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Non luogo comune

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Non Luogo Comune è un cortometraggio che ha preso forma negli ultimi mesi. È la presa di coscienza di come il linguaggio possa diventare un corpo staccato dal contesto culturale di riferimento, farsi sintomo e metastasi di un processo di erosione dei complessi rapporti sociali che le società occidentali stanno affrontando.

Punti della situazione

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di Fabio Donalisio

1.

esperire per dire, ci si riduce
a questo, specie i più sinistri
del re
la cosa – la roba – persiste
in separata sede, desiderio
di ricchezza di miseri
fai da te

noiose pratiche di forbici
sociali, immobili soggetti
alla dilatazione termica:
liberi nel sottostare
uguali nell’obbedire
uniti per vincere

(democrazia, portaci via

Maratown

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MRTschizzo

incontri on the road

Il 24 ottobre,

dalle ore 00,01 alle ore 23,59

42,195 km di città narrata in 24 ore. Una Milano da leggere a piedi, densa di storie e narrazioni, quella che vogliamo conoscere con la Maratown.  Una Milano che scopriremo, tappa dopo tappa, grazie anche al contributo di ospiti e amici che ce la racconteranno.

Ci accompagneranno nel cammino poeti, come Andrea Inglese, e romanzieri, come Gianni Biondillo e Alessandro Zaccuri, ci parleranno di memoria urbana Orsola Puecher e di storie di guerra e cammino Giancarlo Cotta Ramusino. E poi daremo spazio alla musica a Milano con Giordano Casiraghi, scopriremo le grandi storie olimpiche in forma di audio dramma rivissute nella mente dei protagonisti, Andrea B. Ferrari ci offirà un caffé e ci farà giocare a bocce, stimoleremo una narrazione “social” della città chiedendo il contributo degli ascoltatori di Radio Popolare, Alessio Lega ci canterà la Milano dei grandi autori del Novecento meneghino. Questo, altre sorprese e incontri inaspettati, lungo il sentiero metropolitano che attraverserà circolarmente Milano da mezzanotte a mezzanotte.

Ad accoglierci alla partenza – al Teatro della Cooperativa – ci sarà Renato Sarti, girando in tondo per la città giungeremo 24 ore dopo al Centro sportivo di via Iseo 10. Strada facendo si “farà stazione” nelle biblioteche rionali e nelle realtà associative che ci ospiteranno come pellegrini urbani. Sempre con “quel passo di pianura”, bello da vedere e perfetto per raccontare una città on the road.

Maratown è un progetto di Piacere, Milano e di Sentieri_Metropolitani

Per informazioni: info@piaceremilano.it info@sentierimetropolitani.org

L’evento (vedi la pagina Facebook ) è gratuito, per iscriversi andare qui.

«Contropiano dalle cucine». Autonomia del femminismo

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foto

Manifestazione Nazionale del Movimento Femminista contro il processo a Gigliola Pierobon in Piazza Insurrezione a Padova, 5 giugno 1973 (www.femminismoruggente.it),

di Deborah Ardili

segue da qui

Se ci si sofferma sul ricordo tramandato dalla storiografia, in special modo quella nazionale, è facile constatare quanto poco della ricchezza di quell’esperienza – le lotte per il salario al lavoro domestico – raggiunga il presente. Non che la letteratura disponibile, posando lo sguardo su quella che si è convenuto chiamare «stagione dei movimenti», ometta sistematicamente di menzionare la vicenda delle donne del salario: tutt’altro. Ma la tendenza prevalente è quella di esasperarne l’eccezionalità, di enfatizzarne al massimo la separatezza, quasi si trattasse di un grano apocrifo insinuatosi abusivamente in un movimento affaccendato in tutt’altre occupazioni e completamente ripiegato sul fronte della scoperta autocoscienziale. Circostanza quanto meno curiosa, se si pensa all’asprezza polemica con cui proprio la principale esponente del femminismo autocoscienziale avvertì l’esigenza di sottolineare (non sempre a torto) le inadempienze di un movimento tutto rabbia e denuncia, nel quale «l’autocoscienza non si sa cosa sia né a cosa serva»; [Lonzi 1978: 336] un movimento ― è sempre Carla Lonzi a parlare — pericolosamente incline a «fermare il processo all’inferiorizzato che protesta e avanza i suoi diritti» [Lonzi 1978: 458], incapace di un’«uscita sulla realtà che non siano delle rivendicazioni» [Lonzi 1978: 575]. Avrebbero avuto una ragion d’essere le rimostranze di Lonzi, se il bersaglio polemico contro cui si dirigevano fosse stato del tutto privo di consistenza? Ci sarebbe stato davvero bisogno di insistere tanto sulla necessità di «approfittare dell’assenza» delle donne dalla storia, se il contesto in cui cadevano quei richiami non fosse stato effettivamente qualificato dalla peculiarità che Anna Rossi-Doria gli ha riconosciuto? E cioè essere stato il femminismo italiano degli anni Settanta dotato di un carattere di massa «superiore a quello di ogni altro paese», e ciò nondimeno avere conosciuto, a partire dal decennio successivo, il paradosso di venire raccontato come un «percorso teorico di singoli gruppi o pensatrici, sia pure grandi» [Rossi-Doria 2005: 3].

Talvolta la spinta non semplicemente a differenziare, ma a estraniare dal contesto e dalle pratiche di movimento le femministe del salario si spinge talmente in là da costringere il lettore a chiedersi da quale oscuro pianeta siano piovute le donne che hanno fatto parte del gruppo numericamente più consistente e territorialmente ramificato fra quelli che animarono la scena femminista italiana del decennio. E da quale pianeta provenissero, viceversa, le donne che quelle proposte discutevano, criticavano, contestavano, a riprova di una dimestichezza che autorizza a ipotizzare una frequenza di scambi più assidua e una circolazione di idee meno compartimentata di quanto abitualmente non si ammetta. Un obbligo non esplicitato di buona creanza prescrive di rimarcare a ogni piè sospinto l’irriducibile alterità delle femministe del salario rispetto alle altre, come se l’omogeneità ottenuta per sottrazione semplice dovesse restituire al movimento delle donne, a distanza di decenni, la felice compattezza che non ebbe all’epoca.

Non credo si possa tentare una spiegazione compiuta di quanto appena detto omettendo di segnalare che le femministe del salario scontano, sul piano della memoria storica, il marchio infamante di una provenienza giudicata talvolta poco onorevole. E giudizi di questo tipo, come si sa, hanno il potere di far dileguare ogni sfumatura interpretativa. Si apra un classico come la Storia dell’Italia repubblicana di Silvio Lanaro. Si vedrà che, quando si tratta di bacchettare il «frigido neo-marxismo» delle donne del salario [Lanaro 1992: 384], la matita rosso-blu dello storico veneto non conosce esitazioni. Certamente, non le stesse che impedirebbero ad altri di infierire gratuitamente sull’impotenza di questo brano a misurarsi in maniera equilibrata con un fenomeno che non si lascia dedurre facilmente da una schedatura ideologica preventiva, e tanto meno trattare con il ricorso a categorie cliniche.

Ci si cura poco, in generale, di nascondere l’antipatia per un linguaggio ― qual era in effetti quello utilizzato dalle intellettuali del gruppo — manifestamente debitore della tradizione operaista. L’accusa ricorrente di «economicismo» la scopre [Lumley 1994: 297-99], rivelando nel contempo un’aspettativa ormai consolidata (e raramente ridiscussa) nei confronti della missione culturale del femminismo, e cioè quella di riservarsi la giurisdizione sul «simbolico», rispetto al quale ogni avventura filosofica è permessa, in modo da lasciare ad altri l’incombenza di intervenire sul politico e sull’economico. Né d’altra parte sembra troppo affollata la schiera delle voci disponibili ― tra un’etichettatura e l’altra — a pronunciarsi con altrettanta nettezza anche sul merito della questione: è vero o non è vero che il lavoro domestico risponde alle funzioni che abbiamo visto sopra? Si spiega o non si spiega il fatto che in tutto il mondo la coabitazione eterosessuale, specie in presenza di figli, comporta una crescita di lavoro per le donne e un alleggerimento dello stesso per gli uomini? [Miranda 2011] Chi ha guadagnato dalla scelta, affermatasi come maggioritaria in seno ai femminismi di Stato, di disertare il livello strategico della riproduzione sociale in favore di soluzioni «conciliative»? È vero o non vero che la risposta neoliberale ai movimenti degli anni Settanta ha aggredito frontalmente le condizioni della riproduzione, spingendo in maniera sempre più decisa verso soluzioni privatistiche?

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Forse anche in ragione di queste reticenze, in sede di ricostruzione storica, ci si cura ancora meno di prestare attenzione agli scarti operati dalle femministe del salario rispetto alla cultura dell’operaismo, di prendere sul serio i conflitti che hanno accompagnato quel processo di separazione, di valutare con maggiore attenzione se e in quale misura le tematiche privilegiate dai gruppi del salario intercettassero, radicalizzandola, un’ansia di trasformazione condivisa da altre componenti del movimento. È evidente che un bilancio, in queste note, non è nemmeno azzardabile. Alcune coordinate per porre la questione, tuttavia, possono essere delineate.

In diversi centri della penisola, negli stessi anni in cui si diffondevano i primi gruppi di autocoscienza e il femminismo era a livello di informazione generale praticamente sconosciuto [Calabrò, Grasso: 2004], la lotta «per spezzare l’identità imposta» cominciava a essere intrapresa in termini particolarmente agguerriti dalle donne radunate sotto le insegne del Movimento di Lotta Femminile, rapidamente ribattezzato in Lotta Femminista. A propiziare la nascita del gruppo era stato, nella primavera del 1971, l’incontro tra alcune donne di Potere Operaio e Selma James. Un testo ad uso interno ciclostilato dalle femministe milanesi, intitolato Colloqui tra le compagne dei gruppi femministi autonomi italiani con Selma James dello “Work Shop” inglese, testimonia delle prime discussioni delle idee che di lì a poco confluiranno in Potere femminile e sovversione sociali e dei primi passi in vista della nascita del gruppo. Dopo la divisione del nucleo originario padovano nell’ottobre del 1974 differenze di analisi e di pratica politica [Zanetti1998: 119], l’esperienza sarebbe proseguita nella seconda metà del decennio con i Comitati per il Salario al Lavoro Domestico. Dai materiali raccolti negli archivi della Fondazione Badaracco, risulta che le città toccate dall’attività dei gruppi fossero, oltre a Padova, Venezia, Trento, Torino, Trieste, Ferrara, Modena, Bologna, Reggio Emilia, Ravenna, Milano, Varese, Firenze, Roma, Pescara, Napoli, Salerno, Gela, Caltanissetta.

Ripescando i fondi di archivio, si vede bene come le questioni che animano il testo di Cox e Federici ricorrano nei primi documenti messi in circolazione dalle militanti che avevano dato vita a Lotta Femminista, caricandosi del senso di una vera e propria «scoperta», fatta da donne che avevano saggiato le vie dell’emancipazione sia tramite il lavoro fuori casa (prevalentemente nella scuola o all’università), sia attraverso l’impegno nei gruppi della nuova sinistra. Come si legge in un «bozza di discussione per il salario alle casalinghe» redatta dalle femministe di Modena e Ferrara nel giugno del 1972:

Una delle scoperte principali che abbiamo fatto quando abbiamo cominciato a guardarci intorno da donne è stata proprio la casa, la struttura familiare come luogo di sfruttamento specifico della nostra forza-lavoro. Dovevamo per forza privilegiare nella nostra analisi questa sfera “privata”, queste mura domestiche al di fuori delle quali si ferma l’analisi marxista delle classi, nonché la pratica di organizzazione politica della sinistra, parlamentare e non. Dentro la casa abbiamo scoperto il lavoro invisibile, questa enorme quantità di lavoro che ogni giorno le donne sono costrette ad erogare per produrre e riprodurre la forza-lavoro, base invisibile — perché non pagata ― su cui poggia l’intera piramide dell’accumulazione capitalistica [Lotta Femminista: 1972].

Ma come tradurre politicamente la scoperta della fecondità di un punto di vista dichiaratamente parziale e situato? Attraverso quale pratica articolare quella che oggi chiameremmo l’«intersezionalità» tra genere e classe? Per rispondere a questi interrogativi, occorre tenere presente un imprescindibile dato di contesto. Se l’infittirsi dei contatti e l’afflusso di documenti provenienti dal movimento statunitense aveva facilitato l’orientamento di molte verso la nuova problematica, la presenza in Italia di formazioni rivoluzionarie che costituivano «la più numerosa forza di Nuova Sinistra a livello europeo» [Ginsborg 1989: 424] complicava non poco le scelte di quante vi militavano — per lo meno nei centri in cui l’attività dei soggetti politici formatisi sull’onda dell’«autunno caldo» non si era ancora assopita. Shulamith Firestone, in pagine famose e spazientite, aveva tagliato corto con le «ausiliarie della sinistra» incuriosite dal femminismo, prefigurando per loro nessuna reale possibilità di azione, tranne che «aumentare la tensione che già minaccia di estinzione i loro logori gruppi» [Firestone 1970: 48].

In concreto, tuttavia, il problema si poneva in forme più complesse e articolate di quanto quella profezia — in alcuni casi puntualmente realizzata — non consenta di cogliere. Ci vuole poco, in effetti, ad assemblare un’antologia di affermazioni eterossesiste prelevate dalla cultura dominante e sufficienti a motivare la scelta di militare sul fronte opposto. Ma verificarne l’influenza sulla controcultura che si diceva rivoluzionaria, all’interno della quale per molte donne si era svolto un importante apprendistato politico, poteva dar luogo a un’insofferenza tanto diffusa quanto incapace di attivare automaticamente una risposta. La forza dei legami personali, così come l’abitudine a mobilitare gli altri e a concepire la militanza come un esercizio prolungato di coscienza e di eloquenza rivolto all’esterno, costituivano un ostacolo enorme alla riflessività del partire da sé.

