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les nouveaux réalistes: Simone Ghelli

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ghelli

I tafani della Merse

di

Simone Ghelli

Per fare quel ritratto che adesso teneva tra le mani Giovanni s’era dovuto avvicinare molto, a non più di un metro, e gli schizzi d’acqua gli erano andati sull’obiettivo e così erano rimasti impressi quei puntini, quelle microscopiche gocce che gli veniva di toglierle col dito. Nella fotografia Fabrizio aveva la bocca spalancata per il terrore e annaspava con un braccio nel tentativo di divincolarsi dalla presa di Danilo, che lo teneva da dietro per costringerlo a non uscire dall’acqua. Danilo lavorava alla cooperativa, andava al manicomio due volte alla settimana col furgoncino bianco e il disegno di un sole sulla fiancata con cui portava l’allegria. Fabrizio, che piangeva e si lamentava in continuazione coi dottori per le sue cadute e i dolori alle ossa, si metteva di buonumore non appena lo vedeva.

Quel giorno Danilo si era presentato già in costume e infradito ai piedi e aveva proposto di portarli alla Merse, come dicevano a Siena. Disse di conoscere un buon punto in mezzo al bosco dove avrebbero portato gli ospiti a fare il bagno. L’assistente sociale fu entusiasta dell’idea e ci mancò poco che non li abbracciasse, ma disse che purtroppo avrebbero potuto portarne al massimo quattro perché mancavano gli infermieri. Allora Danilo propose subito Fabrizio, che voleva tenere per qualche ora lontano dalle sue paure e dalle botte che prendeva in continuazione. Poi chiese a Giovanni chi altri volesse portare e lui propose Giulio, che stava dalla mattina alla sera accovacciato in un angolo. Si era così abituato a quella postura che ormai non riusciva più a camminare in posizione eretta e aveva bisogno di qualcuno che lo tenesse per un gomito e lo trascinasse.

«Giulio non dà fastidio a nessuno,» aveva spiegato Giovanni, «e anche la Teresa».

La Teresa parlava tutto il giorno coi suoi parenti morti, che vedeva da qualche parte sopra le nuvole, e quello le bastava. Poi Danilo fece il nome di Sabrina. Sabrina era difficile da tenere, aveva continui spasmi, non stava mai ferma e poi faceva quel rumore coi denti, quel rumore che era come uno sfregamento di giunture che si rompono e che a Giovanni faceva venire i brividi.

«Allora è deciso».

Danilo sorrise, sorrideva sempre lui.

Col furgoncino passarono per una strada sterrata, piena di buche, il sole sulla fiancata che splendeva in mezzo all’ombra dei cerri. Proseguirono fino a un punto in cui il fiume si allargava e l’acqua era bassa e un po’ stagnante per via di una diga naturale composta da sassi e pezzi di legno. Il posto era così pieno di tafani che Giovanni aveva dovuto azionare il tergicristalli per vederci qualcosa. Mentre percorrevano lentamente gli ultimi metri, Danilo aveva provato a spiegargli che la colpa era del motore, del calore che emanava, ma Giovanni non era riuscito ad ascoltarlo fino in fondo perché gli era preso il terrore di scendere ed era rimasto con le mani strette sul volante e gli occhi incollati al parabrezza che si affacciava sul corso d’acqua.

Quando furono finalmente fermi finse addirittura di cercare dei guanti in lattice sotto al sedile e rimase così, con le mani che razzolavano tra la terra e i sassolini sparsi sul tappetino, finché non fu sicuro che anche l’ultimo di loro fosse sceso. I tafani però non se n’era andati e alla fine aveva dovuto affrontare le sue paure ed era uscito di corsa con i palmi delle mani aperti davanti al viso e per poco non era inciampato sul greto del fiume. Non se n’era accorto nessuno, ma il solo pensiero di poter essere preso in giro gli aveva fatto perdere definitivamente la pazienza. Non aveva affatto voglia di dover costringere gli ospiti a fare qualcosa che non desideravano, e anche se Danilo affermava il contrario (che in loro i desideri andassero creati perché non erano stati abituati ad averne), certe volte Giovanni pensava che fosse una gran perdita di tempo perché tanto loro non avrebbero capito mai niente di niente. I primi tempi quei pensieri lo avevano fatto sentire una bestia.

Tutte le sue ore di studio e le idee romantiche sulla follia, che gli erano sembrate così forti da poter reggere l’urto contro ogni realtà, si erano sbriciolate nel giro di pochi minuti il giorno in cui un infermiere gli aveva chiesto se avesse per caso già fatto il vaccino contro l’epatite. In un attimo Giovanni aveva ripensato a tutti i malati che aveva toccato – altro che ospiti: quelli erano malati e contro la paura il linguaggio non aveva potuto niente – e improvvisamente aveva accusato un giramento e si era dovuto sedere perché gli tremavano le gambe e davanti agli occhi erano comparsi tutti quei puntini, proprio come quelli che erano rimasti impressi nella fotografia. Giovanni s’era dovuto avvicinare molto per farla. Aveva dovuto togliersi scarpe e calzini, arrotolarsi i jeans fino alle ginocchia e sopportare il contatto con il fondo limaccioso del fiume, dove sprofondava la pianta del piede. Danilo teneva Fabrizio da dietro e lo costringeva a immergersi fino al collo, che aveva tutti i tendini tirati per lo sforzo.

«Scatta adesso, scatta prima che si liberi!»

Rideva Danilo e rideva anche la Teresa, con le braccia sollevate al cielo e la gonna che faceva una nuvola sulla superficie dell’acqua. Giulio, invece, non rideva affatto. Fermo su un sasso come un granchio venuto a prendersi un po’ di sole, aveva la bocca piegata in quel modo a lui solito, che era un’espressione di disgusto.

«Scatta adesso, non riesco più a tenerlo!»

Sabrina era rimasta da sola a riva. Si rotolava per terra, raschiava il sudicio con le unghie che avrebbe poi ciucciato.

«Dai!»

Giovanni schiacciò il pulsante e bloccò il movimento di Fabrizio che si stava sbilanciando nello sforzo di divincolarsi dall’abbraccio di Danilo. In un turbinio di schizzi ritrasse il suo volto deformato dalla paura di cadere nell’acqua. A distanza di quindici anni la fotografia aveva conservato vivo ogni dettaglio e il ricordo di tutto ciò che premeva dal fuori campo – la cantilena di Teresa, lo sguardo fisso di Giulio, il ronzio dei tafani dentro a un tronco marcio, le gambe bianche e insozzate di Sabrina e tutto quello che era venuto dopo e che aveva avuto a che fare con lo smantellamento di quelle vite, che avevano sradicato e buttato altrove. In tutti quegli anni si era chiesto più volte se fosse stato anche lui una persona cattiva. Il fatto è che si era sempre nascosto dietro a qualcun altro. Non aveva mai fatto né più né meno di quello che gli veniva chiesto. Con Danilo vestiva la parte di quello che criticava l’istituzione e i suoi uomini, gli faceva credere che se fosse stato per lui chissà che rivoluzione là dentro. Danilo lo aveva sempre ascoltato con il sorriso. Sorrideva sempre, lui. Sorrideva anche il giorno che chiusero tutto.

«Vedrai che ora staranno meglio,» gli promise, «vedrai che finiranno i loro anni in pace».

«La smetteranno anche di chiamarli ospiti?»

«Cosa vuoi che gliene importi a loro di come li chiameranno».

Dopo che furono trasferiti non andò neanche più a trovarli, di loro non ebbe più notizie, eppure si ricordava tutti i loro nomi e anche la disposizione con cui prendevano posto a tavola. Li sognò soltanto una volta, ma non avrebbe saputo dire se fossero stati davvero liberi. Del sogno gli era rimasto soltanto il ricordo di questo ronzio, che era come un pungolo; la sensazione che anche lui, in fondo, non fosse poi tanto più buono degli altri.

Scienza e letteratura. Intervista a Martin Bojowald

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Veronica Castiglioni

di Alfredo Zucchi 

Veronica Castiglioni
Veronica Castiglioni

Negli ultimi giorni è venuta fuori una discussione accesa e feconda sul ruolo della scienza, sulla sua vera o presunta neutralità, sulla sua relazione con le discipline umanistiche – in particolare, quel delicato passaggio dalla verifica dei fatti alla loro narrazione. La discussione nasce con un articolo di Mariano Tomatis su Giap, a cui risponde Massimo Sandal. In mezzo, due interventi del direttore della rivista Le Scienze, Marco Cattaneo, su facebook.

In questo quadro, mi pare che l’intervista che ho fatto a Martin Bojowald, fisico e autore di Prima del Big Bang. Storia completa dell’universo (Bompiani, Milano, 2011), possa contribuire a arricchire la discussione, specialmente riguardo alle relazione tra scienze e lettere. La mia posizione – se neutrali, com’è giusto, non si può essere – è che non ci sia una frattura così netta tra le due discipline. 

I gatti del professore

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di Davide Orecchio

gatto– Credo ne abbia avuti a decine, e di razze diverse.

– È vero. Certosini, soriani, birmani, meticci, bastardi. Ho perso il conto. Ricordi la gatta grigia e nera che, quando lui l’accarezzava, faceva le puzze?

– Pensavo proprio a lei. Il professore avrà avuto trent’anni.

– Non più di trenta.

– Rincasava nel bilocale di Ponte Milvio.

– Acqua Acetosa.

– Sì. La prima moglie era ancora in casa editrice. Lui posava la cartella, sedeva in poltrona ed ecco la gatta!

– Subito sulle sue gambe. Ad accucciarsi, a prendere carezze. Chiudeva gli occhi. Inarcava il dorso. Ma non faceva le fusa. Non ronfava.

– No. Una sfilza di peti.

– Però silenziosi. Il professore sentiva la puzza e scoppiava a ridere. Non l’ha mai scordata.

– Quella gatta? Impossibile dimenticarla. Poi ce ne fu una che sparì. Era rossa. Andava per strada. Scappava dalla finestra di un appartamento al pianoterra. Un ex portineria, nei primi anni tristi del professore.

– Quando divorziò?

