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Preferisco l’arancio amaro

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di Giorgiomaria Cornelio

 

Mio padrone,

 

vi scrivo per dirvi che sono di un’altra obbedienza.  

Non mi riconosco in questo sistema stellare,

che inclina e straborda fin dentro la fabbrica.

Non voglio raggiri o motivazioni.

Se mai vi giungesse questa mia lettera,

sappiate che non mi avete meritato.

Che tutto quello che ho fatto, non era per voi.

Alle consolazioni, preferisco l’arancio amaro.

 

Oh mio tiranno, non c’è disfatta che basti

a darvi ragione. Non voglio servire

la cronaca di questo secolo,

ma cancellare il mio nome dal vostro.

 

Il movente del potere è un motore immobile.

Voi lo sapete, e lo avete dimenticato.

 

Me ne vado scricchiolando, come un intoppo.

Ma sui miei piedi, che ancora sanno battere

una bella ritirata.

 

P.S.

 

E per farvi un ultimo torto,

oh caro padrone,

mio oppressore,

 

io ti amo.

 

***

Un inedito di Giorgiomaria Cornelio.

Partitura visiva di Giuditta Chiaraluce.

 

La narrazione: crisi o big bang

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di Giacomo Agnoletti

Ma ora stiamo vivendo un big bang della narrazione: un’espansione incredibilmente rapida dell’universo delle storie in ogni direzione. Viviamo nell’era dei social media, della saturazione delle serie televisive, dei canali di notizie ventiquattr’ore su ventiquattro e di un consumo complessivo dei media a livelli stellari.

Jonathan Gottschall, Il lato oscuro delle storie

Nonostante l’hype riscosso oggigiorno dai modelli narrativi, viviamo un’epoca post-narrativa.

Byung-Chul Han, La crisi della narrazione

Negli ultimi anni sono comparsi una miriade di libri sulla narrazione, tanto che non è facile dar conto di tutte le uscite: fra gli autori più importanti, ricorderei Will Storr, Christian Salmon, Jonathan Gottschall e, più recentemente, Byung-Chul Han e David Colon.

Ciò che stupisce è che non si tratta lavori accademici, ma di saggi divulgativi rivolti alla generalità del pubblico: sembra infatti che lo storytelling, come lo chiamano gli anglofoni, stia godendo di un momento di fortuna a livello planetario. Anche la fiction cinematografica si è accorta dell’importanza della narrazione: basta ricordare il docufilm di Netflix The Social Dilemma (2020) o il film Don’t Look Up (2021). Perché quest’attenzione per un argomento prima riservato ai filosofi e agli studiosi di semiotica? La motivazione, a mio avviso, non sta soltanto nel successo dello storytelling come tecnica di marketing.

Cercherò allora di chiarire la ragione della necessità, sentita da un’audience globale, di esplorare le potenzialità della narrazione, e lo farò attraverso gli ultimi saggi di Gottschall e di Han. L’argomento è per entrambi lo stesso – narrazione e società contemporanea – e, fatto non irrilevante, entrambi hanno avuto un ottimo riscontro di pubblico. Ma se Gottschall dipinge un mondo dove “le persone consumano molte più storie, come mai prima d’ora”, Han ha invece intitolato il suo saggio La crisi della narrazione.

Insomma, viene da chiedersi, nella nostra società la pratica narrativa è in crescita oppure no? Dipende da quale significato si attribuisce alla parola “narrazione”. Se  ne parliamo in termini neuroscientifici ed evolutivi, è facile concordare che la narrazione è un elemento profondamente umano e dai connotati addirittura biologici. Le divergenze emergono quando accantoniamo le storie che gli uomini primitivi si raccontavano intorno al fuoco per concentrarci sull’attuale proliferare di micro-narrazioni, magari attraverso Telegram, Instagram & affini.

1.

L’analisi di Gottschall è ben articolata, soprattutto quando parla della psicologia sado-masochista dei fruitori di storie: noi lettori, o spettatori, ci comportiamo come masochisti quando tendiamo a identificarci coi buoni, quelli che soffrono o che subiscono un torto; ma dopo tale identificazione emerge, solitamente nella conclusione della storia, una tendenza sadica quando godiamo per la punizione inflitta all’antagonista. Qui risiede il “lato oscuro” della narrazione: dopo il contatto empatico col personaggio “buono”, si rafforza nella psiche dei fruitori una “sorta di cecità morale verso l’umanità di chi viene spinto nel ruolo del cattivo”.

Gottschall è convincente e obiettivo quando chiarisce ai lettori le grandi potenzialità – e dunque anche i pericoli – della narrazione; lo è però molto di meno via via che il saggio si avvia verso la conclusione. L’autore statunitense, proponendo di avvalersi di un “metodo scientifico”, pretenderebbe di discriminare fra narrazioni “corrette” e narrazioni “complottiste”. Non occorre essere conoscitori delle diatribe teoriche sul disaccordo nelle scienze dure – e dunque scettici riguardo alla possibilità di uno sguardo neutro sulla realtà – per essere sfiorati dal sospetto che l’autore voglia screditare alcuni politici americani, che acquisirebbero proseliti con la diffusione di tali “cattive storie” su internet; e il sospetto diviene certezza quando Gottschall esplicita i riferimenti a Donald Trump, definito “Grosso Trombone”.

La tesi espressa nel Lato oscuro delle storie, dietro un pacato invito alla selezione dei contenuti, apre garbatamente a una possibile forma di sorveglianza sulla comunicazione, risultando quindi piuttosto radicale. Tuttavia la posizione dell’autore è forse più comprensibile se si tiene conto delle profonde divisioni interne alla società americana (recentemente portate sullo schermo da Civil War di Alex Garland).

Possiamo allora tentare di rispondere alla domanda posta in apertura: perché la narrazione, da questione accademica, è divenuta un tema “caldo” ben presente sugli scaffali delle librerie e trattato diffusamente su ogni tipo di media?

La risposta si trova soprattutto nei testi di autori come David Colon e Jonathan Gottschall, che si rivolgono a un pubblico di orientamento progressista in politica, liberista in economia e generalmente sospettoso riguardo a ogni tipo di contestazione nei riguardi del sistema democratico occidentale, ritenuto perfettibile ma superiore  a ogni altra forma di “autocrazia”. Il lettore-tipo di questi saggi è preoccupato dalla facilità con cui internet permette alle “cattive storie” (definite fake-news, o complotti) di circolare, e soprattutto dalla possibilità che questo big bang narrativo possa diventare la principale forma di comunicazione politica. “[N]on credo sia una coincidenza”, scrive Gottschall, “che l’ascesa dei social media corrisponda perfettamente a un big bang della polarizzazione e dell’instabilità sociale, non solo in America ma in gran parte del mondo”. L’analisi di Gottschall è dunque efficace nello spiegare a un lettore – che presumibilmente condivide già in partenza l’orientamento politico dell’autore – quali siano le potenzialità e soprattutto i rischi connessi all’aumento della circolazione delle “storie”, cioè delle possibili visioni del mondo, attraverso i social media; e per questo ha successo, trova un pubblico ampio.

Ma, implicazioni ideologiche a parte, il vero limite del saggio è forse l’incapacità di guardare ai fatti sociali come movimenti che si originano dal basso. Già dall’introduzione, in cui le storie vengono definite “il mezzo migliore che noi umani abbiamo inventato per influenzarci a vicenda, per dominarci l’un l’altro (…)”, si palesa una rappresentazione passiva dell’audience, il cui comportamento è considerato facilmente condizionabile da ogni genere di narrazione. Perché, invece, non ribaltare la visione e considerare il proliferare di siti complottisti su internet non come la causa, ma come l’effetto dello scontento e della delusione di una larga fetta del pubblico? Perché non considerare con il dovuto rispetto le scelte dei consumatori, che a milioni si rivolgono alle teorie cospirative più varie, anziché svalutare tali preferenze, attribuendole a un uso “malevolo” della narrazione?

Sembra insomma che sia davvero difficile smettere, come scriveva Micheal De Certeau negli anni Ottanta, di “considerare la gente idiota”. Eppure, solo attribuendo dignità alle scelte dell’uomo comune, che “in ogni epoca previene i testi” (ancora con De Certeau), sarà possibile leggere un fatto sociale. Anche nel caso del saggio di Gottschall, mi sembra più significativo collegare il successo della sua opera alle preoccupazioni per la libertà di espressione permessa da internet – e non certo al lavaggio del cervello operato da chissà quale dei media di sistema.

2.

Han si rivolge invece a un pubblico ben diverso, decisamente critico nei confronti del capitalismo neoliberista anche se per molti aspetti convinto della sua inevitabilità e, forse per questo, piuttosto scettico riguardo a ogni possibile forma di resistenza. Han non nega che i modelli narrativi siano oggi dilaganti: ne è un esempio la pubblicità, che ha ormai definitivamente abbandonato le vecchie strategie realiste (illustrare, dimostrare) per sposare una ben più profittevole strategia culturale-emotiva basata sul “raccontare una storia sul prodotto”. Questo lo storytelling che dilaga ovunque. Ma tale forma di narrazione, in quanto emanazione del sistema economico, riduce tutto al consumo. Lo storytelling non apre verso una realtà altra, non spaesa, non contraddice, non spaventa. Al massimo, incuriosisce: invoglia a provare un’altra esperienza, un altro gadget, un’altra vacanza. Han dipinge l’uomo di oggi come prigioniero in un mondo disincantato: e il dis-incanto non è prodotto solo dal crollo delle ideologie forti, ma dalla logica onnipresente e soffocante della modernità borghese, scientifica, razionale. La realtà viene compresa attraverso relazioni causali che spiegano il mondo, ma lo privano per sempre del suo incanto: “le cose esistono, ma tacciono. L’incanto è fuggito via dalle cose”.

Nel mondo disincantato è possibile l’informazione, ma non la narrazione. Assistiamo allora a una proliferazione di “narrazioni deboli” – nei notiziari televisivi, nei social network e nelle strategie di marketing; ma queste micro-narrazioni brevi, veloci, contingenti, non fanno che confermare lo stato di crisi di un fenomeno profondamente umano: l’arte di narrare. Citando Benjamin, Han spiega come la prassi narrativa richieda calma, capacità di ascoltare e di appropriarsi con lentezza dell’esperienza del narratore (gnarus, esperto): lasciandosi avvolgere, come in un “caldo panno grigio”, dalla “distensione spirituale” indotta dalla noia, invece temutissima dagli odierni professionisti dell’informazione.

Insomma, mentre la prassi narrativa autentica è entrata in una crisi irreversibile, si espandono tutta una serie di micro-narrazioni intrinsecamente anti-narrative: notiziari velocissimi che ricercano un effetto sorpresa, storytelling pubblicitario, fiction incentrate sulla sfera privata, spiegazioni del mondo semplificate a sfondo complottista. Questa la dilagante prassi anti-narrativa, basata su un accumulo di informazioni e su un’oscena (inevitabile il riferimento a Baudrillard) esposizione di tutto. Fino a raggiungere, con le storie di Instagram o di TikTok, “il grado zero della prassi narrativa”. Informazione e poi ancora informazione, secondo un processo di addizione e non di selezione. Ma l’accumulo, l’archiviazione e l’esposizione sono disumani: solo il computer espone e ricorda tutto. Il ricordo umano invece è parziale, selettivo, lacunoso, incerto. A volte sfocato e persino mendace. L’eccesso di informazioni, ammonisce allora Han, ci sta allontanando dalla nostra umanità: ci ha già disumanizzati se, come affermano i neuroscienziati, l’essere umano è un animal narrans, e proprio la prassi narrativa è alla base della nostra struttura biologica.

Al di là della prosa scarna ma suggestiva di Han, che colpisce inesorabilmente il suo pubblico (nel quale confesso di riconoscermi), anche nel suo saggio si percepisce il disinteresse per l’analisi in senso attivo delle scelte dell’audience. Han non riesce a scorgere – o non è interessato a farlo – nella vita quotidiana una qualunque forma di resistenza da parte dei consumatori di storie: che è come dire un barlume di speranza. Perché, se abbiamo appurato che la prassi narrativa, che ci ha plasmati e definiti come esseri umani, è ormai entrata in crisi con la crescita inarrestabile di media che vanno verso lo sviluppo di contenuti on demand, dunque individuali, singolari e spoliticizzati, come potremo costruire l’orizzonte narrativo di un “noi” che possa andare oltre la miriade di “io” che emergono dalla micro-narrazioni dei nostri dispositivi smart? La narrazione, dopo averci costruito biologicamente come esseri umani, dopo averci accompagnato per millenni, sta ora perdendo la propria funzione sociale, comunitaria?

Han è un efficace interprete della tendenza depressiva del nostro tempo, che ha indagato in molte delle sue opere (ad es., in Capitalism and the Death Drive). Credo che alla fine il tema di fondo, presente anche in questo La crisi della narrazione, riguardi la pulsione all’auto-sfruttamento indotta dalla “società della performance”: siamo ben felici di sfruttare noi stessi, fino letteralmente a morirne, per tenere alta la bandiera di un sistema che non ha nulla da offrirci a parte un benessere illusorio. Eppure, non riusciamo a sottrarci a questo tipo di logica, che ci impone di sfruttare noi stessi, e il pianeta in cui viviamo, fino all’esaurimento. E l’allontanamento dalla lentezza tipica della prassi narrativa, alla quale si è sostituita un’asettica proliferazione informativa, è certo una triste conferma della tendenza alla disumanizzazione e, in fondo, all’auto-annientamento.

3.

Sia Gottschall che Han rappresentano bene le preoccupazioni, tipiche del nostro tempo, relative al proliferare informativo indotto dalle nuove tecnologie. La posizione, anche politica, di Gottschall è molto chiara. La sua preoccupazione riguarda il trumpismo, la svalutazione della cultura istituzionale, e sottotraccia la possibilità di una guerra civile nel cuore del mondo democratico. Ma l’autore statunitense, per condurre la sua analisi, svaluta completamente la cultura pop, che viene dal basso: se la gente è totalmente influenzabile, allora la cultura di massa, in quanto imposta, non esiste; quindi, perché perdere del tempo a studiarla? Prima erano i media conglomerate a orientare l’audience, adesso i complottisti. Questa, in estrema sintesi, l’impostazione di metodo seguita da Gottschall, come da moltissimi altri: e infatti da troppi anni si è quasi del tutto persa l’abitudine a fare critica sociologica, cioè a interpretare i fatti sociali attraverso l’analisi di un prodotto culturale di successo.

Han tende invece a evidenziare lo stato di crisi della società contemporanea. Con chiarezza disarmante, comunica al lettore che la prassi narrativa è finita: ora ci sono solo informazione e storytelling pubblicitario. Al massimo qualche sprazzo di fiction, comunque centrata sulla sfera privata, sui diritti del singolo o di un gruppo, purché non si parli dell’intera società: la coesione sociale è roba da museo,  la rivoluzione un ricordo, forse un sogno. La progettualità è ridicola, perché impossibile.

Non si può certo dargli torto. La prassi narrativa è morta, o quasi: il percorso anti-narrativo, che Benjamin faceva risalire alla nascita del romanzo, si sta compiendo coi dispositivi smart. Niente più narrazione (lentezza, noia, ascolto); solo informazione (velocità, sorpresa, piacere, in un loop infinito). Ma se non c’è più l’incanto, se  “le cose esistono, ma tacciono”, allora possiamo dare l’addio non solo alla narrativa, ma all’arte.

Da una parte una malcelata angoscia, tanto potente da sfociare in un invito alla limitazione della libertà di espressione; dall’altra una rassegnata, anche se suggestiva, constatazione del tramonto di ogni valore autenticamente umano: sia Gottschall che Han, pur con metodi e conclusioni diverse, alimentano entrambi un atteggiamento “apocalittico” riguardo alla cultura contemporanea.

Le varie teorie complottiste, che forniscono una spiegazione del mondo comprensibile e semplificata, così come i tentativi di difesa dell’establishment che si nascondono dietro il fact-checking, sono i sintomi più evidenti della nostra miseria culturale e immaginativa e lo specchio delle nostre divisioni. Ma la nostra non è una società frammentata dai complotti diffusi su internet, bensì dalla sua stessa mancanza di speranza e di progettualità. È la condizione di “naturalità” del capitalismo liberale a condannare il sistema a un’eterna immobilità, ma con la certezza di un pessimo finale – ambientale, nucleare, sociale – che alcuni sperano di accelerare in vista di un’implosione liberatoria (Nick Land).

Oltre mezzo secolo ci separa dagli anni Settanta, dal periodo in cui scrivere di critica sociologica, soprattutto in termini di critica dell’ideologia, era normale. Ma i tempi sono mutati: oggi le tendenze “apocalittiche”, o peggio, nei confronti della cultura di massa appaiono certo più ragionevoli in un Occidente dove ormai una parte ampia della popolazione sceglie di non votare. Se la popolazione è tanto sfiduciata e depressa da allontanarsi dalla politica, la critica dell’ideologia appare inutile. Per non parlare della quantità, davvero impensabile pochi decenni fa, dei prodotti culturali – e del loro parallelo scadimento qualitativo, almeno nei termini di cura stilistica. Tutto porterebbe ad attribuire all’arte, ancor più se “di massa”, la funzione di mero intrattenimento del pubblico.

Eppure, oggi si potrebbe ancora fare sociologia della cultura, rifiutando quindi l’equazione “narrazione=intrattenimento”; ma opponendosi anche a una ricerca che si concentri sull’equivalenza “narrazione=dominio”. Perché, se è chiaro fin dai tempi di Platone che chi racconta una storia governa il mondo, un tipo di critica che si concentri sugli aspetti connessi al dominio finisce solitamente per rivelarsi un tentativo di influenzare il lettore, divenendo essa stessa ideologica.

Per chiarire con un esempio, mi sembra che l’interesse per la narrazione come strumento di dominio in un autore come Gottschall serva essenzialmente a proporre una propria “visione del mondo” contrapposta a quella diffusa dalle “cattive storie”. Anche lo “smascheramento” dell’ideologia borghese, tanto in voga nella critica sociologica degli anni Settanta (penso in particolare a Ferruccio Rossi-Landi), funzionava un po’ alla stessa maniera: il riconoscimento, all’interno dei testi, del carattere ideologico del linguaggio era funzionale alla promozione di un diverso tipo di ideologia (ovviamente anti-borghese). Perché invece non cercare di comprendere la funzione sociale di un’opera d’arte, non indagare il successo di un prodotto culturale, considerando le scelte dell’audience come attive? Questo significherebbe accettare la complessità delle storie che emergono dal nostro presente, per individuare una tendenza, un senso, nel modo di usare prodotti culturali da parte della gente comune.

L’equazione allora diverrebbe: “narrazione = bisogno”.

Un bisogno da indagare senza cercare di distinguere fra verità e complotto – chi decide dove finisce il dissenso “legittimo” e dove comincia il complotto “paranoico”? – ma con la speranza di evidenziare la nostra voglia di essere ancora uomini e donne, pur nel proliferare di dati e informazioni digitali. Per scoprire, magari, che l’arte non è ancora morta.

Tutto il mostruoso di Parthenope

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di Annalisa Izzo

Carrozza marittima
Invenzione di Raimondo di Sangro, VII principe di Sansevero (1770) – Illustrazione di Daniela Pergreffi (2022)
© Archivio Museo Cappella Sansevero

Uccello dal corpo di donna, la sirena Partenope, come racconta il mito, si lasciò morire tra gli scogli delle Sirenuse, nelle acque tra Positano e Capri, per non essere riuscita a sedurre Ulisse col suo canto. La corrente marina trascinò le spoglie della vergine fino all’isolotto di Megaride, quello sul quale sorgerà, poi, il Castel dell’Ovo. Fu così che i primi abitanti di quel luogo la ritrovarono, coi capelli fluttuanti sull’acqua e gli occhi spenti; le diedero sepoltura, le innalzarono un altare, poi un piccolo tempio. Nacque in quel momento una città nuova, che della sirena prese il nome e che della sirena fece la sua protettrice: Partenope, Neapolis.

È il mostro dunque – l’uccello antropomorfo dell’epos omerico, la donna-pesce dei bestiari medievali, l’essere prodigioso, meraviglioso, straordinario, soprannaturale, seducente e terrificante al tempo stesso – la figura con cui si identifica la città.

Il decimo film di Paolo Sorrentino si apre con la nascita di una bambina, partorita nel mare di Posillipo – che dall’isolotto di Megaride dista poche bracciate, anzi lo guarda – alla quale il futuro padrino dà il nome della città stessa, Parthenope. Il ciclo del mito primigenio è compiuto, tra morte, nascita, e rinascita del mostro: Parthenope, la sirena, il mostro per antonomasia, nasce incarnazione della sua città.

Se l’aggettivo « onirico » è quello che più volentieri è stato speso per il cinema di Sorrentino, l’aggettivo « mostruoso », invece, lo è stato solo occasionalmente. Eppure, che sia grottesca, demoniaca, perversa o straziante, è la natura mostruosa dell’umano che Sorrentino mette in scena ogni volta – se per mostruoso intendiamo, appunto, tutto ciò che si scontra con una (presunta) norma, suscitando stupore o terrore. Di questa galleria del mostruoso (che corre da Il Divo, a L’amico di famiglia, da This must be the place, a La grande bellezza e a Loro…) Parthenope è la quintessenza.