Come muoversi, allora, per non mancare l’appuntamento con il femminismo? Il «vuoto storiografico» che, fatte salve alcune indicazioni utili per un avvio di ricerca [Petricola 2005: 203], pesa ancora su un capitolo meno indagato di quello dei rapporti tra femminismo e movimento studentesco, non consente di dire molto. Quello che si può affermare con certezza, tuttavia, è che i percorsi di avvicinamento al femminismo non avvenivano lungo una traiettoria omogenea, né secondo tempistiche sincronizzate. Far nascere collettivi di autocoscienza collaterali ai gruppi di appartenenza rinunciando a influire sulla linea politica? Istituire commissioni femminili all’interno dei gruppi e aprire logoranti fronti di discussione con le dirigenze maschili? Seguire l’esempio delle francesi della tendenza «lotta di classe» e gettarsi a capofitto nel movimento delle donne nella speranza di reclutare nuove forze da restituire alla causa del marxismo rivoluzionario? Erano questi alcuni dei nodi che le donne della nuova sinistra erano chiamate ad affrontare.

È d’abitudine calendarizzare al 6 dicembre del 1975 il momento in cui i dilemmi si sarebbero definitivamente sciolti per sfociare nell’urto frontale tra femministe e sinistra extraparlamentare. Nel picco alto della presenza pubblica del movimento, la diligenza militante delle compagne, «la pazienza nell’incastrare femminismo e comunismo come pezzi di una matrioska» che fino a quel momento era sembrata a prova di bomba [Gramaglia 1987: 19], pare improvvisamente esplodere: innescando ― a giudizio di alcuni ― il processo di riflusso di massa nel privato che avrebbe contraddistinto la fase successiva [Balestrini, Moroni 1997: 496].

Il riferimento, naturalmente, è agli scontri di piazza a Roma tra femministe e militanti di Lotta Continua in occasione della manifestazione nazionale per l’aborto, quando giovani del servizio d’ordine e della sezione Cinecittà tentarono di sfondare il corteo in nome dell’unità di classe: scontri che di lì a poco avrebbero avuto ripercussioni catastrofiche su un’organizzazione politicamente già indebolita dall’esaurimento della forza operaia nelle fabbriche, nonostante la quota di diecimila iscritti raggiunta quell’anno avesse segnato il punto massimo della sua espansione quantitativa [Viale et al. 2006: 76]. Generalmente assunta come caso paradigmatico della contraddizione tra organizzazioni operaiste e femminismo, la vicenda di Lotta Continua ha monopolizzato l’attenzione, inducendo molti osservatori a postdatare il momento della resa dei conti e a individuarne il rilievo specifico nel quadro di una diaspora organizzativa che prelude alla sparizione politica.

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Resta però da osservare che la definizione di un quadro meno parziale dei rapporti tra femminismo e nuova sinistra potrebbe trarre qualche spunto dalle circostanze che hanno visto nascere Lotta Femminista. Si trattava in effetti, per le femministe del salario, di offrire uno sbocco politico a donne in parte (ma non solo) provenienti da e in rotta con Potere Operaio [Dalla Costa 2002], nel momento in cui l’organizzazione guidata da Franco Piperno e Toni Negri, messa in difficoltà dal recupero sindacale sulle vertenze operaie, archiviava ogni ipotesi di unità di azione con il gruppo del Manifesto e si avviava speditamente a lanciare la formula politica del «potere operaio per il partito, per l’insurrezione, per il comunismo» [Grandi 2003; Donato 2014].

Si conoscono naturalmente gli omaggi che, a distanza di decenni, alcuni fra i padri nobili dell’operaismo hanno ritenuto di dover tributare alla creatività del femminismo, orientando per altro il proprio interesse a favore di una versione molto diversa rispetto a quella incontrata da Negri nelle aule dell’ateneo di Padova. Tuttavia le cose appaiono in una luce diversa se rimesse in prospettiva. Avrebbe potuto esserci spazio per le femministe del salario all’interno di una formazione che, rivolgendosi dalle colonne del mensile ai competitori nel campo politico della sinistra extraparlamentare con l’ambizione di mostrare una comprensione del fenomeno femminista sconosciuta agli altri [Frabotta 1973: 187-191], non esitava ad assimilare la «specificità eversiva» del femminismo allo stadio luddista nel cammino evolutivo della lotta di classe? Quale reale «importanza» poteva assumere il riconoscimento del «lavoro casalingo come indirettamente produttivo», se interpretato nell’accezione ausiliaria di «contributo» al processo rivoluzionario? E a quale processo rivoluzionario avrebbero dovuto «contribuire» le femministe, posto oltretutto che l’andamento non proprio arrembante delle lotte autonome dell’operaio-massa aveva indotto il gruppo dirigente di Potere Operaio a premere l’acceleratore sulla via organizzativa delle avanguardie: «sulla via addirittura» ― per usare le parole di Toni Negri — «della liberazione delle avanguardie soggettive dai livelli precostuiti di autonomia che, dopo essere stati fondamentali nella lotta sul salario, rischiano ora di diventare soffocanti»? [Negri 1971: 51].

Ci fosse stato qualche dubbio residuo in merito, l’irruzione dei militanti del Potere Operaio romano al seminario separato sull’occupazione femminile organizzato all’università dalle femministe del salario nel luglio del 1972 avrebbe rapidamente provveduto a dissiparli, confermando le ragioni di un disaccordo che si sarebbe ulteriormente esplicitato nella seconda metà del decennio nella polemica con l’Autonomia operaia e con i «mille fiori appassiti» della lotta armata, come titolava nel 1977 un numero speciale della rivista «Le operaie della casa» [Zanetti 1998: 102 sgg.]. In ogni caso, è sufficiente porsi queste domande per capire come mai le ex operaiste optarono fin da subito ed esortarono le altre («politiche» e «non politiche») a optare senza esitazioni per l’autonomia, dichiarando in questo modo tutta la propria indisponibilità a sperimentare il femminismo nelle modalità dimidiate della «doppia militanza». Non avrebbero lesinato in sarcasmo, a questo riguardo, le autrici di un articolo apparso a firma di Lotta Femminista sul primo numero di «Sottosopra» con il titolo — perfidamente ingannevole per un pubblico abituato a stabilire tra il primo termine e il secondo un rapporto di subordinazione — di Femminismo e lotta di classe. Dopo avere espresso un completo disinteresse a convincere della bontà delle proprie posizioni «leaders che da anni sono in politica e hanno fatto scelte che a loro sembravano ben motivate», le femministe aggiungevano:

Solo da poco tempo, e cioè da quando il movimento femminista si è conquistato forza e potere, il fronte del «dopo la rivoluzione» si è spezzato in un arco di sfumature che vanno da quelle decisamente «troglodite» («le donne sono reazionarie e la loro sola speranza di libertà è il lavoro») a quelle più progressiste («la questione femminile esiste ed è in qualche modo legata alla lotta di classe»). Per noi, invece, femminismo vuol dire riaprire la questione su cosa si intende per classe, lotta di classe, aree di scontro politico, rivoluzione economico-politica e rivoluzione culturale (abbiamo dimenticato niente?) [Lotta Femminista 1973b].

Che non si trattasse soltanto di dotarsi di strumenti più efficaci per la propaganda a favore del salario al lavoro domestico è, d’altronde, attestato dalle attività del gruppo. Fu per esempio l’impegno messo in campo nel giugno del 1973, in occasione del processo a Gigliola Pierobon, a favorire una mobilitazione che rappresentò la prima vera azione organizzata del femminismo in Italia tesa a imporre all’attenzione pubblica la questione dell’aborto. Furono campagne di controinformazione e vertenze come quelle portate avanti per tutti gli anni Settanta contro il reparto ostetrico dell’ospedale S. Anna di Ferrara a squarciare il velo dei «crimini di pace» perpetrati in nome della scienza ginecologica e a mettere in evidenza il peso del potere medico sul controllo delle donne. Fu l’attivismo di un gruppo che in Italia contava numerose aderenti tra insegnanti, ricercatrici precarie e studentesse a consentire un approccio critico alla riforma della scuola (era l’epoca in cui i decreti delegati introducevano la «collaborazione» tra insegnanti e famiglia) e a quella che più tardi ci saremmo abituate a definire «femminilizzazione del lavoro». Fu l’attenzione costante al problema della riduzione del tempo di lavoro a consentire alle femministe del salario modenesi di reimpostare in maniera originale la lotta per i servizi pubblici in una regione che si voleva all’avanguardia su questo fronte, contestando un’organizzazione sociale della riproduzione concepita in subordine alle esigenze della produzione e tale da raddoppiare il fardello del lavoro femminile. Tutto questo era stato l’effetto di quel gesto di «riduzione al lavoro domestico» che oggi viene giudicato da tanti povero, angusto, incapace di misurarsi con le articolazioni complesse della realtà sociale. Un giudizio che, per motivarsi, è costretto addirittura a mettere sotto traccia un’evidenza attestata dai fatti: non è mai esistita — né in Italia, né altrove — una sola maniera di esprimere la richiesta di salario al lavoro domestico.

[continua]

Qualche asserzione sparsa (e magari trascorsa)

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Prosegue la pubblicazione di interventi sul tema “scrittura non assertiva”. Vedi l’incontro sulla poesia “non assertiva“ il 25 ottobre a Milano, nell’ambito di bookcity (con Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Andrea Inglese, Lucio Lapietra, Renata Morresi, Italo Testa e Michele Zaffarano). Il primo intervento di Mariangela Guattteri è qui.

 

di Marco Giovenale

 

I.

Parto assai volentieri dall’intervento di Mariangela Guatteri, che esorto a rileggere: https://www.nazioneindiana.com/2015/10/08/scrittura-non-assertiva/. Qui di séguito tento di esprimere alcune precisazioni e – perfino – azzardo una diversa versione del (e una non spiccata diversione dal) testo.

Madre Roccia

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di Corrado Aiello

E se diventassi cattivo!

(cattivo?)

Sì – cattivo come un macigno

e la sua mole d’arenaria

– tutte le rocce sono tristi

ma risultano così utili

Recensioni e tasso di recensionabilità (esercizi di contabilità letteraria)

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di Giacomo Sartori

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Allora, sono già passati sei apprensivi mesi dall’uscita del mio ultimo romanzo, un altro strato di claustrofobici mattoni di carta si sta sedimentando sopra quello prevacanziero, dove già si notano ragnatele e avvisaglie di muffa (prodromi dell’oblio definitivo?), nell’inesorabile compiersi dei cicli letterari, è ora di fare un po’ di bilanci! Io sono di quelli che pensano che nella vita bisogna sempre cercare di migliorare, e per realizzare questo la prima cosa è fare periodicamente il punto della situazione, non esitando a vedere le cose come sono, e se necessario scavando nella carne viva (una sorta di autoanalisi). Pronti soprattutto a ammettere che si è sbagliato, o insomma che il male viene da dentro.

Andiamo con ordine, e cominciamo a contabilizzare le recensioni cartacee che il mio romanzo si è meritato:

  • recensioni su quotidiani nazionali: 0;
  • recensioni su settimanali (di qualsiasi genere): 0 (per rigore metodologico non conto quella su Internazionale, perché scritta da una cittadina americana, che nessun analista serio potrebbe includere nell’insieme patrie lettere);
  • recensioni su quindicinali (di qualsiasi genere): 0;
  • recensioni su riviste letterarie mensili: 0;
  • recensioni su riviste letterarie trimestrali o quadrimestrali: 0;
  • recensioni su riviste culturali (senza considerare la cadenza): 0;
  • segnalazioni o interviste su radio nazionali (assimilandole a prodotti cartacei): 0;
  • passaggi su reti televisive anche regionali (assimilandole a prodotti cartacei): 0.

Il totale, non bisogna essere molto forti in matematica, fa zero. Io adoro gli esiti estremi e la purezza (parlo della letteratura), e amo superare me stesso, quindi non posso non provare una certa soddisfazione. Non vorrei apparire ironico, perché non lo sono (anche se è vero che per certi aspetti la cosa mi procura un insano gaudio). Come dire, accetto questi risultati che sono forse coerenti con il mio modo di essere e il mio statuto di clandestino (privo di documenti identificativi) nello staterello delle lettere.

Ma entriamo un poco nei dettagli. Si sa, con le case editrici molto piccole bisogna arrangiarsi, e quindi oltre al ruolo di scrittore (uso questo termine solo per conformismo espositivo, per parte mia mi ritengo piuttosto uno scrivente), che si aggiunge a quelli di indagatore di terre forestate, di giudice di terre dissodate, di studioso di umificazioni, di cartografo, di insegnante, di malato cronico, di marito, di cuoco, di donna dei mestieri, di figlio sinistrato, di fratello rompicoglioni, di volontario, di confidente sentimentale, di blogger (un pochino), di veterinario (la gatta dei vicini), di giardiniere (la selva quasi vergine davanti casa), di pallido flâneur, e mi va bene che non ho figli o madri con l’Alzheimer, tocca accollarsi anche quello di ufficio stampa (a sostegno di quello anemico della bella casina editrice), alias di questuante. E quindi con la morte nel cuore, ho cercato di lambiccarmi per fare del mio meglio, mettendo in moto tutte le mie capacità (come sempre), seppellendo ogni fierezza.