– Sì. E si teneva compagnia con quella gatta troppo bella per andare per strada.

– Una Rita Hayworth.

– Una roscia. La mattina lo svegliava graffiandogli i piedi. Lo fissava senza pudore. Un giorno uscì e non è più tornata.

– L’hanno presa. Succede alle gatte belle.

gatto

– Ricordi la gattina tigrata che morì a un mese d’età?

– Purtroppo sì. Cadde dalla finestra.

– Ti confondi. Ebbe un’occlusione intestinale. Una domenica mattina il professore la trovò fredda, sdraiata per terra tra la cuccia e la lettiera che aveva provato a raggiungere per fare la cacca. Allora il professore, per distrarsi, andò a Porta Portese, ma pensava alla gattina e piangeva.

– Adesso ricordo. Quando il professore s’addormentava sul divano, la gattina, durante le sue poche settimane di vita, pensava che fosse morto e piangeva anche lei, gli saliva sulle spalle, gli miagolava sul collo.

– Ci fu un’altra gatta che saltava due metri in alto verso il sonaglio.

– Sì, una gatta miracolosa. E ci fu un gatto che in pochi secondi s’arrampicava sul corpo del professore, dai polpacci ai fianchi alla nuca, graffio dopo graffio. E ci fu una gatta che dormiva sul cornicione con l’astuzia strafottente della coda.

– Mi presti la tua coda?

– Mi presti i tuoi baffi?

– Mi presti il tuo sonno sotto al termosifone e l’abilità di leccarti?

– Ah ah ah!

– Ah ah ah!

– Un gatto, piuttosto longevo, morì di un tumore a diciott’anni d’età. Negli ultimi giorni ogni suo passo, zoppìa, sofferenza verso il cibo non mangiato, verso l’acqua non bevuta, verso la lettiera non adoperata era un messaggio per il professore: “Adesso basta, che dici?”.

– Il tumore gli era venuto alla spalla, ricordo, e non gli consentiva di camminare. Iniziò a miagolare diversamente. Miagolava lamenti. Era lui il gatto selvaggio?

– No, adesso sei tu che ti confondi. La gatta selvaggia, una femmina, è degli anni Settanta, quando il professore viveva con la seconda moglie in una casa con un terrazzo grande a viale dei Quattro Venti, dove la gatta stava tra il rosmarino e il basilico, mentre il bambù cresceva sbilenco, e l’edera resisteva, mentre il rincospermo aveva la forza del verde coriaceo e la fotinia si muoveva col vento, l’alloro era il soprammobile di sempre, il gelsomino era il fesso di sempre, arrampicatore senza costrutto, e quattro lucertole abitavano i vasi.

– Quattro lucertole e una gatta?

– Durò per poco. Ci fu una guerra, un gioco al quale i rettili non sopravvissero. Del resto la gatta selvaggia era la regina del terrazzo. Non consentiva a nessuno di avvicinarsi. Accettava solo il professore, che amava. La moglie provò ad accarezzarla e le graffiò un occhio, le spremette sangue dalla palpebra, poteva accecarla. Ma dal professore prendeva carezze. Tra i due c’era rispetto, una distanza vicina, in silenzio. L’altra gatta, quella degli anni Ottanta, te la ricordi?

– Temo di no.

Gatti

– Mise al mondo quattro figli e non li allattò.

– Erano malati?

– Il professore trovò un cucciolo morto dietro la vasca, un altro nell’ombra del water, un altro in cucina, un altro in soggiorno. Li gettava nella spazzatura e guardava la gatta: cosa fai? Come puoi? Tre mesi dopo era di nuovo incinta. Scopava, figliava, uccideva.

– Quando il professore era giovane, i gatti esistevano per dieci anni e poi morivano. Quando invecchiò, i gatti iniziarono a vivere fino a vent’anni.

– Luminosi e odorosi. Pensi che il professore abbia nostalgia dei suoi gatti?

(immagini tratte da www.pixabay.com)

mescolarsi

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di Antonio Sparzani
migrazioni

Di fronte a questa faccenda dei migranti, profughi, rifugiati, non è neppure chiaro come chiamarli, da un po’ di tempo mi si muoveva qualcosa nella testa che non riuscivo bene a mettere a fuoco, ma che sentivo come diventare qualcosa di più grosso di quanto non pensassi tempo fa. Che pure è un po’ di tempo che ne arriva di questa gente, però è come se ci fossero dei salti di qualità ogni tanto, che poi saranno diversi da persona a persona, questi salti, però è anche probabile che in una determinata zona del mondo, sotto il bombardamento di avvenimenti così costanti e inesorabili, in molti si abbia la stessa reazione, o percezione, come se qualcosa stesse cambiando alla base, cioè nel modo in cui pensiamo il mondo, come siamo stati abituati fin da bambini.

Almeno quelli della mia generazione, figli degli anni quaranta del secolo scorso, tempi duri per quasi tutti, non c’era da sfogliar verze. E l’idea che c’era allora del mondo era quella di un posto diviso in tanti posti più piccoli, ognuno con la sua bella popolazione, con certe caratteristiche, lingua, abitudini, religione, modo di vedere le cose e di trattare gli altri, e le altre. E questa idea qua non è facile scalzarla davvero, tant’è che ancora adesso che questo modello sta davvero facendo acqua da tutte le parti, ancora adesso, sì, siam tutti qui a pensare che siamo una nazione fatta in un certo modo e con certe abitudini ecc. che viene invasa da altri uomini e donne che devono integrarsi in quelle nostre abitudini e diventare in prospettiva italiane e italiani brave e bravi come siamo noi.

E invece credo sia questo che non funziona più. Quando si mescola il blu col giallo viene fuori il verde, che è proprio diverso dai due punti di partenza, non possiamo dire al verde di assomigliare al giallo o al blu, certo, se ci mettiamo poco giallo, sarà un verde che ancora tende al blu, ma qui non si tratta più di “poco”, di poche persone che si spostano, di qualche sparuto gruppo che cerca di intrufolarsi in una grande massa, qui si tratta di masse consistenti di persone che non “si intrufolano”, ma si mescolano bellamente con altre masse consistenti.

M’è capitato ieri di sentir parlare un giovanotto dai tratti somatici chiaramente orientali, e quindi mi aspettavo, più o meno inconsciamente, di sentire un italiano smozzicato, incerto e parlato male, e invece questo parlava come un perfetto milanese, con l’accento giusto, e forse anche con maggior eleganza. È stato come un lampo nella mia testa: lui è milanese, è italiano, come me e come i miei amici, l’unica differenza sono alcuni tratti del volto, che poi un po’ alla volta, col passare delle generazioni, cominceranno a sbiadire, così come cominceranno a modificarsi i lineamenti dei nostri figli e delle nostre figlie che si incroceranno presto o tardi con qualcuno con lineamenti diversi. E allora?

Mi sono venute in mente le poche cose che so delle invasioni, cosiddette barbariche. Ma anche di quelle precedenti, gli indoeuropei che un po’ alla volta hanno invaso l’Europa, incontrando le popolazioni locali e con modalità probabilmente le più varie, non tutte così incruente, mi immagino; fatto sta che il risultato è stata una bella mescolanza di genti davvero diverse. Molti anni fa comperai un libro sulla storia dell’Inghilterra, di un illustre storico, George M. Trevelyan, libro (A shortened history of England) che percorre la storia di quel paese dalle origini ai giorni nostri – o veramente suoi, Trevelyan morì nel 1962 – e il primo capitolo è intitolato The mingling of the races, capite, mingling, la più turbinosa delle mescolanze, Iberici, Celti, Romani, Anglosassoni, e perfino Vichinghi. Adesso questa mescolanza sopravvive nella lingua, le parole di quello che chiamiamo inglese sono spesso distinguibili per la loro origine, celtica, sassone, latina, ecc. Sono passati secoli, naturalmente, ma tutti si sentono (fieramente) inglesi, o, meglio, Britons.

Non ci si oppone a questi avvenimenti così macroscopici, i poveretti che ci provano durano – sulla scala della storia – lo spazio di un mattino, con tutta la tecnologia del mondo. Senza contare che, nel lungo periodo, questi mescolamenti sono positivi, nuove forze arricchiscono situazioni stagnanti, nuovo sangue e nuove idee, possibilità insospettate saltano fuori. Certo, con tutti gli incidenti di percorso del caso, nessuno di questi percorsi è indolore, ma il marocchino cattivo, o l’ivoriano sadico, non saranno peggiori del lombardo mafioso o dello svizzero assassino. Si tratterà di indirizzare, ma questo potrà saltar fuori solo dall’intelligenza e dal buon senso di governanti meno ottusi degli attuali, i percorsi educativi, sociali, e anche giuridici, per agevolare questa transizione nel suo periodo più caldo, che è questo, e forse quello dei prossimi cinquant’anni. Toccherà attrezzarsi, però fabbricandosi faticosamente gli attrezzi, che non ci sono già fatti, sperimentando e cercando ancora una volta – e in un contesto assai più esteso – di dare valore, concretezza e significato materiale a quelle vecchie parole che informarono la rivoluzione francese, libertà, uguaglianza, fraternità, ricordate?

Tu se sai dire dillo, IV edizione 2015

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17-18-19 settembre 2015

Galleria Ostrakon

via Pastrengo 15, Milano

La rassegna Tu se sai dire dillo, ideata da Biagio Cepollaro e giunta alla quarta edizione, è dedicata alla memoria del poeta Giuliano  Mesa, scomparso nel 2011.

A leggere le sue poesie, oltre a Biagio Cepollaro, vi sarà anche Andrea Inglese.  Quest’anno i temi saranno: l’esperienza di Milanopoesia (1983-1992) raccontata da Eugenio Gazzola e da alcuni protagonisti come l’artista William Xerra, la poetessa Giulia Niccolai e dall’organizzatore Mario Giusti; il festival dei nostri anni  Bologna In Lettere a cura di Enzo Campi ; l’Artventure parigina di Lucio Fontana ricostruita da Jacopo Galimberti, l’opera elettronica di Giovanni Cospito eseguita al Teatro Verdi, situato proprio di fronte allo Spazio Ostrakon.