Per metterci sulle tracce del suo monstrum, Sorrentino lascia stavolta fin troppi indizi. Nell’onomastica, intanto. Ancor prima di Parthenope, conosciamo suo fratello: « Raimondo! », lo chiamano all’arrivo del padrino, il Comandante, che reca in dono una carrozza fatta venire, dice lui, direttamente da Versailles. Ora, a Napoli il nome Raimondo non è un nome qualunque, perchè ancora oggi è indissolubilmente legato a una figura eccentrica e fascinosa del passato settecentesco della città: l’aristocratico, inventore, naturalista, massone, letterato, studioso di storia e di filosofia, Raimondo Principe di Sansevero. Dedito a ricerche molteplici e disordinate, il Principe, negli ultimi anni della vita, si dedicò alla ricostruzione della cappella di famiglia, adiacente piazza San Domenico Maggiore (chi volesse visitare oggi la cappella dovrà armarsi di grande pazienza, i tempi di attesa sono lunghi, tale è la fama di questo sito, nell’era dell’overtourism). Tra le tante opere d’arte commissionate dal Principe, nella cavea della cappella si ammira il Cristo velato, uno stupefacente Gesù deposto, ricoperto da un sudario scolpito nello stesso blocco di marmo e realizzato da Giuseppe Sanmartino – opera che suscitò, a quanto si dice, l’invidia di Antonio Canova – ma anche le due Macchine anatomiche, gli scheletri di un uomo e di una donna con il sistema arterovenoso pressoché integro, realizzati dal medico Giuseppe Salerno e acquistati dal Principe (ai quali, in passato, si accompagnava un feto, adagiato ai piedi dello scheletro femminile, a suggerirne la provenienza, trafugato non molti anni fa). Che sia falsa la credenza popolare (riportatata da Croce) secondo cui i corpi erano quelli di due servitori del Principe, da lui avvelanati a scopo di sperimetazione, importa davvero poco: tanto la scultura quanto i due studi anatomici, sono voluti dal Principe Raimondo proprio per suscitare estremo stupore negli osservatori. Sono mirabilia letteralmente mostruose, in cui ad essere esibito (mostrato) è lo scontro tra il dentro e il fuori dell’umano. Il mostruoso del Principe di Sansevero nasce laddove ciò che non dovrebbe essere visibile è invece ostentato, oppure laddove ciò che dovrebbe nascondere mostra.

Che il principe-mago sia eletto da Sorrentino a suo nume tutelare, è confermato più avanti nel film: durante l’appello per l’esame universitario di antropologia, infatti, scopriamo che il cognome di Parthenope è Di Sangro, proprio come il Principe, il cui nome completo è Raimondo di Sangro, VII Principe di Sansevero.

In verità, la dichiarazione di un legame fortissimo con questa figura bizzarra ma autorevole (rispettata, per esempio, dal filosofo illuminista Antonio Genovesi, che ne fu amico) è già nella prima inquadratura del film. La scena si apre sul mare, tra l’isolotto di Megaride e le acque di Posillipo, sulle quali scivola una favolosa carrozza settecentesca. Una carrozza che arriva alle spiagge del golfo dall’acqua! Ebbene, questa scena ripete, in ampia misura, la scena spettacolare che il Principe Raimondo offrì ai suoi concittadini il 17 luglio 1770. Da tempo egli aveva in progetto di attraversare il golfo a bordo di una carrozza rocaille trainata da quattro cavalli, e dopo anni di lavori e preparativi, quella mattina di luglio la magia si avverò. Un articolo sulla Gazzetta di Napoli riportò l’evento descrivendo il pubblico affollatosi sul lungomare per ammirare il fatto straordinario. La carrozza solcò davvero le onde, sostenuta da una zattera, appena visibile sotto il pelo dell’acqua e sulla quale erano installate sagome di cavalli in legno, mossa da un sistema invisibile di ruote a pale. La distanza dalla spiaggia rendeva la macchina credibile e dava alla scena qualcosa di miracoloso, di mostruoso – e certo, di cinematografico avant la lettre.

Il mostro, dunque, e il mostruoso come cifra del cinema di Sorrentino. Perchè il mostruoso rivela l’invisibile, la verità dietro la menzogna, l’indicibile. Andiamo incontro a questi mostri, allora, perchè è così, credo, che potremo cogliere qualcosa – una piccola parte e solo da una certa prospettiva, si capisce – del senso di un film che costruisce il suo significato non certo attraverso il plot (la storia di una donna nata nel 1950, che seguiamo, in una successione di magnifici quadri – c’è chi, il Guardian, ha definito il film il “long-form di una pubblicità per un profumo di lusso” – dalla nascita fino al giorno del suo pensionamento da docente di antropologia all’università).

Flora Malva, nota attrice cui Parthenope si rivolge per intraprendere la carriera cinematografica, tiene alla splendida protagonista un discorso sulla bellezza come guerra, come prigionia, come offesa. Ma Flora Malva (la pianta era detta omnimorbia dagli antichi, che cura ogni male) non si mostra allo sguardo altrui se non col viso coperto da una maschera nera, oppure nel vapore denso di una cabina-doccia. I suoi lineamenti sono stati sfigurati dalla chirurgia estetica: è diventata un mostro inguardabile. Mostruosa è Greta Cool, diva in dismissione, che, madrina di un’inaugurazione nella sua città, rompe le righe e si lancia (con poco garbo ma davvero cool) in un’invettiva contro i napoletani, salvo poi perdere la parrucca alla fine del monologo e mostrarsi per ciò che è: una vecchia dai capelli tinti e radi. Mostruosa l’umanità del vicolo, orba e sdentata; mostruosa la donna di camorra, che offre in pasto al pubblico il concepimento del futuro erede di una dinastia criminale… I mostri irrompono e interrompono, perfino il sacro: così lo sfarzoso funerale di Raimondo (morto gettandosi in mare durante la vacanza a Capri, dopo aver assistito agli amplessi della sorella con l’amico Sandrino), con tanto di carrozza e cavalli (eh sì, di nuovo una carrozza coi cavalli, stavolta nera, come quella de Le conseguenze dell’amore), viene interrotto – su via Partenope – da un gigantesco e mostruoso carapace metallico, dalle cui zampe sprizza a getto continuo un misterioso liquido. La cerimonia solenne e pomposa si scontra con la realtà più lurida dell’autocisterna che sparge disinfettante contro il morbo del colera sul lungomare più bello del mondo. Mostruoso è il corpo dell’arcivescovo Tesorone (satiricamente custode del tesoro di San Gennaro, e forse di ben altre meraviglie), quando, spogliati i paramenti del suo ruolo, si mostra uomo indesiderabile davanti all’abbagliante bellezza di Parthenope. E naturalmente, mostruoso è il desiderio incestuoso che unisce fratello e sorella, Raimondo e Parthenope (la domanda rivolta da Parthenope al miliardario – un po’ James Bond, un po’ Gianni Agnelli – che vorrebbe possederla, precede di poche ore il suicidio di Raimondo e suona così: “Lei non trova che il desiderio sia un mistero e il sesso il suo funerale?”). La carrellata potrebbe continuare (e, soprattutto, dovrebbe essere messa in relazione con le opere precedenti del regista), ma non serve; non serve perchè il film chiude sul più irriducibile dei mostri, che tutti li contiene, il macrocefalo iperobeso, Stefano Marotta, figlio del professore-mentore di Parthenope, Devoto Marotta (il cui cognome, mi pare da leggersi come omaggio allo scrittore Giuseppe Marotta, autore, tra l’altro, del film L’oro di Napoli).

Come per le Macchine anatomiche del Principe di Sansevero Raimondo di Sangro, la mostruosità è invincibilmente legata alla verità per Sorrentino: deposta la spoglia (la maschera, la parrucca, i paramenti… la bellezza del corpo, la norma… ), appare il vero. In tal senso, il regista mette in scena il concetto di verità per come lo intendeva la cultura greca, in seno alla quale nasce Parthenope: alètheia – che la lingua latina traduce con veritas – è disvelamento, lo stato del non essere nascosto. Maggiore è il contrasto, maggiore la mostruosità. Il percorso di conoscenza, perciò, si gioca tutto nella capacità di scorticare l’involucro esterno, quella pelle che è confine tra sé e altro, tra sé e mondo, e finalmente vedere (il discorso sull’umano, lo studio dell’umano altro non è che vedere, saper vedere, afferma in una delle sue ultime apparizioni l’antropologo Devoto Marotta).

Ma vedere cosa? si dirà… Ciò che sta sotto la pelle, sotto la maschera, sotto la parrucca, sotto la bellezza abbagliante, sotto i paramenti… o ancor meglio, ciò che appare insieme a tutte queste cose, ciò di cui tutte queste cose sono fatte, la loro consistenza, la loro essenza. Guardare in faccia il mostruoso senza restarne accecati, disgustati, respinti: guardare in faccia la mostruosità del desiderio, la violenza della bellezza, la rassegnazione dell’intelligenza, l’eccedenza del godimento, l’oscurità dell’umano… senza giudicare (come nel patto siglato da Parthenope col suo direttore di ricerca). Del resto, Parthenope, la cui biografia coincide con questo percorso di conoscenza, solo una volta sentirà di potersi innamorare e sarà per lo scrittore John Cheever – dei cui racconti è avida lettrice e che incontra casualmente a Capri –, profondo scrutatore dell’animo umano e delle sue ombre. E lei, che in tanti hanno voluto possedere, solo una volta la si vedrà godere nuda nel film, quando si lascia masturbare dalle mani del repellente Tesorone (e il miracolo dell’orgasmo si compie, e il sangue del Santo si scioglie).

Se Parthenope è un film su Napoli dunque (e certo che lo è!), è la chiave del mostruoso che può aiutarci a penetrarlo. A patto di intendere il mostruoso non solo come tutto ciò che si scontra con una (presunta) norma, ma ora, chiaramente, come ciò che in quello scontro tra norma e deviazione dalla norma offre un’epifania del vero, che chiede di essere vista, non giudicata.

Paradossalmente, quindi, proprio la bellezza luminosa delle sue immagini, l’avvenenza abbagliante della sua protagonista – che la macchina da presa non lascia, per l’appunto, quasi mai – proprio quel suo autocompiacimento estetico (per cui c’è chi – sempre il Guardian – ha parlato di autoparodia sorrentiniana), fanno del film un’occasione per interrogare alla radice il senso della bellezza, e il suo non essere altro che una delle due inseparabili facce dell’umano, in continuo dialogo, in un mutuo nutrirsi con l’altra, quella oscura e perturbante.

Cosicché la galleria di mostri è riconoscibile come una sfilata di figure della città (eh sì, anche Greta Cool potrebbe non essere altro che una personificazione di Napoli – una Napoli che non sopportando più i suoi figli si ritira lei al Nord – con un senso tutto nuovo da dare all’assonanza tra il suo nome d’arte e la parola volgare per deretano, in relazione con la presunta predilezione della diva per la sodomia). Anzi, si potrebbe perfino ipotizzare che tutte le sperimentazioni di Sorrentino intorno al mostruoso e prima di Parthenope, non siano state altro che declinazioni per via di approssimazione alla definitiva rappresentazione del monstrum come condizione che meglio incarna la verità dell’umano.

Fino all’ultima figura, il mostro celato al cuore del labirintico percorso (novello Minotauro), il macrocefalo iperobeso dell’ultima scena, la cui pelle sottilissima e tesa lascia intravedere quel sistema arterovenoso che il Principe di Sansevero si era già premurato di mostrarci. Ma questa volta il mostro appare, a chi lo sa vedere, bellissimo e degno di tutta la devozione.

La nostra cartamoneta: su ‘Donne che allattano cuccioli di lupo’ di Adriana Cavarero

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Di Ilaria Durigon

Non esiste il femminismo, esistono i femminismi. Quanto spesso sentiamo ripetere questa affermazione senza che venga mai debitamente messa in luce una differenza che, è utile quindi sottolineare, non si sostanzia in singole opinioni divergenti ma riguarda l’intera rappresentazione, con le sue significative conseguenze teoriche e pratiche. Fin dalla sua nascita, il pensiero della differenza sessuale si è posto come finalità, in posizione spesso discordante nei confronti del femminismo emancipazionista e delle sue molteplici derivazioni di matrice antidiscriminatoria, di produrre una rivoluzione simbolica muovendo dall’assunto secondo cui affinché la libertà femminile si realizzi nel mondo non sono sufficienti le modifiche alle leggi, non bastano le trasformazioni sociali, se, prima, non si produce un cambiamento sul piano del “simbolico”.
A proposito del simbolico, Luce Irigaray offre un’immagine molto densa: è come se ogni donna tenesse tra le mani un pezzo di cartamoneta strappato e cercasse nell’altra donna la metà per farla combaciare. Il simbolico è il senso che noi diamo all’esperienza dell’essere donna: è l’interpretazione che afferra il piano fattuale e materiale strutturandolo all’interno di una rete di significati attorno ai quali questa esperienza viene dotata di un senso traducibile sul piano del linguaggio e del pensiero. Il simbolico è il luogo in cui natura e cultura si incontrano (e spesso si scontrano) irriducibilmente. E, poiché il mondo delle rappresentazioni che era offerto alle donne è stato di impronta patriarcale per molti secoli, le donne hanno dovuto cercare da sé il senso libero della propria esistenza, creandolo autonomamente e attraverso la relazione con le altre.
Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno di Adriana Cavarero si inserisce all’interno di questa cornice filosofica e pratica, compiendo un nuovo importante passo in direzione della critica alle forme del sapere maschile nella misura in cui esse si mostrano solidali con il simbolismo patriarcale. In Cavarero è all’opera l’individuazione di nuove forme simboliche rispondenti all’esperienza femminile, ossia viene compiuta, tra le pagine, una rivoluzione simbolica che sovverte la cancellazione, e la conseguente stereotipizzazione, che il pensiero maschile ha operato nei confronti della maternità, intesa concretamente, come generazione di un nuovo essere umano, come gravidanza e parto
“Sappiamo molto di più dei mari che navighiamo che della maternità” avverte, in esergo, Adrienne Rich, poeta e pensatrice femminista che, tra le prime, ha denunciato il peso di quell’oscuramento, dell’impossibilità di rintracciare parole utili per comprendere, quando lo si sperimenta nel proprio corpo, lo “strano potere della maternità”, come lo definiva Virginia Woolf. È un percorso affascinante quello tracciato da Cavarero, che dalle Baccanti di Euripide e dalla loro frenesia post-parto, a Platone che mentre ricorre al linguaggio tecnico legato alla gestazione materna deruba e cancella la figura della madre, al mito della pietrificazione della superba Niobe, in un attraversamento che include la parola illuminante di alcune grandi autrici come Ferrante e Lispector, giunge fino al Secondo sesso di De Beauvoir contestandone l’anti-biologicismo e mostrando come in esso, anziché discuterla, sia all’opera una premessa fondante della grande tradizione della filosofia occidentale maschile.
Cavarero rigetta invece l’ipotesi teorica che la biologia sia un fardello di cui liberarsi, e ne assume il fatto, in una lettura materialista del reale, situandola in quella sfera della necessità che mentre è sottratta al dominio umano, sigilla il mondo vivente in unico nodo. La necessità biologica, se esprime in sé il limite della presa umana sul mondo, appare, in questa lettura, sotto una luce nuova come ambito ampio di trasformazione, di sottrazione alla presa tecnica, di condivisione e quindi, paradossalmente, di nuovi immaginari di libertà.
Sulle tracce di una rivoluzione simbolica femminista, la maternità – questa scandalosa “confidenza con la materia corporea dell’origine” – diviene, in quanto momento e precipitato in cui natura e cultura si incontrano, in quanto “tremendo” che è insieme meraviglia e inquietudine, come paradossale condizione di passività e potenza, una forma di conoscenza, un sapere che apre alla possibilità di rispondere con parole e pensieri nuovi alle grandi crisi del nostro tempo, prima fra tutte quella ecologica. Attraverso il nodo simbolico del materno, è possibile quindi ripensare la condizione umana nei termini di una “zoo-ontologia materialista” capace di fronteggiare le derive contemporanee della politica tra cieco progressismo e spinte reazionarie, situandoci in modo nuovo nello spazio che si apre tra passato e futuro.

Oltre Tony Effe: sottomissione, liberazione, ambiguità degli immaginari

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Sulla stupidità della supposta “censura” a Tony Effe si sono già espressi in molti ( anche se sarebbe meglio parlare di scelta di esclusione). Approfitto però di un post del giornalista Riccardo Canaletti per toccare un’altra questione; Canaletti sottolineava la “giustezza” di censurare Tony Effe a partire da alcuni versi a lui attribuiti (in “DM”, risalenti in realtà al periodo della Dark Polo Gang) che toccano un immaginario ambiguo: “mettere il guinzaglio”, “serve una museruola”, etc.

Ebbene: allontanandoci da Tony Effe, l’immaginario di sottomissione non sempre ha un unico orientamento, e quindi queste frasi non sono esclusivamente demoniache (come invece ho letto in diversi commenti pubblici).  Nella mia adolescenza, uno dei film che mi ha più segnato è stato il “Il portiere di notte” di Liliana Cavani, che continuo a rivendicare come un’influenza imprescindibile proprio nell’ottica dell’espressione del desiderio, sopratutto queer e impuro.

L’immaginario sadomasochistico per molte è stato un vettore di liberazione : dalla mistica di Angela da Foligno e Maria Maddalena de’ Pazzi fino all’azionismo viennese, da “La revoca dell’editto di Nantes” a “Roberta Stasera” di Pierre Klossowski, da “Elle” di Paul Verhoeven fino ai versi di Patrizia Valduga, ugualmente molto contestati dopo un recente intervento di Edoardo Prati( «io voglio che tu voglia che io non voglia», scriveva in “Poesie erotiche”). E questo vale anche (sopratutto) fuori dall’ambito “intellettuale”.

Detto francamente: io di guinzagli e collari, consensualmente, ne ho indossati. E ho attraversato a “corpo” immaginari di liberazione che passavano per tensioni opposte.

Il punto non è quindi Tony Effe, che manifesta soltanto uno dei molti spiriti del tempo, criticabile o meno, sicuramente nutrito di riferimenti a una storia della “trap” con un linguaggio ben preciso.
Il punto è quanto spazio di ambiguità lasciamo alla finzione. Finzione che agisce sempre, spesso in modalità imprevedibili (e forse niente è così deleterio come l’igienismo dello sguardo intellettuale – il suo incorreggibile moralismo).

La penna

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di Enrico Di Coste

Scrivere è come un imbuto: divieni così avvezzo alla pratica che non ti accorgi più di quale liquido passi all’interno.

Maurizio scriveva per inerzia.

Aveva rotto con moglie e figlia chissà quando; il suo primo e unico editore, che gli aveva pubblicato un romanzetto di discreto successo, aveva respinto seccamente tutte le proposte successive; la sua carriera era avvizzita, tirava a campare.

La scrittura non gli procurava piacere da un pezzo. Ma semplicemente, continuava. Ci si trova nudi di fronte alle proprie recriminazioni solo dopo averle protratte per talmente tanto tempo da averle rese la normalità. Nauseante, eppure irrinunciabile.

Correva l’anno 1898. Nel suo studio, attendeva il pignoramento della casa. Ogni lasciato è perso, diceva tra sé.

Il solo atto di sedersi era una tortura, lo compì, disgustato. Ritrovò qualche sporadico guizzo da scribacchino: una riga su ogni due o tre capitoli era salvabile. Presentò all’editore che da dieci anni gli sbarrava la porta un romanzuccio scritto in due settimane.

È una spudorata copia del primo, gli disse l’editore. Non ci posso credere che giri intorno ai tuoi spettri. Per una buona volta, liberati dell’unica storia che sei stato capace di raccontare! È inutile tornare, non pubblicherò mai queste insulsaggini.

Ma…

Non c’è nessun ma: non sai più fare il tuo lavoro. Questo è tutto.

Ma…

Anzi, dubito che l’abbia mai saputo fare.

Sei troppo ingeneroso.

No, sono generosissimo. Vedi, ti apro ancora la porta, sebbene non mi convenga. Col senno di poi, è stato un errore pubblicarti all’epoca: pareva che avessi un futuro raggiante. Non ho mai fatto un errore di valutazione così grossolano nella mia carriera come con te.

Maurizio non soffriva più dinanzi a simili rimbrotti: ci aveva fatto il callo.

Da allora, qualcosa in lui conobbe nuova vita, una recondita sorgente che come un fiume in tempo di siccità si era prosciugata a tempo indefinito e che credeva di non poter più scovare.

Comprò una nuova penna, la più economica che trovò, e dell’inchiostro con gli ultimi spiccioli rimasti. Chissà che cambiando gli addendi non cambiasse il risultato.

E il risultato parve cambiare, repentinamente, come in un amplesso feroce che porta all’orgasmo prima dell’aspettativa. Ogni parola fluiva, e l’impeto dell’esaltazione era temperato dalla consapevolezza che l’esito si sarebbe rivelato grandioso. Devo avere pazienza, si ripeteva. Questo è il mio momento. Niente è accaduto invano.

Non perse energie a spiegarsi come fosse potuto succedere quell’apparente miracolo: tirò avanti per tutta la notte. E anche la notte successiva. E la successiva.

Al quarto giorno, si svegliò avvertendo che il respiro non lo soddisfaceva: era corto e rauco. Sarà il catarro, pensò. Di questi tempi mi infreddolisco come se niente fosse. Un bel bagno caldo è quel che ci vuole.

Ma il bagno non diede i frutti sperati. Non spurgò alcunché. Nel frattempo, appoggiandosi al bordo della vasca, continuava a scrivere, a tossire, a scrivere ancora.

Capitava che qualche foglio gli sfuggisse di mano e si bagnasse, e allora lo tirava fuori dall’acqua in fretta e furia. Restò in vasca per tutta la giornata e disseminò il pavimento di fogli, Una moquette per squattrinati.

Si alzò e scoprì di riuscire a malapena a reggersi in piedi; tuttavia non aveva febbre. La tosse persisteva come un tennista che quando ti illudi di aver fatto punto non molla una palla nemmeno per l’anticamera dell’inferno. Si fece cavernosa in un baleno.

Si specchiò per vedere quanto fosse stravolto: scoprì che la sua pelle era scura. Nera. Sotto lo strato esterno dell’epidermide.

Cominciò ad ansimare, guardò il resto del suo corpo: risentiva nella sua interezza di quell’imponderabile fenomeno.

Guardò all’interno della vasca: l’acqua era annerita, come se ci avesse versato dell’inchiostro.