Scusandomi dell’uso corrivo, e certo criticabile, del termine critico (che del resto include anche gli sporadici soggetti femminili, a dispetto di un’utenza precipuamente femminile), analizziamo assieme i risultati:

  • critici che mi hanno risposto “le dico francamente, non me lo mandi, perché in questo momento ho la scrivania sommersa”: 4;
  • critici che conoscono il mio lavoro e mi hanno detto “ti dico francamente, non mandarmelo, perché in ogni caso non potrei parlare del tuo libro, perché non sono io a decidere”: 2;
  • critici che conoscono il mio lavoro e mi hanno detto “lo leggo molto volentieri, ma sa com’è, quando sei in pensione nel giornale non conti più niente”: 1;
  • critici che conoscono benissimo e apprezzano il mio lavoro e mi hanno detto “lo leggo senz’altro, solo dammi un attimo”: 2;
  • critici che non conoscono il mio lavoro e mi hanno detto “me lo mandi, lo leggerò volentieri” (ma il tono del messaggio era forse ironico?): 1;
  • critici che non conoscono il mio lavoro e mi hanno detto “me lo mandi, lo leggerò” (ma il tono del messaggio era forse rassegnato?): 1;
  • critici che non conoscono il mio lavoro e mi hanno detto “me lo mandi, cercherò di leggerlo (ma il tono del messaggio era sufficiente, o peggio strafottente?)”: 1;
  • critici che conoscono il mio lavoro e che mi hanno detto: “sa, a forza di leggere e recensire libri ho provato una grande stanchezza, e ora non faccio più nulla”: 1;
  • critici che conoscono benissimo il mio lavoro e che mi hanno detto: “sai, non collaboro più con nessun giornale” (dando a intendere l’ingiustizia connessa): 2;
  • giovani critici molto influenti che conoscono il mio lavoro e che mi hanno detto quasi papale: “proprio non voglio leggerti, non sai scrivere” (il piglio non era affatto ironico): 1;
  • critici che conoscono bene il mio lavoro e non mi hanno risposto: 1;
  • critici che verosimilmente non conoscono il mio lavoro e non mi hanno risposto: 3;
  • professori universitari di letteratura di chiara fama che certo non mi hanno mai sentito nominare, e che non mi hanno risposto: 1;
  • professori universitari di materie psicologiche che certo non conoscono il mio lavoro, e che non mi hanno risposto: 2.

Tirando le somme, il tasso di risposte è stato davvero molto alto (soprattutto se si esclude l’ultimo sottoinsieme, corrispondente a tentativi espletati in realtà per curiosità, se non per gioco). E questo è un insperato risultato. Perché queste persone avrebbero dovuto rispondermi, in un paese in cui per costume nessuno risponde, quando non c’è in gioco un tornaconto personale o un obbligo istituzionale? E invece si sono prese la briga di perdere un po’ del loro tempo per farmi sapere qualcosa. Certo, io avevo cercato di essere meno invadente e importuno possibile, mi ero scusato e avevo sottolineato in tutti i modi la mia strisciante docilità, la dolorosa consapevolezza dell’incongruità quasi patetica del mio agire, in certi casi la mia ammirazione (genuina), ma loro non mi hanno mandato a quel paese. Io credo che si deva sempre guardare al lato positivo delle cose. Di nuovo, non faccio dell’ironia, lo dico davvero, e anzi mi piacerebbe poter esprimere in qualche modo la mia riconoscenza, perché questi individui retti, hanno compiuto un piccolo atto a cui nessuno li obbligava. Forse lo hanno fatto perché gli facevo pena, o per carità cattolica, o per timore che diventassi insistente (cosa che non farei mai), ma insomma il mio rapporto con la critica, chiamiamola così, si può considerare complessivamente positivo.

E se questo romanzo non si è guadagnato delle recensioni, lungi da me ogni pusillanime e risibile vittimismo, vuol dire che non le meritava. Probabilmente quell’ammasso di parole scritte senza fretta non valeva che si spendesse su di esso un pacchettino anche affrettato di parole scritte, probabilmente i cristalli di senso che io pensavo averci riposto erano vetracci comuni. La pioggia di altezzosi rifiuti editoriali che aveva incassato sembrerebbe fare pencolare la bilancia in questo senso. Con l’aggravante allora di aver io coscientemente appesantito una produzione libraria per ammissioni di tutti già pletorica (senza parlare dei risvolti ecologici, ai quali sono assai sensibile), esacerbando il sovraccarico dei poveri critici. E forse anche di aver abbassato, seppure infinitesimalmente, il livello mediano già non eccelso.

Certo, non sono solo ingenuo, anche se veglio a preservare la mia ingenuità (essenziale per quello che scrivo), se la mia fosse stata una muscolosa casa editrice, o anche una casina seducentina, o se fossi stato un giornalista di nome, una presentatrice, un’astronauta, o anche solo un incestuoso critico, o un politico con melensi afflati narrativi, o anche solo il tema fosse stato meno ostico, e il fraseggio più empatico, o più ammiccante, il tasso di recensionamento (t = R/Sa x100, dove R sta a numero di Recensioni e Sa a numero di Sollecitazioni autoriali non auspicate) si sarebbe impennato, ma la storia non si fa con i se, e io sono pago di quello che sono, e del risultato che ho conseguito. Come dire, il rapporto che intrattengo con la letteratura è viscerale e fondamentalista, e certo quei succinti componimenti, per quanto molto auspicati, per quanto arguti e incoraggianti, non lo avrebbero alterato più di quanto gli incitamenti e le spintarelle sostengono un ciclista stremato dall’erta. La mia vera forza, come quella del ciclista, sta nei miei polpacci, aiutati dal mio personale doping, la stima di certi corridori (di parole) che ammiro, di atleti di altre squadre meno consanguinee, meno anossiche.

Affrontiamo adesso il capitolo dolente delle spese, che erodono il già esile anticipo ricevuto:

  • spese di affrancatura nazionale (“piego di libri”): 1,28 € x 21 = 26,88 €;
  • spese di affrancatura nazionale con frode (“piego di libri” contente una frase o un testo, esplicitamente vietati): 1,28 € x 11 = 14,08 €;
  • spese di affrancatura da paesi esteri 7,00 € x 11 = 77,00 €;
  • spese di affrancatura da paesi esteri e pericolosi 21,10 $ x 1 = 21,10 $;
  • spese per buste imbottite con bollicine esplodenti stressicide (al netto delle buste riciclate): € 15,20;
  • spese per copie inviate: 0,00 € (gentilmente concesse dalla casetta editrice).
  • spese per antidepressivi (di varia natura) e di antidoti per qualche attacco di nausea: 173,25 €.

Insomma, ci sono anche svariati contro, ma poteva andarmi molto peggio, con un testo tanto pessimo: potevo ricevere ingiurie, o magari denunce penali, multe. Fermo restando che nella vita non è sempre facile vederci chiaro. Forse se me ne restavo quieto (come certo farò in futuro, archiviata quest’ardua sperimentazione) qualche critico saturo di mainstream e medietà e nepotismi avrebbe scritto una recensione: non sarebbe la prima volta che un romanzo pessimo viene considerato, succede anzi ogni giorno. O forse il mio romanzo non è poi così pessimo, vallo a sapere (come ponderare un albergo, se nessuno gli ha attribuito le stelle?). Ma allora? Allora scrivo un altro romanzo, sforzandomi che sia meno pessimo possibile, e ancora più integralista.

 

Las cuentecitas que los pobres hacen nunca salen bien (canzone gitana)

(l’immagine: installazione, curata da Gaetano Vella e Giampaolo Riolo, sulla scalinata della Cattedrale di Agrigento)

Il cannibale e il comunismo

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Un’intervista di Alessandra Sarchi a Andrea Tarabbia

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1) A.S. Protagonista del tuo ultimo romanzo è un criminale efferato, un essere abbietto che tu fai parlare in prima persona, attraverso il lunghissimo interrogatorio con il capo della polizia che lo arrestò nel 1990. Come nasce la scelta di calarsi nella mente di un serial killer e perché?

Čikatilo commise il primo dei suoi omicidi nel 1978, l’anno in cui sono nato. Fu arrestato 12 anni più tardi, alla fine di novembre del 1990, quando l’Unione sovietica si apprestava a cadere.

Il quarantennale di Horcynus Orca

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horcynus

Oggi e domani, il 9 e 10 ottobre 2015, quindi proprio oggi e domani, mica per finta, ad Arcinazzo Romano e Trevi nel Lazio festeggiamo il quarantennale del più grande romanzo italiano di mare del Novecento: Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, che lo scrisse in parte (e a lungo, come si sa) tra quelle alture laziali. Al convegno (qui tutte le informazioni) partecipano studiosi, poeti, scrittori, artisti tra i quali Moshe Kahn, autore della prima traduzione del romanzo: uscita quest’anno in Germania per Fischer.

Riprendo dal sito del convegno:
«Quaranta anni fa veniva pubblicato Horcynus Orca, uno dei più grandi romanzi della letteratura europea del Novecento. Stefano D’Arrigo aveva cominciato a scriverlo nell’agosto del 1955, una prima stesura era già pronta alla fine dell’anno successivo, poi un’anticipazione di due capitoli sulla rivista “Il Menabò, diretta da Elio Vittorini. La pubblicazione dell’intera opera veniva annunciata come imminente già nel 1960, ma iniziava allora il lungo e travagliato lavoro di correzione delle bozze, di riscrittura del romanzo e di inserimento di lunghi inserti narrativi che sarebbe proseguito fino agli ultimi giorni del 1974, poche settimane prima della pubblicazione avvenuta nel febbraio del 1975, anche se l’elegante edizione mondadoriana reca la data di gennaio.

Il romanzo, lungo 1257 pagine nella prima edizione, racconta il ritorno del marinaio ‘Ndrja Cambrìa nel suo paese di pescatori sulla sponda siciliana dello Scilla e Cariddi e del suo tentativo fallito di restituire a una comunità devastata materialmente e moralmente dalla guerra la smarrita dignità di vita e di costumi. Il racconto di una “apocalisse culturale” commentò Walter Pedullà, “un cantare” lo definì Gianfranco Contini, un’opera che – notarono ammirati i suoi primi lettori – voleva riassumere e rielaborare tutte le letterature e i generi con l’obiettivo di arrivare al significato ultimo delle cose.

Convegno horcynus
Clicca sull’immagine

Una odissea della parola, “un’arcalamecca”, una “mille e una notte”, la scoperta di una lingua letteraria e popolare, mitica e concreta nello stesso tempo: classica, appunto. “Un monstrum espressivo”, come scrisse, sgomento, Niccolò Gallo, l’editor che, insieme con Walter Pedullà, ne accompagnò tutte le fasi creative senza riuscire a vederne la luce, per la prematura scomparsa. Un’opera intraducibile, si disse, ed è stato così per quaranta anni, fino a pochi mesi fa, quando il letterato poliglotta Moshe Kahn ha dato alle stampe la sua monumentale traduzione in tedesco, nel giudizio unanime un capolavoro a servizio di un capolavoro.

Il nostro convegno vuole ricordare il Quarantennale di Horcynus che non ha trovato posto nelle agende dei giornali, sempre così dense anche di ricorrenze inessenziali, e in grandi eventi celebrativi. Lo fa chiamando a parlarne alcuni degli studiosi più importanti, quelli che hanno sostenuto la battaglia, di cui Pedullà è stato il leader più autorevole e convinto, per collocare l’Horcynus nell’Olimpo delle grandi opere. Insieme con loro ci saranno Moshe Kahn, il traduttore dell’edizione tedesca (uscita per i prestigiosi tipi della Fischer), scrittori, poeti e musicisti».

{ Per i lettori di Nazione Indiana: un viaggio nell’Horcynus lo intraprese, undici anni fa, su questo sito, Alessandro Garigliano: questo il link al suo ultimo pezzo (il sesto di sei), da cui risalire agli altri. }

Siriana Sgavicchia, che interverrà al convegno, promette:

«Horcynus Orca è un mito moderno, un racconto sulla divina mania della conoscenza. Stefano D’Arrigo, come l’Ulisse dantesco, sfida il limite, forza i confini del romanzo per andare «dentro, più dentro dove il mare è mare», per scoprire il mistero dell’inizio e della fine. Il protagonista del romanzo sale sulla groppa dell’orca, va incontro alle tenebre e si mette nella barca che è bara e arca insieme per raccontare la poesia del «visto con gli occhi della mente». La sperimentazione espressiva non è un ostacolo per il lettore di Horcynus Orca perché si accompagna all’emozione, in una ricerca visionaria e visiva che cambia la prospettiva della percezione come accade nell’innamoramento».

Primo Levi scrisse:

«Poi ti imbatti in Horcynus Orca e tutto salta: è un libro esuberante, crudele, viscerale e spagnolesco, dilata un gesto in dieci pagine, spesso va studiato e decodificato come un arcaico, eppure mi piace, non mi stanco di rileggerlo e ogni volta è nuovo. Lo sento internamente coerente, arte e non artificio; non poteva essere scritto che così. Mi fa pensare a una certa galleria che è stata scavata secoli fa, nella roccia, in Val Susa, da un uomo solo in dieci anni; o ad una lente con aberrazioni, ma di portentoso ingrandimento. Mi attira soprattutto perché D’Arrigo come Mann, Belli, Melville, Porta, Babel e Rabelais, ha saputo inventare un linguaggio, suo, non imitabile: uno strumento versatile, innovativo, e adatto al suo scopo».

E adesso vi saluto. Vado a nuotare «il nuotare del pesce che nuota nel verso del pelo marino».

“Scrittura non assertiva!”

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Il 25 ottobre a Milano, nell’ambito di bookcity, alle ore 14 alla Casa delle Arti – Spazio Alda Merini, via Magolfa 32, si terrà un incontro sulla poesia “non assertiva“. Leggeranno i loro testi: Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Andrea Inglese, Lucio Lapietra, Renata Morresi, Italo Testa e Michele Zaffarano. Qui di seguito il primo di una serie d’interventi teorici e critici sull’argomento.