E ancora avranno spazi dedicati: la figura unica diventata leggenda del poeta-operaio Luigi Di Ruscio tratteggiata da Christian Tito; la nascita del blog  Perigeion e i poeti Massimiliano Damaggio, Antonio Devicienti, Nino Iacovella, Gianni Montieri , presentati da Francesco Tomada, e infine, la poesia di Nadia Agustoni, Giusi Drago, Francesco Forlani, Vincenzo Frungillo, Italo Testa e la prosa di Giorgio Mascitelli.

17 Settembre, Giovedì

ore 18.00

Biagio Cepollaro e Andrea Inglese leggono Giuliano Mesa

ore 18.30

L’artventure parigina di Lucio Fontana a cura di Jacopo Galimberti

ore 19.30

Le poesie di:

Nadia Agustoni

Giusi Drago

Francesco Forlani

Vincenzo Frungillo

Italo Testa

I racconti di :

Giorgio Mascitelli

ore 20.30

Intervallo

ore 21.00  Il pubblico è invitato a spostarsi al Teatro Verdi, di fronte allo Spazio Ostrakon

Opera elettronica di Giovanni Cospito su testi di Biagio Cepollaro

18 Settembre, Venerdì

ore 18.00

Gli anni di Milanopoesia

a cura di Eugenio Gazzola

Saranno presenti:William Xerra, Giulia Niccolai, Mario Giusti

ore 19.30

Intervallo

ore 20.00

Lettere dal mondo offeso: per Luigi Di Ruscio

a cura di Christian Tito

Letture dal romanzo epistolare

Proiezione video

Testimonianze

19 Settembre, Sabato

ore 18.00

Perigeion e i poeti

a cura di Francesco Tomada

Massimiliano Damaggio

Antonio Devicienti

Nino Iacovella

Gianni Montieri

Francesco Tomada

ore 19.30

Intervallo

ore 20.00

Il presente di Bologna in Lettere

a cura di Enzo Campi

“Agit-prop-poetry”, un intervento di Enzo Campi

“Sistemi d’Attrazione”, proiezione di un video montato con i materiali della terza edizione del Festival Bologna in Lettere

“Sì, si può”, recital multimediale con Alessandro Brusa, Martina Campi, Francesca Del Moro, Rita Galbucci, Enea Roversi, Jacopo Ninni, Mario Sboarina, Enzo Campi

L’immagine in copertina è di Biagio Cepollaro, Predella-Dittico, dipinto su due pannelli. Tecnica mista su mdf, cm 80 x 50 complessivi,2009.Coll privata, Milano.

Liguria nomade: Magliani e Ferrazzi

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Un padre e figlio, durante la primavera del ’73 (Marino Magliani)

Questo era ciò che pensava. Se il padre gliel’avesse detto apertamente che così non poteva durare, che se non studiava poteva andare con lui in campagna, il ragazzo avrebbe preferito. Ne poteva nascere un discorso. Ma il padre entrava in casa e taceva.

Non doveva essere facile, pensava il ragazzo. Il padre portava in casa l’odore della campagna, si lavava le mani in cucina e si sedeva al suo posto. La madre serviva la pasta.

Un giorno il ragazzo spiegò al padre che avrebbe potuto capire che stagione era dall’odore dei suoi vestiti. Durante il tempo della falciatura, in agosto, la camicia odorava d’erba e insetti triturati. Erano le giornate lunghe e appiccicaticce in cui il padre puliva le terrazze e tutto attorno odorava di insetti spezzati.

4 testi da “Maniera nera”

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di Marco Giovenale

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Dissenso

dieci decimi (sezioni, sono,

dissezioni).

 

Non tiene per nessuno

in particolare, particola, è

Per Erri De Luca: la nostra solidarietà

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di Gigi Richetto

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La Valle di Susa che resiste è riconoscente verso Erri De Luca per la lucidità e il coraggio che sa esprimere con la sua parola contraria. Contraria in primo luogo alla devastazione

#Oktoberfestung

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di Helena Janeczek

oktoberfest

Eccoci qua: la Germania ripristina i controlli, ferma i treni, chiude la frontiera e tutti gli altri seguono a ruota. La domenica che sputtana Schengen è un’altra catastrofe per l’Unione Europea, dopo le fantastiche trattative con la Grecia (oltre che naturalmente per la marea di rifugiati persa e intrappolata in mezzo alle frontiere).

FABIO TETI “spazio di destot”, verso la nuova complessità

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copertina destot1-1 copiadi Daniele Poletti

“Se leggo con piacere questa frase, questa storia o questa parola, è perché sono state scritte nel piacere (questo piacere non è in contraddizione con i lamenti dello scrittore). Ma l’inverso? Scrivere nel piacere mi garantisce – me, scrittore – del piacere del mio lettore? In nessun modo. Questo lettore bisogna che lo cerchi (lo «draghi»), senza sapere dov’è. Si è creato allora uno spazio del godimento. Non è la «persona» dell’altro che mi è necessaria, è lo spazio: la possibilità di una dialettica del desiderio, di una imprevisione del godimento: che il gioco non sia già chiuso, che ci sia un gioco.”

(Roland Barthes : da “Il piacere del testo” – Einaudi 1975)

 

Molto spesso in recensioni, saggi brevi e testi di critica letteraria i nomi di Deleuze, Barthes e Derrida ci cascano dentro, e abbastanza frequentemente come ornati che suonano a vuoto. Ahimè oggi si apre con Barthes, ma spero con i migliori intenti. Evocare sullo sfondo “Il piacere del testo” in relazione a “spazio di destot”, rappresenta la simulazione della prima e unica domanda da porsi rispetto a questo libro di Fabio Teti: «Perché un libro come questo dovrebbe darci piacere/godimento?». La risposta sarà per via indiretta, altre domande sorgeranno, alcune risposte senza domanda, alcuni percorsi.

Della serie: Show Me a Hero

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Habitat

di

Flavio Pintarelli

Se volessimo individuare una costante che accomuna l’opera televisiva di David Simon da The Corner a Show Me a Hero quella sarebbe senza dubbio la capacità che lo scrittore americano dimostra nel far convivere nelle sue trame l’alto e il basso, la strada e il palazzo, il sottobosco criminale e la giungla delle stanze del potere. Ma, come accade in una celebre scena della prima stagione di The Wire, quella in cui i dealer incontrano al cinema gli agenti che sono soliti “prenderli a calci in culo” per strada, la rappresentazione degli opposti come facce di una stessa medaglia per Simon è l’occasione di sgretolare i cliché a cui ci hanno abituato i narratori più pigri. Così, a incontrarsi in quel cinema di Baltimora non sono tanto poliziotti diventati criminali a furia di calcare le strade o spacciatori dal cuore d’oro, bensì uomini separati dalle circostanze e dalle regole di un gioco irrimediabilmente truccato; qualcuno lo chiamerebbe “società”, altri, più ideologici, “capitalismo”.

Show Me a Hero non fa eccezione a questa regola. È la storia, realmente accaduta, di una  una città, la città di Yonkers. Una cittadina al confine con il Bronx, tre chilometri a nord di Manhattan, stesa su una zona collinare affacciata sulle rive del fiume Hudson, nella contea di Westchester, stato di New York. A Yonkers è nato, tra gli altri, lo scrittore Richard Yates.

Show_Me_a_Hero_PosterSiamo al tramonto degli anni ’80 e c’è un giudice di nome Sand che vuole condannare le politiche di segregazione razziale messe in atto dal governo cittadino, obbligando la città a costruire 200 unità abitative popolari, ma non i temutissimi projects, alveari metropolitani ricettacolo di ogni nequizia. Bensì delle più avanzate low income houses, abitazioni per persone indigenti progettate secondo i principi della defensible space theory. Una teoria urbanistica sviluppata dall’architetto Oscar Newmann (interpretato nella serie da Peter Riegert), secondo la quale un’area urbana è più sicura quando le persone provano verso la propria abitazione un senso di proprietà e responsabilità nei confronti della comunità in cui abitano. A rendere defensible (difendibile) uno spazio contribuiscono cinque fattori:

  1. La territorialità, ovvero l’idea che ogni abitazione sia un luogo “sacro”.
  2. La sorveglianza neutrale, ovvero il collegamento tra le caratteristiche fisiche di un’area e la capacitàà dei residenti di vedere ciò che vi accade.
  3. L’immagine, ovvero la capacità del design fisico di trasmettere un senso di sicurezza.
  4. Il milieu, ovvero tutti quei fattori che hanno a che fare con la sicurezza come la vicinanza a una stazione di polizia o a un’affollata area commerciale.
  5. Le zone attigue sicure, ovvero la capacità di trasferire ai residenti l’abilità di sorvegliare le zone adiacenti alle loro abitazioni attraverso il design delle stesse.

Ciononostante nessuno dei bravi, onesti, operosi cittadini di Yonkers è disposto ad accettare che un giudice e una manciata di avvocati ebrei di New York possano minacciare il quieto vivere della loro neighborhood e il valore dei loro immobili.

Show Me a Hero 1

Nick Wasicsko (Oscar Isaac) questo concetto lo ha capito alla perfezione. Nick è un politico locale, membro del consiglio comunale, che contro ogni pronostico decide di candidarsi alle elezioni contro il sindaco in carica, Angelo Martinelli (Jim Belushi). Martinelli è un pezzo da novanta della politica locale. Nessuno può neanche lontanamente immaginare che possa perdere la tornata elettorale. Ma Wasicsko ha capito che la questione degli alloggi è il terreno di scontro perfetto su cui sfidare l’avversario. Così tocca la pancia delle persone, fa campagna elettorale promettendo di opporsi alla sentenza e vince, tra l’incredulità di tutti.

La vittoria, tuttavia, diventa la sua condanna. La sentenza del giudice Sand è inappellabile. Gli avvocati del Comune sanno che non ci sono margini di trattativa e, come se non bastasse, se la sentenza dovesse restare inapplicata le multe comminate ridurrebbero rapidamente la città in bancarotta.

