Il grado Zen della scrittura
di
Seia Montanelli
“Bambini nel tempo” (Marcos y Marcos, trad. di C. Tarolo, p. 224, € 15), l’ultima opera dello scrittore e giornalista spagnolo Ricardo Menéndez Salmón – autore della la fortunata “trilogia sul male” – riesce a condensare in poco più di duecento pagine la parabola inversa che dal mistero oscuro e annichilente della morte arriva a quello limpido e consolatorio di una vita che nasce.
Diviso in tre parti – ciascuna autoconclusiva, in realtà collegate secondo uno schema che si intuisce via via che si legge, ma che si svelerà solo alla fine – il romanzo racconta nel suo primo atto, “La ferita”, del dolore più atroce che si possa concepire, quello per la perdita di un figlio. Una ferita aperta dalla quale scivolano via le parole, i sentimenti, la vita stessa dei genitori che restano come colpevoli sopravvissuti, e al tempo stesso orfani sperduti in un mondo che non possono riconoscere perché quella morte ha causato una frattura nella loro realtà.
È impossibile rendere quel dolore, farlo sentire: anche solo descriverlo è complicato; le parole, dicevamo, mancano. E sta qui la svolta del libro di Menéndez Salmón: il padre, Antares, è uno scrittore che a un certo punto non ne può più del rumoroso silenzio della sua esistenza devastata e cerca di reagire: di recuperare anche il rapporto con Elena, sua moglie da quindici anni, che invece si è abbandonata a quel dolore e ad esso si aggrappa con la forza che le resta perché è il solo superstite legame con il suo bambino stroncato da una malattia improvvisa. Elena nutre il suo dolore perché riempie il vuoto della sua anima; Antares usa invece la sua sofferenza per non morirne, come può, tramite la scrittura e questo li divide per sempre. «Un giorno scriverai di noi, di questo momento» – gli dice lei prima della fine, e ancora – «Darai parole a tutta questa rovina […] e sentirai di aver sistemato le cose con me, con te, con il nostro bambino. E io ti odierò per questo».
Dalla necessità di dare voce al silenzio che paralizza Antares nasce dunque la seconda parte della storia, o meglio la seconda storia nella storia, “La cicatrice”, in cui viene raccontata l’infanzia di Gesù: dopo un bimbo a cui è stata tragicamente negata la fanciullezza, troviamo un bimbo a cui ne viene regalata una, inedita, mai raccontata. È la forza creatrice della parola, della letteratura, che può forzare la realtà, piegare le storie, riscriverle o dar loro un precedente. Non si tratta di consolazione, “Bambini nel tempo” non è un testo sulla scrittura come auto-terapia: Antares sente che in lui è entrato il caos, che «i barbari incalzavano, accerchiavano il tesoro (la vita vissuta, ndr) con la loro stupidità, con la loro brutalità, con la loro bruttezza, e lui non aveva che le parole per contrastarli».
La letteratura – non la scrittura tout court, ma l’atto creativo e poetico di dare un nuovo nome, e un ordine, alla realtà e a tutto ciò che contiene – è il modo che lui, padre di un bimbo senza infanzia, ha per ribellarsi all’annientamento: gli restano solo «lo splendore e la miseria delle parole, per esorcizzare la sventura di ciò che è stato, ma ora non è più».
Il terzo atto del libro, “La pelle”, chiude il cerchio con un piccolo colpo di scena che dà un’occasione alla speranza: sullo sfondo di un’isola incantevole a forma di pesce, la morte e la vita si susseguono, dando un po’ di pace a chi porta su di sé le cicatrici ancora umide di un’antica sofferenza.