 

di Mariangela Guatteri

Partendo dal titolo del #67-68 della rivista svedese OEI, dedicato ad alcuni autori italiani contemporanei e ad alcune loro scritture, ho provato a riflettere sulle possibilità di questo non essere in un determinato modo. Propongo alcune domande forse utili per uno sguardo critico su certi modi di scrittura, trovando questo titolo, assertivo e incongruo (non possiede la proprietà che predica), molto funzionale, non tanto a tracciare i contorni delle scritture in questione, quanto a ragionare sul rapporto che tali scritture intrattengono con la realtà.

Didascalie: Carol Rama

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458x464PanoRama a cura di ArteSera

Nachlass

di

Francesco Forlani

The word is a compound in German:

nach means ‘after’, and the verb lassen

means ‘to leave’.

Per dipingere la vita bisogna attingere agli archivi interiori. Ecco perché certe vite d’artista somigliano a quelle degli internati. E allora diventa capitale la scelta, per quanto si assecondi sempre più o meno la natura, di cedere all’usura o alla dissipazione. A un tavolino di Bistrot sulla Rue St. Antoine un collezionista di monete mostrava a una signora le sue pièces migliori. Si trattava di monete che recassero un errore nell’incisione. – Veda- diceva alla sua interlocutrice – qui è scritto imperorum ma corretto sarebbe stato incidere imperiorum. Manca una I. Le aveva in una busta da lettere e probabilmente non le lasciava mai da nessuna parte. Il collezionista autentico non si separa dalle cose, se le porta addosso; è una cosa anch’egli. Carol Rama invece fa della propria vita e opera un esercizio di “mancamento”.

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108 nero Derealizzazione_Depersonalizzazione_2015_(PanoRama)_40,6 x 30,5

Non è lei a mancare i grandi movimenti d’avanguardia del novecento, arte concreta, pop art, arte povera, che di fatto attraversa, ma sono questi a mancare, essere perduti, evacuati. Mancano dal suo archivio interiore che è la casa atelier di via Napione. Non è la casa ma una camera d’aria, un soufflet. Camera da Musica, camera dell’occhio. Rama, la visione, è innanzitutto Histoire de l’œil. Nel magnifico catalogo Mazzotta del 1985 si alternano la vita dell’artista, en robe de chambre, e quella del mondo-camera. Les pièces tombent en morceaux, le collezioni da Wunderkammer sono incompiute ma non per incompletezza. I pezzi c’erano tutti, s’immagina, in un prima che assomiglia a un’ infanzia felice e che in un dopo diventa perdizione, lascito, caduta. Perfino il nome Olga dell’artista viene trascinato nel gorgo dell’oblio, insieme alle lingue e ai serpenti. Giorgio Manganelli aveva ben colto la naturalezza dell’invenzione di Carol Rama, che altri non è che “la perdita, la sconfitta, la decomposizione”; proprio il contrario dell’arte del bricolage.

 Silvia Argiolas, Ragazza di periferia con uomo tavolo 23x30,5 acrilico e tempera su carta cotone, 2015
Silvia Argiolas, Ragazza di periferia con uomo tavolo 23×30,5 acrilico e tempera su carta cotone, 2015

Le nature morte in forma di ritratti still life viste alla grande retrospettiva parigina riecheggiano, moltiplicate nei lavori di Silvia Mei; il gran tema della paralisi, ossessione dell’artista, si ricompone oniricamente nelle opere di Silvia Argiolas; il tema della liquidità del respiro e dei corpi si arricchisce di polifonia visiva nei disegni di Alessandro Torri; la sospensione dei corpi nello spazio che in Carol Rama si rappresenta attraverso l’uso delle gomme e delle camere d’aria, viene rappresentata nel distacco delle forme, nelle tâches noires di 108 nero.

Cose su cose, hommages che abitano lo spazio ma non il tempo. Del resto il destino della camera di Via Napione sembra lo stesso annunciato dal torinese Xavier de Maistre nel suo Voyage autour de ma chambre: Je marche de découvertes en découvertes- ha scritto. Il viaggio di questi artisti nell’opera di Carol Rama, intorno alla sua camera, sembra indurre colui che passa e guarda a dire lo stesso.

Nota pubblicata nel catalogo PanoRama in collaborazione con Burning Giraffe Art Gallery Torino

Carol Rama  (Torino, 17 aprile 1918 – Torino, 24 settembre 2015)

Informazioni sulla mostra

PanoRama è il catalogo che ArteSera Produzioni ha curato in occasione dell’omonima mostra, un progetto diffuso in sei gallerie del quartiere Vanchiglia a Torino, curato da Olga Gambari. La mostra vuole indagare l'”eredità inconsapevole” di Carol Rama, la grande artista anomala e outsider che proprio in Vanchiglia ha abitato fino alla sua morte, avvenuta in concomitanza con l’inaugurazione di panoRama, il 24 settembre 2015.

PanoRAMA prende la forma di mostra diffusa, intimamente legata al luogo del suo accadimento, cioè al quartiere Vanchiglia, che negli ultimi anni ha visto il fiorire di una serie di gallerie legate alla giovane arte internazionale così come a linguaggi artistici e pratiche espositive che contaminano ambiti diversi. Vanchiglia si afferma come una delle zone con maggior fermento creativo cittadino, quartiere con un’altissima concentrazione di studi, gallerie, laboratori e spazi di creatività emergente e sperimentale; ma soprattutto l’angolo di mondo in cui si è svolta la vita di Carol Rama, che abitava in Via Napione.

Sei gallerie (Burning Giraffe Art Gallery, Galleria Alessio Moitre, NOPX | limitededitionpics, Opere Scelte, PEPE fotografia e VAN DER) ospitano un gruppo di artisti, diversi tra loro per generazione e nazionalità, la cui ricerca si muove – in modo poetico, empatico, mai didascalico – sulle tracce della grande artista. Gli artisti coinvolti sono stati individuati per un’attitudine, un certo carattere, un particolare sguardo verso le cose, un determinato gusto, una modalità di narrare e raccontare storie affini ed empatiche con il sentire, il fare e l’esprimersi di Carol Rama.

Il progetto, nato da un’idea di Andrea Guerzoni, si è poi sviluppato all’interno di un gruppo composto da galleristi, curatori, critici, artisti che ne ha condiviso ogni fase: Claudio Cravero, Andrea Guerzoni, Vittorio Mortarotti, Stefano Riba, Antonio La Grotta, Chiara Vittone, Andrea Rodi, Alessio Moitre, Viola Invernizzi, Emanuela Romano, Valentina Buonomonte, Cristina Mundici, Giorgia Mannavola e Andrea Ferrari, con la curatela generale di Olga Gambari.

Il catalogo presenta sei sezioni, ognuna dedicata alle singole gallerie aderenti al progetto, con i lavori di Silvia Argiolas Francesca Arri, Guglielmo Castelli, Lin de Mol, Michela Depetris, Greta Frau, Andrea Guerzoni, Liana Ghukasyan, Keetje Mans, Silvia Mei, Vittorio Mortarotti, Cristiana Palandri, Mela Yerka, Ann-Marie James, Mario Petriccione, Maya Quattropani, 108  e Alessandro Torri; a corredare le immagini, le libere letture critiche redatte da Sara Boggio, Roberta Pagani, Milena Prisco, Annalisa Pellino&Beatrice Zanelli, Aris Nobatef e Francesco Forlani. La presenza di Carol Rama è un sottotesto che si dipana nelle pagine del catalogo, attraverso la grafica curata da Leandro Agostini.

EDITORE: ArteSera Produzioni

PROGETTO GRAFICO: Leandro Agostini

LINGUA: ita/eng

FORMATO: 14,8 x 21 cm

FOLIAZIONE: 84 pagg

PREZZO DI VENDITA: 18 euro

Il catalogo è in visione presso le gallerie aderenti al progetto ed è in vendita presso:

-TORINO:  Bookshop GAM / Bookshop Pinacoteca Agnelli / Libreria Oolp / Libreria n:b

– MILANO: Gogol & Company

150 anni di Alice – Non solo Alice: Lewis Carroll e le altre bambine

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150 anni fa veniva pubblicato Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Ho chiesto a scrittori, studiosi, appassionati di pensare un loro contributo personale per celebrare questo capolavoro del linguaggio e dell’immaginazione. I post si susseguiranno a cadenza irregolare fino all’autunno e saranno contraddistinti dal tag: 150 anni di Alice, presente anche nel titolo. I post già pubblicati si possono trovare QUI(NDF)

di Francesca Cosi e Alessandra Repossi

Tre signorine un po’ stanche del viaggio, 
tre paia d’orecchie a ascoltare un messaggio,
tre piccole mani già pronte a afferrare,
tre rompicapi da indovinare,
tre belle facce a guardare sorprese,
tre paia di forbici lunghe distese,
tre piccole bocche ringraziano in coro,
il caro amico, autore del dono.
Ma chi lo sa se fra un giorno o fra un mese
ricorderanno l’amico cortese?

 

ho una fata accanto

Questa dedica, scritta di pugno da Lewis Carroll sulla copia di Alice donata alle sorelle Minnie, Ella ed Emmie Drury nell’agosto del 1869, è una della filastrocche che compaiono nella raccolta da noi tradotta di inediti carrolliani per bambini.

Come tanti altri, ci siamo avvicinate ad Alice da piccole e, una volta cresciute e diventate traduttrici sempre a caccia di testi da tradurre, ci siamo imbattute in alcune filastrocche di Carroll ancora sconosciute al pubblico italiano: versi sparsi tratti dalle sue lettere, dediche di libri, limerick e acrostici. Fra questi c’erano rime rocambolesche, bambini che lanciavano i fratellini in acqua per darli in pasto ai pesci o chiedevano una pentola alla cuoca per cucinare le sorelline, uno strambo personaggio che ogni giorno diventava più basso e liste talmente lunghe di “non si può” da diventare grottesche: la sfida traduttiva era irresistibile.

Parlandone con l’editor di Motta Junior, Teresa Porcella, è nata quindi l’idea di costruire una raccolta per piccoli lettori, illustrata dal tratto sognante e giocoso di Alessandro Sanna; nel 2014 è così uscito il volume Ho una fata accanto, che raccoglie quindici poesie per bambini (e non solo!) dell’autore di Alice.

Emmie_Drury 1874

Per gentile concessione della casa editrice ne riproduciamo qui un paio: quella di apertura si intitola A tre bambine perplesse da parte dell’autore ed è particolarmente interessante per gli appassionati di Carroll perché descrive il momento dell’incontro con le tre sorelline Drury. Le bambine si trovavano infatti sul treno in partenza da Southwold, nel Suffolk, e alla stazione videro il reverendo Charles Lutwidge Dodgson passare e ripassare davanti alla loro carrozza. Speravano che si decidesse a salire su un altro vagone, ma l’uomo si sedette proprio nel loro scompartimento e le intrattenne fino a Londra con indovinelli, racconti e giochi con carta e forbici. Era un modo di fare conoscenza che Dodgson/Carroll adottò più volte e che gli permetteva di entrare in contatto con tanti nuovi, piccoli amici.

L’amicizia con le sorelle Drury è testimoniata anche da altre dediche, lettere e foto. Qui riproduciamo gli scatti, realizzati dallo stesso Carroll, di Ella (Isabella) ed  Emmie Drury, immortalate rispettivamente nel 1869 e nel 1874.

ella druryAnche la seconda poesia, scritta l’11 gennaio 1872, vede protagoniste le sorelle Drury, stavolta nella veste un po’ insolita di piccole mascalzone; al pari della prima, anche questa è la dedica contenuta in uno dei libri di Carroll, una copia di Attraverso lo specchio, che come si vede è citato giocosamente nei versi.

TWO  THIEVES
Two thieves went out to steal one day
Thinking that no one knew it:
Three little maids, I grieve to say,
Encouraged them to do it.
 
‘Tis said that little children should
Encourage men in stealing!
But these, I’ve always understood,
Have got no proper feeling.
 

An aged friend, who chanced to pass
Exactly at the minute,
Said “Children! Take this Looking-glass,
And see your badness in it.”
 

DUE LADRI
Due ladri se ne andarono a rubare
pensando fosse cosa di un secondo.
Tre bimbe poi li vollero aiutare:
guardate quant’è strano questo mondo!
 

Si dice che i bambini qualche volta
invitino gli adulti a sgraffignare!
Ma quelle tre bimbette, è garantito,
son discole e si danno un gran daffare.
 

Un loro amico adulto le intravide
in quel momento esatto e disse: “Avanti!
Vi presto il mio specchietto: voi guardate
le vostre belle facce da furfanti.”

Questa è la versione definitiva, uscita nel volume pubblicato da Motta Junior, ma prima ci sono state almeno un paio di bozze intermedie, che vi presentiamo per dare un’idea delle difficoltà che si incontrano nella traduzione di testi solo all’apparenza semplici.

La primissima versione che abbiamo prodotto era una traduzione piuttosto letterale, come si vede dalla prima strofa:

Un giorno due ladri andarono a rubare
Pensando di riuscirci senza disturbare:
ma tre signorine, mi spiace, devo dire,
hanno fatto il possibile per poterli aiutare.

Certo, Carroll sarebbe stato contento nel veder rispettati i contenuti dei suoi versi, ma molto meno riguardo a un altro paio di aspetti fondamentali in questo genere di poesia: la rima e il ritmo. Avevamo sì introdotto tre rime su quattro in “are”, ma il ritmo era totalmente assente: sembrava più un brano di prosa che una filastrocca.

Con la seconda versione abbiamo fatto un passo avanti:

Due ladri un giorno andarono a rubare
pensando di non essere scoperti;
tre bimbe poi li vollero aiutare:
purtroppo devo dirlo, è cosa certa.