Wasicsko è perciò costretto a dover approvare un piano di edilizia popolare. Lo deve fare a dispetto dell’ostilità crescente della cittadinanza e dei suoi stessi elettori, in un clima reso irrespirabile da chi soffia sul fuoco per alimentare la tensione razziale e maschera il razzismo dietro discorsi razionali. Come se non bastasse, il giovane primo cittadino deve guardarsi anche dalla fronda interna al consiglio comunale, capitanata dal vice sindaco Hank Spallone che, a dispetto della realtà dei fatti, continua ad opporsi al piano di edilizia abitativa, guadagnando sempre più consensi. Wasickso resta così vittima della sua stessa retorica e, dopo due anni, perde la carica proprio contro Spallone.

Show me a hero è un meditato apologo sulla politica in forma di tragedia. “Show me a hero, and i’ll write you a tragedy” recita infatti la citazione completa di Fitzgerald che Simon sceglie come titolo per la sua miniserie. Lo scrittore americano affonda infatti le mani nel materiale tragico. Siamo nel territorio di Antigone, solo che alla legge degli dei, quella del cuore e dell’amore fraterno, s’è sostituita la legge della pancia, quella soffia sulle paure e le insicurezze delle persone. A contrapporsi a questa c’è la legge degli uomini, l’apparato kafkiano di regole che deve applicarsi no matter what. Nessuna delle due ha però la ragione di prevalere, sono cieche entrambe, entrambe non sono altro che rulli compressori che livellano la complessità delle cose.

Lo si vede bene in quell’unico, lunghissimo montaggio alternato parallelo che è il secondo episodio. Dove alle udienze presso la Corte Federale presieduta da giudice Sand si avvicendano le sedute del consiglio comunale di Yonkers. Non c’è uscita possibile dal circuito. A ogni passaggio l’intensità dell’ostinazione delle due leggi non fa che aumentare. Più la legge degli uomini vuole dimostrarsi inflessibile, perché quell’inflessibilità è la sua unica ragion d’essere, più la legge della paura diventa aggressiva, schiuma, s’agita e morde.

Show Me a Hero 3

Una morsa letale che schiaccia tra le sue ganasce uomini e donne a dispetto delle loro buone intenzioni. Così è Mary Dorman (Chaterine Keener) e così è Nick Wasicsko quando, alla fine dell’episodio, l’alternanza del circuito inflessibilità-paura si chiude nel convergere delle loro voci al telefono. Mary trasalisce, quando al telefono del Comune è il sindaco in persona a rispondere. Accorgersi che a ricoprire quella carica non è una figurina di carta ritagliata, ma il l’alito concreto della voce di un uomo in carne e ossa ha la forza di un pugno. Il ritorno della corporeità, il riconoscersi al di là dell’ordine del simbolico che la politica impone ai suoi protagonisti, è la vera forza della narrazione di Simon, quella tessitura che imbastisce e cuce insieme l’alto e il basso.

Siamo fuori dalla rappresentazione della politica come regno assoluto del behind the scene, della retroscenistica complottarda. È il fantasma di House of Cards che appare dovunque in controluce, quando si guarda Show Me a Hero. Quanto sono diverse le tombe dei padri nei due show? In uno la lapide ridotta a pisciatoio, nell’altra muta pietra a cui ci si appella, fino alle estreme conseguenze. Quanto è gratuitamente inumano il primo e quanto è irridicibilmente umano il secondo?

Nella trama allegorica tessuta di Simon c’è l’oggi che viviamo. Qui, ora, ma anche altrove, in ogni parte del mondo. Lo scontro tra la legge della paura e la legge degli uomini è il presente odierno, trasportato a Yonkers, tra la fine degli anni ’80 e l’alba dei ’90. Come a dire che non si tratta solo di Zeitgeist, ma che quello scontro, quelle dinamiche possono prodursi ovunque, dovunque, in qualsiasi tempo quando se ne danno le condizioni.

C’è una soluzione a tutto questo? Chi la chieda a un narratore se non è in malafede è quantomeno sciocco, perché il compito del narratore è raccontare, e nel raccontare far sentire quel residuo ultimo di umanità che alberga sotto ogni simbologia, sotto ogni riduzionismo. Come fa Simon, quando intreccia le vicende della politica alla vita minuta dei suoi personaggi. Le microstorie dell’umanità delle case popolari, spinta ai margini, eppure dignitosa sono fatte della medesima sostanza della macrostoria delle corti di tribunale e delle aule della politica.

Così come, ancora una volta, sono gli incontri tra le persone a fare la differenza. La scoperta dell’altro è la forza che scava sotto le fondamenta del muro dei simboli. Così, ancora una volta, il personaggio di Mary Dorman scopre l’umanità al di fuori della mura domestiche. Il saluto di Pat, la donna di colore, la militante di lunga data che tende la mano alla militante dell’ultimo minuto ha una forza dirompente. Instilla il dubbio, cambia la gelatina alla luce che colora la scena, scuote anche la convinzione che pareva più solida. Ancora una volta l’arte si mostra per quello che è o dovrebbe essere davvero: potere trasformativo in grado di ri-scrivere la realtà in forma di finzione e nel raccontarci la prima attraverso la seconda indicarci la strada da seguire. In fin dei conti, cosa vogliamo chiedere di più a un narratore?

Come un film francese

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di Giacomo Verri

saporito

C’è uno scrittore dalla penna annebbiata, uno che ha scritto quella manciata di romanzi e poi si è perso. Come tanti, in fondo. Però il fatto di aver nella vita pubblicato delle pagine lo pone al di là di una linea d’ombra, una frontiera oltre la quale gli è riconosciuto ufficialmente un ruolo intellettuale ambiguo, difficile, a tratti tragicamente ridicolo. Il protagonista dell’ultimo romanzo di Roberto Saporito, Come un film francese (Del Vecchio editore, pp. 135, euro 14), è infatti uno scrittore a cui viene affidato, nonostante gli anni di assenza dagli scaffali reali e virtuali delle librerie d’Italia, un corso di scrittura creativa; ruolo beffardo e disciplina equivoca, ma che rappresentano a tutto tondo uno dei vizi dell’editoria che insegue chimere: “questa è la mia piccola rivincita”, spiega il protagonista, “insegno qualcosa che nessuno mi ha mai insegnato e che sono sempre più fermamente convinto che non si possa insegnare”.

E tuttavia il corso ha successo, le diciotto ragazze assiepate tra i banchi idolatrano il loro maestro (che sfrutta l’aria da intellettuale fascinosamente trasandato come stimolante antidoto alle piretiche attrazioni del gentil sesso verso il macho-calciatore-esibizionista), i maschietti un po’ di meno, ma tant’è. La ninfetta più appassionata è Carlotta, ventun anni, “bella di una bellezza frutto di generazioni di innesti di donne bellissime con uomini ricchissimi”. Scopano in maniera moderatamente sfrenata, sopra al letto è appesa “un’enorme e originale tela di Jean-Michel Basquiat”, lei ha una quantità lussureggiante di soldi, una Cinquecento a pois molto molto chic e molto smart, e ha pure la sindrome della salvatrice, vuole riaccendere senza indugi il fuoco sacro della scrittura nel professore disilluso e questi, tra una seduta di sesso e un’altra, si lascia condurre nelle belle dimore della facoltosa studentessa.

In “una villa-palazzotto di pietra grigia della fine dell’Ottocento, direi, a metà strada tra Antibes e Cannes”, avviene un incontro importante: quello con una fanciulla dagli occhi verdi e i capelli rossi cortissimi: c’è un viaggio nella notte a bordo di una Vespa viola, c’è una Gauloises, c’è un bacio. La proprietaria della labbra osculanti è Lea, liceale ricca ereditiera.

E ancora della diciassettenne Lea è la voce narrante della seconda parte del libro. Lea la bella, Lea la trasgressiva, inusuale e spiazzante Lea. Assieme a Martina intraprende un allucinante viaggio verso Londra a bordo di un Maggiolino del 1969, rosso, quanto di più vintage si potrebbe immaginare. Al duo si aggiunge, da qualche parte in Francia, Anny. Insieme vivono una serie di ricamboli tarantiniani che epilogheranno al Père-Lachaise. E tra lazzi e disincantate malinconie Roberto Saporito ci fa conoscere un personaggio divertente, cinico e innamorato a un tempo, di quella disperazione leggera che si respira nei film francesi di una volta.

Multiversi. Parole Suoni Gesti ° (18-20 settembre, Pisa)

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Una rassegna sulle scritture ad alta voce, a cura di Fabrizio Bondi e Paolo Gervasi

 Pisa, Cinema Teatro Lux, 18-20 settembre 2015.

Periodicamente si rinnovano le lamentazioni sulla morte dell’arte, della letteratura, del teatro, della poesia. Ma da questi proclami pieni di rancore e stanchezza emerge soprattutto che l’idea della fine rappresenta un alibi. Un modo per sottrarsi all’ascolto del presente e della sua complessità.

Di fronte alla ripetitività di una fine che non smette mai di finire, siamo convinti che l’unico modo per tenere in vita la poesia sia farla accadere. Continuando a scriverla, a leggerla, e a pronunciarla ad alta voce. Continuando a convocare la comunità di chi vuole ancora ascoltarla, e utilizzare il proprio corpo come una cassa di risonanza.

Per questo insieme al Teatro Lux e all’associazione The Thing abbiamo immaginato la rassegna Multiversi. Parole Suoni Gesti. Tre giorni di poesia, musica, teatro, e corpi in risonanza. Per continuare ad ascoltare il presente e le sue possibilità. Per sopravvivere alla fine del mondo, con le orecchie bene aperte.

Intonarumori & cacofonatori

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viniledi Romano A. Fiocchi

Doc. Looksharp, LP Cacophonorgy, Furry Heart Records, 2014.