Un’intuizione fulminea colse Maurizio. Solo la penna poteva essere responsabile della mutazione. Quel romanzo omicida sarebbe stata la sua ultima fatica.

Rise a squarciagola, e nella concitazione sputò saliva nerastra sui fogli imbrattati. Ci vollero meno di ventiquattr’ore affinché l’inchiostro cominciasse a colare attraverso la superficie della pelle. Quella lugubre tinta impregnò dapprima i vestiti, poi la casa; ma lui continuava, imperterrito, perseguendo con entusiasmo parossistico la propria morte.

Al settimo giorno si concluse la trasognata apnea. Caracollando lungo la via, con passi simil-acquosi, si recò presso l’editore.

Sono Maurizio.

La porta si aprì con uno sbuffo.

Ancora tu. È passata soltanto una settimana e hai il coraggio di ripresentarti…

Ho un lavoro da consegnare.

Cercò aria, ma questa non lo soccorse. L’editore strillò.

È l’ultimo che ti propongo.

Poi Maurizio rise, la lingua impastata, i denti catramosi che non si distinguevano più, la gola intasata da un coagulo vischioso. Le cornee furono colonizzate dalla metastasi, le palpebre cessarono di schiudersi. Trasudava nerezza da ogni orifizio.

Spirò con semplicità, come se l’annegamento fosse stato messo in conto, immolandosi sobriamente per ciò che aveva odiato quasi tutta la vita.

Implose intorbidando la facciata della sede della casa editrice.

Non seppe mai che quel libro avrebbe segnato intere generazioni di uomini.

 

“Dear Peaches, dear Pie”. La corrispondenza privata tra Carlos e Veronica Kleiber

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di Roberto Lana

Nel mondo della direzione d’orchestra, costellato di personalità egocentriche, tiranniche e necessariamente dotate di una grande capacità comunicativa, vi è una figura inafferrabile, riservata e – tranne per le sue apparizioni pubbliche sul podio – invisibile (ha rilasciato una sola intervista nel 1960), ma riconosciuta come il migliore direttore di sempre (1): Carlos Kleiber.

Tra il 2015 e il 2017 ho avuto l’immeritato privilegio di conoscere e frequentare la testimone più vicina e appassionata della carriera, ma soprattutto dell’uomo Carlos Kleiber: la sorella Veronica, ospite presso la Casa di riposo per musicisti di Milano, fondata da Giuseppe Verdi.

Chi era Veronica Kleiber

Veronica Kleiber nasce il 28 marzo 1928 a Berlino, nel 1939 si trasferisce in Argentina con la madre e il fratello, il padre Erich che aveva lasciato la Germania in opposizione al regime nazista. Si lega al fisico italiano Andrea Levialdi, docente di fisica all’università di Messina e Parma. Nel 1968 la coppia si reca a Cuba, dove il fisico era stato invitato a un seminario, ma dopo pochi giorni, Levialdi muore per le complicazioni di un tumore ai polmoni. Veronica torna a vivere in Argentina dove inizia a frequentare i gruppi rivoluzionari, diventa amica della sorella di Che Guevara e collabora alla rivoluzione. Minacciata di morte, nel 1975 decide di rientrare in Italia, diviene segretaria personale di Claudio Abbado e – grazie alla sua profonda conoscenza di cinque lingue – lavora come traduttrice presso la casa editrice Adelphi.

Il lascito della sua corrispondenza con Carlos Kleiber

Donna di grande intelligenza, generosità e ironia, sempre attenta alla vita politica e sociale, finanzia generosamente associazioni umanitarie. Tra i suoi amici più cari possiamo trovare Claudio Abbado, Maurizio Pollini, Riccardo Muti, Nuria Schoenberg, figlia di Arnold e moglie di Luigi Nono. Muore il 6 aprile 2017 in seguito a un ictus cerebrale.

Nel corso di uno dei nostri incontri, Veronica mi ha consegnato l’intera corrispondenza con il fratello, dal 1948 al 2003 (2). Tutti i documenti sono stati accuratamente scansionati, datati e restituiti a Veronica. Il carteggio è stato lasciato in eredità ai nipoti Marko e Lillian, figli di Carlos. Il contenuto della corrispondenza, in alcuni casi, è personale e di carattere economico, e non riveste alcun interesse dal punto di vista musicale, né aggiunge dati utili alla comprensione delle scelte musicali del maestro.

Veronica Kleiber e Bruno Monsaingeon presso Casa Verdi a Milano

Un lessico famigliare

Una curiosità: quasi tutte le lettere spedite da Carlos alla sorella Veronica iniziano con la formula “Dear Peaches” e sono firmate con il nome “Pie” con una serie di divertenti variazioni. Questi due nomignoli, un vero e proprio esempio di lessico famigliare di cui i due fratelli sono gli ultimi custodi, letti insieme costituiscono una dolcissima “torta di pesche”.

Un altro esempio di linguaggio privato è il modo intimo e costante con cui Carlos indica i genitori: Erich, il grande direttore d’orchestra, il padre severo, verrà sempre chiamato Papito, Ruth, la mamma, semplicemente Mother.

La prevalenza della lingua inglese

Il carteggio, generalmente, è redatto in lingua inglese. Tale scelta è di per sé abbastanza originale: i due fratelli sono entrambi nati in Germania (lo stesso Carlos viene battezzato Karl Ludwig e cambierà il nome proprio in Carlos durante il soggiorno in Argentina) e la loro lingua madre è senza alcun dubbio il tedesco; solo due lettere, una del 1950 e una del 1953 sono redatte nella lingua di Goethe.

Per quanto riguarda il resto della corrispondenza, in ogni pagina è possibile trovare un mosaico di lingue e di giochi di parole fuori dal comune. Carlos, come la sorella, conosce numerose lingue e passa con estrema facilità da una all’altra, quasi senza soluzione di continuità, talvolta per rendere più immediato il concetto, oppure per non tradire l’unità tra forma e sostanza, ad esempio nella citazione di brani d’opera.

Carlos scrive frequentemente a macchina, con frequenti aggiunte a mano, interlinea o ai margini del foglio. La sua grafia non è sempre di facile lettura, ma nel complesso abbastanza regolare.

Il rapporto tra Carlos e Veronica è sempre stato intenso e votato alla più profonda schiettezza. È impressionante notare come la corrispondenza tra i due fratelli non subisca interruzioni dal 1948 (quando Carlos viene mandato dal padre a studiare chimica al Politecnico di Zurigo) fino all’aprile del 2003, a poco più di un anno prima della morte del maestro, avvenuta il 13 luglio 2004.

I genitori

Il contenuto delle lettere è spesso privato e, come è ovvio che sia, riguarda argomenti familiari che non è interessante né opportuno indicare. Tuttavia vi sono alcuni temi ricorrenti che ritengo possano essere utili per meglio definire la personalità di Carlos Kleiber.

Fin dalle prime lettere (1948, 1949) Carlos parla in numerose occasioni dei genitori, in particolare il 31 marzo 1949, da Zurigo, dove studia chimica al Politecnico, scrive alla sorella:

“… sarebbe piuttosto sciocco interrompere gli studi che dovrei fare qui e ora, magari farsi bocciare agli esami e alla fine sentirsi come uno stupido. La cosa peggiore è che Madre ha detto a chiunque quanto io sia straordinario negli studi e raccontato di tutti i miei successi e di come sia impossibile per me ottenere qualcosa che non sia il massimo dei voti. Se fallirò non potrò più guardare in faccia nessuno. Non posso fallire, dannazione!”

[…]

“Non mi succedono molte cose eccitanti, ma penso che potrò ascoltare il Tristano e Isotta alla radio dall’Olanda. Posso sentire tutti i concerti di Toscanini con la NBC sul mio apparecchio a onde corte. (Ricordi la radio che avevo comprato a New York?). È una bella comodità, anche se spesso mi distrae dai miei studi (studimenti, come li chiama Madre: “Non hai i tuoi Studimenti da fare?”).”

La scelta della musica

Nel 1950 aveva abbandonato il Politecnico per dedicarsi definitivamente alla musica, nonostante le riserve del padre (celebre la sua frase: “In famiglia basta un solo Kleiber”). Nel 1954, su una cartolina raffigurante la chiesa di S. Gaetano di Monaco, scrive a Veronica:

“Ti ho scritto che ho finito con l’operetta? Ora sono quasi pronto per mettermi sotto la guida di Papito, a Zurigo, il prossimo 3 ottobre, prima di cercare un’altra occasione”.

Insicurezza e subalternità

Il 21 aprile 1970, ormai direttore affermato, racconta alla sorella dell’acclamato concerto con Alfred Brendel, tenuto il 13 aprile, durante il quale venne eseguito il Quarto Concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven, il Coriolano e la Quinta sinfonia. In coda alla lettera scherza:

“è stato abbastanza strano dirigere la Quinta (Questa è la Quinta, la Quinta di Beethoven, è la quinta sinfonia scritta da Beethoven…) e mi sentivo come se Papito cercasse di aiutarmi, insieme ad alcuni fantasmi sconosciuti, secondo me pensavano che l’intera faccenda fosse piuttosto sfacciata da parte mia.”

Questo e altri passaggi confermano l’atteggiamento di estrema insicurezza e subalternità alle scelte stilistiche e di repertorio del padre, morto nel 1956.

“… se non succede niente di straordinario, cosa che puntualmente accade, dirigerò Rosenkavalier a Monaco, probabilmente il giorno del compleanno di Papito. Povero Papito, mi lincerebbe, se potesse sentire il mio Rosenkavalier…”

Ancora, in un lettera del 25 gennaio 1971, Carlos confessa a Veronica di cercare disperatamente una registrazione di Elektra di R. Strauss diretta dal padre.

“Ecco la mia domanda. A Buenos Aires ci sono un po’ di amici appassionati di EK (3) grazie ai quali ho trovato un vecchio nastro del Tristano (realizzato da un disco inciso durante una trasmissione dal vivo). In particolare c’è un signore cieco con una collezione mostruosa di nastri. Ciò che sto disperatamente cercando di ottenere è E L E K T R A diretta da EK, su qualsiasi tipo di supporto.”

Le automobili

Carlos Kleiber era un appassionato di auto, solitamente fedele alla stella a tre punte di Stoccarda. Due anni dopo aver dichiarato la sua volontà di abbandonare le scene, nel 1994, accetta di dirigere l’orchestra di Stato Bavarese in cambio di un assegno astronomico e di una fiammante Audi A8 3.7 Quattro con 20 optional accuratamente indicati. La stampa pubblica i particolari economici dell’accordo e Kleiber viene travolto dallo scandalo mediatico.

In una lettera datata 19 febbraio 1976, Carlos confida alla sorella:

“Borghese come sono, ho ordinato un’auto nuova; non vedo l’ora che arrivi e la aspetto con una gioia insensata. Avrà tutti i tipi di optional. La capacità di spostarsi sarà la meno entusiasmante delle sue caratteristiche e probabilmente la prima che perderà.”

Il 13 gennaio 1982 comunica a Veronica:

“Grazie per la tua lettera e tanti auguri di Felice anno nuovo dal tuo frère [in francese nel testo] che al momento è completamente sconvolto e depresso da tutte le Angebote (offerte) [in tedesco nel testo] merdose e indefinite che gli piovono addosso. PERÒ ho una nuova auto con un sistema di antibloccaggio che mi salverà la vita a ogni momento, con questo tempo scivoloso – decisamente ironico, considerato il fatto che qualche giorno fa, al sicuro nel retro del garage, pensavo di impiccarmi. No, no, non davvero. Non preoccuparti, per ora.”

La famiglia

Carlos Kleiber e Stanislava (Stanka) Brezovar hanno due figli, Marko e Lillian Maria Veronica. Il direttore aggiorna la zia Veronica sullo stato di salute e sui progressi scolastici dei nipoti in numerose occasioni. In una lunghissima lettera manoscritta del 27 dicembre 1969 si possono trovare considerazioni decisamente originali:

“Marko è delizioso e tirannico e l’altra notte Stanka era lunatica, correva nel sonno e apriva tutte le finestre (luna piena).”

“Marko è stato bullizzato all’asilo da alcuni bambini. E così sto andando a lezioni di judo e karate e gli insegnerò non appena sarà in grado di imparare (e non appena avrò imparato qualcosa, cosa che prenderà un po’ di tempo: il mio maestro mi ha quasi ucciso, il suo nome è Matuschek, ma è strano sapere che puoi imparare e insegnare a tuo figlio, così non sarà più maltrattato a scuola. Credo che Guevara sarebbe dafür (d’accordo) [in tedesco nel testo].”

Scrive nel dicembre del ‘71:

“Lillian Maria Veronica è sensazionale, parla, balla e scherza dalle 5 del mattino alle 6 del pomeriggio ininterrottamente e Marko è il miglior “lettore” della sua classe, nonostante sia il più piccolo e, soprattutto, ieri è andato dal dentista e ha dimostrato più coraggio di suo padre, i cui denti stanno cadendo a pezzi, così, a parte per la birra (che sto riducendo pesantemente) verrò nutrito solo a poltiglia”.

Nel settembre del 1974 Kleiber debutta a Bayreuth con il Tristano, mentre i figli sono in vacanza in Jugoslavia:

“Mentre ero a Bayreuth, Stanka (che adesso ha la sua macchina automatica) Lillian e Marko sono andati in Jugoslavia e sono andati in campeggio al mare. Sono andato a trovarli un paio di volte per circa una settimana. Stanka è venuta alla prima del Tristano lasciando i bambini con sua sorella. Stranamente hanno mangiato di più mentre lei non c’era. I bambini sono molto dolci e Lillian sembra che sia stata adottata da una famiglia svedese.”

Qualche anno dopo:

“Marko è fantastico in violino + piano (6 mesi di assenza del papà hanno fatto il miracolo) Lillian è la migliore della sua classe”.

Marko si laurea in filosofia nel 1996.

“Marko ora è un DOKTOR DER PHILOSOPHIE [in tedesco e maiuscolo nel testo], evviva! Ha lavorato molto duramente e a lungo sulla sua tesi. Se lo merita davvero. Spero che, almeno in Germania, il titolo gli apra qualche porta. I Boches (crucchi) [in francese nel testo] adorano avere un dottore in casa”.

I musicisti

Nel corso della sua carriera, Kleiber ha ovviamente avuto l’occasione di incontrare numerosi musicisti. Nella corrispondenza i nomi che si rincorrono con maggior frequenza sono Claudio Abbado, Riccardo Muti, Maurizio Pollini, Katia Ricciarelli, Placido Domingo, Svjatoslav Richter.

L’amico Pollini

Veronica Kleiber, in un’intervista radiofonica su Radio3 curata da Andrea Ottonello, ricorda la profonda amicizia tra Carlos e Pollini. In una lettera data 3 marzo 1981, Carlos racconta alla sorella la visita del pianista a Grünwald, a casa Kleiber:

“Cara Peaches! Grazie per la tua bella lettera. Maurizio è stato qui e ha portato una torta. Sono andato a prenderlo in aeroporto e l’ho riportato nel pomeriggio. Cade spesso in silenzi impenetrabili che mi provocano una loquacità nervosa; ma all’improvviso, non avendo (saggiamente) prestato attenzione alle chiacchiere, ruggisce: “Ma senti! Tu, quando dirigi un alla breve… come fai per…?” [In italiano nel testo] E provo a pensare a come faccio. Non essendo convinto della mia tecnica con la bacchetta, è terribilmente inquietante confrontarsi con qualcuno così perfetto nel suo campo che mi chiede consiglio. Cappisci? [sic! In italiano nel testo]. Insomma, è la miscela più adorabile tra uno scolaretto, il gobbo di Notre Dame e un amico. Ha suonato (su richiesta dei ragazzi) per la sua “lezione” e per il pranzo, poverino, il nostro mezza coda ha quasi ceduto. Dopo il primo studio di Chopin […] ha indicato un tasto del pianoforte che non ritornava a dovere e ha detto che era il motivo per cui “non ce la faccio” [in italiano nel testo] o qualcosa del genere.”

L’ammirazione di Richter per Kleiber

Anche un altro pianista monumentale del XX secolo, Svjatoslav Richter, aveva una sorta di ammirazione per Carlos Kleiber, nei suoi taccuini, [11 agosto 1976] scrive: “Un tale titano e così poco sicuro di sé”, o ancora [dicembre 1994]: “Kleiber dirige con giocosa disinvoltura. Fa esattamente quel che vuole e tutto gli riesce. È sconcertante”.

Nel febbraio del 1976 era prevista l’esecuzione e la registrazione del Concerto per pianoforte di Dvorak, ma un’influenza costrinse il direttore a cancellare il concerto. La registrazione del disco si fece comunque nel giugno 1976, ma Kleiber non ne fa cenno nelle lettere successive, la stessa Veronica mi ha confessato che Carlos non ne era soddisfatto. Così pure Richter, che nelle pagine dei suoi taccuini, scrive:

“Ancora una volta, una mezza delusione. No, non è quello che doveva essere! Carlos spaccava il capello in quattro e io ero teso. Da qui l’assenza di quell’incanto e semplicità così tipici di Dvorak.”

“Katia Ricciarelli con me è gentilissima”

In un paio di lettere viene nominata anche Katia Ricciarelli:

“Sono stato a casa della Ricciarelli nella periferia (grazie al cielo) di Spoleto per circa 10 giorni. Per qualche oscura ragione, con me è gentilissima. Comunque non era a casa. La cuoca (la meravigliosa Signora Serafina [in italiano nel testo]) ha fatto tutti gli onori.”

“Volerò in Sardegna (il 2 luglio) […] nella villa di Katia Ricciarelli, vicino a Villa Simius (Alghero, dove ha la casa il genio [Abbado], fortunatamente è dall’altra parte dell’isola!) per tutto il tempo che vorrà concedermi. Ok, ok, sono uno scroccone [in tedesco nel testo]. Lei (KR) comunque non sarà presente, ma mi lascia a disposizione la sua cuoca per tutto il tempo. Mica male, eh? Spero vada bene”.

I messaggi alle orchestre

Carlos Kleiber è ricordato anche per una sua particolarità: era solito lasciare biglietti e messaggi personali agli orchestrali. Nella collezione di lettere sono presenti anche un paio di kleibergrammi destinati all’orchestra della Scala.

Nel messaggio del 27 settembre 1981 il direttore scrive in italiano:

“Carissima Orchestra Scaligera! […] avete veramente fatto dei miracoli musicale e umane (sic) e, grazie a Voi, ogni recita sembrava nuova e fresca. Viva Verdi! Viva Puccini! Viva i cantanti e musicisti della Scala! Viva il Giappone! Cari saluti dal vostro Carlos Kleiber che così volentieri si lascia dirigere di (sic) questa Orchestra, ascoltandola con affetto”.

L’umorismo, ed Emily Dickinson

Carlos Kleiber, a dispetto della sua estrema riservatezza, era dotato di un profondo senso dell’umorismo che traspare da numerose pagine della sua corrispondenza privata con Veronica, ma anche dal carteggio con Charles Barber, raccolto nel libro “Corresponding With Carlos: A Biography of Carlos Kleiber” (4).

In una cartolina postale del marzo 1992, in cui comunica alla sorella di essere stato ricoverato a Monaco, aggiunge una postilla:

“A proposito: non mi ammalo ogni volta che non ho voglia di dirigere. Altrimenti non dirigerei affatto, capito? (Siete tutti così intelligenti!)
Saludos hermanosos, Pie.”

Ma tra le lettere più originali possiamo segnalarne due in particolare. La prima, datata 23 dicembre 1996, è dedicata quasi integralmente a un prodigioso tagliaunghie, di cui il maestro sembra essere l’unico estimatore in famiglia. La lettera è corredata da tre disegni realizzati dallo stesso Kleiber, con lo scopo di rendere chiaro l’utilizzo dello strumento. Invano, dal momento che aggiunge: “Nemmeno Kant (5) sarebbe riuscito a spiegare tutto questo in modo più complesso”.

Kleiber in più occasioni aveva confessato la sua profonda ammirazione per Emily Dickinson. Il 30 maggio 1998 (giorno di Pentecoste) dichiara alla sorella di essere stato in una sua vita precedente Carlo, il cane della poetessa americana e saluta così la sorella: “Take care! Keep well! Saluti affettuosi e Pentecostosi! (in italiano nel testo), Pie (alias “woof!” Carlo).”

Conclusione

La corrispondenza durata più di cinquanta anni tra Carlos Kleiber e la sorella Veronica ci permette di tracciare un ritratto inedito, differente e complementare del più grande direttore d’orchestra del XX secolo. Naturalmente i contenuti privati sono numerosi, ma forniscono informazioni poco significative per quanto riguarda l’aspetto musicale e vanno trattati con il dovuto rispetto e la giusta riservatezza.

Custodire e leggere queste pagine è un vero privilegio e una responsabilità, nella speranza che tali lettere possano a breve essere oggetto di uno studio organico, accurato e appassionato.

Bibliografia

Charles Barber, Carlos Kleiber. Vita e lettere, Il Saggiatore, 2020
Bruno Monsaingeon, Conversazioni con Richter, Il Saggiatore, 2015
Waisman Dina, Andrea Levialdi in memoriam, in The history of physics in Cuba, Springer 304, 2014.

https://labibliotecadiveronicakleiber.wordpress.com/

[1] Nel 2011 la rivista Classic Voice ha chiesto alle cento più autorevoli bacchette internazionali di indicare il più grande direttore di tutti i tempi. Primo classificato Carlos Kleiber, seguito da Bernstein, Karajan e Toscanini.
[2] Il carteggio comprende 173 documenti (108 lettere in inglese, 2 in tedesco, 21 biglietti e 42 lettere senza data).
[3] Erich Kleiber.
[4] Edizione italiana: Charles Barber, Carlos Kleiber. Vita e lettere, Il Saggiatore, 2020.
[5] Il gioco di parole “Even Kant can’t….” sicuramente non è involontario.