Non male come ritmo (abbiamo scelto endecasillabi giambici), anche se a livello di rima il testo aveva ancora un difetto: il secondo e il quarto verso non rappresentavano una rima perfetta, ma solo parziale (erti-erta), che stonava all’orecchio. Con la versione definitiva abbiamo trovato una rima perfetta tra “secondo” e “mondo”, al prezzo di uno scostamento al livello del contenuto: la convinzione dei ladri inglesi di non essere visti diventa per quelli italiani l’illusione di essere molto rapidi, mentre il dispiacere provato dallo scrittore di fronte all’accaduto si trasforma in una constatazione della sua stranezza.

Come sempre accade in traduzione, e in particolare in quella poetica, facciamo un lavoro da giocolieri cercando di tenere in aria tutti i birilli che compongono il testo, pur sapendo fin dall’inizio che, con ogni probabilità, non sarà possibile e che dovremo lasciarne cadere qualcuno. Eppure continuiamo a provarci, e il gioco ci entusiasma ogni volta.

 

Della serie: Black Mirror

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Black Mirror, o della memoria

di

Paolo Valoppi

Ho cominciato a vedere Black Mirror con due anni di ritardo. In Inghilterra era stato trasmesso per la prima volta il 4 dicembre 2011, in Italia il 10 ottobre 2012. Io l’ho scoperto nel 2013, lo stesso anno in cui Robert Downey Jr opzionava uno degli episodi della serie – The entire history of you – per produrne un thriller di fantascienza.

Ogni puntata di Black Mirror ha un cast, una storia e uno scenario diversi, e The entire history of you (in italiano banalmente ridotta a Ricordi pericolosi) ha come tema centrale la digitalizzazione della memoria: gli uomini, mediante un chip applicato dietro l’orecchio, registrano tutto quello che fanno, vedono e sentono; ogni ricordo della loro vita può essere rivissuto istantaneamente, proiettato su un monitor oculare che ricorda – in versione avanzata e soprattutto molto più efficiente – lo schermo e la tecnologia dei google glass.

Senza entrare nei dettagli della trama (un giovane avvocato sposato con una bella moglie scopre, con l’aiuto del chip della memoria, che lei lo ha tradito con un suo ex fidanzato e va fuori di testa), l’idea che dà vita a questo episodio esamina da vicino il rapporto tra uomo e tempo, tra irreversibilità del vissuto e riproducibilità dei ricordi, immaginando, nelle sue conseguenze più estreme, che l’intera esistenza di una persona possa essere rivissuta, o meglio rivista, in ogni suo singolo frame, in ogni suo ricordo più remoto (“Tutti noi passiamo in rassegna i chip alla ricerca dei momenti migliori per rivedere qualche oscenità ogni tanto”). La memoria umana, nella sua fallibilità e approssimazione, viene ridotta a “strumento” obsoleto e imperfetto: in una scena dell’episodio, durante una cena, una ragazza rivela di non avere il chip della memoria e tutti i commensali rimangono sbalorditi (“La tua è una scelta politica?” “Il punto è che dopo qualche giorno dall’estrazione, vivere senza chip mi è piaciuto”). La portata di questa potenziale innovazione, di questa ennesima rivoluzione/evoluzione tecnologica, è immensa. A questo proposito, è interessante riprendere le parole con cui Walter Benjamin affronta il discorso della memoria volontaria e involontaria in Proust:

 «Lo stesso vale per il nostro passato. Vanamente cerchiamo di rievocarlo; tutti gli sforzi del nostro intelletto sono inutili». Per cui Proust non esita ad affermare, in conclusione, che il passato è «al di fuori del suo potere e della sua portata, in qualche oggetto materiale (o nella sensazione che questo oggetto provoca in noi), che ignoriamo quale possa essere». […] È affidato, secondo Proust, al caso che il singolo acquisti un’immagine di se stesso, che diventi signore della propria esperienza.[1]

12115756_10153027233751852_529755606216866934_n In The entire history of you l’uomo diviene “signore della propria esperienza”, il passato non è più “al di fuori del suo potere e della sua portata” e ogni ricordo può essere costantemente rievocato. Dal momento che il processo di riproduzione dei ricordi è affidato ad un chip elettronico e non più al cervello umano, a uscirne demolita è la memoria cerebrale intesa come capacità psichica di riprodurre nella mente l’esperienza passata. Come se il Marcel de La strada di Swan, nel portare alle labbra la “sorsata mescolata alle briciole della madeleine” e nel rievocare improvvisamente le mattine domenicali a Combray quando la zia Leonia gli offriva il dolce inzuppato nel tè, potesse disporre di una videoriproduzione esatta di quell’episodio della sua infanzia e riviverlo infinite volte grazie a un minuscolo chip. Non ci sarebbe stata nessuna memoria involontaria. Non ci sarebbe stata nessuna Recherche.

A tale riguardo, a ricordarci di come l’uomo non possa memorizzare tutto – pena il rischio di essere schiacciato dal peso dei propri ricordi – è un racconto di Borges contenuto in Finzioni, dal titolo Funes, o della memoria, in cui si dà sostanza a una riflessione sulle incertezze e i limiti della memoria umana. Ireneo Funes, “precursore dei superuomini”, in seguito a una caduta da cavallo e alla conseguente paralisi, costretto a trascorre molte delle sue giornate nell’oscurità della sua stanza, sviluppa una percezione e una memoria infallibili: “Poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva chiesto un’intera giornata. Mi disse: – Ho più ricordi io da solo, di quanti non ne avranno avuti tutti gli uomini insieme.” Le portentose capacità mnemoniche di Funes lo rendono un “Zarathustra selvatico e vernacolare”, ma ogni suo ricordo sottende uno sforzo doloroso poiché: “Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso.” 12115937_10153027235706852_2989494257288854459_n

Il Funes di Borges prova a fare, contando solo sulle sue capacità di memorizzazione, quello in cui Liam Foxwell – il protagonista di The entire history of you – riesce grazie all’ausilio di un dispositivo elettronico. Ma così facendo egli forza la natura e i suoi limiti ed in tal senso l’immobilità fisica di Funes, dopo l’incidente, si trasforma in immobilità di pensiero: “Aveva imparato l’inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes, non c’erano che dettagli, quasi immediati […] Questi, non dimentichiamolo, era quasi incapace di idee generali, platoniche.” Il controllo di ogni singolo dettaglio del suo passato e le infinite possibilità della memoria, condannano Funes alla totale incomunicabilità verso il prossimo, alla generale incomprensione del senso della vita.

 In molte delle puntate di Black Mirror il rapporto tra uomo e tecnologia decreta il dominio schiacciante di quest’ultima sulla società moderna; in una sorta di dittatura dello spettacolo, di ascesa del virtuale, di ipertrofico controllo della propria immagine e dei propri ricordi, è come se il racconto di Borges ci ricordasse come una memoria sconfinata, una memoria artificiale (e così anche l’efficientissimo chip di Black Mirror), impedisca all’uomo di stabilire un rapporto con il proprio tempo e il proprio spazio, con la finitezza della propria esistenza; quella finitezza che lo stesso Borges, in una splendida poesia intitolata appunto Limiti, rievoca in tutta la sua sfuggevolezza e ineludibilità:

Di queste strade che scavano il tramonto,
una ci sarà (non so quale) che ho percorso
già per l’ultima volta, indifferente
e senza indovinarlo, sottomesso

a Colui che prefigge onnipotenti norme
e una segreta e rigida misura
alle ombre, ai sogni e alle forme
che intessono e che stessono questa vita.

Se per tutto c’è termine e punto fermo
e ultima volta e mai più e oblio,
chi ci dirà a chi, in questa casa,
senza saperlo abbiamo detto addio?

Dietro il vetro ormai grigio la notte cessa,
e in quel mucchio di libri che una tronca
ombra dilata sulla vaga tavola
qualcuno ce n’è che non leggeremo mai.

C’è verso Sud più di un cancello logoro
con i suoi vasi di cemento e sabbia
e fichidindia, che al mio passo è vietato
come se fosse una litografia.

Per sempre hai richiuso qualche porta
e c’è uno specchio che ti attende invano;
il crocevia ti sembra aperto
e lo vigila il quadrifronte Giano.

Fra tutti i tuoi ricordi ce n’è uno
che si è perduto irreparabilmente;
non ti vedranno scendere a quella fonte
né il bianco sole né la gialla luna.

Non tornerà la tua voce a quel che il persiano
disse nella sua lingua di uccelli e di rose,
quando al tramonto, davanti alla luce sparsa,
vorrai dire cose indimenticabili.

E l’incessante Rodano e il lago,
tutto quello ieri sul quale oggi m’inchino?
Perduto sarà ormai come Cartagine,
che a fuoco e sale cancellò il latino.

Credo nell’alba di udire un operoso
tramestio di folle che si allontanano:
tutti quelli che mi hanno amato e dimenticato;
già spazio e tempo e Borges mi abbandonano.

da Limiti (L’altro lo stesso, 1964, Poesia ’23-’76, Rizzoli, traduzione Livio Bacchi Wilcock)

 

[1] Walter Benjamin, Angelus Novus – Saggi e frammenti, Milano, Einaudi, 1982, pp. 91-92 (ed. or. Frankfurt 1955).

Topolino nel West

4

COPERTINA BAUMAN DEFINITIVOMi piacevano le belle ragazze”, dice Luigi. “Mica volevo andare a combattere”. Il ragazzo che è seduto accanto a me, con una maglietta rossa e un foulard al collo, ascolta e sorride. Per lui Luigi Fiori è un eroe, non ci piove. La sua volontà di combattere è fuori discussione. Ha comandato centinaia di uomini, ha visto la morte in faccia, ha sofferto. Dire che non voleva combattere, è un understatement che lo rende ancora più grande. E sia. Uomini come Luigi sono grandi. Ma sono uomini.

(Così si apre l’introduzione di Eravamo come voi di Marco Rovelli. Un libro “fuori tempo massimo” in una società che ha dimenticato tutto. Che ha dimenticato persino perché può permettersi di dimenticare. Ma lavori di scavo vivo e presente come quelli di Marco sanno restituirci quella dimensione etica della società che appare perduta. Solo così riusciamo a comprendere perché dobbiamo dire grazie alle ragazze e ai ragazzi che hanno combattuto per noi. E che erano come noi, allora. Marco ci regala un capitolo del suo libro e noi per questo lo ringraziamo di cuore. G.B.)

di Marco Rovelli

Poi c’era Topolino. Che è stato uno dei partigiani più giovani tra tutti i partigiani. E che infatti dopo la guerra gli hanno dato pure la medaglia d’argento al valor militare. L’ho conosciuto a casa di Franco, perché dopo la guerra anche Topolino è stato un gran contrabbandiere. Che se ne andava per le montagne tutto da solo, e portava indietro tabacco e sigarette.

Luigi Fovanna ha solo 86 anni, quando ci vediamo da Franco davanti a un caffè corretto alla grappa. E ne dimostra molti di meno. Imponente, due gran baffi, lo definirei un montanaro distinto, tenuto in ottima forma e tempra dall’aria di montagna. Che chissà com’era quando aveva quattordici anni, pensi.

Ecco, mentre ci parlavo mi immaginavo di avere davanti il Pin, quello dei nidi di ragno.

A quattordici anni Luigi scappa di casa per andare con i partigiani. Era come un western, dice. Anche se allora gli western non li vedeva mica. Li vede adesso, e allora resta sveglio anche fino a mezzanotte. Altrimenti alle nove e mezzo è già a letto, fa così da sempre, in montagna ci si alza all’alba.

Guarda gli western, adesso, perché è la sua vita che era un western, si combatteva sulla frontiera della fame.

Se gli chiedi se andava a scuola, ti guarda come venissi da un altro mondo (e in effetti, è da un altro mondo che vieni). “Ho fatto la prima, dice, a sette anni era già finita. Andavo a fa’ l pastur, sopra Trasquera. Adesso mandi i figlioli a Rimini, di qua, di là, una volta ti mandavano a far da servitore a un contadino che poi ti dava niente, solo da mangiare e basta, ed era già manna!

Ti facevano la minestra, la polenta, ma col latte scremato, perché col resto ci facevano il burro. Pasta e riso tutto assieme, un miscuglio così. Si mangiava ul strutt! Era così in montagna, il contadino mangiava sempre gli scarti, la roba fresca doveva venderla!”.

Che poi siccome alla frontiera della fame ci si stava in tanti, e un ricordo tira l’altro, Franco ricorda: “Quando eri all’alpe con le mucche, il latte lo mettevi in una padella e lo lasciavi un giorno o due per togliere la crema per fare il burro, magari ci finiva dentro qualche topo? prima di tirarlo via lo leccavamo, il topo, che aveva la crema!”

“Eh, la gente oggi non è temprata per la vita”, chiosa Luigi. Per quella vita, no di certo.

Luigi era piccolino che venne via da Montecrestese. Prima a Varzo, dove ha fatto l’unico anno di scuola, poi verso i dodici anni a Vogogna, con quattro fratelli. Luigi è uno che vuole farlo capire che il suo era proprio un altro mondo, e che lui in quel mondo ci sapeva stare, e lo reggeva bene. Reggeva bene anche il vino. “Mia mamma mi raccontava che un giorno mi aveva lasciato a casa da solo, e quando è tornata mi ha trovato che ghignavo, ghignavo, ridevo… Mi metteva sullo sgabello da una parte e cadevo dall’altra… Poi ag vegn in ment da vardà ul fiasc da vin sul taul, ne mancava un bel po’! Hai capito, ero ciuc, a dui agn!”.

Temprato dalla vita, con il padre che non trovava un lavoro (ma Luigi capirà solo dopo il perchè), da ragazzino faceva i mille lavori della montagna. Portava su e giù la legna dal monte, e alla sera dormiva nel bosco da solo. Andava ad aiutare chi doveva far starnu, il letto di foglie delle mucche. Andava ad aiutare a fare il cemento. Quel che c’era da fare, lo si faceva. “E mi cercavano, perché rendevo cume ‘n om!”.

