolina Cigala (ed. Tullio Pironti). Prefazione di Vittorio Paliotti. Disegni di Marisa Ciardiello e Armando De Stefano

Sull’asse di visione e invocazione si polarizza – in modo (e moto) rescindente fin dall’intimo – il dire della poesia, il suo flatus. Perché, se nel vocare essa convoca il proprio oggetto o desiderio (l’altro, o insomma l’oscillare della sua ombra), s’appella a esso – destinatario invisibile – così esponendo, intiera, la marca sintattica di quella interrogazione: una interlocuzione senza possibilità di risposta; la visione invece lascia che la figura (forma e persino materia) improvvisa irrompa a rivelarsi, senza intervento a essa esterno, trasmessa dal lato interno della voce, come in una trance. Qui, la parola (la posizione-soggetto, sua ineluttabile) non si rivolge al destinatario della sua, evocante, invocazione, ma è rivoltata e fatta essa stessa oggetto, è chiamata a divenire tramite dell’immagine che verbalmente si forma e rivela: che ciò avvenga per via esplosiva o invece per via accumulatoria, come sulla carta di riso di un haiku, come nello spiegarsi di un foglio di montaggio. E sbalza, la parola, la plastica dei contorni, da sgorgarsi fuori-di-sé: per il mezzo della lingua, liberi dalla lingua; (perché il fine della parola in poesia non è altro che quello di sciogliersi, il fiato divenire aria, seminare l’aria).

L’approssimarsi di Carolina Cigala allo spazio della poesia si estende su ambedue questi estremi, senza avvertirne l’intimo dissidio, anzi quasi poggiandoli l’uno sull’altro, come in equilibrio di frana, blocchi scoscesi che mutuamente si sostengano dopo l’esplosione.

Eppure, visiva, ancor più che vocativa, è la tensione che anima la sua parola; e prova a bucare il foglio, dissi- pare la pagina, da essa lasciar tralucere solamente la figura che, intanto, va incendiandosi sul proprio lato interno: all’attacco della lingua o ancor prima, più giù, nel vibrare sordo – incessante – delle corde, giusto al seme della voce, nell’emissione di fiato. Se una parola è autentica in poesia, sa che da sé, o forse in sé, non basta: che per trasmettersi, per divenire spazio e segnale, ha bisogno di trasferirsi in solido: tridimensionale: carne d’immagine, sua pulsazione profonda. Scolpendosi – appunto – respiro su respiro. Qui, colta nel formarsi da un intreccio di respiri, nella cornice bianca, nella vergine superficie della pagina, (la parola) deposita/giustappone sequenze, uno strato sull’altro, a imprimere l’immagine invisibile sul fondo; e pure, fatalmente si ringoia nello spazio della invocazione. Quasi che l’immagine, incrostazione dell’assenza, si fosse formata solo per protendersi verso la persona seconda dell’interlocutore: persona invisibile, e inaudibile: muta fantasima del nulla, e per sempre scomparsa. Sì che la parola insomma voglia riappropriarsi entro sé, nel fremere della propria carne, dei fantasmi che ha oggettivato intanto e proteso sopra il silenzio stesso del foglio, rischiando tutto, persino il proprio fallimento – la voragine d’una resistente letterarietà (educazione al linguaggio) giusto entro quei confini del corpo, in cui essa (la lettera) si assorbe e vanifica.

Ed è il training suscitato dall’opera, posizionata a specchio, di due artisti di pregio nelle loro soluzioni diverse e consonanti, ciò che nel ritmo dei Respiri sa spingere la pa- rola al di là di quella lettera, che basta sempre di meno.

È questa la tensione che anima il dire di Carolina; nel dire e dirsi-altro, sottotraccia alla lettera, il suo dono da svelare, la sua più sicura promessa.

Una poesia

di Carolina Cigala

III

18.08.2013

 

Scheggia di luce assali il cristallo

come lampo in agguato.

Frena l’ardito bagliore

all’offerta della preda dimessa

disperdi il morso impietoso

nel corso febbrile del cosmo.

Mira alla bionda fiammella

che lenta si muove a conoscere

infinite pause in fugace presenza.

 

 

La madre socratica

2
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illustratrice: Roberta Maddalena Bireau

di Vittoria Baruffaldi

[da Esercizi di meraviglia
Fare la mamma con filosofia.
Einaudi 2016]

Ci sono madri dubbiose, ma ci sono anche madri dogmatiche. Le madri dogmatiche enunciano una serie di proposizioni in maniera definitiva ma acritica, che ricevono validità per il solo fatto di essere pronunciate dall’autorità madre.