A San Pietroburgo con Dostoevskij – Antonina Nocera

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Pietroburgo a sfoglie

 

C’è un filo sottile tra il desiderio, l’ossessione, il sogno. Accade che questo filo spesso si assottigli fino a rendere labili le distanze tra queste tre dimensioni psichiche, come accade al protagonista del racconto di W. Jensen, Gradiva, cui Freud dedicò un saggio di approfondimento sul delirio e i sogni. Un giovane archeologo, Norbert Hanold, che scorge in un museo un bassorilievo raffigurante un’immagine di donna, da lui ribattezzata Gradiva, “colei che incede”, rimane a tal punto impressionato e sconvolto da continuare a ricercare in modo ossessivo questa figura nella realtà. Si reca da Roma a Pompei alla ricerca di Gradiva, finché, alla fine di un cammino tra sogno e realtà, ritrova le sue fattezze in Zoe, un’antica compagna di giochi infantili. Stesse le movenze, l’incedere, i particolari. L’attrazione che ne scaturisce lo porta a vivificare questa immagine, a costringerlo a intraprendere un viaggio, per ritrovare la sensazione di qualcosa che aveva vissuto, duemila anni prima, sicuro di avere fatto la prima colazione con una donna pompeiana, dalla caviglia sottile, dalla veste bianca e svolazzante che aveva acceso il suo desiderio. Trovo che questa storia sia, di là dalla interpretazione freudiana che la relega nell’ambito del rimosso, del sintomo sotto forma di figura nel sogno, una perfetta metafora di quell’innamoramento necessario che sostanzia ogni tipo di ricerca letteraria. Cercare Gradiva, per me, è stato cercare Pietroburgo nelle pagine dei romanzi, nelle parole degli scrittori russi che ne avevano delineato una precisa fisionomia, avevano acceso la mia immaginazione, risvegliando, come probabilmente fu per Hanold, un sentimento occulto, che lei, la città petrina, rinfocolava con la sua potenza iconica. Camminare per le strade pietroburghesi è un’esperienza che chiama a raccolta una stratificazione di memorie culturali, letterarie, che sono inseparabili, tanto sono “inscritte” nel panorama urbano. Tra tutti, ho eletto lo scrittore F. M. Dostoevskij a mentore ideale di questo cammino, nel crinale tra sogno, realtà e desiderio. Credo che tra tutti abbia creato una sintesi perfetta che prende spunto da Gogol’, Anciferov, Puškin, Turgenev, e crea la magia sincretica. La febbrile e convulsa Pietroburgo, la tremula parete che separa la Prospettiva Nevskij dal sogno, i personaggi che si muovono come fantasmi o sognatori, il perverso intrigo di vicoli dell’anima e della mente.

Quando ho conosciuto Piter, come i russi pietroburghesi amano definire la loro città, ho provato la netta sensazione di avere compreso non l’intera anima russa – forse nessuno la capirà mai integralmente – ma quella fetta di “russitudine” che aveva forgiato la mia personale anima russa, quella che ho costruito sui romanzi, sulle letture, sulle fantasticherie che formano la mitologia personale di un luogo.

Si ha la netta sensazione che nulla di quello che si vede è definitivo. “La città più premeditata del mondo” è una definizione dostoevskiana che esprime perfettamente il senso di Pietroburgo. Tutto sembra perfettamente comme il faut all’apparenza, un’architettura all’europea che ti restituisce qualcosa di familiare, ma non integralmente. Un familiare che si avvicina maggiormente al senso di Unheimlich, perché lo riconosci, ma al contempo ne senti l’estraneità. Un luogo, insomma, che nella sua bellezza esteriore ti invita ad andare oltre, ad affrettare il passo per imboccare la strada che porta “oltre”, tra i vicoli, di là dalla facciata, dalla bella prospettiva che si staglia come una quinta teatrale, pronta ad aprirsi, a svelare connessioni con mondi inaspettati, poco rassicuranti.

Pietroburgo, città eccentrica, estranea alla cultura del proprio paese, a eccezione di alcuni quartieri periferici in cui il “pittoresco” resistette per un certo tempo, il concetto fondamentale fu udivlenie i vostorg (stupore ed esaltazione/entusiasmo), fondato su una base sottilmente razionale e utilitaristica. Per questo gli spazi erano ampi, le vie e le prospettive di grande portata, le distanze dilatate. La prima volta che si imbocca la Prospettiva Nevskij si percepisce il senso di questa grandiosità che colpisce gli occhi e l’immaginazione. Ma chiunque abbia letto Gogol’ – anche Dostoevskij sa bene che usciamo tutti dal Cappotto – sa che questo apparato è come il cielo di carta di Mattia Pascal, pronto a sfarinarsi sotto le dita, come un sogno, una fantasia, in un viaggio mentale.

Non si può conoscere l’essenza pietroburghese senza avere letto Il cavaliere di bronzo di Puškin.

T’amo creatura di Pietro, scrisse il poeta che cantò le origini di Pietroburgo in uno dei poemi più importanti della storia letteraria russa. Un’opera fondativa, della lingua, dell’immaginario, della struttura urbana. L’opera va letta come parte di una storia più ampia, che si riverbera nei meandri della memoria, della storia e nell’anima di Pietroburgo come la chiamò Anciferov (Duša Peterburga). Un’anima doppia, che partecipa del cielo e della terra, del sublime e del laido. Puškin ha detto tutto di questa origine, chiamando in causa il Prometeo al fine di dare linfa vitale a questa nuova costruzione: La città di Pietro.

La storia di Pietroburgo si fonda sulla capacità di trasformazione della natura a opera dell’uomo. Natura e spazio fisico vengono piegati alle esigenze della monumentale Pietroburgo nascente; la prima operazione consiste nella cancellazione dello spazio precedente, il terreno brullo e inospitale viene dissodato, bonificato, reso “piano” e plasmabile. Sembra che tutto abbia preso avvio da una fantasia, da una “visione” del giovane zarevič Pietro mentre trascorre il suo tempo in occupazioni adolescenziali in un recinto dedito ai giochi; da una fan- tasia fanciullesca prende corpo quella “visione” della futura città, in cui tutto sarebbe stato recintato come un grande hortus conclusus modellato a propria immagine e somiglianza.

La costruzione del mito della città di Pietroburgo e la costruzione della città in senso stretto procedono a passi paralleli: il mito poggia sulle palafitte erette sui terreni paludosi, e sui versi di poeti che ne decantano l’aspetto tragico, torbido, pericolante. Le denominazioni della nascente città ne tradiscono tutte le velleità: “Palmira del Nord”, “Nuova Roma”, o di contro “opera dell’‘Anticristo’”, o del “costruttore taumaturgo”. La poesia encomiastica ne rivela il suo carattere miracolo- so: Sumarokov, Lomonosov e Deržavin, entrambi pro- motori della retorica di Pietroburgo come “novella Roma” con tutti gli orpelli del mito di fondazione. Di pari passo alla mitologia fastosa, una vena cupa e corrosiva stempera l’ottimismo progressista; leggende popolari prefigurano un’imminente rovina, i “fantasmi del passato”, forse le anime degli innumerevoli martiri morti durante la costruzione della città, e sepolti per sempre al di sotto delle sue fondamenta, incombono sul destino della città. È impossibile leggere i russi che hanno scritto di Pietroburgo senza percepire questi fantasmi, nei volti, nelle movenze, dei passeggiatori della Prospettiva Nevskij, nelle strade buie e tortuose che portano al cuore del- la città, nei personaggi che animano il racconto della città. Pietroburgo è un testo, come venne definito dalla critica semiotica, da Uspenskij e Toporov. Un testo che interseca fili di narrazioni stratificate, di segni e simboli che rimandano a una mitologia complessa e antitetica. Al mito della finestra sul mondo si abbina l’antimito escatologico della sua distruzione. Il fatto che Pietroburgo potesse per i suoi dati semantici fondamentali essere inserito in questa doppia situazione ha consentito di considerarlo nello stesso tempo sia un paradiso, l’utopia della città ideale del futuro, materializzazione della Ragione, sia la sinistra mascherata dell’anticristo.

Tutto parte da un elemento primordiale, l’acqua: nel 1824 il quartiere Kolomna fu sconvolto da un’alluvione. Come Puškin ricorda nell’introduzione al Cavaliere di bronzo: “L’incidente descritto in questa storia è basato sulla verità. I dettagli dell’alluvione sono presi in prestito dalle riviste dell’epoca”. L’acqua della Neva invade minacciosa la città, portando morte e distruzione. Un elemento che ricompare in Dostoevskij tra le pagine del romanzo Il sosia. In un memorabile brano che pare attingere a Puškin per la drammaticità incalzante e a Gogol’ per quell’aura fantomatica, fumosa in cui la realtà sfuma nella visione e viceversa, Dostoevskij dipinge nel suo secondo romanzo una città minacciosa, che annuncia l’imminente sdoppiamento dell’impiegato Goljadkin, con le acque che gonfiano dalle rive della Fontanka, il lungofiume che costeggia la parte sud della città e taglia il centro pietroburghese, formando una curiosa perpen- dicolare con la piazza Sennaja. Sembra che tutti i personaggi dostoevskiani seguano delle traiettorie che alla fine si incrociano in strani crocevia. Goljadkin e Rodion Raskol’nikov sono tra gli eroi principali dello sdoppiamento dostoevskiano, lo stesso nome Raskol’nikov ne porta una traccia, raskol’ è lo scisma. Entrambi vivranno il dramma della scissione identitaria, Raskol’nikov perché pervaso dall’idea di diventare Napoleone e sovvertire l’ordine morale, Goljadkin rappresenta – ben prima di Freud – lo sdoppiamento della personalità, la schizofrenica propulsione verso un altro che è tanto vivido da diventare “persona”, maschera vivente della propria ossessione. Anche il quartiere Kolomna, che oggi non è certo desolato e solitario come lo descrive Gogol’, conserva quel pizzico di malinconia acquosa che lo distin- gue dagli altri quartieri pietroburghesi.

Ma torniamo alle acque, ripercorriamo Fontanka. Nel punto in cui il personaggio dostoevskiano si ferma, pres- so il ponte Izmajlovskij. Oggi questa è per me una delle passeggiate più affascinanti, specie durante le notti bian- che, un percorso da fare a piedi, col battello, fino al museo di Anna Achmatova. Nulla potrebbe turbare questo paesaggio, se non il ricordo terribile che si stagliava di fronte a Goljadkin, a mezzanotte, quando “tutte le torri e i campanili di Pietroburgo battono le ore in punto”:

il vento ululava per le vie deserte sollevando le acque nere della Fontanka fino all’altezza degli anelli di ormeggio e scuotendo impetuosamente gli sparuti lampioni del lungofiume, i quali, a loro volta, facevano eco ai suoi ululati con acuti, penetranti cigolii, dal che risultava quel continuo, stridulo e pigolante concerto così noto a ogni abitante di Pietroburgo. Pioveva e nevicava nello stesso tempo. Trascinati dal vento, veri ruscelli d’acqua piovana, volavano quasi orizzontalmente, come da una pompa di pompieri, pungendo e flagellando il viso dell’infelice signor Goljadkin, come migliaia di spilli e spilloni. Nel silenzio della notte, interrotto soltanto da lontani rumori di carrozze, dall’ululare del vento e dal cigolio dei fanali, si sentiva il malinconico stillicidio dell’acqua che gocciolava su tutti i tetti, i terrazzini, le grondaie, e i cornicioni sul sel- ciato di pietra sul marciapiede.

Ancora non esisteva Raskol’nikov, Delitto e Castigo sarebbe nato successivamente. Curiosamente, entrambi i personaggi cercano una sorta di luogo in cui si incrociano energie sinistre eppure vitali. Questo luogo è Fontanka, il lungofiume che appare nei taccuini preparatori del romanzo. Le acque torbide delle origini pietroburghesi esercitavano ancora il loro influsso magnetico. Ma Raskol’nikov, che allora si chiamava Vas’a, prese un’altra strada. Non esiste infatti una sola Pietroburgo, ma una Pietroburgo a “sfoglie” che contiene in ogni strato una narrazione esterna, una rappresentazione di se stessa, un commento che cresce e si riverbera nelle mille città della memoria, collettiva e personale. Sono qui per costruire la mia Pietroburgo.


Antonina Nocera vive a Palermo, è insegnante di letteratura italiana e latino. Saggista nell’ambito della critica letteraria, ha pubblicato una monografia dal titolo. “Angeli sigillati. I Bambini e la sofferenza nell’opera di F.M. Dostoevskij.(FrancoAngeli, 2010 Finalista al Premio Carver 2022), Metafisica del sottosuolo – Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskij” (Divergenze, 2020 Finalista al premio Carver 2021 e Premio Etnabook 2021) “A San Pietroburgo con DostoevskijLa città di carta e di sogni.”(Perrone 2024) e altri contributi critici in volumi collettanei.  Gestisce il blog letterario Bibliovorax ed è direttrice editoriale della rivista Augeo- quaderno di scienze umane (Divergenze).

 

Quando passa l’angelo

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di Simonetta Gallucci

C’era solo una cosa più puntuale delle lancette di un orologio fermo sulle otto quando sono le otto: la telefonata di sua madre. Guido, quella sera, sudava freddo: doveva darle una notizia. Così, dopo i convenevoli: – … stavoltascendoaccompagnato – disse, tutto d’un fiato.

–  Chi ti accompagna, uno di qua?

–  Non hai capito. Scendo con la mia ragazza.

Silenzio. Poi una raffica di domande: – Ti sei fatto la zita? E mo’ me lo dici? La conosco?

–  Come fai a conoscerla?

–  Che ne so, magari è una trasferita, come a te.

–  No… cioè sì, ma dall’America.

–  Ma c’ha i gusti nostri? Mo’ che faccio da mangiare a questa?

–  Ah, a proposito: è vegetariana.

– Pure. Altre stravaganze?

Guido si innervosì: – Dì un’altra parola e non scendo proprio.

Chiuse la telefonata con la sensazione che quel Natale sarebbe stato faticoso, e ne ebbe la conferma quando Katherine lo spedì a comprare tacchino e pancetta. Proprio lei, che lo rimpinzava di tofu e seitan, costringendolo a frequentare un’improbabile squadra di calcetto solo per potersi gustare l’hamburger dopo la partita.

– Voglio preparare l’hot brown per la tua famiglia – gli disse.

– L’hot che? – chiese Guido.

– L’hot brown… vedrai, li conquisterò.

Partirono il mattino seguente, con una teglia trasudante olio che, nelle dieci ore di viaggio, appestò l’aria e impregnò di grasso il sedile posteriore dell’Audi.

– Figghj mej! – urlò la madre di Guido quando arrivarono, facendosi trovare con le braccia spalancate, come mai aveva fatto negli anni precedenti. Lui si lasciò avvolgere da un abbraccio che sapeva di fritto, di casa. Poi la madre lo scansò per salutare Katherine: – Signorina, che piacere – le disse – mi devi scusare che sto tutta spittirrata, ma stavo alla cucina. Prego, accomodatevi – e si fece da parte per farli passare.

– Ma’ – disse Guido passando un braccio intorno alla vita della sua ragazza – Katherine ha preparato un piatto delle parti sue. – Lei, che reggeva la teglia, sfoderò un sorriso che avrebbe ammaliato chiunque. Non la madre di Guido: – Grazie tante, non ci serve niente – rispose, e girò le spalle.

Guido prese la teglia dalle mani di Katherine e seguì la madre in cucina: – E dai. – Lei scoperchiò il tegame con circospezione, inchiodò il figlio con lo sguardo e gli disse: – Io è da stamattina che preparo e mo’ viene questa, bella bella, e ci porta la zuppa di pane e pomodoro. Senti che puzza, pare il mangiare dei cani. Ci farà stomacare!

– Senti, tu dopo lo metti a tavola e, se non lo vuoi nemmeno assaggiare, dici che stai sazia.

Uelcame!

Quando Katherine si affacciò in sala da pranzo fu accolta così da Franco, lo zio vacantino, che la prese sottobraccio e la condusse davanti a una signora in carrozzella, dicendo tra sé: – Come ha fatto quel babbascione di mio nipote a prendersi sto pezzo di femmina – e poi, urlando: – Ma’, hai visto chi è arrivata? La zita di Guido.

L’anziana fece cenno alla ragazza di avvicinarsi. Tese la mano a prenderle il mento e le girò il viso da una parte e dall’altra: – Una bella giovine – sentenziò, poi si frugò con una mano nella casacca e tirò fuori un portamonete. Lo aprì con circospezione, ne estrasse cinque euro sgualciti e li allungò alla ragazza: – Tieni – disse – comprati ‘na cosa buona.

Guido sopraggiunse in quel momento: – Fai ufficialmente parte della famiglia, ora – disse a Katherine, e le depositò un bacio sulla nuca. – E a nonna tua non glielo dai un bacio? – chiese intanto l’anziana. Quando il nipote si avvicinò, lo prese per il colletto della camicia e lo attirò a sé: – Ma ti fa mangiare, questa?

– A tavola! – La madre di Guido assegnò i posti: il figlio alla sua destra e il marito alla sinistra; a seguire da una parte Katherine e dall’altra zio Franco e, al capotavola opposto, la nonna. – Tonì – urlò poi in direzione dello studiolo – ma possibile mai che pure stasera devi vedere la partita?

Dopo qualche passo strascicato, il marito arrivò: – Era un torneo di biliardo.

La cena, in qualche modo, passò. L’hot brown giaceva quasi intatto: solo Guido e zio Franco si erano serviti; il padre ci aveva provato, ma era stato redarguito da un: – Quello ti fa acidità – della madre. Guido pensò che tutto sommato non era andata poi così male, fino a quando non sentì i rintocchi della cattedrale, che annunciavano la mezzanotte imminente, e la nonna esclamare: – Bisogna far nascere a Gesù Bambino!

– Guido, vai… – disse la madre, ma zio Franco la interruppe: – Aspé, quanti anni tiene Catarina?

– Venticinque – rispose lei.

– Ah, allora sei tu la piccola – fece il padre. La ragazza rivolse uno sguardo interrogativo a Guido che, paonazzo, si rivolse alla madre: – Ènecessario?

– Ché, ti vergogni?

Si rassegnò. Prese le mani di Katherine e provò a spiegarle: – Sai, noi abbiamo una tradizione. A mezzanotte andiamo in processione…

– Usciamo? – chiese lei.

– No, no, la facciamo qui.

– Qui dove?

Guido non sapeva più dove mettere la faccia: – In casa – disse. – Il più piccolo si mette in testa al corteo, e porta il bambinello alla grotticina… toccherebbe a te, ma se non ti va…

La risata diamantina di Katherine riempì la stanza: – I’m ready! – e si alzò. La madre intanto era andata in camera da letto e, dal primo cassetto del comò, aveva tirato fuori una riproduzione 1:1 di Gesù che, nel presepe allestito sul ripiano del mobile TV, avrebbe fatto la figura di Gulliver in mezzo ai lillipuziani. Lo depose tra le braccia della ragazza, dicendole: – Parti dall’ingresso, fai il giro intorno al tavolo e vai alla grotta, poi dai un bacio al bambinello e ti scansi. Noi ti veniamo appresso.

Katherine mosse il primo passo, ma fu interrotta dalla nonna: – E la canzone? – Così, presero tutti a intonare “Tu scendi dalle stelle” mentre si disponevano: Katherine in testa, seguita da zio Franco che non smetteva di farsi il segno della croce, cogli occhi fissi sul sedere della ragazza; dietro di lui Guido, poi il padre; infine, la nonna sulla sedia a rotelle, spinta dalla madre. Le campane suonarono a festa.

Tornarono ciascuno al proprio posto. La madre non fece in tempo a sedersi che si sentì ammonire: – Ma’, e il caffè? – Guido si girò verso la sua ragazza per chiederle se lo volesse anche lei, e la trovò con gli occhi sgranati. “Che ho fatto?”, si chiese. Katherine accavallò le gambe e incrociò le mani su un ginocchio. – Scrociale! – disse la nonna – che sennò passa l’angelo e dice “Amen”.

– Non ho capito.

– Se passa l’angelo, rimani per sempre così – spiegò zio Franco, imitando la posa di Katherine. Lei non credeva alle superstizioni ma, per cortesia, sciolse l’intreccio.

E, quella sera, l’angelo passò: su Guido, che ruttava sopraffatto dalla digestione, e su Katherine, che lo fissava come se fosse un rozzo sconosciuto; sulla madre, che entrava e usciva dal soggiorno per sparecchiare e sul padre che, con la testa reclinata all’indietro, russava; su zio Franco e sul suo sguardo spiritato, mentre allungava una gamba sotto il tavolo sperando di raggiungere il piede di Katherine, e sulla nonna che già sferruzzava un maglione per la fidanzata del nipote.

L’angelo passò, li guardò dall’alto, ma “amen” non lo disse; andava di fretta, il principale gli aveva chiesto di fare una comparsata a un presepe vivente, travestito da stella cometa. E si sa, certe volte non basta una vita di buone azioni per andare in paradiso, ma una parola detta al momento sbagliato può farci uscire dalla grazia di Dio.