E quando a dieci anni sei in grado di dormire nel bosco da solo, affrontando gli spiriti della notte, e le streghe di quel folto, ché in Ossola è pieno di streghe, allora sei in grado di fare qualunque cosa. Come scappare di casa per andare coi partigiani, anche se non sai mica bene chi sono.

Gh’era il Beldì, il Corani che era mio coscritto… sì, il fratello piccolo di Malombra…Gh’era l’Aldo Marta… era un po’ più grande di me, ma a quei tempi mica pensavi hai un an pussée che mi, un an meno da mi, eravamo tutti ragazzi che si giocava assieme… A un certo punto il Marta è sparito, duv’è andà… E ti dicono, con i partigiani, con Superti. E poi ci va il Corani. C’è andà lu, ci vo anca mi. Alura mi sun scapà di cà e son andà coi partigiani. Sono andato a Rumianca, sapevo che lì c’erano dei partigiani. Appena sotto la centrale, nella casa di uno che si chiamava Terzi, li ho trovati lì, c’era un tenente che si chiamava Franz, e subito m’han preso. Eran forestè, però han visto che ero un bocia deciso e mi han tenuto là. Che dopo venivano giù delle belle ragazze che mi baciavan sulla bocca, eh, mi ero un bocia… Però mia mamma e mio papà han saputo e son venuti a vedere per portà a cà el fiol. Portatelo pure a casa, ma guardate che se questo vuol star qui ci torna! E infatti mia mamma, conoscendomi, Lassumal lì, almeno sappiamo dov’è…”.

E’ il febbraio del ’44, Luigi è con la Di Dio, divisione Valtoce. E diventa Topolino. “Sì, il cartone animato c’era già, ma Topolino perché ero un ragazzino”.

Alla sera Topolino dorme in una cascina sopra Rumianca, e alla mattina scende allo stabilimento, va al deposito biciclette, ne prende una e gira per la valle. Guarda cosa succede in giro nei paesi, e riferisce. Relaziona sui movimenti dei fascisti, come quando vede che hanno catturato un partigiano e lo fanno camminare in testa a un plotone per andare a recuperare una mitragliatrice nascosta sotto il ponte del Migiandone.

Una volta porta una busta al battaglione di georgiani arruolati coi tedeschi, erano accampati a Mergozzo, c’erano stati dei contatti per farli disertare e passare coi partigiani, lui ne vede uno alla stazione, un po’ a caso, che se non era il georgiano giusto poi, ma non ci pensa due volte, il georgiano lo porta fuori dalla stazione, scende in un campo di mais, legge la busta, e gli risponde Noi andiamo a Borgomanero, facciamo fuori il comandante e poi veniamo da voi. Poi il bocia ciapa la bici e torna a Rumianca.

A volte c’è da recuperare cibo per dei partigiani nascosti, e allora lui, con i “biglietti” dei partigiani, che è come cartamoneta sulla fiducia, si fa dare farina, riso, formaggio, latte. Il negozio del Beldì a Vogogna, per esempio, lui gliene dà sempre, o il Ripamonti al mulino. E se non glielo danno, come al dopolavoro di Pieve Vergonte, entra nello scantinato di nascosto e fa provviste da solo.

Anche se non porta armi è un partigiano, e gli fanno una divisa. E’ in telatenda, come si diceva, non l’ideale per un guerriero, ma Topolino ne va orgoglioso. Un giorno si va fino a Nonio a ritirare un lancio degli americani. A Topolino tocca uno zaino bucato. Ma il carico è lo strutto, e la strada è lunga e faticosa. Lo strutto comincia a colare giù per la schiena. Quando si arriva a Rumianca, la divisa è da buttare. E questa fu una delle grande delusioni della guerra per il bocia partigiano.

Che poi i partigiani, la prima volta, li aveva visti a Villadossola, l’8 novembre, il giorno dell’insurrezione, che il giorno dopo arrivarono perfino gli aerei a bombardare, e il Redimisto Fabbri lo torturarono e fucilarono a Pallanzeno con altri cinque. Luigi, che ancora non era Topolino, aveva sentito che c’erano dei tumulti ed era andato a vedere, perché lui era mica uno che c’aveva paura di qualcosa, lui, e aveva visto un tedesco moribondo su un carrettino per portare le verdure, tremava smodatamente come un epilettico, e anche se Luigi non sapeva cos’era un epilettico aveva gli occhi per vedere quella cosa schifosa che è la morte.

Il giorno dopo aveva seguito l’onda, quando tutti erano dovuti scappare da Villadossola, ed era andato verso la centrale di Pallanzeno che c’erano già i tedeschi che giravano, e un tizio che scappava con lui gli aveva dato una Beretta calibro nove, “tienila poi me la ridai quando ci vediamo”, l’aveva presa disarmando i carabinieri ma adesso era più prudente non averla dietro, quello era un bocia e non correva rischi, che poi insomma anche per il bocia non era il caso di averla, ma col suo curai dela madona se la lega in mezzo alle gambe e torna verso casa, che al ponte di Pallanzeno incontra una di quelle macchine scoperte che chiamano scim-sciam, insomma una Fiat con la capotta, sono tedeschi, lo vedono a distanza e gli fanno segno di avvicinarsi, che lui avvicinandosi correndo si accorge di avere le pallottole nel taschino e pensa Adesso mi cadono, e invece non gli cadono e i tedeschi quando vedono che è un bocia lo lasciano andare, e allora lui via verso casa, e nasconde la pistola nel casale diroccato vicino casa, proprio vicino al ponte di Dresio, e adesso ce l’ha lì una pistola, e sai come ci si sente forti con quella, che già non hai paura di niente, e con quella sei fortissimo, di cosa puoi aver paura con quella, va nel casale di tanto in tanto a tirarla fuori dal nascondiglio e se la guarda, se la strofina, è sua, non sa cosa può farci e contro chi e perché ma è sua come sue sono le braccia e le gambe, e forse ci ha perfino guardato dentro il buco della canna come Pin nella pistola del tedesco, fatto sta che il papà si accorge che va troppo spesso in quel casale come a un santuario, e scopre la Beretta, caccia degli urli che non ti dico, se la prende, la dà a degli amici, che la diano ai partigiani.

“Per me andare coi partigiani era un’avventura. Come un western, capìo?”.

(La colonna sonora di quel western era anche per Topolino Marciar marciare – e chissà come gli risuonava alle orecchie quel verso, Mamma non piangere).

“Se mi avessero detto chi sono i fascisti? Gente come noi che mangian pussée ben, gh’en ben vestiti e stanno meglio di noi”.

“Non ho fatto il partigiano come il patriota convinto… Sbarcavo il lunario, poi mi son trovato che stavo peggio che prima. E poi una volta che sei lì non puoi venire via quando vuoi…”

“Ho cominciato a capire quando mi dicevano vai qui vai là passa a vedere… Una volta capito a Anzola, c’erano tedeschi e fascisti, e sottolineo fascisti. A un certo punto sento sparare raffiche, davanti alla cooperativa, c’erano 22 o 23 mitragliatori messi giù, e in una roggia c’erano quattro o cinque ragazzi, distesi per terra, uno aveva una tuta da ginnastica blu, con la barba. Me lo ricorderò sempre”.

Ecco, questo ti dice Topolino, se gli chiedi quando ha cominciato a capire.

I grandi lo proteggevano dalla morte, però. Il comandante Ugo, in particolare, aveva dato disposizione che lui non vedesse mai qualcuno che muore. Come quella volta che è in una stalla a dormire tra i cavalli, sente degli spari, allora esce per vedere che succede. Arriva e vede un uomo per terra, che grida “Vigliacchi, avete ucciso vostro fratello”… Saprà il giorno dopo che era una spia che aveva fatto prendere due partigiani a Pallanzeno, era stato preso e, pensando che lo avrebbero ucciso, era scappato: per quello gli avevano sparato. Ma non assiste all’agonia dell’uomo: un partigiano gli grida: Vai a dormire!

Quando arriva la Repubblica, Topolino fa il bocia, molla la Di Dio e se ne va a Domodossola. “Ero il bocia partigiano, chi mi baciava, chi mi prendeva in spalla, chi mi dava da mangiare, insomma tutti mi volevano vicino, specialmente magari quelli che avevano timore perché magari avevano fatto qualcosa contro i partigiani e allora si ingraziavano un ragazzino, perché gli altri erano pussée dritti e mica si lasciavano infinocchiare come un bocia!”. Prende dimora a Villa Tibaldi, dove prima erano i tedeschi, e dove anche Arialdo aveva fatto la guardia: “stavo bene lì, mangiavo e bevevo! Poi passa qualche giorno, entrano i miei della Di Dio, Hai abbandonato la squadra, ti fusilan sicur! Scherzavano, ma m’ero preso una paura… Insomma sono tornato a Ornavasso con loro, facevamo il servizio di guardia al passaggio a livello. E le pallottole che fischiavano quando sono arrivati i tedeschi!”.

A Ornavasso Topolino incontra il padre. Anche lui era con la Valtoce, ma mica si erano mai incrociati, Topolino non sapeva che fosse pure lui un partigiano. Si vedono allo spaccio dove davano le sigarette. A quattordici anni mica si fumava. Suo padre lo vede con un pacchetto di tabacco. Glielo prende, gli dà le sigarette in cambio: “Piglia queste che ti fanno meno male”. E poi se ne va con la sua squadra.

Il padre di Luigi era elettricista, lo avevano cacciato da due stabilimenti perché non aveva la tessera del fascio. Tanto che i primi anni di guerra aveva dovuto andare nel bergamasco, a lavorare la terra.

E adesso che lo vede partigiano, Luigi capisce. Non era solo per la povertà che lui non aveva la divisa dei balilla, e piangeva perché non ce l’aveva, e il massimo che avevano potuto fare i suoi era comprargli i calzettoni verdi con la riga nera che solo con quelli Luigi si sentiva chissà chi; capisce che anche se qualcuno gliel’avesse comprata, la divisa, non gli avrebbero permesso di metterla.

Eh sì, i fascisti erano quelli che mangiavano e erano vestiti bene. “Che da Fontana dovevo andare a piedi fino a Bertogno, che adesso è un passo, ma a quei tempi era una distanza enorme, con la neve, gli zoccoli ai piedi, un freddo bestia e senza mangiare, arrivavi a casa e non trovavi niente da mangiare. Quelli invece eran tutti bei rotondi e mangiavano, mi avevo una fam dela madona…”

Poi arrivano i fascisti, che al ponte dov’erano di guardia il Ghiringhelli viene sbalzato via da una cannonata ma neanche un graffio, ed era bianco come se l’avessero messo in un sacco di farina, e più in su una cannonata porta via un angolo della casa dove adesso c’è il museo della resistenza, e Topolino prende una scheggia nella gamba che non ci fa caso ma la scheggia c’è e poi comincia a gonfiare e far male, e quando arriva a Crodo dopo tanti di quei chilometri di andirivieni che non sa come ha fatto si butta su un mucchio di segatura per riposarsi, e lì è la seconda e ultima volta che vede suo padre durante la guerra, che lui guidava un camion per portare in salvo chissà cosa e poi alla cascata del Toce i tedeschi lo catturano, il papà, e decidono di fucilarlo, ma un istante prima della fucilazione altri partigiani tirano una bomba a mano ai fucilieri e il papà di Topolino se ne fugge in salvo con gli stivali dei tedeschi, e intanto anche Topolino riesce ad arrivare in val Formazza per scappare, e ci arriva in moto perché non poteva più camminare, e poi giù in teleferica verso la Svizzera, e siamo salvi.

Topolino è di quelli che tornano in Italia. Arriva alla casa di Vogogna, ma gli dicono che i fascisti lo cercano, e allora torna in montagna: ma la Valtoce non c’è più, e così trova la Redi, brigata Garibaldi, e va con loro. Si becca anche un rallestramento il 25 marzo che devono scappare e mentre scappano su un sentiero cade una gavetta, il rumore segnala la posizione dei fuggiaschi, i tedeschi sparano, centrano Topolino al piede.

Lo caricano in spalla, lo mettono in una coperta e lo portano giù al paese di Ponte, a una specie di infermeria. Ma qualcuno fa la spia: “sento un casino, non capivo, tra il freddo la fame e il sangue perso mi sembravano i ragazzi che escono di scuola quando corrono. E invece era la gente che gli bruciavano il paese. I fascisti cercavano il ferito. Hanno ammazzato una donna incinta, col mitra, e poi uno che veniva dall’ospedale di Omegna che aveva in tasca una preghiera dei partigiani che gli aveva dato una suora. Lo hanno legnato negli stinchi finché si sono spezzate le gambe, poi lo hanno ammazzato”. Doveva essere la preghiera del garibaldino che aveva voluto il comandante della Garibaldi della Valsesia, Cino Moscatelli, corredata con tanto di icona di San Michele Arcangelo che trafiggeva il demonio. E questo indemoniava i fascisti ancora di più.

Entrano anche nella casa dov’è Topolino, i fascisti, lui sta rinserrato in un buco dove si entra per un passaggio segreto dietro la credenza, ma gli va bene, ché quando i fascisti se ne sono andati riescono a spegnere l’incendio e lo mettono in salvo. Passerà il resto del tempo prima della Liberazione prima in un buco di una grotta e poi su una cengia, sotto un larice, dove lo calavano giù la mattina e lo tornavano a prendere la sera, che almeno la notte era meglio dormisse in una baita.