Se il progetto fosse stato americano, magari avrebbe già trovato una grande etichetta e un successo assicurato. Invece, nonostante nomi e titolo, è tutto italiano. Ed è rimasto un prodotto di nicchia. Italianissimo l’autore, Doctor Luden Looksharp ossia Luca Collivasone. Italianissima l’etichetta, Furry Heart Records. Italianissimo lo strumento utilizzato, un cacofonatore, ossia l’erede dell’intonarumori ideato da Luigi Russolo giusto un secolo fa. Russolo, che aderì con entusiasmo all’ultimo movimento artistico tutto italiano, il Futurismo, fu l’unico a proiettare la visione futurista nel campo musicale. In quello che viene concordemente ritenuto il manifesto della musica futurista, L’arte dei rumori (1913), sostenne la possibilità di “intonare e regolare armonicamente e ritmicamente” i più svariati rumori e diede concretezza alla sua tesi con l’invenzione di un sistema di mezzi fonici che chiamò appunto intonarumori. La serie di concerti che tenne a Milano nel corso del 1914 suscitò clamori e dissensi, ma anche interessamento da parte di grandi nomi come Ravel e Stravinskij che restarono impressionati dalla sua composizione per frusciatore, gorgogliatore, gracidatore.

Se con Russolo siamo in bilico tra la bizzarria e la provocazione, tipiche del Futurismo, in questo progetto di Doc. Looksharp la ricerca si fa sistematica, fonde il tributo a Russolo con le innovazioni d’avanguardia dei nastri magnetici di Luciano Berio e Luigi Nono, con ritmi tribali, con rielaborazioni elettroniche decisamente attuali, compreso l’utilizzo della voce umana modificata da un distorsore. Al tempo stesso, con l’arma dell’ironia, si scaglia contro la vocazione ormai prettamente commerciale dell’industria discografica e contro la sua scarsa attenzione per la sperimentazione e per l’invenzione musicale.

Ma cos’è questo cacofonatore. In primo luogo è uno strumento filosofico con vocazione ecologista, ossia un assemblaggio di materiali ormai usciti dal ciclo produttivo ma che racchiudono un potenziale di riutilizzo che solo un’artista sa riconoscere. C’è l’amore per l’oggetto rigenerato, il rispetto per qualsiasi tipo di materia messa a disposizione dalla natura, l’avversione per gli sprechi. Una specie di Arte povera con fini esclusivamente musicali. Doc. Looksharp è partito dalla carcassa di una macchina per cucire Singer del 1940 per realizzare una macchina per suoni. Il progetto e il processo di costruzione sono descritti in un filmato on-line che si può visionare liberamente su YouTube, qui.

vinile contenutoDavvero suggestivo è l’utilizzo narrativo che Doc. Looksharp riesce a sviluppare in alcune composizioni, prima fra tutte At the monuntains of madness (Alle montagne della follia), dove l’atmosfera del noto racconto di Lovecraft è creata magistralmente. Certo, bisogna aver letto il testo. Ma per chi l’ha fatto, sonorità e ritmi straordinari generano un habitat musicale dove si rivede tutta la storia: le infinite distese di ghiaccio dell’Antartide, l’immensa (e immaginaria) catena montuosa con le tracce di civiltà arcaiche, i misteri delle strane creature ibernate (gli “Antichi” di Lovecraft), i bastioni della gigantesca città abbandonata, i tunnel scavati sotto le montagne, insomma tutto l’insieme di visioni che conduce il narratore sull’abisso della follia: “L’emozione più antica e profonda del genere umano è la paura e la paura più arcaica e violenta è quella dell’ignoto”, scrive Lovecraft. Per chi vuole farsene un’idea più precisa, Doc. Looksharp ha reso disponibile un bel video sempre su YouTube, qui.

Cacophonorgy, che raccoglie sei composizioni per cacofonatore, non poteva certo uscire in CD, tanto meno esclusivamente come musica liquida. Ecco dunque la scelta di un vinile a trentatré giri, stampato su un supporto verde trasparente e con tradizionale copertina in cartoncino. Eccentricità da futurista? Tutt’altro, il vinile – gli appassionati lo sanno bene – garantisce toni più caldi e maggiore fedeltà al suono, caratteristiche essenziali per la voce di un cacofonatore.

Giorgio Ferigo (poeti friulani # 6)

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fotografie di Danilo De Marco

Ferigo Giorgio672 copy

 

 

 

 

 

 

 

Il timp

Timp dai baraçs

i mi soi scuviert fuea ai tiei ramaç

Extraterrestri

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di Loretta Emiri

Si autodefinisce extraterrestre chi, in cuor suo, ha già scelto di esserlo. Tale consapevolezza dovrebbe evitargli di sentirsi solo, ma ciò non avviene. D’altronde, se circondato da una moltitudine con interessi e valori diversi dai suoi, avverte una sensazione di solitudine ancor più devastante. Sempre che può, intraprende viaggi per andare a conoscere o rivedere gli sparuti extraterrestri che abitano sulla Terra; non si sente solo esclusivamente quando è accanto a qualcuno di loro. Il senso di appartenenza a una razza esotica, seppur minoritaria, gli infonde l’entusiasmo necessario per sviluppare meccanismi di sopravvivenza. A Lucca, durante un seminario di quella che è definita Letteratura della Migrazione, dissi che nell’Italia in cui sono nata non mi sento una straniera, ma un’extraterrestre.

Ci conoscemmo a São Paulo all’inizio del 1984. Per tre mesi lavorammo fianco a fianco. I nostri nomi appaiono, come collaboratori, su una pubblicazione del più importante Centro di Documentazione e Informazione sugli indios in Brasile, centro che ha fomentato il movimento indigeno e indigenista brasiliano. Robin aveva realizzato la sua tesi di dottorato fra i Baniwa. Nello svolgere il suo lavoro era metodico, infaticabile e molto riservato; ma quando apriva bocca le sue parole erano sempre coraggiose. Attraverso lui capii che anche fra gli odiati imperialisti nordamericani c’è qualcuno che si salva, che pensa con la propria testa, che non ha paura di esporsi. Mi raccontò che nel 1973, negli Stati Uniti c’era stato uno scontro armato tra nativi e forze federali che avevano assediato un villaggio; rimasi impressionata perché il 1973 era molto vicino, quando pensavo fossero ormai lontane le violenze contro gli indiani. Mi parlò anche del massacro di WoundedKnee in cui furono uccisi trecento nativi. L’idea di scrivere qualcosa a proposito di stragi di pellirosse, e di quell’americano in gamba, si insinuò nel midollo delle mie ossa; ma lasciai passare troppo tempo, per cui la memoria si incaricò di trasformare le informazioni in una sola, e cioè che nel 1973 erano stati ammazzati molti indiani.

Decisi di recarmi ad Imola, dove avrei ritrovato due simpatici extraterrestri conosciuti a Lucca. Scelsi la data del viaggio in concomitanza di uno degli eventi programmati nell’ambito dell’iniziativa intitolata “ALIENI PER CASA (o per caso?)”.  Assistetti così alla presentazione di una raccolta di poesie del nativo americano Lance Henson, di ascendenza cheyenne. A pagina quarantacinque di Un canto dal vento che si leva,si legge: “All’alba del 29 novembre 1864 un reparto di circa 700 uomini dell’esercito americano, comandato dal colonnello John Milton Chivington, attaccò un villaggio cheyenne e uno arapaho, situati presso il fiume Sand Creek in Colorado, in cui si trovavano soprattutto vecchi, donne e bambini, poiché molti uomini si erano allontanati alla ricerca di cibo. Gli indiani, ritenendo di essere sotto la protezione dell’esercito, furono colti di sorpresa e alla fine della giornata si contarono, tra essi, circa 150 morti [N.d.T.]”.

Da vari anni Lance è in esilio volontario per protesta contro la politica del Governo degli Stati Uniti verso i nativi. Le sue poesie richiamano lo stile dei canti tradizionali cheyenne egli sgorgano fuori in modo del tutto naturale. È impegnato a livello internazionale con il movimento dei popoli indigeni. Come lui stesso afferma a pagina otto del libro di cui sopra, “non ha rispetto per la lingua inglese … ma la lingua è uno strumento … un’arma ben affilata”; per cui scrive anche in inglese, però non usa le maiuscole, la punteggiatura, né altri segni grafici. Nel brano “Quadernetto” io affermai: “Acuta è riaffiorata l’avversione che sento per la lingua inglese, che ai miei occhi simbolizza la globalizzazione del presente, l’imperialismo del passato prossimo. Se attraverso l’inglese si riducono al silenzio tante esotiche e originali lingue, attraverso il rifiuto del suo uso esprimo io la personale protesta contro tutto ciò che è colonialismo, sia esso culturale, politico o economico”. Un’interprete tradusse l’intervento del poeta cheyenne. Ultimata la presentazione del libro ebbi modo di avvicinare Lance, ma mi morsi le labbra non riuscendo a comunicare in inglese e quindi non potendo dialogare con lui. Lo rividi l’indomani in occasione di un laboratorio di poesia;anch’essi tradotti in italiano, provai a seguire i suoi suggerimenti: esprimersi in prima persona; lasciarsi andare alle sensazioni scrivendo di getto; dedicare dei versi a una persona cara.  Quanto annotai durante il laboratorio non si sarebbe potuto definire poesia ma, nei giorni seguenti ci lavorai su pazientemente con martello e scalpello riuscendo a frammentare il blocco amorfo e a ricavarne tre composizioni. Tradotte con intelligenza, le parole di Lance e il suo carisma hanno fatto uscire dal midollo delle mie ossa l’antico proposito di scrivere qualcosa sui massacri dei nativi americani e sull’amico Robin. Una facile ricerca bibliografica ha ridistribuito i ricordi e ampliato la conoscenza dei fatti.