Voci della diaspora: Anna Foa e Judith Butler

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È questo il quarto intervento che dedico a ciò che si è scatenato in Medio-Oriente dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Questi interventi sono la testimonianza di uno studio su diverse fonti, di dialoghi con amiche o amici e di riflessioni che hanno evoluto nel tempo. Ognuno di essi si è focalizzato su un tema. Il primo ha difeso l’idea che senza contesto e narrazione non vi può essere alcuna comprensione dell’accaduto; nel secondo, ho avanzato un quadro interpretativo di quello che, oggi, la storica Anna Foa definisce il “suicidio di Israele”; nel terzo, ho inserito l’attitudine del governo Netanyahu in un’atmosfera politica e ideologica che riguarda non solo Israele, ma anche l’Occidente capitalista nordamericano e europeo. Quest’ultimo intervento è dedicato a due voci critiche non solo della politica israeliana, ma anche della diaspora ebraica.

di Andrea Inglese

Da dove parlo

 

Chiunque parli della questione palestinese deve cominciare per dire innanzitutto chi è, come questa questione lo riguarda…

Ariella Aïsha Azoulay

Nonostante fosse difficile farlo, ho pensato fin dalle prime settimane dopo il 7 ottobre, vedendo quanto era successo e quel che si stava preparando, che fosse indispensabile parlare, scrivere, insomma rompere il silenzio. Parlare e scrivere per capire di più, assieme a quelli che vivono qui, in Italia, in Europa, lontano da Gaza e Israele, quello che stava accadendo laggiù tra palestinesi e israeliani. La gravità sia dell’attacco terroristico palestinese contro i civili israeliani sia della rappresaglia distruttrice contro la striscia di Gaza dell’esercito israeliano, non lasciavano adito a dubbi: questa volta il mondo non avrebbe potuto rimanere indifferente, come era invece accaduto nel corso degli ultimi anni, quando la sorte dei palestinesi non sembrava interessare più nessuno. In un modo o nell’altro, l’occidente tutto come anche il cosiddetto sud globale, oltreché i principali attori in gioco in questa guerra, sarebbero stati coinvolti. Così è accaduto. E il silenzio è stato eloquente e significativo quanto la propaganda più faziosa, e lo è stato anche se le sue motivazioni potevano o possono essere le più diverse: blocco emotivo, prudenza o semplice vigliaccheria. La guerra tra Hamas e Israele è stata scatenata da un’azione terroristica delle più crudeli (uccisione di civili, bambini inclusi) e ha prodotto una rappresaglia militare da parte israeliana, che non solo si è dispiegata attraverso modalità altrettanto terroristiche (bombardamenti indiscriminati su case e edifici pubblici come scuole, università, ospedali, ecc.), ma ha acquisito la violenza sistematica e terrificante del “genocidio”. Questo almeno agli occhi di una parte importante dell’opinione pubblica mondiale, ma anche di istituzioni internazionali e ONG indipendenti. Tornerò in seguito su questo termine. E dirò, perché è un termine che personalmente non amo utilizzare. Ma poco importano le mie ragioni o i dubbi sulla piena pertinenza dell’uso: esso si è imposto contro ogni tentativo di censura mediatica anche in una parte dell’opinione pubblica occidentale, e questo in reazione all’entità inedita della distruzione scatenata contro la striscia di Gaza, che nei fatti rende inabitabile quel territorio così densamente popolato. Possiamo utilizzare vecchie o nuove categorie, parlare di pulizia etnica o di urbicidio, quel che risulta chiaro è l’intenzione del governo israeliano di rendere Gaza un territorio dove non sia più possibile abitare, trasformando i Palestinesi in una massa di profughi sulla loro stessa terra.

Ho già esplicitato, sempre su Nazione Indiana, la ragioni del mio coinvolgimento personale, in quanto cittadino italiano ed europeo[1] in quello che è accaduto e accade laggiù, anche se non sono né palestinese né israeliano, né ebreo né arabo. Nonostante ci siano altre guerre sanguinosissime nel mondo, come la guerra civile in Sudan o quella che viene definita la seconda guerra civile nella Repubblica Centrafricana (in corso dal 2012), la guerra tra israeliani e palestinesi mi riguarda storicamente. Vorrei però aggiungere oggi che mi riguarda anche culturalmente. Nella mia formazione intellettuale e morale, la diaspora ebraica, europea e statunitense soprattutto, ha avuto un ruolo enorme. Il mio modo di vedere il mondo, di concepire la storia e la letteratura, l’emancipazione individuale e collettiva, è debitrice di tutta una serie di voci che vengono da quel mondo: da Proust a Kafka, da Primo Levi a Arendt, da Marx a Adorno, da Günther Anders al regista ebreo-russo Alexeï Guerman. E’ questa una ragione in più, che mi rende attento, oggi, alle reazioni degli ebrei europei o nordamericani. Ed è proprio di alcune voci della diaspora che voglio parlare, in particolar modo di quella di Anna Foa, storica italiana, e di Judith Butler, filosofa statunitense.

Prima di considerare il loro punto di vista, vorrei aggiungere un’ultima cosa. Gli errori che l’Occidente ha fatto, l’errore che gli Stati Uniti, ma poi l’Europa, e i governi di Francia e Italia in particolare hanno fatto, rifiutandosi di lottare con tutti i mezzi diplomatici disponibili per imporre un cessate il fuoco a Israele, lo pagheremo tutti. Lo pagano ora in modo straziante i palestinesi, ma lo pagheranno comunque anche gli israeliani, poi i cittadini statunitensi ed europei, così come tutte le nostre istituzioni nazionali e internazionali. Facts have consequences, come dicono gli anglosassoni, anche se le conseguenze non si “vedono” subito.

Sto rileggendo un libro di Jean-Pierre Filiu, storico francese del Medio-Oriente contemporaneo (Gli Arabi, il loro destino e il nostro, La Découverte, 2015). Il mondo intero sta ancora pagando per una somma precisa di decisioni e azioni realizzate in seno all’amministrazione statunitense, al momento del lancio nell’autunno del 2001 della “guerra globale contro il terrore” da parte di George W. Bush e, in particolar modo, per l’invasione dell’Iraq del 2003, fuori dal mandato dell’Onu. Da allora in poi, sia ogni tipo di terrorismo islamico sia la repressione autoritaria di ogni forma di contestazione politica, hanno avuto il vento in poppa nei paesi arabi come in alcuni paesi dell’Africa subsahariana. Caso esemplare l’Algeria che, tra il 1991 e il 2001, conosce il “decennio nero”, ossia una guerra civile tra islamisti e il governo autoritario del Fronte di Liberazione Nazionale. Con l’arrivo al potere di Bouteflika nel 1999, presidente che ha governato fino al 2019, nel paese viene imposta la politica della “concordia civile”. Ciò significa l’amnistia rapida di 5000 insorti (legati al Gruppo Armato Islamico), mentre in carcere rimangono gli oppositori che non hanno mai praticato la lotta armata. Dopo la guerra al terrore di Bush, buona parte dell’Occidente (francesi in testa) difenderanno l’opzione: meglio la “stabilità” dei regimi autoritari che la rischiosa democrazia; nel frattempo però regimi e forme d’islamismo armato non faranno che consolidarsi a vicenda, a scapito di ogni autentico progresso democratico. Le recentissime vicende siriane non fanno che confermare questa tendenza.

 

“Il suicidio di Israele” di Anna Foa

Il libro è uscito per Garzanti nell’ottobre del 2024. Per certi versi dialoga con il libro di un altro storico, Enzo Traverso, uscito per lo stesso editore alcuni mesi prima. Mi riferisco a Gaza davanti alla storia. Foa guarda, però, la vicenda della guerra e delle stragi di civili dal punto di vista dei tempi lunghi della storia della diaspora ebraica e soprattutto della nascita di Israele. Il suo è il punto di vista di una storica, ma è anche una voce della diaspora che vuole innanzitutto distinguersi dalla voce del governo israeliano e dalla maggioranza di israeliani che lo sostiene. È questo un punto per me fondamentale, perché per mesi sono rimasto allibito da un doppio movimento evidente in una parte importante della comunità ebraica francese: l’adesione quasi completa al punto di vista del governo Netanyahu, da un lato, e la sintonia ideologica con le posizioni del Rassemblement National (estrema destra francese), dall’altro. (Di un movimento simile, in Italia, parlano Bruno Montesano e David Calef in un articolo apparso su “il Manifesto” del 29 novembre dal titolo Ebraismo oltre la linea nera).Ora questa attitudine si è fatta sentire in modo particolare nel trattamento dell’informazione su ogni tipo di canale pubblico o privato. In altri termini, l’orientamento della diaspora, assieme ad altri fattori, ha senz’altro contribuito in Europa – più ancora, per altro, che negli Stati Uniti – a “blindare” la narrazione filoisraeliana. Il risultato di questi sforzi congiunti per legittimare l’annientamento delle vite dei civili palestinesi o per oscurarlo almeno parzialmente, ha avuto come conseguenza l’uso sempre più aperto e sistematico del termine “genocidio” di una parte dell’opinione pubblica, quali che siano le considerazioni avanzate sull’opportunità di un tale uso. È una delle tante lezioni sulla democrazia, che gli opinionisti occidentali amano elargire agli altri, senza mai apprenderle loro stessi per davvero. La polizia del pensiero funziona per “loro”, nelle sedi dei giornali o delle radiotelevisioni, ma non per la gente che non è pagata per dire o meno quello che pensa.

Per quel che mi riguarda, è un termine che preferisco non utilizzare. In questione non è tanto la pertinenza o meno di questo “termine” sul piano strettamente giuridico, per molti versi plausibile, e in ogni caso legittimo in una campagna politica di denuncia dell’azione militare israeliana e di richiesta di un cessate il fuoco. Preferisco non usarlo per gli effetti, inconsapevoli o meno, che la sua formulazione può indurre in me, cittadino italiano, appartenente a quel popolo che ha avuto un ruolo nello sterminio degli ebrei in Europa. Non trovo del tutto convincente l’articolo scritto da Liliana Segre per il ”Corriere della Sera” su questo tema (il 29 novembre 2024). Considero che, ad esempio, definire il governo Netanyahu “pessimo”, riveli oggi una forma d’indulgenza non condivisibile. Un governo da più parti (e non solo dai palestinesi) accusato di crimini di guerra e contro l’umanità, su cui pende un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale, che sta promuovendo l’annessione quasi integrale della Cisgiordania, è criminale; così d’altra parte, durante i mesi delle contestazioni di piazza, l’avevano definito gli oppositori israeliani prima del 7 ottobre, anche se per ragioni di politica interna. Nonostante questo, c’è un punto importante che accolgo della riflessione di Segre. Lo cito: ”In primo luogo, solo coprendosi occhi e orecchie si può evitare di percepire il compiacimento, la libidine con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare agli altri quello che è stato fatto loro”. Io a questo ci credo, e credo che valga soprattutto per alcuni europei. E la voluttà nell’uso di tale parola, anche se è riferita alla condotta degli israeliani di oggi, risiede nel pensiero implicito che può suggerire ad alcuni di noi: “adesso, cari ebrei, siamo pari, possiamo liquidare questo vecchio fardello”. Ho sentito parlare di “genocidio” da scrittrici e scrittori arabi, ad esempio, ma in loro non era percepibile questa “libidine” né questo sollievo nel “pareggiare” i conti.

Il titolo di Foa è senza ambiguità: dal punto di vista di chi, come gli ebrei della diaspora, è amico di Israele, quello che sta accadendo è un suicidio collettivo, un suicidio sia politico che morale e culturale. L’indossare il ruolo di carnefici non è incompatibile con una condotta suicidaria. Il capitolo importante che l’autrice dedica al sionismo, alle sue varie facce e soprattutto alla sua evoluzione, prima e dopo la nascita dello stato di Israele, diventa una tappa indispensabile per comprendere i motivi e le cause degli sviluppi attuali. Diversi storici israeliani così come ebrei statunitensi hanno studiato, decostruito e criticato il mito nazionalista del sionismo. Era importante che, in questo contesto, si aggiungesse anche una voce autorevole della diaspora italiana. Anche perché Foa stessa sottolinea come “La diaspora europea [taccia] clamorosamente, tranne voci davvero isolate” (p. 10). E aggiunge: “In questi tre anni, i tre mondi ebraici del dopo 1948 sono diventati essenzialmente due: quello israeliano e quello americano. La diaspora europea perde progettualità e importanza. Oggi l’ebraismo europeo è privo di ogni progetto culturale e politico, di ogni autonomia rispetto a Israele” (p. 57).

 

Prospettive post-sionistiche

La ricostruzione storica dell’autrice mi sembra indispensabile per considerare in modo adeguato non solo le componenti divergenti del sionismo, ma anche il carattere ambiguo della nascita di Israele. Mi sembra anacronistico ridurre quella vicenda a un’ispirazione e a un progetto puramente coloniale, progetto che si è invece imposto progressivamente attraverso tappe e svolte specifiche, anche in rapporto all’azione dei paesi arabi circostanti o degli stessi dirigenti palestinesi. Non si tratta, qui, solamente di discettare su diversi quadri interpretativi di storici di professione, ma di comprendere la dimensione tragica di quell’evento storico, che ha costituito una prospettiva di salvezza per un popolo perseguitato fino allo rischio di sterminio totale, producendo, nello stesso tempo, una catastrofe per un altro popolo, quello palestinese. Fornire una lettura riduttiva di quell’evento, mi sembra non possa che ritardare ulteriormente il riconoscimento delle rispettive memorie traumatiche e identità storico-culturali. Oltre il conteggio delle responsabilità storiche, oltre la denuncia e la cessazione dei crimini, oltre la persecuzione dei criminali, si dovrà, per inverosimile che possa oggi apparire, giungere al riconoscimento reciproco di due popoli e del loro diritto di vivere in piena autonomia e pace.

In un’ottica non più storica, ma progettuale, il discorso di Foa mi sembra fondamentale. Scrive:

“Non è ormai giunto il momento di guardare e costruire una società civile e democratica, di cittadini liberi e uguali nelle loro diversità? E come può uno Stato ebraico, necessariamente fondato sulla supremazia degli ebrei sugli altri cittadini, garantirla? È questa una contraddizione di fondo tra Stato ebraico e Stato democratico, che si perpetua dall’inizio e che è ora necessario sciogliere se si vuole uscire da questa situazione di guerra, ma anche dallo stallo che ha preceduto la guerra.” (p. 75)

Richiamare questa contraddizione, dopo averla studiata in quanto storica, non è un punto secondario. Chi, in una prospettiva filopalestinese, nega questa contraddizione, schiacciando tutta la storia israeliana su di un progetto unicamente coloniale, non fa che rafforzare quell’identità che il sionismo religioso e l’estrema destra israeliana hanno contribuito, per primi, a consolidare in un’unica dimensione. Il futuro di uno Stato israeliano non-coloniale e davvero democratico dipenderà anche dalla capacità degli israeliani di trovare dentro di sé e dentro la loro storia una leva per trasformare la propria mentalità e i propri comportamenti. In altre parole, “per il post-sionismo è necessario voltare pagina, passando da ‘uno Stato ebraico e democratico’ come Israele è ufficialmente definito dal 1992, a ‘uno Stato democratico per tutti i suoi cittadini’, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica, nazionale e religiosa” (p. 77). Qui è Foa che cita Arturo Marzano, Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi, Carocci, 2017.

 

“Rendere impossibile una parola ebrea contro la violenza di Stato” di Judith Butler

Affinché simili prospettive possano rendersi praticabili almeno in futuro, è indispensabile che non solo la distruzione di Gaza e l’annessione della Cisgiordania siano denunciati, ma anche gli stessi presupposti ideologici che giustificano questa politica agli occhi del governo di estrema destra e di una maggioranza della popolazione israeliana. Per fare questo, però, bisogna difendersi dalle accuse di antisemitismo che la propaganda di Netanyahu promuove, amplificata da associazioni ebraiche e da opinionisti politici in Occidente e in Europa. Anche qui i “poliziotti del pensiero”, quali che siano le loro più o meno ciniche motivazioni, non hanno impedito che, ad un certo punto, la manipolazione della memoria della Shoah sia diventato tema di molteplici critiche. Questa manipolazione è per altro in atto da anni, ma nel corso di questa guerra essa è stata definitivamente smascherata. Anche Foa evoca questo tema, ma è Judith Butler che lo affronta con più severità. L’articolo di Butler è stato raccolto in un volume francese dal titolo Contre l’antisemitisme et ses instrumentalisation edito per La fabrique nel settembre 2024.

Butler evoca una serie di episodi che hanno riguardato università e istituzioni culturali, soprattutto negli Stati Uniti e in Francia. In tutti questi casi si è considerato che iniziative o conferenze a sostegno della Palestina fossero da impedire, in quanto di per sé minacciavano la sicurezza di studenti ebrei o più in generale della comunità ebraica. Ma Butler ricorda come questa censura non sia stata esercitata in casi di appelli all’odio nei confronti degli ebrei, dove sarebbe stata comprensibile, bensì in occasione di denunce del genocidio a Gaza e di richieste di “cessate il fuoco”. E scrive:

“Questa manipolazione è profondamente nefasta, perché reclamare il cessate il fuoco esprime precisamente il desiderio che si arresti di fare del male ad altri. Oggi, sono le palestinesi e i palestinesi che hanno bisogno di essere protetti. E la comunità internazionale ha fallito nel fornire loro questa sicurezza. Hanno bisogno di essere al riparo dal pericolo, dal pericolo fisico reale – di essere ammazzati, feriti gravemente o di vedere la propria famiglia massacrata.” (p. 13)

Butler mostra come, alla fine, l’estensione indebita dell’accusa di “antisemitismo” finisca per riguardare “il fatto stesso di chiedere giustizia in Palestina”. A questa considerazione ne va aggiunta un’altra di Anna Foa, che scrive: “E gli ebrei del mondo, di quella diaspora che si riempie la bocca e la mente di etica ebraica e di pensiero ebraico, come possono accettarlo senza reagire. Come possono parlare solo dell’antisemitismo senza guardare ciò che in questo momento lo fa divampare, la guerra di Gaza?” (p. 87). Foa non nega che ci sia anche un “divampare” dell’antisemitismo, ma una tale preoccupazione, pur legittima, non può oscurare le ragioni di un tale fenomeno. E, d’altra parte – aggiungo con Butler –, non possono porsi sullo stesso piano di gravità e urgenza il massacro in atto delle vite palestinesi, vite isolate dal mondo, e azioni vandaliche su oggetti e minacce razziste, indirizzate a comunità che vivono in uno stato di diritto.

 

Narrazione contro cifre (e immagini)

L’ultimo tema, che Butler affronta nell’articolo citato, riguarda la “potenza del racconto” e fa riferimento all’inestimabile, insostituibile, potenza conoscitiva dei “racconti” rispetto al dato astratto fornito dalle cifre dei morti e dei feriti. L’autrice ne parla, qui, in due succinte pagine, ma si tratta di una questione capitale, che riguarda non solo l’attualità e i conflitti politici, ma il ruolo che, dal punto di vista antropologico, le narrazioni svolgono nelle nostre vite. Non pensate per favore a tutta quella letteratura insipida sulle virtù che la forma narrativa può fornire a qualsiasi tipo di evento o esperienza, come se si trattasse di una tecnica specifica, in cui specializzarsi per ottenere una sorta di “marketing esistenziale”. La comprensione delle nostre azioni è da sempre connessa ai quadri di riferimento storico-sociali e alle forme di narrazione che si accompagnano a essi. Quello che è importante capire dell’osservazione di Butler è che l’impatto che le cifre hanno su di noi è limitato: che differenza fare tra mille o diecimila bambini morti? In quale modo, se non vago, estremamente parziale, possiamo cogliere una differenza tra mille e diecimila morti? La sola idea della morte violenta di mia figlia quattordicenne, non ancora del tutto uscita dal mondo dell’infanzia, mi sembra inconcepibile e straziante. Come posso familiarizzarmi con dieci, cento, mille, diecimila volte quello stesso già inimmaginabile dolore? No, le cifre non ci aiutano ad avvicinarci alla realtà di massacri di tali entità, come quello subìto da più di un anno dalla popolazione palestinese. Ma questo vale già per il massacro del kibbutz di Kfar Aza, dove i miliziani di Hamas hanno ucciso più di 200 civili andando casa per casa. Posso misurare certamente la diversa gravità del fatto, se pongo a confronto l’uccisione di 1200 persone o quella di più di 40.000, ma la distruzione di ogni vita innocente è da considerare una perdita assoluta, incommensurabile, non perché sia sacra per un Dio o per la ragione universale, ma perché è sacra per una parte dell’umanità: un genitore, un amante, degli amici, una comunità, un popolo. E siccome ognuno di noi ha qualche vita intorno a sé che considera intimamente, visceralmente, sacra, ciò significa che ognuno di noi sa come e perché una vita è sacra.

Ma ritorniamo all’entità del “terrorismo di stato” israeliano e alla possibilità di tradurlo in qualche forma di comunicazione. Butler si riferisce a Gaza Writes Back, una raccolta di racconti di scrittrici e scrittori palestinesi dedicata all’operazione Piombo Fuso (2008-2009) dell’esercito israeliano. Commentando le parole del curatore Rafat Alareer, l’autrice scrive:

“Queste storie, queste poesie non sono appunto delle cifre: emergono da individui che lavorano in seminari di scrittura collaborativa e che traducono i testi in inglese per assicurarsi che “il mondo” sappia cosa è successo e per dare un senso vivo e dettagliato a quel che significa continuare a vivere dopo la perdita di una vita, in uno spirito di perseveranza e di resistenza collettiva.” (p. 23)

Che cosa cambia, allora, tra l’evocazione della perdita di una vita umana in cifre e quella attraverso un racconto? In realtà, non si tratta neppure di “dettagli” in quanto tali, anche se il dettaglio è sempre importante in una narrazione. Il racconto ci parla più delle cifre, perché ci permette di vedere la morte di un essere umano dalla prospettiva della vita di un altro essere umano o, al limite, dalla sua stessa prospettiva, prima che giunga l’annientamento. Non c’è argomento più persuasivo contro la pena di morte, che la narrazione, reale o fittizia, della vita di un individuo che si è meritato una tale condanna. È una delle cose che insegna la lettura, ad esempio, di un romanzo come A sangue freddo di Truman Capote.