Finita la guerra, Luigi si mette a lavorare. E il suo lavoro sarà il contrabbandiere. Poi, ereditando il sapere paterno, diventerà un bravo elettricista, e per molti anni girerà il mondo per i cantieri dove costruiscono centrali elettriche. Ma sempre con la nostalgia per il contrabbando, per la solitudine della montagna, quell’intimità con la smisuratezza delle cime. Per quel passare le frontiere in silenzio, di nascosto da tutto e da tutti.

“Il mondo è nato senza frontiere, le frontiere le ha fatte l’uomo. La legge dell’uomo ti condanna, la legge di Cristo non ti condanna mica. Però la questione è che se ti mettono in galera, non viene mica, Gesù Cristo!”.

La favola del contadino di Pian di Venola

2

[Sono un incolto, ma per sbaglio ogni tanto leggo. In una libreria di Milano “normale”, ho intravisto su di uno scaffale Quasi amore (Sellerio, 2001). Ho letto una frase. Era una di quelle frasi vietate nei romanzi, con diciannove incisi e subordinate a piede libero. Comprato. Poi ho letto Le pratiche del disgusto (Sellerio, 2007). Poi gli ho rotto le scatole, e lui gentilmente mi ha mandato questo testo inedito, tratto da una serie intitolata Favole per badanti e vecchi disgraziati. a. i]

di Ugo Cornia

 

C’era un contadino che era riuscito a andare in pensione e aveva smesso di coltivare i suoi campi.

Chatwin in Patagonia

3

di Adrián Giménez Hutton

Marino_chatwin_rid“Bruce Chatwin, quando l’ho conosciuto, aveva l’aria di un rappresentante d’altri tempi di Sua Maestà britannica. Aveva un che di imperiale, o forse di imperioso. Tra il sobrio ma sorridente ambasciatore di Sua Maestà e il conquistatore di bottino. Haltung, direbbero i tedeschi. Portamento. Posa. Decisione. Il prototipo dell’europeo che mette piede sulla terra coloniale. Non come un Francisco Pizzarro, allevatore di maiali e bestie cristiane. No, un vero e proprio gentleman. Guanti bianchi, sorriso, simpatico, sangue freddo. L’inchino davanti a una dama. La stretta di mano guardando negli occhi di fronte a un uomo. Un gentleman che ha fiutato un buon bottino”.

Così comincia la descrizione di Bruce Chatwin fatta da Osvaldo Bayer in un articolo pubblicato su Página 30 nell’agosto del 1997 come parte del “Dossier Chatwin” scritto per la rivista. Bayer non cela la sua antipatia per l’autore, e neanche una punta di irritazione nei confronti di sé stesso per l’attenzione che gli aveva prestato sul momento.

Chatwin gli fece visita appena arrivato in Argentina, per chiedergli informazioni sulla Patagonia. Bayer descrive così il loro primo incontro: “L’uomo del primo mondo mi fa notare di non avere molto tempo. Per questo è così preciso con le sue domande e a descrivermi i suoi interessi, interrompendo il suo interlocutore quando divaga dal tema che interessa a lui. Niente pregiudizi per la storia del time is money, ma in genere questi intellettuali del terzo mondo sono chiacchieroni, vogliono dirla tutta ai loro ospiti, scoprirsi, denudarsi davanti al Sir, che non smette mai di essere il Sir… Mi sta di fronte. E pronuncia la parola magica: Patagonia, e mi guarda con un largo sorriso. Oh, yes! Gli hanno dato il mio nome e vuole conversare. L’unica cosa è il tempo. Time, poco. Molti impegni. Si fa una risata. Ma è disposto a fare un viaggio in Patagonia. Non solo a leggere sulla Patagonia. Due, tre, qualche settimana se è necessario e ne vale la pena. Vuole libri, bibliografia. Sì, libri, niente documenti. No, niente antropologia o etnologia. Preistoria? No, tolto il ritrovamento di qualche animale antidiluviano. Leggende? Yes. Sì, leggende sì. Ecologia? No, no. Viaggiatori, leggende, aneddoti, donne, indios, sì, ma più avventura. Sì, bandoleros e storie di estancieros. Scioperi. Ah, scioperi! Ma… con anarchici? Oh, allora yes, fantastico. Cowboys, oh yes, yes. Mi parla di una cattedra in un’università dell’Arizona esclusivamente sui cowboys. Si porta via i libri di Abeijón, alcuni numeri dell’Argentina Austral, Armando Braun Menéndez, articoli collezionati da me del ‘cronista a cavallo’, don Gorraiz Beloqui, Elías Chucair, e tutto ciò che era emerso dai ricordi patagonici. Inoltre gli do l’indirizzo del negro Juárez, l’uomo che ne sa di più sulle avventure dei cowboys nordamericani della Patagonia, poiché ha trascorso cinquant’anni della sua vita – almeno – a indagare perfino sul numero di scarpe che calzavano. E naturalmente i primi tre volumi di La Patagonia rebelde, che allora era uscito con il titolo Los vengadores de la Patagonia trágica. Il quarto volume lo leggerà in Europa.

Se ne va con una valigetta, un pacco e una borsa di nylon con i miei libri. Quasi uno scaffale della mia biblioteca patagonica. Tornarono tutti, meno che quelli che si perdono sempre. Quando ripasso i libri e vedo cosa manca, lo immagino ancora con l’uniforme di Sua Maestà britannica”.

Il secondo incontro avvenne a Parigi, nel salone di un hotel, accompagnato da Héctor Olivera, il regista del film La Patagonia rebelde. “Erano passati dei mesi. Io ero in esilio. Nel frattempo venni a sapere che Bruce Chatwin era direttore del supplemento culturale del Times. […] Voleva fare un film sui cowboys nordamericani in Patagonia. Divagammo sul tema fino a quando non trovai l’occasione per parlargli del suo libro In Patagonia. Gli dissi che aveva fatto un ‘affascinante’ riassunto dei libri che gli avevo passato e che, in gergo giornalistico, era uno straordinario ‘cuoco’. Ossia qualcuno che prende le narrazioni di altri, una cosa qui, una cosa là, prende il prosciutto dal panino e, urrà!, il best seller è servito. Più che un cuoco era un perfetto chef di cucina giornalistica… Visto che aveva scritto assemblando il faticoso lavoro di indagini di autori locali argentini, poveri e sconosciuti, che nella loro vita non avevano mai visto uno spicciolo per le loro fatiche, gli proposi di donare almeno il dieci per cento delle sue succulente royalties alle biblioteche delle piccole città della Patagonia, regione che, a quanto pare, patisce persino il più sofisticato sfruttamento delle proprie risorse. Mi rivolse uno sguardo sovrano, che tradiva compassione: il miglior sorriso, assieme a un non so che di fastidio che ho visto disegnato sulle labbra degli esseri superiori. E nello sguardo, ironia. Non si degnò di rispondermi e non lo rividi mai più”.

 

questo brano è tratto dal volume di Adrián Giménez Hutton “Chatwin in Patagonia”, pubblicato da Nutrimenti (2015), nella traduzione di Luigi Marfé e Marino Magliani

 

dalla presentazione del volume della casa editrice Nutrimenti:

Con In Patagonia, il libro nel quale Bruce Chatwin racconta l’itinerario che dal dicembre del 1974 fino al marzo dell’anno successivo lo condusse all’estremo Sud del continente americano, il grande viaggiatore britannico è diventato un autore di culto, che ha cambiato per sempre l’idea di letteratura di viaggio. Vent’anni dopo, Adrián Giménez Hutton ha messo alla prova la verità di quel diario, ripercorrendone le tappe e cercando di rintracciarne luoghi e personaggi.
Dopo due anni e quasi diecimila chilometri sulle tracce di un vagabondo scaltro a confondere i propri passi, senza tralasciare nessun incontro e nessun dettaglio (la ricerca della pelle del milodonte, la baracca di Butch Cassidy, la leggenda della Città dei Cesari, le spedizioni di Magellano e Darwin, la storia dell’indio Jemmy Button, la colonia missionaria del reverendo Bridges, il fiordo Última Esperanza), l’inseguimento ha preso la forma di un volume, che è nello stesso tempo un indimenticabile affresco di quell’estremo lembo di mondo e un ritratto del suo narratore più famoso.
Se per Giménez Hutton la stesura di questo singolare libro è stata soprattutto l’occasione per calcare le orme di un mito, per il lettore odierno si tratta di ritornare all’opera di Chatwin, e rivisitarla ormai a quasi quarant’anni dalla sua uscita. Questo non è un libro critico nei confronti di In Patagonia (anche se spesso ne sottolinea le incongruenze) né un libro che lo esalta. È il resoconto di un viaggio che ripercorre un altro famoso viaggio: pagine che rievocano, nel fluire degli episodi e delle voci, la lunga storia delle esplorazioni in Patagonia, sovrapponendo ai luoghi reali lo spazio immaginario dei libri che in quella regione hanno intravisto il simbolo di un altrove assoluto e irraggiungibile.
Del resto, pare suggerire l’autore, il significato di un racconto di viaggio non si risolve mai semplicemente nei suoi aspetti documentari. E in questo libro, come in quello di Chatwin, oltre al diario si scopre un’appassionata elegia della lontananza, una preziosa collezione di destini tanto inverosimili quanto reali, segretamente legati da una medesima condizione esistenziale: quella di chi si sente a casa solo lontano da casa.

I custodi della terra

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brand_largedi Gianni Biondillo

Alla fine ci siamo andati (quasi) tutti a Expo. Anche quelli che arriccivano il naso, vagamente snob, cocciutamente convinti dell’insuccesso della manifestazione. C’è chi ci è andato in automobile cercando un posto dove lasciare la vettura dentro quegli enormi parcheggi fuori scala che non sapremo come riempire dal prossimo novembre. Altri hanno testato la capacità della rete metropolitana di reggere così tanta folla. C’è chi ha preso il treno ed è sceso alla nuova fermata del passante ferroviario, chi ha inforcato la bici, ne ho viste a centinaia legate ai pali o ai tronchi degli alberi. Chi addirittura se l’è fatta a piedi, come ho fatto io assieme a “Sentieri Metropolitani”, da piazza del Duomo fino ad Expo. Ci siamo andati, abbiamo fatto file chilometriche fuori dai padiglioni, abbiamo passeggiato per il decumano, fotografato l’albero della vita e siamo tornati a casa contenti di aver partecipato anche noi di un evento internazionale. Che però, diciamocelo, non è che abbiamo capito per davvero fino in fondo.

Sarà forse perché il tema, “nutrire il pianeta”, di suo non ha una valenza spettacolare, e noi da una esposizione universale vogliamo farci stupire come un bimbo ad una fiera. Di altro tenore erano le esposizioni del secolo scorso che mostravano le invenzioni, le tecnologie dure, le scoperte scientifiche, le “magnifiche sorti e progressive” verso le quali eravamo destinati. Oggi, di fronte alle emergenze demografiche e alla sostenibilità ambientale c’è poco da guardare il futuro con quell’ottimismo sfrenato. Qualche padiglione ha provato a restare aderente al tema, chi con intuizioni spettacolari come il Brasile, chi con qualità didattica, come la Svizzera, chi con allestimenti semplici ma estremamente efficaci come Slow food. Altri, la maggior parte, ha deciso di declinare il tema in una chiave più pop: non più “nutrire il pianeta”, ma “facciamoci una bella mangiata”, influenzati, forse, da una passione televisiva tutta di questo decennio per la culinaria e gli chef stellati.

Ora finalmente, ad un mese dalla chiusura, arrivano loro. Gli unici che per davvero avrebbero qualcosa da dire sul tema. I contadini, gli allevatori, i pescatori, di tutto il mondo. Vengono non per fare una sfilata folkloristica per il decumano, con tanto di costume tradizionale quasi residui di una cultura antica ormai in via di estinzione. Vengono invitati da Terra Madre, a raccontarci come si possa fare innovazione partendo dalla terra. Come “nutrire il pianeta” significhi renderlo libero da guerre ed emigrazioni epocali. Come ci si possa emancipare tornando alla terra, non più vivendola come una condanna ma come l’unica vera opportunità di crescita per tutti noi. Ché tutti abitiamo il pianeta ma solo loro ne sono i veri custodi. Vengono dalla Danimarca o dall’Etiopia, dallo Sri Lanka o dalla Francia. Sono uomini e sono donne. No, anzi: sono ragazzi e ragazze. Una generazione di giovani, spesso laureata, che non ha paura di mettersi in gioco per sanare, come medici di base del pronto soccorso globale, le ferite inferte dai loro sconsiderati padri.

Per come la vedo questo forse è il momento più alto, più nobile dell’intera manifestazione. Più ancora della compilazione della Carta di Milano, documento pieno di belle intenzioni, controfirmato da nomi di leader politici che pesano, ma che se non ratificato rimane nell’alveo delle buone intenzioni, che sappiamo cosa lastricano, normalmente.

Questi ragazzi ci dicono che fare politica, nel senso più nobile del termine, è sopratutto fare. Mettere in moto mani e cervello. Che nutrire il pianeta significa condividere la conoscenza, ridistribuire in modo equo, senza sprechi, il cibo prodotto, che avere cura della vigna o del raccolto significa avere cura del paesaggio e della storia, che se non interveniamo sul clima, o sulle diseguaglianze, siamo tutti condannati a esodi biblici dalle conseguenze inimmaginabili. Non lo dicono. Lo fanno.

Verranno qui a Milano, questi ragazzi e queste ragazze, belli e forti della loro gioventù, a ricordarci che c’è un pianeta giovane che vuole dire la sua, che vuole crearsi le sue regole per il futuro, non subire supino quelle imposte dalla burocratica gerontocrazia che governa il pianeta.