Negli ultimi giorni del 1890,alla notizia dell’assassinio di Toro Seduto, un gruppo di Sioux guidato da Piede Grosso partì dall’accampamento sul torrente Cherry per recarsi a Pine Ridge, sperando nella protezione di Nuvola Rossa. Il ventotto dicembre vennero intercettati da quattro squadroni di cavalleria del Settimo Reggimento guidato dal maggiore Samuel Whitside, che aveva l’ordine di condurli in un accampamento militare sul WoundedKnee. Centoventi uomini e duecentotrenta tra donne e bambini vennero scortati sulla riva del torrente, circondati da due squadroni di cavalleria, tenuti sotto tiro da due cannoni Hotchkiss. Più tardi, il resto del Settimo Reggimento marciò da est e bivaccò a nord degli squadroni di Whitside. Il comando delle operazioni fu preso dal colonnello James W. Forsyth, che fece piazzare altri due cannoni, anch’essi in posizione tale da colpire le tende degli indiani da un capo all’altro dell’accampamento. L’indomani gli uomini di Piede Grosso, ammalato gravemente a causa di una polmonite, vennero disarmati. Coyote Nero, un giovane sordo, tardò a consegnare il suo fucile; fu circondato dai soldati e, mentre deponeva l’arma, partì un colpo. Era il pretesto che gli yankee aspettavano per procedere al massacro. I cadaveri rimasero a cielo  aperto, i feriti che riuscirono ad allontanarsi morirono assiderati: un’agghiacciante serie di fotografie ce li mostrairrigiditi nel gelo e nello strazio. Alla frettolosa stima iniziale seguì la constatazione che, su un totale di trecentocinquanta, erano morti  trecento indiani.

            Il ventisette febbraio 1973 nella riserva di Pine Ridge, nel Sud Dakota, esplode la disperazione indiana. I Sioux si ribellano al Governo americano gridando quanto misere siano le loro condizioni di vita; e denunciano l’amministrazione delle riserve svelandone la corruzione, gli abusi, le irregolarità, la violazione degli impegni, l’incapacità di fornire lavoro, gli attentati aidiritti, alla cultura, al proprio modo di vivere. Circa duecento pellirosse, fra cui donne e bambini, si asserragliano a WoundedKnee, nello stesso luogo in cui nel 1890 la cavalleria massacrò i loro avi. Sono appoggiati dall’AIM – American IndianMovement. Assediando la zona, il Governo mette in campo tiratori scelti della polizia federale, uomini, mezzi blindati ed elicotteri. La resistenza indigena dura più di due mesi; cessa il dieci maggio dopo scontri armati e la morte di due pellirosse. Sembrerebbe che anche questa volta gli indiani abbiano perso la loro battaglia. In concomitanza di quello che passerà alla storia come il WoundedKneeIncident, Marlon Brando ricusa l’Oscar attribuitogli per la performance ne Il Padrino. Le motivazioni del suo rifiuto vengono lette da una giovane squaw, che viene definita Sioux o Apache, mentre per altri è un’attrice californiana. L’identità della donna non modifica l’essenza del messaggio che Brando dirige alla stirpe di celluloide: “…non posso accettare l’Oscar … l’industria del cinema è più di altre colpevole della degradazione degli indiani”. A parte le sporadiche o recenti eccezioni, effettivamente la cinematografia ha contribuito a crearestereotipi e preconcetti; ha messo in ridicolo un grande popolo, scimmiottandone i guerrieri, riducendoli a pagliacci e ubriaconi; ha forgiato la menzogna che i “buoni” sono sempre i soldati. “Massacri dei nativi americani” corrisponde a “genocidio degli indios brasiliani”: sono locuzioni differenti che dicono esattamente la stessa cosa. Nordamericani in gamba, sensibili, che pensano, denunciano, si battono, resistono; ovviamente, possono solo essere di ascendenza extraterrestre….

Nota biobliografica

Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il DicionárioYãnomamè-Português, il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver, la raccolta poetica Mulherentretrêsculturas, i volumi di racconti Amazzonia portatile e Amazzone in tempo reale (Premio Speciale della Giuria per la Saggistica, del Premio Franz Kafka Italia 2013), il romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne. È anche autrice dell’inedito A passo di tartaruga, mentre del libro Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più, anch’esso inedito, è la curatrice.

“Ghost Dance”, Wu Ming 1, http://www.wumingfoundation.com.

“Images of Wounded Knee”, http://hoist.hrtc.net/~wbt/woundedknee.htm.

“Quadernetto”, in Amazzonia portatile, Loretta Emiri, Manni, Lecce, 2003.

Seppellite il mio cuore a WoundedKnee, Dee Brown, Oscar Storia, Mondadori, Milano, 1994.

Un canto dal vento che si leva, Lance Henson, Edizioni La Collina, Cagliari, 2009.

“10 maggio 1973: la resa di WoundedKnee”, Marco Innocenti, Il Sole 24 Ore, 09-05-2008.

 

Seia cinque: Gaetano Cappelli

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51xoMIeQNGL._SL360La Romanza

di Seia Montanelli

 

Autore prolifico, con oltre quindici romanzi in trent’anni di carriera (oltre a decine di racconti e saggi pubblicati), Gaetano Cappelli è uno scrittore di razza e uomo dotato di dosi massicce di ironia – “accusa” che si può muovere a ben pochi scrittori nostrani – e vi consiglio di leggere il suo ultimo libro, sperando che non la prenda come un’onta personale, avendomi tempo fa bonariamente seppur pubblicamente, invitato a cambiar mestiere (per la cronaca, nel contesto della discussione aveva una sua ragione di pensarlo).

“Scambi, equivoci eppiù torbidi inganni” (Marsilio, pagg. 194, € 16) il titolo del libro, è lettura perfetta soprattutto in quest’ultimo scorcio d’estate, per concedersi un po’ di leggerezza.

Cappelli è una voce particolare nel nostro sistema editoriale: il suo habitat è la commedia; la sua missione è divertire il lettore; la sua grande capacità è costruire trame e personaggi che intrattengano il pubblico, raggiungendo egregiamente quello che dovrebbe essere lo scopo primario di ogni manifestazione artistica, il divertissement, se come me siete d’accordo con il filosofo e saggista José Ortega y Gasset: «se invece di prendere sul serio l’arte, la prendessimo per quel che è, come intrattenimento, un gioco, una diversione, l’opera artistica guadagnerebbe così tutta la sua ammaliante riverberazione».

Sante parole.

Anche per “Scambi, equivoci eppiù torbidi inganni” non intinge la penna nel dolore pervasivo in cui affogano gran parte dei romanzi italiani degli ultimi anni, ma sceglie lo humour e l’arma della dissacrazione per raccontare l’Italia dei giorni nostri: boccaccesca, scollacciata, sessuomane, maschilista, sbruffona e disonesta, distillata perfettamente in pagine e pagine di intercettazioni telefoniche.

E’ Roma in particolare a cadere sotto gli strali potenti e potentini di Cappelli: la Roma dei furbetti, che anticipa di poco lo scandalo di “Mafia capitale”, con magistrati corrotti, politici inquisiti, avvocatesse che non fanno rimpiangere le matrone più perverse della Roma antica, idraulici per “signore” e intellettuali da quattro soldi, soprattutto scrittori a caccia di visibilità e denaro (ci sono spesso scrittori nelle vicende raccontate da Cappelli, e di solito non fanno una bella figura). Il tutto condito da un immaginario erotico porno-soft, in cui il sesso non è un pruriginoso espediente per vendere più copie o attrarre lettori lussuriosi, è invece strumentale a offrire un ritratto implacabile di una Roma che, De Gregori docet, «sembra una cagna in mezzo ai maiali». Di più, il sesso, soprattutto se clandestino, è merce di scambio e moneta sonante, ma in qualche modo anche il simbolo di un raggiunto status sociale.

Il nostro prende una varia e squallida umanità e la fa muovere tra feste, palazzi del potere, ville di lusso, palestre, ma anche tuguri bui o sale per gli interrogatori in carcere, facendo abilmente ricorso a una lingua che solleva l’opera al di sopra di una mera parodia verosimile del contingente – e, pur usando il mezzo letterario, riporta alla memoria la rappresentazione cinematografica di una certa Italia tipica della commedia italiana anni ’60 e ’70 (con qualche aggancio alla “Grande Bellezza” di Sorrentino).

Come sua abitudine, assurta ormai a cifra stilistica, l’autore inventa un dialetto, anzi diversi dialetti, li mescola a neologismi, lemmi stranieri, e alla neolingua 2.0 in un idioma ripreso dal parlato che produce un italiano nuovo, ibrido, pieno di onomatopee e parole strascicate, rese sulla pagina spesso con l’uso del corsivo, come a dare indicazioni per la lettura – quasi fosse un copione teatrale, anzi (di nuovo) cinematografico. Divertente per esempio la citazione colta delle rinascimentali wunderkammer, le camere delle meraviglie di rinascimentale memoria, che diventano WunderRealityKammer nel libro, venendo altresì derubricate a meri postriboli contemporanei.

A sottolineare lo scarto tra quella dei protagonisti e “l’italiano”, c’è la lingua del narratore onnisciente, colto, elegante, ironico, che non disdegna di usare il turpiloquio in qualche occasione, ma appare sempre misurato, anche se palesemente divertito da quanto racconta: è un personaggio anch’egli, per quanto è pervasivo sulla pagina: sa tutto, anche ciò che al lettore non sarà mai svelato, e ci tiene a sottolinearlo.

Come mio solito non indugerò sulla trama del libro, anche se per una volta (una delle poche volte, suvvia) che un romanzo italiano mostra una struttura solida e un vero intreccio con personaggi non di cartapesta, sarebbe il caso di festeggiare descrivendola in dettaglio, ma resto fedele al diktat per cui al lettore deve sempre essere garantito il gusto della scoperta di fronte a un libro, e mi limito a consigliare “Scambi, equivoci eppiù torbidi inganni” per la leggerezza con cui rende uno spaccato del nostro paese con più efficacia (e maggiore divertimento), di qualsiasi saggio di sociologia, e di ogni romanzo doloroso e addolorato.

In questo senso Cappelli è autore per molti – da qui il successo di pubblico dei suoi libri – ma non per tutti: soprattutto non per quella parte di critica letteraria che guarda alla commedia con lo stesso sdegno che riserva alle barzellette di Totti.

Non credo tuttavia che Cappelli se ne dispiaccia, avendo egli già individuato il suo lettore tipo: come recita il profilo Twitter, scrive «storie per chi non s’accontenta di una vita sola».