Contravvenendo alla regola enunciata molto saggiamente tantissimi anni fa da Mr Goldwin (il magnate del cinema americano), che liquidò l’ennesima sceneggiatura proposta da una troppo caustica Dorothy Parker, dicendole che «la gente ama il lieto fine», la terza parte del romanzo, più pacata e consolatoria, pervasa da una attesa di rinascita, è la meno riuscita, forse perché meno ricca di pathos. Per quanto non venga mai meno la potenza espressiva di Menéndez Salmón, il suo stile rigoroso ma nello stesso tempo lirico, è nella inutile ricerca di pace raccontata ne “La Ferita” e nella riflessione sulla letteratura e sulla forza della parola che sottende al secondo atto, che l’autore dà il suo meglio. In particolare ne “La Cicatrice”, è interessante il modo in cui Antares interviene in ciò che sta scrivendo, dialogando in una dimensione quasi onirica con il Gesù-personaggio, interrogandosi sulla utilità del proprio agire e sulla incapacità della letteratura di “dire” il mondo, riconoscendo il paradosso insito in ogni impresa letteraria: «accettiamo che il mondo non si possa dire, che non ci sia nessuna vita nei personaggi di un libro, ma che, allo stesso tempo, questo sia l’unico modo di dar fede a ciò che esiste».
Ma anche senza soffermarsi sugli aspetti meta-letterari che mandano in solluchero semiologi e narratologi, “Bambini nel tempo” – che non a caso prende il titolo da “A child in time” di Ian McEwan, in cui si racconta la storia di un padre che perde sua figlia in supermercato e non la ritrova più – è un romanzo che ricorderete e che vi straccerà un pezzetto d’anima pagina dopo pagina, per la sofferenza dietro ciascuna frase e per la poetica visione dell’infanzia che propone: i bambini sono figli di tutti, e dovrebbero conoscere solo innocenza, cura, amore, gioia.














La storia di Alice, tutta la sua fantasmagoria irriverente e perturbante, la associo nella mente a un oggetto preciso. Un libro, e uno soltanto. L’ho recuperato, e con quello i ricordi d’infanzia che ad esso si fondono nella memoria, nella biblioteca della mia casa in campagna nelle Marche. Una casa dove non vivo – risiedo all’estero ormai da molti anni, in quello spazio contemplativo e spesso nostalgico che consente, o impone, la distanza – ma dove ho raccolto su scaffali di legno lucido e pesante tutti i libri che nei miei molti viaggi, traslochi e spostamenti non ho potuto portare con me. E sono tanti. Li ritrovo ad ogni ritorno, mi aspettano nel loro ordine non cronologico, non alfabetico, e neanche troppo tematico, aggiustati sui ripiani a seconda delle dimensioni e dell’altezza dei loro dorsi. Mi piace che la loro disposizione sia gradevole anche all’occhio – o sempre avuto un po’ la fissa delle simmetrie, dell’armonia delle forme. Mi riprometto spesso di cambiare quest’ordine molto poco filologico, di mettere in sequenza tutti quei libri per autore, o più diligentemente per argomento, il che, mi dico, verrebbe tutto a mio beneficio, la ricerca di questo o quel volume sarebbe senz’altro più agevole. Ma poi mi dico anche che i dorsi dei miei libri li conosco tutti, e che comunque mi ci vuole un attimo per riconoscere quello che mi serve, a colpo d’occhio, e a colpo sicuro. Allora a che pro cimentarsi in un riordino lunghissimo e noioso, visto anche il poco tempo che trascorro in quella casa, solo per le parentesi brevi delle vacanze. Quindi è rimasto tutto com’è, anche stavolta.