Sono i nostri fratelli minori, i nostri figli, i nostri nipoti. Portano con sé quei valori, quell’etica che in dirittura d’arrivo dà finalmente spessore ad una manifestazione di certo positiva nei numeri ma in fondo debole nella sostanza. Non so dove dormiranno, chi li ospiterà, chi li accompagnerà per le strade della mia città. So già di invidiarli. Affettuosamente.

(pubblicato su OrizzontiExpo, inserto del Corriere della Sera del 1 ottobre 2015)

Città buie

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di Nicola Fanizza

 

Nel mese di luglio, sono tornato nel mio Paese, nella casa dove sono nato tanti anni fa. Da Milano ho portato qualche libro, il portatile e la voglia di recuperare l’assenza di tutti questi anni che mi separano dall’infanzia e dalla prima giovinezza. Ho trovato sempre meno amici. Molti sono andati via. Sono andati via per vivere altrove oppure sono andati nel cimitero per riposare per sempre.

Ho incontrato anche alcuni amici che avvertono la morte dietro al collo. I decessi in questi ultimi anni sono aumentati per l’insorgenza di neoplasie che hanno investito per lo più l’apparato digerente. Da qui l’accusa rivolta ai proprietari della discarica che è presente nel territorio di un paese vicino. Questi ultimi sono stati rinviati a giudizio, poiché – questo dice l’accusa – avrebbero inquinato le falde acquifere che vengono utilizzate per irrigare la frutta e la verdura.

Tutto ciò ha penalizzato i contadini che possiedono i poderi nelle zone contigue alla discarica. I consumatori, quando si recano al mercato, sono preoccupati per la loro salute: comprano, infatti, solo la frutta e gli ortaggi che provengono da fondi ritenuti «sicuri», ossia da colture ubicate in aree agricole distanti dalla discarica.

Nel paese che mi ha visto nascere ho parlato solo con i vecchi. I quali mi hanno detto che anch’essi non conoscono i giovani e che parlano solo fra loro. Penso che i giovani, come sempre, più che ai loro padri assomigliano al loro tempo. Un tempo ansiogeno e volgaruccio, un tempo che – come nel resto della penisola italiana – è di attesa.

Nondimeno ciò che mi ha maggiormente colpito è stato il sensibile aumento dei cani che vengono portati a passeggio dai loro proprietari. Quello del cane depresso o del gatto schizzato è diventato, purtroppo, l’argomento principale negli incontri con i parenti e con gli amici di famiglia. Sicché, per affrancarmi da quei noiosi rituali, ho preferito darmi alla lettura.

Nel vivo chiarore delle giornate passate al mare, ho letto l’ultimo libro di Waldemaro Morgese Città buie – Il Grillo Editore, Gravina, 2015, euro 10,00 –, che si articola in tre brevi racconti. Si tratta di un libro di rara bellezza, di un libro in cui l’autore si mette in gioco, di un libro a tratti sofferto, di un libro che ci restituisce con tono lieve e con accenti autobiografici gli opposti di cui il Sud è costituito, di un libro che tutti i meridionali dovrebbero leggere per avere un’immagine corretta di loro stessi.

Morgese invita gli abitanti del Sud a guardarsi allo specchio, li invita ad osservare, nei loro stili di vita e nelle loro fattezze, quei particolari che rischiano di farli sentire un po’ più brutti di quello che pensano ma che hanno il merito di restituirli a loro stessi, aprendo nuove chance, nuove linee di fuga, nuove vie esistenziali.

Nora, Moby e Achille – i protagonisti dei tre racconti – si sentono responsabili della bellezza del mondo. Vogliono che le città in cui vivono siano splendide, piene di luce, irrigate d’acque limpide, popolate da esseri umani il cui corpo non sia deturpato nè dal marchio della miseria o della schiavitù, né dal turgore d’una ricchezza volgare. Nondimeno ciascuno di loro si rende conto che il Sud è un ossimoro: sono consapevoli di vivere in luoghi bellissimi che tuttavia sono spesso deturpati dall’incuria e a volte persino dalla spazzatura; sono altresì consapevoli che la generosità manifestata da alcuni individui è solo di facciata poiché è finalizzata a promuovere il loro prestigio sociale. Di fatto quegli stessi individui alimentano con i loro comportamenti pratiche ai limiti della legalità.

Nel primo racconto, la protagonista è Nora, una bibliotecaria che ha la passione per la lettura e il teatro, è impegnata nel sociale e dà lezioni gratuite e non richieste agli studenti che frequentano la sua biblioteca.

Probabilmente per deformazione professionale, ha il vizio di catalogare qualsiasi cosa. Ritiene che ogni sua scelta deve essere ponderata; scheda persino i suoi pretendenti e tuttavia non riesce a vedersi accanto a nessuno dei ragazzi che frequenta.

Intanto la città marina in cui lavora diventa sempre più opaca, sempre più invivibile per il dilagare della criminalità organizzata, per l’incanaglimento delle relazioni e per il passato che non passa (la parte maledetta della nostra tradizione). Viene colpita in modo particolare da un evento drammatico: nella stazione ferroviaria, un ragazzo si era lanciato sotto il treno, poiché suo padre non accettava che il figlio fosse omosessuale.

Nora si sente triste, avverte un forte disagio esistenziale e, appena ne ha la possibilità, si trasferisce in una biblioteca ubicata in collina.

Lì le sembrava di vivere in un tempo senza tempo ed era ancora possibile instaurare relazioni autentiche e cordiali. Lì, finalmente, stringe un’«intima amicizia» con Arturo, un maturo proprietario di una casina tutta bianca. Amavano spesso conversare, facevano passeggiate lunghissime «respirando il profumo del pino da frutto» e spesso Nora restava a cena con lui «sotto un cielo terso e fittamente stellato».

Con l’aiuto di Arturo, Nora si impegna nella tutela del territorio, progetta la costituzione di un ecomuseo con l’obiettivo di proteggere le bellezze di quelle terre e si attiva per riunire i contadini e gli abitanti del luogo in un’associazione per sostenere il progetto ecomuseale.

Ciò che legava Nora al proprietario della casina bianca era l’inquietudine che a volte scorgeva sul suo volto. Arturo diceva che la «vita è tutta una sequela di incertezze» e ciò nondimeno cercava il senso della sua vita. Di fatto cercava di comunicare con gli altri e nel contempo amava ritagliarsi uno spazio di intimità segreta. Arturo – dice Nora – le aveva confidato che «quando voleva capire meglio il mistero della vita e della morte era solito sedersi davanti ai ritratti dei suoi antenati per entrare in dialogo profondo con loro e ripercorrere gli scampoli a lui noti delle loro esistenze».

Nora avrebbe potuto apprendere tante cose da Arturo, ma un evento accidentale spezzò la sua vita. Nora considerava quella morte come un accanimento del destino. Arturo per lei era uno delle tante persone che sono come il vento. Sembrano esistere soltanto per andarsene.

Nel secondo racconto, il protagonista è Moby, che ha una storia difficile alle spalle. E’ figlio di una ragazza madre e, per di più, ha vissuto la sua infanzia in un contesto affettivo attraversato da disagi esistenziali. Moby è un ragazzo dai piedi nervosi: infatti, appena diventa maggiorenne, decide di andare via per giungere fino ai confini del mondo. Nondimeno, cambiando il luogo di residenza, Moby non riuscirà a risolvere i suoi problemi esistenziali e, venuto a sapere che suo padre si era fatto vivo e lo cercava, deciderà di tornare a casa.

Infine, nel terzo racconto, il protagonista è Achille, il quale si rende conto di non provare alcun amore per la sua ragazza, decide di lasciarla e di partecipare al concorso per entrare nell’Accademia della Marina militare, che è situata a Livorno. Qui, durante i tre anni di corso, si impegna nello studio, supera brillantemente gli esami, consegue il brevetto di ufficiale di marina e diventa un autentico lupo di mare. Quando non è in giro per il mondo, Achille manifesta il suo vivo interesse per tutto ciò che consente di ricostruire un tessuto di pensieri e di conoscenze degne. D’altra parte non riesce a dissimulare la sua insofferenza nei confronti delle dinamiche degradanti che investono lo spazio sociale e l’assetto urbanistico del suo quartiere.

I protagonisti dei tre racconti cercano ognuno a suo modo – attraverso il viaggio, lo studio e le relazioni – di pervenire alla loro sovranità, sono individui che esprimono bisogni sociali autentici, bisogni che sono opposti e complementari: il bisogno di sicurezza e quello di apertura, il bisogno di certezza e il bisogno di avventura, quello di organizzazione del lavoro e quello del gioco, di unità e di differenza, di solitudine e di comunicazione.

Le città del Sud – dice Morgese – sono troppo buie. L’antidoto non viene individuato nella nostalgia e nella memoria di un mondo perduto o in un piano identitario da rivendicare, bensì nelle forme di sociabilità che qui ed ora sono già disseminate sull’esergo del sistema (la collina): ossia nei nuovi modi di vita domestica, nelle nuove pratiche di vicinato, di istruzione, di salvaguardia del territorio, di presa in carico dei bambini e delle persone anziane, dei malati, ecc.

In fin dei conti Morgese dà ragione a Franz Kafka quando asseriva che conviene «lasciar dormire il futuro come merita. Se lo si sveglia prima del tempo si ottiene un presente assonnato!».

 

 

 

Scanning – Il cuore in bianco e nero del “reale”

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di Giampiero Marano

Il cuore in bianco e nero del “reale”

Mentre una moda culturale abbastanza recente sponsorizzata da alcuni filosofi e letterati predica il ritorno al “realismo”, ai “fatti”, al “senso comune”, è il caso di riflettere sulla radice ascetica dell’arte. Sulla sua necessità innata e vitale di distanziarsi dalle cose e dall’io, e in generale dal mondo come rappresentazione, astratta o concreta che questa sia.

una marcia per Erri De Luca

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Marcia sulla St. Victoire in sostegno di Erri De Luca e della Libertà di parola

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La marcia si svolgerà il 4 ottobre 2015, con partenza dal Barrage du Bimont (Aix-en-Provence, Francia) alle 10h30 e arrivo

Parkinson

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di

Sonia Lambertini

Parkinson

Parkinson. Non è una città né una strada. È un luogo in cui si accende la scossa. Attraversa veloce il corpo, scuote anche il cuore. Trema anche quando non è una lepre. Non è un bosco per animali selvatici. I lamponi sono spariti e il rosso intenso è lavatura di carne. Una notte li ho cercati. Ho smarrito il sentiero e il loro profumo. Le gambe erano inquiete. Mi ordinavano di camminare e non fermarmi. Nemmeno davanti alla lepre che mangiava i lamponi sono potuta restare con il mio stupore. Un tempo mi guidava, era trasparente e ora lui l’ha inghiottito. Parkinson. È una terra desolata, un cimitero di cellule morte. Ognuna è stesa senza lapide, rigida e bruciata dal sole battente. Troppa luce non fa bene. L’ombra protegge, l’umido nutre. Il corpo vuole mangiare. La mano non arriva alla bocca. Tento un confronto, una pace momentanea. Per oggi non chiamo le braccia anarchiche, questa loro stupida idea di autonomia. Complice le spalle, alzano i tacchi e se ne vanno ognuna per proprio conto. Provo a parlare. Oggi il viso è una maschera di fango e non è piovuto. È una terra rigida bruciata dal sole, quella stesa senza lapide. Un calco. Provo a toglierlo. Lo metto sul comodino e giuro che domani lo indosso. Sembri un giudice, Parkinson. Questa notte fammi respirare. L’aria me la potresti regalare. Ho fatto ciò che volevi. Parlo poco e lentamente. Ho deciso di fare una cosa alla volta. Vedo poca gente. Tu la chiami depressione, io salvezza. Una sera erano tutti stranamente ubbidienti e abbiamo deciso di uscire. Qualcosa è andato storto. Ho il cuore senza scossa e un ricordo tondo: il fresco dell’erba tra le scapole, la luce della sera negli occhi e la bocca rossa di lamponi. No. Non è sangue. Il colore è lavatura di carne. Si chiama così tra i muri bianchi del labirinto. Credo sia stata la lepre insieme al bosco a farmi trovare il sentiero e a nutrirmi. Arriva il giorno e indosso la divisa da bravo soldatino della Dopa. Controllo i bottoni e indosso il calco. Combatto la mia battaglia. Aspetto l’armistizio della sera.

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Distanza

La giusta distanza. Si tratta di prendere la giusta distanza. La misura. Un respiro, pausa. Ripetere. La distanza si raggiunge con i piedi, con l’indice e il medio. Una camminata. Battendo il tempo. Ti affacci alla finestra, appoggi i gomiti e vedi un oggetto. È la distanza. Lo vedi piccolo e pensi sì, se ne può parlare. Un attimo prima era vicino. No, così non andava bene. Unisci le mani davanti al petto, formi una culla, strappi l’oggetto e lo riponi davanti a te. La distanza. Un passo indietro, due finché non servirà più avere gli occhi. Lei, la cosa è fuori. Si può nominare. L’uno ha un solo occhio e guarda se stesso. Un tempo era felice. Nulla esisteva, non c’era la culla e forse nemmeno la distanza Un giorno decise di aprire la finestra chiusa. Toglieva il respiro. Cosa è successo fuori nessuno lo sa. Si parla di emozioni fuggite e mai più tornate. Pare ne abbiano viste due partire per un viaggio sul ciglio della strada. Hanno incontrato il mondo, l’ombra e la cosa fuori, davanti al petto. Non si tratta di cuore o forse sì. Si rigira come un pesce tra le mani. Se lo tieni troppo stretto perde lucentezza, il suo argento. Mi guardo dalla roccia più alta e nel pozzo nero. Inizia la danza per tornare all’uno. Esiste un momento, la nostra ora perfetta. Numero venticinque. Rotonda. Un cerchio al collo. Una caduta verticale in cui perdiamo gli abiti. Dimentica ciò che sei nell’abbandono.