Nella colonia penale di Kafka

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Descrizione del dispositivo

(Descrizione del dispositivo, disegno di Davide Racca)

tradotto da Davide Racca

[Questo attraversamento di Racca della Colonia Penale di Kafka, scritto pochi mesi dopo lo scoppio della Grande Guerra (di cui in questi tempi si commemora il centenario), non è solo una ritraduzione letteraria del testo, ma si compone di un apparato saggistico in chiave politica e filosofica (con riflessioni da Foucault ad Agamben, da  Dal Lago a Bauman) e una serie di otto disegni ispirati dal racconto.

Qui di seguito dei brevi frammenti di questo lavoro che si riferiscono al “dispositivo di tortura” (si noti che la parola “dispositivo” non è un termine usato a caso in questo contesto).

Scrive  Racca nella Nota al testo (pag.7): “La descrizione del dispositivo di tortura (una macchina che uccide attraverso la scrittura), e del martirio del condannato, appare il fulcro della narrazione, e di certo Kafka vi indugia nell’invenzione letteraria con dovizia di particolari. Ma in realtà questa descrizione tende a nascondere il vero conflitto che muove il racconto, e cioè quello tra il vecchio e il nuovo potere in uno stato di eccezione (stato di eccezione che, a partire dalla prima guerra mondiale, non ha più smesso di svolgere un ruolo problematico all’interno delle nostre democrazie).”B.C.]

 

 

 

Estratto da NELLA COLONIA PENALE nel quale l’ufficiale descrive il dispositivo di tortura al viaggiatore

[…] “Questo dispositivo”, disse, e afferrò una biella alla quale si appoggiò, “è una trovata del nostro precedente comandante. Io personalmente ho collaborato fin dai primi esperimenti e preso parte anche a tutti i lavori fino al completamento. Ma il merito dell’invenzione spetta esclusivamente a lui. Ha sentito del nostro precedente comandante? No? Ora non esagero a dire che l’ordinamento di tutta la colonia penale è opera sua. Noi, i suoi amici, già alla sua morte eravamo consapevoli che l’ordinamento della colonia è talmente conchiuso in sé che il suo successore, avesse avuto mille progetti in mente, non avrebbe potuto mutarne niente, almeno per molti anni. E la nostra previsione si è avverata, il nuovo comandante ha dovuto ammetterlo. Peccato che non ha conosciuto il vecchio comandante! Ma…”, si interruppe l’ufficiale, “le mie sono chiacchiere, e il suo dispositivo sta qui davanti a noi. Come vede, si compone di tre parti. Nel corso del tempo si sono formate per ciascuna di queste parti denominazioni in un certo senso divulgative. Quella inferiore si chiama letto; la superiore è il disegnatore; e la parte oscillante qui nel mezzo si chiama erpice”. “Erpice?” domandò il viaggiatore. Non aveva prestato appieno attenzione; il sole si arenava troppo ardente nella valle senz’ombra; a fatica poteva raccogliere i suoi pensieri.

[…]

da Nota alla traduzione

Un […] termine “concordato” nella storia della traduzione italiana di Nella colonia penale è incisore (nel racconto uno degli elementi del dispositivo di tortura), con cui viene comunemente tradotta la parola Zeichner. Per tradurre questo termine ho preferito il più letterale disegnatore. Anche se incisore

è un sostantivo efficace per esprimere l’azione del dispositivo sul corpo del condannato, a me sembra che il termine disegnatore sia più appropriato rispetto alla funzione effettiva che l’elemento svolge all’interno della macchina. Il disegnatore, infatti, non serve a incidere direttamente (a questo ci pensa

l’erpice con i suoi aghi), ma è la componente superiore dove viene introdotto il disegno dell’ufficiale per trasmettere la condanna alla meccanica dell’erpice. In questo senso il disegnatore ha una funzione più mediata: quella appunto di designare la condanna per il condannato (designare è infatti l’etimo latino di disegnare).

[…]

Dal saggio Nel dispositivo della Colonia Penale

 […] La macchina, attraverso i disegni del vecchio comandante, inscrive il bello della decorazione e il vero della giustizia sulla pelle del condannato, che dunque farà esperienza della legge sulla propria pelle, decifrandola con le ferite; e contestualmente incide nella coscienza dello spettatore (soprattutto nella futura memoria dei bambini) il sublime e terribile spettacolo del supplizio[1].

[…]

[1] Citazioni da M. Foucault, Lo splendore dei supplizi, in Sorvegliare e punire (Einaudi, Torino 1993).

«Il supplizio è una tecnica e non deve essere assimilato all’estremismo di una rabbia senza legge» (Ivi, pp. 36-37).

«Inoltre, il supplizio fa parte di un rituale. È un elemento della liturgia punitiva, e risponde a due esigenze. Deve, in rapporto alla vittima, essere marchiante: è destinato, sia per la cicatrice che lascia sul corpo, sia per la risonanza da cui è accompagnato, a rendere infame la vittima; il supplizio, anche se ha la funzione di “purgare” il delitto, non riconcilia; traccia intorno, o, meglio, sul corpo stesso del condannato dei segni che non devono cancellarsi (Ivi, p. 37) .

«Come diceva Vico, questa vecchia giurisprudenza “fu tutta una poetica”» (Ivi, p. 49).

 

 

Per gentile concessione dell’editrice Zona Contemporanea

Per maggiori info: www.zonacontemporanea.it/nellacoloniapenale.htm

Notizie dalla Descrizione del mondo ° 8/9/2015

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Descrizione del mondo presenta nuovi contributi in mostra (materiali audio e video dell’installazione collettiva di Torino). In copertina una foto di Andrea Inglese (Châteaudun, Francia, 2015), due contributi al sito, un inedito di Vincenzo Frungillo sull’isola greca di Spinalonga e 36 candele, un testo integrale della scrittrice e fotografa francese Suzanne Doppelt, di cui pubblichiamo su NI un estratto. (Ma anche, in repertori, una riflessione di Mariangela Guatteri sul progetto Descrizione del mondo & un brano di letteratura infravanguardistica di Ugo Cornia) ⇐

A proposito di un popolo di poeti

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Biagio Cepollaro e Luca Vaglio

La conversazione che segue tra Luca Vaglio e me ha trovato spunto iniziale dall’articolo-inchiesta da lui pubblicato il 29 maggio 2015 dal titolo Un popolo di poeti, ma chi li legge oggi? su Gli Stati Generali  Rileggendo l’articolo ho fatto alcune riflessioni che gli ho poi inviato via mail. E così è nata questa conversazione sul tema dell’ ipotetica diminuzione della “percezione” della poesia da parte del pubblico “colto”.

Biagio Cepollaro:

Continuo a non essere sicuro della validità dell’ipotesi iniziale e cioè che oggi la poesia sia meno ‘percepita’ dalle persone di buona cultura rispetto a ciò che sarebbe avvenuto negli anni ‘50… Questa ipotesi dovrebbe essere suffragata da un’indagine adeguata. Però nonostante i miei dubbi, devo riconoscere che l’inchiesta ha sollecitato una serie di riflessioni interessanti. A me pare che le risposte si siano disposte sostanzialmente su due versanti: uno “sociologico” confermante questo declino: le vendite o le mancate vendite, l’istruzione, i mass media, i social network, il mandato sociale e la superiorità della canzone o del ruolo ‘pubblicistico’ del narratore; l’altro più fiducioso e minoritario, tradizionalmente idealistico o avanguardista: la fiducia nella poesia e nei suoi tempi lunghi, la valutazione della vivacità innovativa della lingua poetica.

Credo sia necessario partire dalla considerazione che non esista un solo modo di concepire una “buona cultura”: in questi ultimi tre decenni si è trasformata proprio la forma della cultura, fino a diventare quasi irriconoscibile per le ‘generazioni’ di cultura precedenti. Negli anni ’90, anche sulle pagine della rivista Baldus, riflettevo su questo sulla scorta di riferimenti alle suggestioni provenienti da Wittgenstein e, per altri motivi da McLuhan e Walter Ong, da Lyotard e Paul Virilio. Quelle riflessioni andrebbero aggiornate con il nuovo campo di discorso istituito dalla rete.

Le forme della cultura non sono solo vesti retoriche, sono anche una sorta di a priori che sembrano determinare i modi concreti in cui i contenuti possano apparire ed essere trasmessi, anzi, condivisi. E non si può forse prescindere da questo. Né si può più dire che la ‘poesia non la legge nessuno’ perché vi è un consumo in rete notevole che non corrisponde certamente al mercato librario che resta quasi inesistente, se sono corretti i numeri citati dall’articolo. Mi viene il sospetto insomma che il problema non sia tanto della marginalità del genere poetico (ma è mai stato davvero un problema? Forse no …) quanto piuttosto del passaggio ad altra forma della cultura che non prevede la centralità della parola e la forma della soggettività che a quella centralità si riferiva (penso a Robert  Musil  che scriveva La conoscenza del poeta nel 1918, affidando al poeta ciò che dell’esperienza è singolare, la singolarità, l’eccezione …). Il digitale ha intaccato sia la solitudine della parola che riflette, mescolandola profondamente all’immagine e al suono, sia l’esperienza del singolare che è diventata una specie di ‘personalizzazione’, nel senso che questo termine ha assunto nelle “opzioni” che ogni programma prevede … Il singolare, l’eccezione,  di fatto sono previsti dal programma … Ho sentito anche il neologismo “customizzare”… Le forme della soggettività (o della soggettivazione, meglio) dipendono dalla piattaforma, come una volta dal campo di discorso che istituiva le parti e i ruoli. Quindi credo che sia molto mutata sia la forma della cultura che la sua trasmissione e condivisione e che la poesia come genere letterario scritto abbia subito un’ulteriore mutazione grazie alla rete che l’ha ricondotta in quella condizione che Walter Ong definiva di ‘oralità secondaria’, dopo le forme imposte e introiettate del libro stampato.