Ho insistito sulla “debolezza” delle cifre per trasmettere l’orrore del massacro, ma un discorso analogo dovrebbe essere fatto per le foto e più generalmente le immagini. Quante foto o quante sequenze di bambini estratti a pezzi dalle macerie, dopo un bombardamento, devono convincermi che quel bombardamento è ingiusto, sbagliato, criminale? Le foto sono importanti, come è importante la loro circolazione. Ma le foto, che siano disponibili o meno, non producono di per sé indignazione. O meglio, non è la moltiplicazione di foto di massacri che possono commuovere qualcuno che non si è commosso alla documentazione di un primo massacro. È necessario vedere i corpi scheletrici degli internati dei Lager, così come le cataste dei cadaveri prodotti dallo sterminio nazista. Ma quante di queste immagini dobbiamo vedere, per convincerci dell’entità e dell’orrore della Shoa? Quelle immagini sono importanti, ma non sarebbero sufficienti, ad esempio, senza la lettura di Se questo è un uomo.

Ho trovato interessante e acuto l’articolo Davanti allo sterminio degli altri di Massimo Palma, apparso su “Antinomie” (20/11/2024). L’intervento di Palma ruota interamente intorno a questo paradosso: tante sono le circostanze e le ragioni che rendono “inefficaci” dal punto di vista “politico” le immagini dei massacri, come quello in corso a Gaza. Vi sono voci che si levano anche contro l’opportunità che tali immagini “circolino”. Palma le considera attentamente, ma lui stesso devo poi giungere a questa constatazione: “La realtà della guerra sempre online, mai disconnessa – questa è il fatto nuovo che ci sta offrendo un anno di ripresa in diretta della guerra, ora per giunta guerra diffusa”.

Come non mi piace ripetere a ogni piè sospinto che Israele sta compiendo un “genocidio” così non voglio riempirmi la mente di immagini di bambini palestinesi fatti a pezzi. Il risultato non sarebbe una maggiore comprensione o coscienza della gravità dell’accaduto, ma un semplice odio e schifo negli esseri umani in quanto tali – me incluso alla fine -, che sarebbe difficile poi togliersi di dosso. Non ho capito né accolto tutto l’orrore della distruzione di Gaza – chi è in grado di farlo? Non basterà una generazione di palestinesi e israeliani ad assimilare tutto quello scempio di vite fatto e subito. Ma condanno l’uso del terrore dei miliziani di Hamas come quello dello Stato israeliano, senza produrre un’equivalenza tra torti palestinesi (che vivono su un territorio controllato e occupato) e torti israeliani (che controllano e occupano terre altrui), né un’equivalenza riguardo all’entità del male procurato; disprezzo i dirigenti politici occidentali cinici e vigliacchi che esibiscono ancora una volta i “due pesi e due misure”, disprezzo l’opportunismo di tanti opinionisti che svolgono con entusiasmo il ruolo di “poliziotti del pensiero”, perché avrei voluto che gli uni e gli altri si impegnassero per limitare la distruzione delle vite palestinesi.

 

Coda

Molto di più di tante immagini o di tante cifre sull’invasione Russia dell’Ucraina, mi ha toccato Intercepted, un documentario realizzato quest’anno dalla regista ucraina Oksana Karpovych. Nel film, ascoltiamo brani di conversazione di soldati russi, attivi sul fronte ucraino, con la propria famiglia (moglie, genitori, ecc.). Queste conversazioni realmente accadute sono state intercettate dall’esercito ucraino e poi montate dalla regista, sullo sfondo di immagini di paesaggi urbani o naturali, che hanno ricevuto l’impronta della guerra. Non si vede, insomma, una sola azione violenta. La violenza è tutta nei racconti che i soldati russi fanno della loro vita al fronte, delle condizioni miserabili in cui vivono, e delle cose atroci che alcuni di loro hanno fatto (come torture o uccisioni di civili ucraini).

*

[1] Scrivevo in La trappola e il diniego. Riflessioni a margine della guerra: “Sono un italiano, nato in un paese che ha prodotto il fascismo e ospitato i nazi-fascisti. Ho letto Primo Levi, un italiano ebreo, che dai nazi-fascisti è stato spedito nei campi di sterminio. Vivo attualmente in un paese dove è esistito il regime di Vichy, che ha collaborato alla deportazione nei Lager di decine di migliaia di uomini, donne e bambini ebrei. Più in generale, sono la storia lunga dell’antisemitismo europeo, oltre a quella breve e devastante della Shoa, e infine la storia del colonialismo europeo (inglese, in particolare) a determinare la nascita dello Stato di Israele nella Palestina mandataria”.

 

Funghi neri

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Foto di Markus Spiske da Pixabay

di Delfina Fortis

Quando ho acceso la luce è saltato il contatore. Sono rimasta al buio, in silenzio. Ho acceso la torcia del cellulare e ho trovato l’appartamento pieno d’acqua, i soffitti ricoperti di macchie, i muri deformati dall’umidità, pieni di escrescenze e di muffa nera. Un odore di marcio mi tagliava il fiato. Sentivo il respiro della muffa. Mi sembrava di entrare nei Piombi di Venezia invece era il patrimonio immobiliare che mio padre e mia madre mi avevano lasciato. Un’abitazione situata al fondo di una strada stretta, priva di uscita e di parcheggio, inerpicata su una collina scura e inospitale. E in quel momento, su quel mammellone di terra, le stanze disabitate e gonfie come una vescica, sembravano fissarmi come fossi un ratto in una fogna.

Era stata la casa estiva dei miei genitori anziani, ma la detestavo. Dalle finestre non si vedeva la Côte, ma si sentivano i rumori delle navi. I cani abbaiavano di notte, i chirotteri volteggiavano sui lampioni, le zanzare si infilavano nelle camere mentre le spiagge si estendevano lontane. Ricordavo i soprammobili, le tende di pizzo, i cuscini sbiaditi, le sedie di legno scuro, le sculture africane, i quadri e le litografie ingiallite.

Mi sono seduta sul letto umido e mi sono messa a piangere. Piangevo per me stessa, per la mia vita, per quello che avevo trovato. Sentivo che l’acqua penetrava dappertutto. Scorreva rumorosa come una cataratta attraverso gli interstizi dei soffitti, nelle intercapedini dei muri, negli intonaci delle pareti. Quando fuoriusciva dalle fessure e dalle crepe dei muri lasciava una scia verde, unta come un’alga viscosa. Sentivo gli occhi di qualcuno che mi osservava dalle tenebre.

Nel bagno, tra le maioliche, ho scorto dei funghi neri. Li ho recisi e sul palmo della mano sembravano molluschi strappati da una conchiglia. Ho deciso di cucinarli. Li ho esaminati mentre sfrigolavano nell’olio bollente sulla superficie della padella. Assaggiati, sapevano di fiori appassiti. Mi sono svegliata disorientata, ancora vestita, sudavo e non capivo perché. Nelle orecchie risuonava il rumore delle gocce che cadevano, nelle narici un odore acre e disgustoso. Mi bruciava la gola.

Sono rimasta sveglia fino all’alba. Ho avuto paura che la muffa mi penetrasse nei polmoni e potesse germogliare come la macchia verde nel corridoio o la grande chiazza gialla che si allargava e gravava minacciosa sopra il mio letto. «E se un giorno il soffitto si aprisse?». Così aveva vaticinato il mio vicino di casa di nome Marcel quando gli ho mostrato, per la prima volta, che cosa avevo trovato la notte precedente.

Erano accorsi altri inquilini incuriositi dalle voci, dal rumore battente dell’acqua. Sono entrati tutti insieme come in una processione silenziosa nel giorno dei defunti. Sulle scale vi erano altri inquilini, figure sconosciute che apparivano e scomparivano come fantasmi. Anziani, malati, curiosi. Alcuni commentavano sottovoce per non farsi capire, altri mi raccontavano di liti con i vicini, di denunce, di sfratti. Mi sentivo parte di un mondo malato, di un sistema che mi masticava e mi sputava per terra.

Due donne anziane erano entrate nella mia camera da letto. Avevano il fazzoletto in testa e un rosario in mano. Avevano aperto gli armadi, i cassetti e annusavano l’aria. Non mi aspettavo un simile corteggio di persone sconosciute. Mi sembrava il ricevimento di una cerimonia funebre. Avrei voluto offrire qualcosa, una bevanda, un caffè, mentre tutti guardavano spaventati verso l’alto. Ho deciso di suonare alla porta del vecchio proprietario del piano di sopra in cerca di una spiegazione, di una soluzione, di una via di salvezza. Un uomo anziano con gli occhi luciferini e l’apparecchio acustico mi aveva urlato di andare via, aveva detto che ero una sconosciuta e una povera pazza. Prima che mi chiudesse l’uscio di fronte al naso avevo notato come la sua casa fosse sbiadita come una vecchia Polaroid.

L’indomani, tutti mi guardavano con commiserazione. Alcuni mi stringevano la mano in maniera forte e decisa, altri mi parlavano troppo veloce, ma fingevo di capire e annuivo con un movimento nervoso del capo. Di sera, ho contattato les sapeurs pompiers in cerca d’aiuto. Gentili e pazienti avevano ascoltato il mio francese da Principe De Curtis e mi avevano spiegato che non sarebbero mai intervenuti e mai avrebbero inviato una squadra sul posto. Uscita in strada, attesi il buio e decisi di dormire in macchina in un parcheggio vuoto lungo il mare. Vi era un’aria di tempesta e nessuno mi avrebbe notata.

Nei giorni successivi, ogni pomeriggio, cominciai a frequentare la grande BibliothèquePierre Menard. Cinque piani, riscaldata, silenziosa, luminosa, accogliente. Sulla mia tessera scaduta vi era scritto La bibliothèque est un monde clos, ouvert sur le monde. Circondata da libri, da parole, da storie, ma incapace di concentrarmi, pensavo al mio appartamento, al mio passato, al mio futuro. Mi sentivo persa, sola, inutile. Seduta al tavolo, presi in mano una matita. Forse scrivere mi avrebbe aiutato a capire cosa stesse succedendo. Ma le parole non uscivano.

Qualche volta mi addormentavo e mi svegliava la sirena della chiusura. Adoravo quella biblioteca pubblica con i bagni spaziosi e profumati come quelli di un albergo di lusso dove avrei potuto lavarmi senza essere notata dalla donna delle pulizie che un giorno mi aveva cacciato come una indesiderabile barbona. Avevo deciso di abitare lì per mesi interi in attesa di un idraulico locale che ogni giorno fissava un appuntamento e ogni giorno non si presentava. Richiamavo, la linea era staccata. Facevo un bilancio dei danni subiti, contando con le dita. Un giorno verranno i periti e mi chiederanno le ricevute degli oggetti danneggiati, ma io non le ho mai possedute e i miei genitori defunti non torneranno per aiutarmi.

Ogni sera, andavo a mangiare vicino al porto in un bistrot con l’insegna spenta, lontano dal traffico e dalle grandi barche. Trovavo il mio tavolo apparecchiato e il cuoco pieno di tatuaggi di mostri marini mi teneva sempre qualcosa da parte e non sapevo perché. Benché facesse freddo – il riscaldamento era sempre rotto – ero la benvenuta finché non ho trovato la serranda abbassata con il cartello A vendre.

Oggi, terminato il temporale, sono ritornata a piedi verso la casa. Ho immaginato di camminare scalza come una santa medievale. Sull’asfalto scorrevano rivoli d’acqua e la terra della collina sembrava ridotta a fango. Mi sono guardata intorno, il cielo era cupo e i luoghi non mi apparivano più familiari. Tra gli arbusti si scorgeva il profilo nascosto del mare. Ma era trascorso troppo tempo. Ormai, la mia casa come la ricordavo non c’era più. Non potevo più vantare alcun diritto. Durante la mia assenza, qualcuno l’aveva occupata e rimessa a nuovo. Le finestre erano aperte e le luci erano accese. Ho lanciato le chiavi in un cespuglio di sterpi perché nel caos della mia mente, su quella collina scura, la mia casa allagata e quel mostro pieno di muffa verde e funghi neri non erano mai esistiti.

Da “Ogni cosa fuori posto”

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Per Industria & Letteratura, collana di narrativa “L’invisibile” diretta da Martino Baldi, è oggi in libreria Ogni cosa fuori posto, un romanzo di Andrea Accardi

di Andrea Accardi 

Dal capitolo 3. Dentro il condominio

[…]

C’è adesso come un vuoto nella planimetria, un buco da cui passa l’aria fredda, e su quel niente di un interno al quinto piano converge e poi s’increspa tutta la pianta del condominio. Il corpo della ragazza (il salto, il volo) resta per aria come una parte che manca (nondimeno è lì in salotto, ricomposta, e l’appartamento intero la costeggia). La vita ordinaria è come sospesa, alcuni divagano per pena o imbarazzo, altri provano a dire puntualmente, a capire. “La causa, le ragioni…”, “Ma non c’è mai un perché soltanto”, “Qualcosa di simile al destino, le nascite, le morti…”, “La vita a un certo punto si stringe al collo”, “Nessuno ha potuto farci nulla”, “Chissà cos’ha visto, dov’è precipitata”, “Ma adesso si abbasserà il valore delle case”, “La catena invisibile del dolore”, “Se n’è andata liberamente, con il sorriso”, “Ma che cazzo ne sai”.

Stefano gira per l’appartamento mentre tutti stanno in salotto, e intravede la stanza di Roberta dalla porta semichiusa, semiaperta, le pareti dipinte di rosso (“Sembra il set di un film porno”), dentro ci trova Marta e le ragazze, guardano le foto appese e piangono. Stefano ricorda che sono stati anche amici quando uscivano tutti insieme al primo anno, c’è anche lui in una foto scattata qui in balcone, e i palazzi intorno un poco sfocati che sembrano guardarli come passanti stupiti. E gli piaceva pure, Roberta, ma non glielo ha detto mai tranne quella volta che lei ha finto che non si era capito ma si era capito eccome. C’è poi una foto di Roberta a quattro anni nuda sulla battigia che sorride con un sorriso smorfioso a qualcuno che la fotografa, è forse questo il passato degli altri, un sorriso di cui nessuno conosce il motivo. Oggi Stefano si sente come uno arrivato alla fine di una festa, anche se festa non è forse il termine più adatto. Sente di avere sprecato la giornata, e invece Roberta cos’ha voluto sprecare e perché.

Proseguendo per il corridoio, adesso ascolta i rumori del condominio, il respiro del palazzo, suoni di sciacquoni, di sedie spostate, colpi di tosse, perfino le molle di un letto (“qui sotto si muore e invece sopra… due cose opposte che incombono”), pensa che prima o dopo tutte le risate avranno torto, saranno smentite. Sogna il futuro come una cosa enorme, piena di buio, di perdita (“e forse ci si ammazza per questo, per giocare d’anticipo”), arriva alla fine del corridoio, di lato una stanza più piccola, una scrivania e un mappamondo, libri aperti forse per l’insonnia del padre che da oggi sarà peggio, come si sceglie una casa, come si sceglie il posto in cui impazzire?

“Ehi sei qui, andiamo, mi ha scritto quel coglione di mio padre, a Davide l’ho già detto”.  Stefano e Claudio sono sul pianerottolo ad aspettare l’ascensore, immersi in quell’odore consueto di cose umide rattrappite di nascosto che hanno tutti i pianerottoli davanti agli ascensori, e al sollievo di un odore conosciuto si aggiunge di colpo l’inquietudine di un problema irrisolto, di un odore che nasconde piuttosto un divieto. “Si vede con una colombiana, mia madre gli ha trovato dei vocali ridicoli con questa che parla e sembra l’imitazione di una prostituta, lui dice che fa l’estetista va beh”, “Ah cazzo mi dispiace”, “Che figura di merda che ci fa, che figura”. Dentro l’ascensore si pensa poi a cosa potrà esserci nella cavità del condominio, nel ventre della balena, monete come dentro una fontana, sigarette e sigari, forbici piatti lische guanti, mappamondi e dentiere, vasi da notte pettini lampadine, un mazzo di chiavi, qualcosa come un groviglio di peli e polvere e fili, e poi code di animali, pupille risvegliate dalla luce, dai rumori di superficie, oppure feti rifiutati e portati a compimento in un’acqua di sentina, in un fondo di gusci liquami detersivi, uomini del sottosuolo metà nani metà uccelli che spingono carrelli su rotaie, raccolgono i minerali di cui è fatto il condominio, spronati da diavoli felici simili a scimmie in costume che conoscono il buio di cui è fatto il macchinario, ma anche, degli uomini che vivono di sopra, il destino.

Stefano e Claudio raggiungono il cortile dietro il palazzo, che sembra una discarica di biciclette. Su un muretto che costeggia il cortile c’è una scritta fatta a mano con la vernice, ma la scritta è un poco storta, trema, dice posteggio e non ci crede neanche lei. “Ci vediamo a scuola e poi in piscina ma comunque ci scriviamo”. Poi fra loro passa come un orlo di significato, un bagliore che si spegne di colpo: che non c’è merito nella riuscita e non c’è colpa nella disfatta. E in quel momento entrambi sentono un verso già sentito mille volte, e anche quella mattina all’alba, quando la cosa era già avvenuta, si sarà comunque udito, come in tutte le albe che ricordiamo della vita, il verso singhiozzante e vicinissimo, quasi davvero dicesse qualcosa di umano agli umani, della tortora.

SINOSSI

Un medico arriva in una cittadina per prendere servizio, ma di notte si perde e la esplora suo malgrado. La mattina dopo si diffonde la notizia del suicidio di una ragazza, e intorno a questo trauma finiscono per articolarsi le storie dei protagonisti e le loro ricerche insoddisfatte. Un personaggio misterioso arrivato da fuori attira l’attenzione di tre giovani amici e compagni di scuola. Nel frattempo lo stesso medico è sulle tracce di un cane infetto, un professore non riesce a instaurare un dialogo con i suoi allievi, un ragazzo all’estero cerca e non trova dove abitare. Questi fili finiranno per unirsi, mentre in gioco sembrano esserci, per tutti, alcuni fantasmi della mente che deformano la realtà.

Abbagli tra le rovine del mondo caduto

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di Alice Pisu

quella che segue è l’introduzione di Alice Pisu al racconto di Dario Voltolini “Acqua chiusa”, edito recentemente da Oligo Editore, nella nuova collana “Ronzinante”, diretta da Marino Magliani; i disegni contenuti nel volume, particolarità comune alla nascente collana, sono dell’autore del testo;
per gentile concessione della casa editrice mantovana

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando il fuggiasco de L’invenzione di Morel entra nel salone rotondo di un museo che pare disabitato come il resto dell’isola in cui è appena approdato, nota con disgusto che i suoi piedi calpestano un pavimento-acquario in cui galleggiano pesci putrefatti. Quella sensazione di abbandono è pura apparenza, generata da uno spazio e un tempo allucinati, strutturati come pura forma. Schernirsi del vero equivale per Adolfo Bioy Casares a generare uno straniamento rinnovato, reso nel muoversi entro una concezione alterata di realtà e apparenza: un elogio dell’irrealtà utile a indagare, tra proiezioni e invenzioni, uno smarrimento più profondo, esistenziale, destinato a permanere irrisolto.

Da una sospensione affine, connessa al presagio dell’inesorabile, si origina Acqua chiusa. Una storia di gorghi e detriti, di desertificazione, retta su materiali di scarto, simbolo della coesistenza della morte nella vita, dell’impossibilità di un vigore autentico in ciò che ormai è logorato dal tempo, dalla storia, dall’ineluttabile.

L’irrequietezza ammanta l’inerzia apparente del quartiere di Torino al centro del racconto, sostentato in passato dalla fervente attività della grande fabbrica Michelin di cui ormai non resta che un cratere. Attesta la deriva di una contaminazione che ha corroso ogni cosa, deformato i connotati delle abitazioni, le palazzine dall’estetica beffarda, il flusso tossico e purificatore delle sue acque. Le rovine industriali, le stratificazioni urbane, le finte piazze, i tetti a cresta di drago, i campanili al posto delle ciminiere si legano a un tempo irraggiungibile. L’assenza di precisi riferimenti temporali e spaziali e l’anonimato di personaggi che finiscono per annientarsi nel loro ruolo celano il passo favolistico del racconto: sfilano sulla pagina figure che lambiscono quotidianamente la catastrofe, accomunate da una coscienza anteriore alla loro esistenza. Lo sguardo del narratore rende tangibile la privazione, incapace di immaginare una forma di grazia in un passato proletario verso cui stride ogni nostalgia.

In costante equilibrio tra la perlustrazione e il racconto interiore, Voltolini indaga il corpo, scandaglia la dimensione fisica di un luogo prosciugato, in bilico tra realtà e mito, per coglierne lo spirito e comporre una personale geografia dell’immaginario. Le macerie di edifici divenuti assurdi nella loro tenace insistenza attestano un annichilimento nel calco del non tempo. Aleggiano interrogativi sottili sul cadere e lasciarsi cadere, sull’insensatezza del vivere scorta nell’evocare quel che accade a coppie segnate da ristrettezze, a figli miracolosamente scampati alla morte, a nuove generazioni inconsapevoli e sarcastiche. Si staglia sul resto la figura di un viandante perennemente di spalle, all’ombra dell’esistenza, immagine che rimanda a un’erranza manganelliana senza rimedio.

Intrigato dalla vita nascosta nella materia morta, da ciò che è ormai privo di senso, Voltolini genera visioni nel gioco di accumuli utile a sostanziare una dimensione estranea al noto. La tensione alla vertigine esorta chi legge a concepire una cifra di inconoscibilità e al contempo di familiarità in luoghi infestati dalla solitudine: analogie con l’ignoto che ogni individuo sperimenta se osserva il proprio vuoto. La levità sui drammi con scorci teneri e crudeli, caratteristica della prosa di Voltolini, trova nella forma breve la misura per sondare un dolore mai esplicitato nei suoi toni vividi, con una prosa retta sul dialogo tra gli oggetti, gli spazi fisici e quelli interiori. L’elogio del frammento, la cura estrema per la parola esatta, il sapiente tratteggio lirico, le insistenze descrittive sulla metamorfosi, l’inganno delle insorgenze della memoria, la costruzione dell’immaginario tra rifiuti e carcasse, concorrono a definire una desolazione senza rimedio, segnata dal fluire sfuggente dell’acqua e del tempo che annulla l’idea del futuro.