Non so bene se mia sorella conoscesse già la storia di Alice nel paese delle meraviglie, probabilmente mio zio doveva avergliene parlato in precedenza, e il libro in regalo era il coronamento ideale dei suoi racconti. Ma ricordo la felicità e il sorriso aperto sul viso di Elena per quel regalo così piccolo eppure così carico di promesse e di avventure da sfogliare ad ogni pagina. E ricordo la mia curiosità di minuta analfabeta e nuova al mondo per quel piccolo oggetto rettangolare e misterioso. Era l’ultimo Natale di quei difficili anni Settanta – funestati dal terrorismo, dalla crisi energetica ed economica, e la nostra Ancona anche da un terribile terremoto venuto dal mare di cui ancora, nonostante una rapida ricostruzione, la città e i suoi abitanti portano con sé la memoria e le ferite – che ci avevano visto nascere, e ci stavano lasciando crescere. Un paperback poteva ben bastare, al tempo, per renderci felici. E non avremmo osato, comunque, chiedere niente di più.
sse mai uno spasso per lei, una ricreazione, piuttosto una prova assurda da superare per approdare all’avventura successiva, come in una specie di raccontato videogame ante litteram (e anche i protagonisti dei vecchi giochi elettronici con cui mi intrattenevo da bambina, a ripensarci adesso, non ridevano mai).
N.I. La casa, intesa sia come spazio fisico che come luogo immaginario, declinata come nido in cui rifugiarsi o come carcere castrante e opprimente, come ricettacolo di affetti e ricordi familiari o come luogo congeniale allo sprigionarsi di forze psichiche irrazionali e violente, è un ambiente che ha spesso ispirato gli scrittori, in ogni epoca e a qualsiasi latitudine. Molti di questi scrittori sono tra l’altro a te particolarmente cari, penso a nomi quali Landolfi, Borges, Gombrowicz, Poe, Kafka, Canetti e tanti altri. D’altra parte tu stesso hai posto la casa al centro di molti tuoi romanzi e racconti. In tal senso
N.I. Un altro autore che ami, Gesualdo Bufalino, giunse all’opera di traduzione da autodidatta per poi regalarci non solo splendide traduzioni ma anche interessanti riflessioni sull’arte del tradurre, quale ad esempio questa: «Il traduttore è come uno scassinatore di casseforti. Guai se gli tremano le mani […] Freddezza e passione, dunque, ci vogliono entrambe. Il traduttore deve essere insieme un mistico e un ingegnere. Quindi tradurre è più di un esercizio: è un gesto di ascesi e di amore». Quali sono gli aspetti che per te contano di più nella traduzione di un testo? Saresti disposto a sacrificare la fedeltà a favore di una maggiore letterarietà, insomma, per dirla con il Monti, «una bella infedele fa sempre miglior fortuna di una brutta fedele»?

Sempre a proposito del forte legame che lega Mari ai propri oggetti non ci si può esimere dal chiamare in causa (è egli stesso a farlo nella Prefazione) il trattatello intitolato Fantasmagonia, racconto eponimo della raccolta uscita nel 2012. Fantasmagonia, articolato in un introibo e diciannove paragrafi, costituisce un esauriente enchiridio sulla fantasmasi e presenta tratti fortemente autobiografici. In esso almeno due paragrafi, il dodicesimo e il diciassettesimo, si soffermano sul rapporto che l’apprendista fantasma intrattiene con gli oggetti. Egli ama soffermarsi «con speciale affetto» su alcuni oggetti della casa «provando in anticipo il lutto della loro perdita» e «proprio le cose cui più il proprietario pensava con prolettico rimpianto sono quelle che più, dopo la morte, lo imprigioneranno».



Il corpo a corpo tra realtà e finzione è qualcosa che ci riguarda tutti, ossia tutti gli uomini, anche se naturalmente riguarda ancora di più gli scrittori, più in generale gli uomini d’arte ma forse soprattutto gli scrittori. Il nuovo libro di Javier Cercas ha un titolo esplicito e sfrontato che in qualche modo definisce la natura di questo corpo a corpo, o meglio la natura di colui che se ne fa palcoscenico, o ring, uomo o scrittore cambia poco: L’impostore (traduzione di Bruno Arpaia, Guanda) è un altro ponderoso tassello della ponderosa produzione letteraria di Cercas, e un libro in cui il narratore spagnolo si avvicina vertiginosamente alla ratio stessa della letteratura, alla sua ragion d’essere e al suo modo di essere e di essere pensata e agita.