Luca Vaglio:

L’intenzione, come precisato nell’articolo, è di riflettere, di far riflettere su di un tema, quello della marginalizzazione del genere della poesia, di cui la critica già negli anni scorsi si è occupata. Non va trascurato il calo delle vendite denunciato da un editore storico come Crocetti e che una condizione analoga, pur in assenza di dichiarazioni, riguardi i pochi altri grandi editori che ancora pubblicano poesia. E c’è anche che rispetto al recente passato risulta nel complesso meno forte la presenza dei poeti all’interno dell’industria culturale. Non esistono, o non sono facilmente reperibili statistiche di sistema sul numero delle vendite e dei lettori di poesia. E la ricerca Nielsen secondo cui poesia, classici e saggistica insieme valgono il 3% del mercato rafforza l’idea che i numeri con cui abbiamo a che fare siano piccoli. E’ vero poi che oggi molta poesia viene letta e pubblicata su blog letterari e in altri spazi online, ma si tratta comunque di una fruizione di nicchia. Superando la logica dei numeri, che per la poesia non sono e non sono mai stati il centro del discorso, l’ipotesi di partenza è che la poesia, il ruolo e il nome dei poeti oggi siano meno percepiti dal pubblico vasto rispetto ad alcuni decenni fa. E il fenomeno è più notevole se avviene anche tra persone con un livello di formazione elevato e che mostrano interesse verso altri generi letterari e artistici. Forse il tema meriterebbe un’indagine statistica, che comunque non risolverebbe ambiguità e dubbi. Ma non mancano indizi che lasciano pensare che da qualche decennio i poeti italiani siano meno conosciuti o percepiti dal grande pubblico. Può essere un arbitrio usare per una ricerca di questo genere lo strumento dell’inchiesta giornalistica, di sicuro adatto a casi, come quelli della cronaca o dell’economia, più facili da circoscrivere nel tempo. Però si tratta di un arbitrio cosciente, di un rischio calcolato, poichè l’inchiesta, potendo ospitare in poco spazio diverse opinioni, si presta bene a sollevare problemi, introdurre discussioni e avviare riflessioni. Se questo avviene, posti alcuni dati di fatto e un lavoro attento, di norma vuol dire che la domanda è corretta, che il tema c’è, al di là di possibili investigazioni successive.

Provando ad affiancare altre considerazioni a quelle presenti nell’articolo, qui sopra e in altri luoghi, e senza pretendere di esaurire il problema, credo che giovi ragionare sul ruolo della canzone leggera. Proprio su questo, a mio avviso, come evidenzia Guido Mazzoni nel suo saggio “Sulla poesia moderna”, si gioca molto dello spostamento di percezione del grande pubblico e della conseguente marginalizzazione del genere della poesia. L’argomento merita di sicuro più spazio, però non è un fatto di poco conto che proprio a partire dal dopoguerra e per il periodo successivo si affermi sempre di più, e con gradi diversi di ambizione artistica, la canzone leggera. E’ possibile che la canzone, sebbene per struttura sia tutt’altra cosa rispetto alla poesia, essendo più immediata da recepire e a sua volta con il testo in versi, nella percezione e nella fruizione di molti abbia, almeno in parte, sostituito la scrittura poetica. O, forse meglio, può essere che la canzone abbia in qualche misura eclissato la poesia, anche soltanto nell’immaginario collettivo di una porzione del pubblico potenziale. E la facilità di diffondere le canzoni attraverso la radio e la televisione può aver rafforzato il fenomeno. Questo processo probabilmente ha favorito un grado di confusione tra la poesia e la canzone. Spie, cartine di tornasole di questa confusione sono stati diversi interventi apparsi sui media. Tra questi il dibattito, presente sui giornali a più riprese nel corso degli anni ’90, che aveva portato alcuni critici musicali a domandarsi se le canzoni dei cantautori potessero essere considerate poesia. Tema sul quale il poeta Mario Luzi interviene nell’aprile del 2000, rimarcando la differenza tra il testo di una canzone e quello di una poesia: “Uno è intuitivo, l’altro di riporto. Ci sono canzoni molto belle, ma non ci sono collusioni fra loro e la poesia. Quando ho detto queste cose, ho ricevuto dai cantanti parecchi insulti mascherati, soltanto Francesco De Gregori ha capito”.

E’ giusto poi, come si fa qui sopra, calare l’indagine sulla percezione e sul ruolo della poesia nel contesto dei media digitali e delle mutazioni che questi stanno portando negli ambiti della comunicazione e delle forme artistiche. Senza scomodare McLuhan, basta osservare quanto l’email e le chat hanno trasformato il linguaggio della corrispondenza e delle conversazioni per poter ipotizzare che l’influenza di internet tocchi, con modi ancora difficili da definire, anche i generi letterari. Ed è prezioso quanto afferma Walter Ong sull’oralità secondaria, ovvero sulla possibilità di rapportarsi al tempo stesso con lo scritto e con la voce grazie ai media digitali. Trovo che meritino attenzione anche le riflessioni di Lev Manovich, secondo cui l’era contemporanea è quella del computer inteso come strumento metamediale che crea ex novo tutti i media o li converte dalle forme analogiche originarie attraverso una formula numerica, un algoritmo matematico. Il passaggio al digitale, che pure ha già liberato nuovi spazi per la letteratura, come accadde in seguito all’introduzione dei caratteri mobili, viene a modificare l’accesso ai contenuti e la loro fruizione. Se da un lato è sempre più facile riprodurre i contenuti per un numero indeterminato, potenzialmente infinito di volte, dall’altro si trasforma la relazione, anche sensoriale, con il testo e forse con il suo significato. Inoltre, credo sia importante osservare, come suggerisce Mazzoni, l’oscillazione nel corso dei secoli del linguaggio letterario, la sua maggiore o minore capacità di intercettare e rappresentare forme di pensiero collettive e il suo virare recente verso ricerche più singolari e soggettive.

Sax in the city

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Ho chiesto a Franco Bergoglio, polemista e attento studioso del jazz, di presentare il suo ultimo libro Sassofoni e pistole. Quello che leggerete è uno spin-off su uno dei mille mondi che non hanno trovato dimora nel lavoro. (effeffe)

Il Crime jazz al cinema
di
Franco Bergoglio

L’immaginario noir del jazz è sterminato: concentrandomi su quello “letterario” dei romanzi e dei racconti brevi, ho lasciato volutamente fuori il fumetto e il cinema. Verso il cinema il mio pudore è doppio: se per analizzare i romanzi ho impiegato otto anni, il cinema mi avrebbe portato via almeno il doppio. E poi David Butler ha scritto un bel libro sul tema, Jazz Noir (Praeger, 2002); invece del rapporto tra romanzi noir e jazz non se ne era occupato ancora nessuno in termini tanto ampi. Un vero cold case da detective melomane! Senza concorrenza, e senza tema di farsi sbranare da cinefili super-competenti ma sanguinari. Ovviamente l’immaginario “giallo-nero” legato al jazz finisce per rendere labili i confini tra pagina scritta e celluloide. Ieri flirtavano con il cinema Hammett e Chandler, oggi lo fanno Ellroy o Patterson. Molti lettori precoci del libro mi chiedono continuamente di parlare di cinema, di indicare pellicole, di stilare classifiche…nonostante io continui a ribadire che NON sono in grado di affrontare anche quest’indagine. Allora da detective passo al ruolo di testimone e semino alcuni indizi. Dice James Ellroy: il romanzo noir è come il jazz: gli americani lo fanno meglio. Elenco quindi quattro scene memorabili tratte da altrettante pellicole. Tutti film rigorosamente americani –Ellroy oblige- e non tutti capolavori (quello di Altman, forse sì). Il jazz vi gioca un grande ruolo. Entra nella trama, detta le atmosfere e solo uno, Il lungo addio, è emanazione diretta di un romanzo-capolavoro. Non ho saputo resistere. Après moi le déluge diceva qualcuno più importante del sottoscritto; spero solo, lasciando campo libero a curiosi ed esperti, di non trovarmi sommerso da tuoni, fulmini e chicchi di grandine.

Collateral (2004), diretto da Michael Mann.
La scena nel Jazz Club è un tributo a Miles Davis: l’improvvisazione del trombettista arriva da Spanish Key, tratta dall’album Bitches Brew e il divino principe della tromba viene evocato più volte nel teso dialogo che occupa la sequenza. Un Tom Cruise assai cool veste i panni di un killer/esperto di jazz quasi tarantiniano (Critici: non picchiatemi!).

American Hustle – L’apparenza inganna (2013), diretto da David O. Russell.

Tutta la colonna sonora di questo disco è una miniera di preziosi, ma a noi interessa la scena dell’incontro tra i due protagonisti interpretati da Amy Adams e Christian Bale, un gioiello che rasenta l’assoluto cinematografico: i movimenti di macchina seguono fedeli i pensieri dei due e le musiche (e pensieri, gesti e musiche si trovano sullo stesso piano!). Il party anni Settanta ha il suono dei Chicago con Does Anybody Really Know What Time It Is. Seguono due minuti indimenticabili con Jeep’s blues di Duke Ellington. La versione è quella del Live at Newport 1956, come mostra bene la copertina del disco inquadrata dalla camera. La canzone entra prepotente e scava “da dentro” la trama.

Johnny Staccato-The Naked Truth (1959), diretto da Joseph Pevney

I telefilm hanno fornito tanto materiale al cliché jazz-noir. Qui gli esperti di televisione mi tireranno le pietre, ma tra tanto materiale scelgo il primo episodio della serie: didascalico nel presentare l’ambiente e I personaggi. Il detective suona il piano, il suo ufficio è un jazz club. La presenza di John Cassavetes nei panni del protagonista sigilla il quadro, mentre sul palco stanno come figuranti Pete Candoli, Barney Kessel, Shelly Manne, Red Mitchell, Red Norvo…

https://www.youtube.com/watch?v=2Yl_CfXCpzA

The Long Goodbye/Il lungo addio (1973), diretto da Robert Altman

La colonna sonora del film consiste in due sole canzoni, la prima Urrà per Hollywood e un’altra intitolata The Long Goodbye. Ogni volta che si sente, c’è una variazione nell’arrangiamento del tema composto da John Williams. La vita di questo Marlowe è intrisa di una solitudine che si rinnova, come un refrain. La canzone torna, sempre lei, ma sempre diversa. La vita è sempre maledettamente uguale, ma sempre diversa. Elliott Gould incarna questo Marlowe esistenzialista indossandone alla perfezione le note musicali.