Emergono due distinte dimensioni nel racconto: il tempo verticale della costruzione e del crollo e quello orizzontale del fluire della natura che si riappropria degli spazi, ripulisce e annulla il preesistente. L’incedere per contrappunti – l’immobilità di un’atmosfera post-industriale e lo scorrere inesorabile dell’acqua – si inserisce idealmente nella concezione della natura liquida del linguaggio associata all’inafferrabilità dell’elemento naturale studiata da Anne Carson. Voltolini gioca con i vuoti, i pieni, i dislivelli, studia la cifra imperscrutabile di spazi perennemente esposti attraverso un allestimento urbano che solo in parte coincide col tangibile, per soffermarsi sugli esiti delle quotidiane disgrazie operaie, radicate e ineludibili, che concorrono a definire il tempo svuotato da ogni prospettiva del mondo caduto. Ogni elemento è definito nello squilibrio perenne, in una spirale di disgregazione e creazione che attesta una falsificazione perpetua, un’inutile resistenza all’abbattimento.

L’autore narra una decadenza anzitutto interiore, la trasfigurazione di un contesto in dismissione ormai falso, inservibile, che rimanda alle fantasie di Sebald su catastrofi future tra le rovine della civiltà estinta. Lontano da nostalgie per un passato guasto, con Acqua chiusa Voltolini concepisce nel disegno di fallimento la naturale conseguenza dell’inafferrabilità del reale, dell’abbaglio del visibile. Indugia sulle sovrapposizioni di storie per scorgere grovigli senza via d’uscita nel posare fugacemente lo sguardo sugli esiti individuali dei suoi soggetti.

Il racconto è un invito a rintracciare una personale geometria del tempo nel bilico tra memoria e perdita, a fare propria la curiosità immaginativa del narratore sulla vita anteriore per riconoscere nella fragilità di un ambiente in dissoluzione una configurazione interiore nell’enigma tra salvezza e oblio, e riflettere sull’incapacità moderna di relazionarsi al paesaggio e di lasciarsi interrompere da esso.

Mostri sacri e complicanze storiche

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di Antonio Sparzani
I miei mostri sacri della letteratura italiana sono Calvino e Gadda, rigidamente in ordine alfabetico. L’altra sera mi sono saltati addosso insieme. Cominciavo a leggere la quinta delle Lezioni americane di Italo Calvino: sappiamo che egli accuratamente scrisse le Lezioni prima di andare negli USA per portargli un po’ di cultura; ma incontrò, ancor prima di partire, la nera signora e tutto finì. Questa quinta lezione, titolo La Molteplicità, comincia con una lunga citazione di Carlo Emilio Gadda, di cui vi riporto solo la parte che mi interessa. Lo scritto di Calvino comincia appunto così:

“Cominciamo con una citazione:
Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come agnello d’Astrakan¸ nella sua saggezza interrompeva codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. [ . . . ] Sosteneva, tra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia, d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico “le causali la causale” gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse “riformare in noi il senso della categoria di causa” quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui un’opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno tra amaro e scettico, a cui per “vecchia” abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero piceo della parrucca.
La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello [ . . . ].”
(Italo Calvino, Lezioni americane, Garzanti 1988, pp. 101-2, dove viene citato Carlo E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti 1973, pp. 2-3).

Chi abbia letto il Pasticciaccio ricorderà che si trattava del “dott. Francesco Ingravallo comandato alla mobile”, da tutti detto “don Ciccio”, quello appunto che indagherà sul pasticciaccio per tutto il libro.
I passi gaddiani ricordati e trascritti da Calvino sono ben più lunghi, e sempre anche divertenti e gustosi, ma mi sono forzato a mantenere qui quello che più mi interessa. Che probabilmente già si capisce dalla mia scelta all’interno delle lunghe citazioni e che del resto Calvino poco dopo riprende così:

“Ho voluto cominciare con questa citazione, perché mi pare che si presti molto bene a introdurre il tema della mia conferenza, che è il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo. [ . . . ] Ho scelto Gadda [ . . . ] soprattutto perché la sua filosofia si presta molto bene al mio discorso, in quanto egli vede il mondo come un “sistema di sistemi”, in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è condizionato” (Lezioni, p. 103).

La lettura di tutto questo mi ha fatto scattare varie scintille nella testa. Quando s’invecchia si ricordano facilmente certe cose lontane nel tempo e si perde la memoria di quel che si è fatto l’altro ieri. Così è accaduto che ho ripensato alla mia lontana lettura di Guerra e Pace, romanzo che mi aveva ai tempi molto colpito non solo e non tanto per le vicende del principe Andrej, della fascinosa Nataša e di Pierre Bezuchov (che già nominavo qui ) e qui ) quanto per le varie ed estese considerazioni che Lev N. Tolstoj accuratamente esprime sulla guerra e sull’andamento del mondo. Sono molte e riguardano vari aspetti degli avvenimenti storici e qui ovviamente mi limito a passarvene qualcosa che è vicina al filo che stiamo seguendo. Prendendo le mosse dalle osservazioni che Tolstoj espone sulla matematica, leggiamo il seguito:

“I movimenti dell’umanità, essendo l’espressione di un numero infinito di volontà umane, si compiono in modo continuo.
Impadronirsi delle leggi di questo movimento è lo scopo degli storici. Ma per afferrare le leggi del movimento continuo costituito dalla somma di tutte le volontà umane la mente dell’uomo utilizza unità arbitrarie e discontinue. Il primo passo di ogni ricerca storica consiste nel prendere una serie arbitraria di avvenimenti continui e nell’esaminarli separatamente dagli altri; [ . . . ] Il secondo passo consiste nell’esaminare l’azione di un uomo, re o condottiero, come una somma di volontà umane, mentre la somma delle volontà umane non si esprime mai nell’attività di un solo personaggio storico.”

Da tutto questo a me pare di poter trarre una – quasi evidente – conclusione: nessun avvenimento storico può essere ascrivibile ad una sola causa, ma a una moltitudine di altre, talora meno talora più importanti, almeno al nostro, fallibile, giudizio. Il quadro che ci fa intravedere Tolstoj è quello di una rete fitta e irregolare, nella quale ogni nodo è legato a chissà quanti altri. Del resto, cercando altre fonti meno “romanzesche” ma più autenticamente storiche sull’argomento, mi sono imbattuto in una bella e intrigante monografia, che s’intitola Du sens de l’histoire, dello studioso Frédéric Press (L’Harmattan, Paris, 2014); ecco quanto si legge a pag. 92:

“Dans le même ordre d’idées, la causalité semble suivre sa logique propre. Les évènements sont liés par une chaine dont la permanence même tient lieu de vérité. Mais plus on remonte dans le temps et plus incertaine est la cause. Elle est toujours plus diffuse et l’historien en est réduit à rechercher les meilleures proximités. Par la force des choses, ou de leur logique interne, il n’est plus face à une mais à un ensemble de causes ».

Ora basta citazioni di supporto a un’affermazione non così peregrina: qualsiasi avvenimento, dai più minuscoli ai più clamorosi ha tante cause. Dal che si desume altrettanto ovviamente che, salvo nei casi più minuti e banali, quando qualcuno prende la decisione di fare una cosa, e la fa, solo vagamente e comunque con scarsa sicurezza può prevederne i risultati. Certo quando il 18 giugno del 1914 Gavrilo Prinzip uccise a Sarajevo, nella loro carrozza, l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Absburgo, e la sua consorte Sofia, duchessa di Hohenberg, non prevedeva, né probabilmente intendeva dare inizio alla prima guerra mondiale, e viceversa non possiamo sostenere che la prima guerra mondiale sia stata provocata (soltanto) dal gesto di Prinzip.
Arrivato a questo punto ho cominciato a pensare agli attuali governanti del mondo, ammesso che sappiamo esattamente chi siano (non certo soltanto la schiera dei Biden, Putin, Ji, Netanyahu, Starmer, Scholz, Macron ecc.), che mediamente detesto, ma in qualche modo anche compiango: chissà se e quanto sono consapevoli che le loro scelte, che pure sono costretti a fare, quasi giorno per giorno, avranno un effetto non necessariamente coincidente con quello che essi sperano e auspicano, cioè quello che si erano ripromessi di provocare facendo quelle scelte.
Dalla cosiddetta globalizzazione in poi, questo problema è diventato sempre più grave: i fattori, gli stati, in gioco sono sempre di più, ci sono i rapporti commerciali da tener d’occhio, non solo i rapporti di forza, ci sono ogni momento imprevisti, fatti non prevedibili e non previsti, che vengono a mutare la scena e quindi a mutare le strategie immaginate. Certo, tutti i decisori avranno appositi comitati, gruppi di aiuto di informatori affidabili, ma il problema globale è ormai troppo complesso e la previsione del futuro diventa sempre più fallibile quanto più questo futuro è lontano: per il domani posso forse ancora dire qualcosa, per dopodomani un po’ meno, tra un mese è già un disastro.
Aggiungo, ciliegina sulla torta, che le cose davvero importanti per le sorti del mondo, noi gente comune con ogni probabilità non le sappiamo; staranno forse, forse, scritte sui libri di storia di qualche secolo a venire.

LA SPORCIZIA DELLA TERRA

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di Giacomo Sartori e Elena Tognoli

Quella che segue è l’introduzione al numero doppio (113-114), dedicato alla terra, e bilingue (italiano-francese), del bimensile Zeus! Rivista Mutante, edito dalla Cooperativa sociale Il Cardo di Edolo (maggiori informazioni sotto il testo)

Ci hanno insegnato che la pulizia è molto importante, e che le cose pulite sono inodori e ordinate, ben illuminate, ben geometriche, preferibilmente chiare. Prive di batteri e di altri ospiti invisibili potenzialmente molto pericolosi. Lavabili e asciugabili. Quindi non c’è molto da stupirsi se la terra, che è tutto il contrario, ci sembra sporca e brutta, e anche poco igienica, infestata da vermi e altri bacherozzi com’è. Puzzicchia di funghi, come le verdure lasciate troppo tempo in frigorifero, o la biancheria asciugata male, odorino che non associamo alle cose sane e buone. E per di più ci fa pensare ai cimiteri, una ragione di più per starci lontani. Non solo è brutta e sozza e infestata, ma se la fa pure con i morti.

Le piante sono belle, fanno foglie di fogge diversissime, e fiori che spesso hanno incredibili colori e ottimi profumi, per questo le mettiamo nei nostri appartamenti, e andiamo a ammirarle nei giardini e nei boschi. Certo sotto c’è la terra, fin qui ci arrivano tutti, ma ci va bene che resti nascosta: la consideriamo in fondo un male necessario. I poeti parlano spesso dei fiori e delle piante, e anche i pittori li rappresentano in tutte le salse. Nessun poeta ha mai scritto invece una poesia sulla terra o sui lombrichi. La terra non la vediamo, e non sappiamo dire se sta bene o sta male.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quelli che la studiano e certi saputelli ci fanno notare che è fondamentale, perché fa crescere le piante che mangiamo, e le piante che si pappano gli animali che noi mangiamo. Ci fornisce insomma quello che chiamiamo il nostro cibo, anche se al supermercato le verdure arrivano pulite e lucide, senza alcuna traccia terrosa, e spesso anche impacchettate nel cellophane. Fa crescere le carote e le patate e i rapanelli. Ma anche il grano, e quindi il pane e la pasta, e a ben vedere anche le barrette di cioccolato e le merendine confezionate e la maionese in tubetto, anche se qui più il legame appare meno immediato.

Quelli che la studiano ci spiegano che è proprio perché è così ricca di vermi e bacherozzi e bacilli che può fare il suo lavoro, e anzi più ne è piena più è sana e rigogliosa. Accettiamo pure questa spiegazione, anche se sapere le cose con il cervello non è come saperle con la pelle e la pancia, prima di cambiare le sensazioni di pelle e di pancia ce ne vuole. Ma insomma cominciamo a essere meno ostili. Dentro di noi ci diciamo che la terra va sopportata come si sopportano le cose non belle ma che sono utili.

Una volta che abbiamo imparato che la terra è importante, anche se dentro di noi continua a disgustarci, guardiamo con condiscendenza chi ancora non lo sa, e ridiamo se fa lo schizzinoso. Consideriamo dei sempliciotti quelli che dicono che non gli piace, e esprimono quello che in fondo seguitiamo a pensare anche noi. O anche ridiamo di loro. Ridiamo perché vorremmo poterci permettere la loro libertà di pensiero e di parola.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel quadro della nostra residenza artistica a CA’MON[i], con i redattori di Zeus! e gli utenti della cooperativa sociale Il Cardo abbiamo provato a guardarla e a toccarla e a odorarla. E a disegnarla, che è un modo di avvicinarla e di raccontarla, ognuno a suo modo, visto che siamo tutti molto diversi, e di cominciare a conoscersi. Abbiamo provato a fare come fanno i bambini, i pochi che nei tempi presenti non hanno prevenzioni nei suoi confronti: loro non hanno paura di sporcarsi, anzi si divertono. Prendono nelle loro manine i lombrichi quasi fossero preziosi diamanti, spalancando gli occhi e lanciando gridolini. Abbiamo cercato di fare anche noi così, ben sapendo che noi non eravamo bambini, e che le nostre parole sono schegge di cose già dette ma anche di verità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[i] Progetto Terra Alta (Centro CA’MON, Monno, 2023-2024), finanziato dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura

 

Zeus! Rivista Mutante (caporedattore Riccardo Federici, direttore Marco Milzani, grafica Sara Rendina) è una rivista bimestrale edita dalla Cooperativa sociale Il Cardo, di Edolo (Valcamonica). I redattori, che elaborano i testi e le immagini, sono gli utenti della cooperativa. La copertina è in genere l’opera di un artista invitato (in questo caso Elena Tognoli). Essa si può seguire anche su Instagram e YouTube. Nazione Indiana ha ospitato estratti di alcuni numeri precedenti qui qui e qui.
Le tre immagini corrispondono a altrettante pagine del numero doppio in questione.

Grace Paley e l’essere fuori luogo. Un anniversario

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di Anna Toscano

L’importanza di non capire tutto per Grace Paley (1922-2007) sta nell’importanza di osservare molto, osservare, ascoltare, guardare la vita degli altri, assistervi, parteciparvi, lottare. Grace Paley, della quale ricorre oggi il giorno della nascita, era una donna fuori luogo, una scrittrice fuori luogo, una che non amava stare dove la mettessero.

Le sue origini hanno molto segnato questo suo essere fuori luogo: nasce a New York nel 1922 da genitori ebrei che solo una manciata di anni prima erano fuggiti dall’Ucraina, genitori che erano già stati in esilio politico in diversi paesi ma che decidono di andare a New York con l’intera famiglia, figli, nonni, zii, nipoti, e dopo pochi anni appunto dare alla luce una figlia: Grace.

Molte lingue madri

Grace cresce in una famiglia che parla più lingue madri in casa – il russo, l’yiddish – e lei è l’unica a nascere con l’inglese come madre lingua. Ognuno poi in famiglia parla la lingua che vuole e impara e contamina le altre a modo suo: suo padre, per esempio, medico, apprende l’inglese leggendo Dickens.

C’è una questione linguistica nella sua crescita, una religiosa, una sociale e una di genere. Tutte l’accompagnano nel fare del fuori luogo il suo luogo.

Gli emarginati del Bronx

I genitori sono impegnati in lotte sociali e civili nel loro quartiere, il Bronx, in quei decenni coacervo di moltitudini di persone che vi cercavano salvezza e fortuna. È nelle scuole che Grace, già attiva in diverse associazioni giovanili, scopre che ci sono comunità intere di emarginati, molto più emarginati di lei, le comunità afroamericane, le comunità italiane, la segregazione razziale, le comunità più povere e più ghettizzate. Lei sta con loro, le care altre e i cari altri, sin da giovanissima tanto che a soli dodici anni viene sospesa dalla scuola per la pubblicazione di una lettera di forte ispirazione socialista.

La militanza inizia presto

Presto inizia la sua militanza, sempre dalla parte dei diritti umani e della giustizia sociale: contro la guerra, contro le armi, contro il nucleare. Pacifista e femminista, la sua militanza la porterà ad essere arrestata per aver srotolato una manifesto di fronte alla Casa Bianca con scritto “Niente armi nucleari” e da lì ad avere per trent’anni un fascicolo col suo nome presso l’FBI.

La sua attività politica per nulla si disgiunge dalla vita privata, giovane madre vive in un palazzo gremito di gente, in una strada gremita di palazzi gremiti di gente, in un quartiere gremito di palazzi gremiti di gente: persone dalle più diverse provenienze, lingue, credo, abitudini, realtà. Lei sta al parco coi suoi bambini, alla finestra, nei piccoli negozi al dettaglio sulla via, in biblioteca e osserva le persone, vive con e tra le persone. E accumula, accumula storie, visioni, immagini. Ama la poesia e nonostante non concluda percorsi scolastici standard decide di studiare poesia con W. H. Auden.

Persone e poesia: i primi libri

Da Wikipedia

Forse possiamo dire che le persone e la poesia sono la sua prima ossessione, e di qui la parola che unisce le persone alla poesia e viceversa. Le troppe storie la affollano e dunque le scrive: esce, a quasi quaranta anni, con una prima raccolta di racconti, nel ’59, tradotta poi in italiano nel 1986 col titolo Piccoli contrattempi del vivere. Racconta storie apparentemente senza capo né coda – questo il giudizio dei poco illuminati critici di quegli anni – storie assemblate da storie di altri dove non vi è una fine, non vi è un dialogo letterario, ma vi è la vita.

Passa alquanto inosservata come raccolta, ma nel ’74 ne esce un’altra, Enormi cambiamenti all’ultimo momento, uscita in Italia nel 1982, a cui ne segue una terza, Più tardi nel pomeriggio, in Italia nel 1987 – gli ultimi due, anche forse inutile dirlo, grazie all’attenzione di Fernanda Pivano e al grande lavoro della Tartaruga Edizioni.

Le ragioni di un esordio tardivo

Perché pubblica verso i quaranta anni? Perché doveva osservare e battagliare per il mondo, lo stesso motivo per cui anche le tre raccolte di racconti escono a molta distanza le une dalle altre. Ma il tempo della sua scrittura e della sua pubblicazione – tempo troppo dilatato per lo sguardo miope di alcuni critici ed editori – è il tempo di una donna e di una scrittrice che ha deciso di fare del suo esser fuori luogo il suo luogo: non una persona in attesa che altri, gli uomini, decretassero cosa dovesse fare per esistere o per avere prestigio, ma una persona che sta eticamente e moralmente in sé stessa.

Questo in Grace Paley vuol dire distribuire volantini lungo la strada, in scarpe da ginnastica e gonna a scacchi, a manifestare, a lottare, come al parco ad ascoltare le voci della altre; cose che ha fatto fino a una età avanzata.

Mettere il mondo nella letteratura

Questo è stato il suo tempo al di fuori del tempo prefissato dagli altri, un tempo in cui ha messo nella letteratura il mondo, ha fatto sì che la letteratura copiasse il mondo con una voce potente e unica: la voce che sta nell’energia dinamica del pensiero umano. Una voce compartecipe, empatica, una voce che ascolta prima di dire e che nei racconti si riversa: i dialoghi della panchina o del tavolo accanto che si riversano nel racconto, così come i personaggi e le personagge, la vita.

Osservare e raccontare le donne

Le donne sono le sue personagge privilegiate, donne da osservare e racconta, spesso senza una trama precisa, come la vita che non ha una trama precisa, spesso con un finale aperto perché tutti hanno diritto a un finale aperto: “Non potevo fare a meno del fatto che non ero andata in guerra e non avevo fatto cose maschili. Avevo vissuto una vita da donna ed è di questo che ho scritto”.

Nel 1989 il governatore Cuomo inventa una onorificenza per lei e la nomina la prima scrittrice ufficiale dello Stato di New York. Nemmeno questa bellissima nomina, giunta quando finalmente i critici si risvegliano da un ottuso sonno e capiscono l’opera postmoderna, come viene definita, di Paley, lei, Paley, accetta di stare nel luogo dove la mettono. Così rimane lungo le strade a fare volantinaggio e a lottare, a viaggiare per i diritti sociali. Pure nel mondo letterario sta dove vuole anche in questo momento: mentre tutti si aspettano da lei il grande romanzo lei torna al grande amore, la sua passione: la poesia.

Una costellazione di volti

E dalla fine degli anni Novanta fino al 2001 pubblica una serie di libri di poesia in cui la sua indole e la sua pratica combattiva civile si riversa nel privato in versi fino a costituire, poesia dopo poesia, una costellazione poetica di volti – amiche, amici, amanti, figli, nipoti, genitori, sorelle – che racchiudono un universo. Un universo di volti vivi e di volti morti, una mappa delle battaglie che passano dal privato al pubblico, e viceversa, anche attraverso la stanchezza dei visi, le giacche che pendono male dalle spalle, la curvatura del dorso, la mano che non torna, il numero che non risponde.

Forse, a pensarci bene, non racchiudono l’universo di Grace Paley questi libri di poesia, ma lo aprono a un universo, l’universo di tutte e tutti noi. L’empatia che è la cifra della sua lingua in prosa qui, in poesia, diviene compassione. Paley ritorna a sé stessa, ritorna a una cura ossessiva per la parola quanto per le persone di cui scrive, ricama versi in una parola comune, spesso bassa ma mai sciatta.

Torte e poesie

Grace Paley non cerca una misura e nemmeno che nessuno le dica quale sia il suo posto, o la misura che deve osservare, lotta e osserva, sta tra le altre e gli altri, incurante se non della giustizia: “In fatto che fossi una femminista ha fatto arrabbiare diversi uomini. E il fatto che mi piacessero gli uomini ha fatto arrabbiare diverse donne. Che vuoi farci, sei quello che sei”.

Oggi, a 102 anni dalla sua nascita e a 17 dalla sua scomparsa, Grace Paley ha la fortuna di essere tra le rare donne ancora a essere pubblicate, anche se mi trovo sempre a raccontare e leggere la sua opera in eventi che comprendono quattro scrittori e una scrittrice: e la scrittrice che scelgo è spesso sconosciuta. L’ultima volta, mentre aspettavo di iniziare a raccontarla – in una bellissima biblioteca affollatissima a Bassano del Grappa – una donna arriva di corsa affannata e sedendosi accanto alla sua amica le dice: “Non so chi sia questa scrittrice ma dato che è l’unica donna della rassegna, anche se sono molto stanca mi sono impegnata a venire a sentire”. Facciamole diventare non le uniche donne delle rassegne, tiriamo fuori le “figurine” difficili da trovare, parliamone, leggiamole. Perché queste donne che hanno lottato per vivere smisurate e “fuori luogo”, hanno i loro luoghi nelle nostre librerie, biblioteche, nelle nostre letture, nelle rassegne. Grazie a chi lo fa. E a chi fa torte e poesie.

***

Volevo scrivere una poesia
invece ho fatto una torta     ci ho messo
più o meno lo stesso tempo
ovvio la torta era una stesura
definitiva      una poesia avrebbe richiesto
un pochino di più       giorni e settimane e
parecchia carta straccia

la torta aveva già un suo
pubblico vociante e capriolante tra
camioncini e un’autobotte dei pompieri sul
pavimento della cucina

questa torta piacerà a tutti
avrà dentro mele e mirtilli
albicocche secche     molti amici
diranno     e perché diavolo
ne hai fatta una sola

questo con le poesie non capita

per via di irriferibili
tristezze ho deciso
stamattina di accontentarmi dei

miei voraci avventori   non voglio
aspettare una settimana    un anno    una
generazione perché si presenti
il cliente giusto

Senza misura. Leggi gli altri ritratti di questa rubrica

Dente da latte

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Foto di succo da Pixabay

di Valeria Zangaro

A vederla non sembrava avesse mal di denti, mal di gengive, mal di qualcosa insomma. Niente di gonfio, niente di rotto. Solo un dolore sottile e costante che dal naso arrivava fino all’orecchio, e certe volte si irradiava fin giù alla gola; un dolore diramato, senza un centro preciso, o con un centro ogni volta diverso: una chiostra che pulsava continuamente di dolore. A tutto questo si sommavano le raccomandazioni di lui, che ogni volta le diceva cose come “lavati meglio i denti”, “vai dal dentista”, in un modo come se il mal di denti fosse un impiccio. Le raccomandazioni diventavano perciò rimproveri per i capricci di lei, per i rifiuti di lei a curarsi: non mangiare dolci, non bere cose troppo calde o troppo fredde, cose tiepide, tutto doveva essere tiepido.

Poi era arrivata quella mattina là, in cui aveva sputato il dentifricio, tutto arrossato, e insieme al dentifricio pure il dente. Allora lei lo aveva preso, sporco di sangue, lo aveva guardato, lo aveva lavato sotto l’acqua corrente. Il dente non era neanche marcio. Era un dente, per la conoscenza che ne aveva lei, normale, se non fosse stato che gli mancava la radice, e che dentro era vuoto, o per meglio dire svuotato, smangiucchiato, corroso dall’interno. Una parvenza di dente, eppure tanto ingombrante. Solo in quel momento se ne rendeva conto, come se quella sua assenza ne avesse reso più evidente la presenza, per effetto della quale tutti gli altri denti soffrivano, si stringevano, si facevano piccoli.

Infilò l’indice in bocca alla ricerca del vuoto lasciato dal dente. Ci arrivò malamente. Ci arrivò bene, invece, con la punta della lingua. Aprì più che riuscì la bocca affinché dallo specchio potesse osservare la lingua raggiungere il buco tutto insanguinato e che si richiuse quasi subito però. La gengiva in un attimo era liscia, immacolata, priva di qualsiasi indizio in grado di confermare che lì un tempo c’era stato un dente. «Mi è caduto un dente» disse, e lo disse senza inciampi fonetici in virtù di una lingua che appariva ora più agile, più libera di muoversi. Lo disse, ma più tra sé e sé, perché lui nemmeno c’era, era già uscito per andare al lavoro e come al solito non aveva buttato la spazzatura. L’aveva dimenticato. Questa cosa di dimenticare succedeva tutte le volte che a lui non andava di fare una cosa. Dimenticava di fare il caffè, di apparecchiare, dimenticava tutto ciò che a lei piaceva e a lui no. E le cose che piacevano a lui, come la pizza o il mare, diventavano pure quelle che piacevano a lei, per contatto, per vicinanza.

Alla caduta del secondo dente fu inevitabile: accettò il consiglio di lui e prese appuntamento dal dentista. Il dentista la controllò ma non notò niente. Disse che quei vuoti esistevano da sempre. Impossibile, disse lei, non vedeva che c’era tutto quello spazio, che le mancavano i denti? Non lo metteva in dubbio, disse lui, ma dalle radiografie non risultavano radici. La sua chiostra, pur se particolare nella conformazione, era così e basta.

«E se mi cadono altri denti?» domandò.

«Questo dipende da lei.»

Non era sicura di aver capito cosa intendesse il dentista, ma fece finta di sì e se ne andò. Una volta a casa a lui non disse niente di quanto successo, disse invece ciò che lui voleva sentirsi dire: che andava tutto bene, cosicché il problema, l’impiccio, potesse considerarsi risolto. E che il problema fosse risolto se ne convinse pure lei: il dolore era scomparso improvvisamente e altrettanto improvvisamente i denti rimasti si erano fatti più larghi e sembravano stare più comodi.

Quando cadde il terzo dente erano a cena con i genitori di lui e a cena lui disse: «Abbiamo deciso che a Capodanno venite da noi.» Non lo avevano deciso, per la verità, ne avevano parlato, sì, ma lei aveva espresso, o almeno così credeva, il desiderio di passarlo in montagna il Capodanno, il desiderio, almeno una volta tanto, di fare qualcosa che piaceva a lei. E invece aveva deciso lui per entrambi e lo aveva fatto in quel momento lì, perché a lui non piaceva la montagna. Avrebbe voluto dirglielo: hai deciso senza di me, ma il dolore si risvegliò improvviso, uno sfrigolio sotto le gengive, proprio mentre diede un morso al trancio della pizza. Masticò l’impasto finché la lingua non riconobbe una durezza e una forma già sentite. Lui intanto le sorrideva e lei ricambiava, annuiva senza sapere perché. Doveva sputare il dente e lo doveva fare subito. Lo fece alla domanda di lui: «Cosa prepariamo per Capodanno?»; a quella domanda lei si alzò, mugugnò qualcosa di simile a un «arrivo subito» e corse in bagno. Prona davanti al cesso sputò impasto e dente. Scaricò, si sciacquò le mani e tornò.

Quest’abitudine di perdere i denti un po’ la spaventava e un po’, doveva ammetterlo, la incuriosiva perché a ogni caduta la lingua sembrava più libera di muoversi, di essere sé stessa. Perciò il quarto dente lo aspettò. Così pure il quinto. Il sesto invece lo cercò. Lo pescò dal fondo della bocca, raggiunse il più indeciso, mosse avanti e indietro, come faceva da piccola, finché quello non si staccò. Con dolore. Un dolore acido e dolce, pruriginoso. Col dentifricio che le imbrattava la bocca, si era guardata allo specchio: ora aveva un sorriso contornato da una barba di pasta e sangue, un sorriso sul punto di diventare vuoto. Avrebbe voluto dirglielo a lui questa cosa della sua bocca che stava cambiando. E lì nel bagno si chiese quali altre parti del corpo avrebbero preso a cambiare, cosa di lei non ci sarebbe stato più, e se di lei non ci sarebbe stato più niente in che modo poteva considerarsi ancora lei.

Forse lo avrebbe fatto, forse glielo avrebbe detto del cambiamento, se non fosse stato per quel suo modo irruento di bussare alla porta del bagno e soprattutto per quella domanda, non quella in cui aveva detto: «Mia madre vuole sapere se deve portare qualcosa per il Cenone di domani», ma per la seconda, fatta dopo che lei non aveva risposto: «Allora?». Ad «allora» il dolore dalla lingua raggiunse gli occhi, che fu costretta a chiudere. «Ci sei?» insistette lui. Certo che c’era, non c’era altro posto dove poteva essere, dove doveva essere. Non certamente dove voleva, e cioè in montagna, tra la neve che attutisce ogni cosa, attutisce la parole, pure il dolore. Fece un respiro profondo alla ricerca dell’ultima oasi di calma. «Sì» disse solo, e tanto bastò a rinvigorire il dolore. «Sì cosa? Deve port…» con le parole di lui che presero a sbiadire diventava più nitido il punto d’origine, la fonte del dolore. Lo cercò con la pinzetta. Aprì la bocca: arrivò dietro al canino e tirò con più forza di quella necessaria: in un niente il centro del dolore sparì. Ricomparve un attimo dopo, però, da un’altra parte, alla domanda di lui: «Ha detto mia madre: va bene se portano la sogliola?». La sogliola che lei odiava, perché pulirla era una faticaccia, bisognava tirarle via la pelle cocciuta, con l’indice che ravanava nella bocca del pesce, nelle branchie.

In basso a sinistra: tirò. Per sicurezza tirò pure quello a fianco e quello a fianco ancora, tirò quelli di sopra speculari, tirò finché non ci fu più niente da tirare e la sua lingua si prese tutto lo spazio che le era mancato. Controllò la chiostra: liscissima. Prese le forbicine, consumate come lo erano le parole tra lui e lei, consumate da tutte le volte in cui lei aveva detto a lui di non usarle, le forbicine, perché quelle forbicine appartenevano a lei e a lei soltanto. Usò la punta, ancora affilata, per lacerare la gengiva lungo la linea che un tempo ospitava i denti, ritti, sull’attenti, sempre pronti a dire sì a ogni comando, mai ribelli. Denti che in fondo non le appartenevano più, che non erano più lei. Lacerò la carne proprio per questo: per vedere cosa c’era sotto. Per vedere se anche dentro era corrosa, smangiucchiata, come lo erano i denti che non erano più denti suoi. Lacerò e non c’era dolore. Lei era già oltre. Il palato duro pendeva ora molle come una seconda lingua ma senza vita. Infilò il dito in bocca e tirò come faceva con la pelle della sogliola. Tirò via la pelle del viso, del collo; lungo le spalle, all’altezza delle clavicole, si aiutò con le forbicine. Tagliò lungo le braccia, sotto le ascelle, tutto fino ai piedi, finché non ci fu più niente della sua vecchia pelle. Asciugò il sangue rappreso su tutto il corpo e si guardò. Le mani, le braccia, la pancia, le gambe, c’era una pelle più chiara a rivestirle, una pelle che dava forma nuova al suo corpo. Pure la bocca, dapprima leggermente pronunciata verso il basso e in un perenne broncio, cambiò, ed espressioni nuove si sostituirono a espressioni vecchie. Con la lingua, che ora era diversa, sentì i denti nuovi farsi largo lungo la gengiva. Denti frastagliati e ribelli, più duri di quelli vecchi, pieni. Passò la lingua lungo questa chiostra di denti nuovi, come ad accarezzarli, ad accarezzare la ricrescita, e sorrise.

IPNOCRAZIA. Trump, Musk e la nuova architettura della realtà

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Edizioni Tlon presenta l’8 dicembre in anteprima mondiale a PLPL  IPNOCRAZIA. Trump, Musk e la nuova architettura della realtà di Janwei Xun in uscita il 15 gennaio.
Ipnocrazia è una mappa per orientarsi nel territorio confuso e affascinante della contemporaneità, per scoprire nuovi modi per disertarlo, abitarlo e sabotarlo. Nel suo libro d’esordio, Jianwei Xun mostra i meccanismi che regolano la nostra epoca di «narrazioni ipnotiche», svelando come il potere non agisca mediante l’oppressione ma attraverso le storie che consumiamo, condividiamo e a cui crediamo.
Prendendo come casi di studio le figure di Donald Trump ed Elon Musk, Xun dimostra come questi non siano semplicemente imprenditori o politici di successo, ma veri e propri “architetti della realtà“, capaci di costruire interi universi percettivi alternativi. La loro influenza non deriva dal controllo diretto delle istituzioni, ma dalla capacità di manipolare la coscienza collettiva attraverso tecniche ipnotiche di massa.
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Nota del traduttore

Con Ipnocrazia ho avuto la sensazione immediata di trovarmi di fronte a qualcosa di raro: un testo che non si limita a fotografare il presente ma che riesce a mostrarne il funzionamento interno. L’Ipnocrazia di cui parla Jianwei Xun, che seppur giovanissimo è considerato da alcuni l’erede di Jean Baudrillard e da altri quello di Byung-Chul Han, non è semplicemente l’ennesima teoria sulla società digitale o sulla postverità. È, piuttosto, una mappa inedita di come il potere operi oggi attraverso la manipolazione della percezione della realtà.

Il concetto di Ipnocrazia coglie qualcosa che altre analisi hanno solo sfiorato: il fatto che non stiamo semplicemente vivendo in un’epoca di manipolazione dell’informazione o di sorveglianza digitale. Stiamo assistendo a una trasformazione ben più profonda, in cui la realtà è diventata interamente gassosa. Non è più questione di separare il vero dal falso; la distinzione stessa ha perso significato, in un sistema che prospera proprio sulla coesistenza di realtà tra loro incompatibili.

L’autore costruisce la sua analisi attraverso una serie diconcetti originali che illuminano aspetti diversi di questa condizione: l’edging algoritmico, la sovranità percettiva, la resistenza oscura, per citarne alcuni. Non sono semplici metafore ma strumenti per comprendere e navigare un paesaggio in cui le vecchie mappe non funzionano più.

Ciò che rende questo libro particolare – e che porta le riflessioni di Xun oltre quelle di Baudrillard, di Han o di altri maestri dell’apocalisse – è il suo rifiuto di cadere nella facile e diffusa tentazione del tecnopessimismo, o nella trappola della nostalgia per un’età dell’oro della verità oggettiva. Il testo appare particolarmente rilevante per il contesto italiano, dove gli effetti dell’Ipnocrazia s’intrecciano con dinamiche politiche e sociali peculiari. La frammentazione della realtà che Xun descrive nel libro trova da noi un terreno particolarmente fertile, in una cultura da sempre abituata a barcamenarsi tra verità multiple e narrative caotiche; non a caso, uno dei pochissimi esempi virtuosi citati da Xun è italiano: si tratta di Luther Blissett.

Pubblicare questo libro oggi in Italia significa offrire uno strumentò di comprensione cruciale non per “svelare la verità” – sarebbe una “promessa ipnocratica”, per dirla con il filosofo cinese – ma per sviluppare quella che l’autore chiama literacy della realtà: la capacità di riconoscere e navigare tra reality system diversi, mantenendo un nucleo-guida di autonomia percettiva. Il libro che avete tra le mani non offre soluzioni semplici o consolatorie. Nella prima parte analizza l’homo social, per poi offrire nella seconda parte qualcosa di ancor più prezioso: una mappa per orientarsi nel territorio confuso e affascinante della contemporaneità, e nuovi modi per disertarlo, sabotarlo e abitarlo.

Buona lettura.

Andrea Colamedici

Il regno dei riflessi

La realtà si è dissolta in infinita riproduzione. Non esiste più alcuna idea centrale, nessun punto fisso da cui osservare il mondo. Ogni immagine si riflette in un’altra, ogni narrazione si moltiplica e si frammenta fino a perdersi nel rumore. Non c’è più vero o falso, ma solo l’infinita proliferazione di possibilità. Il reale non può essere posseduto, verificato o conquistato. Lo si può soltanto guardare svanire.

E il potere ha abbandonato i suoi vecchi strumenti. Non comanda più attraverso le leggi. È diventato imponderabile, impercettibile, come un’ombra ossessiva. Abita i simboli, si nasconde nei flussi, scorre attraverso i dispositivi che plasmano la nostra immaginazione. Non reprime; seduce. Non persuade; modula. Non comanda; ripete. Viviamo in uno stato di ipnosi permanente, dove il ritmo ha sostituito il significato e il flusso ha cancellato ogni possibilità di evasione.

L’Ipnocrazia ha sviluppato un linguaggio sofisticato di induzione ipnotica che opera simultaneamente su multiple dimensioni della coscienza. La ripetizione ossessiva è il suo elemento più evidente. Ma, più in profondità, è all’opera una complessa architettura di suggestione che modella la nostra percezione della realtà.

Il ritmo è fondamentale: alternanza studiata tra shock e torpore, tra eccitazione e spossatezza, tra paura e rassicurazione. Come un ipnotizzatore che modula la voce, il sistema ipnocratico alterna crisi e calma apparente, emergenze e distrazioni,minacce e conforti. Questa pulsazione continua mantiene la coscienza in uno stato di perpetua instabilità controllata.

La frammentazione dell’attenzione non è un effetto collaterale ma una tecnica precisa. L’overload informativo serve a esaurire le risorse cognitive fino al punto in cui la suggestione può penetrare più facilmente. Il multitasking perpetuo è una forma di induzione ipnotica che impedisce il consolidamento del pensiero critico. La costruzione di realtà alternative in serie avviene attraverso la tecnica della stratificazione progressiva. Ogni suggestione viene introdotta gradualmente, circondata da elementi familiari che la rendono accettabile. Come l’ipnotizzatore che guida il soggetto passo dopo passo in una realtà immaginaria, il sistema costruisce universi paralleli un dettaglio alla volta.

La confusione temporale è cruciale: passato, presente e futuro vengono costantemente rimescolati. La nostalgia di uno ieri mai esistito si fonde con l’ansia per un domani sempre imminente ma mai attuato. Il presente stesso diventa evanescente, impossibile da afferrare. In questo tempo gassoso, la suggestione trova l’aria in cui farsi disperdere. Quando emerge una qualche resistenza, il sistema non la combatte: la ingloba in una meta-narrativa. Ogni critica viene trasformata in conferma, ogni opposizione in validazione. È la tecnica suprema dell’ipnosi: usare la resistenza stessa per approfondire la trance. Gli ipnotizzatori contemporanei sono maestri nel trasformare lo scetticismo in una forma più profonda di suggestione. La pillola rossa diventa così solo un’altra forma di sonnifero, la verità nascosta un altro livello di trance.

Nell’era dell’Ipnocrazia, il potere si manifesta principalmente come un’architettura del desiderio. Le piattaforme digitali – Facebook, TikTok, Instagram – non sono semplicemente luoghi di connessione. Sono spazi di cattura. Questi sistemi non mediano la realtà; la riscrivono. Ogni immagine pubblicata non riflette il mondo: lo crea. Ogni algoritmo non registra comportamenti: li anticipa, li dirige.

I social network non sono piattaforme di comunicazione; sono camere di induzione ipnotica di massa perfettamente progettate. Ogni loro elemento è calibrato per produrre e mantenere stati di controllo attraverso contenuti virali. La viralità non è un fenomeno spontaneo ma una forma di contagio ipnotico; e i meme non sono battute ma vettori di suggestione che propagano stati alterati di coscienza attraverso il tessuto sociale digitale. Ogni trend è, infine, un’onda di trance collettiva che si autoalimenta senza solidificarsi mai.

L’Ipnocrazia, infatti, non costruisce un vero e proprio arsenale definitivo. Non crea ideologie. Satura. Il suo metodo non è censurare ma sovraccaricare. Il dissenso non viene represso: viene integrato, neutralizzato, assorbito. Ogni critica diventa parte del flusso, una narrazione tra tante. Ogni opposizione rafforza il sistema, trasformandosi in un’ulteriore conferma della sua totalità.

Il confine tra realtà e illusione si è ormai infranto. L’Ipnocrazia non costruisce semplicemente menzogne: ridefinisce ciò che può essere percepito.

Ogni gesto, ogni pensiero, ogni immagine che produciamo alimenta il sistema. Non siamo vittime: siamo complici. Ogni frammento di noi – ogni foto, ogni commento, ogni reazione – diventa un nodo nella rete. L’Ipnocrazia non ci governa: ci trasforma in parte di se stessa.

Eppure qualcosa rimane.

Non una verità, non un’ideologia. Ma una soglia. Un punto di consapevolezza che resiste al flusso. Non si tratta di svegliarsi, perché il sonno non può essere interrotto. E nessuno può garantire che non si stia semplicemente sognando di svegliarsi. Si tratta, piuttosto, di navigare imparando i ritmi della trance, mantenendo un nucleo pulsante e riottoso di lucidità nel cuore dell’alterazione.

Il reale, infatti, non è più un’esperienza. È una costruzione fragile e costantemente riscritta. Ogni clic, ogni scroll, ogni gesto quotidiano non è un atto innocente: è, come detto, un’adesione silenziosa. Eppure è proprio in questa adesione che risiede la possibilità di comprensione.

Non si combatte l’Ipnocrazia: la si osserva. E nell’osservazione prolungata si apre la possibilità di un nuovo linguaggio. Una nuova mappa. Non per sfuggire al regime ipnotico, ma per navigarlo senza perdersi. Per tracciare questa mappa, però, per comprendere veramente il territorio che dobbiamo navigare, non basta osservare il presente. Dobbiamo seguire le tracce che hanno portato fino a qui, non per cercare facili paralleli storici, ma per comprendere le rotture, le mutazioni, i salti che hanno generato la nostra condizione. La genealogia dell’Ipnocrazia, infatti, non è una storia lineare di progresso o decadenza, ma una complessa rete di trasformazioni che illuminano il presente proprio mostrandone la radicale novità.

 

SULL’AUTORE : Jianwei Xun è un filosofo e teorico dei media che lavora all’intersezione tra teoria critica, studi digitali e filosofia della mente. Il suo lavoro si concentra sull’impatto delle tecnologie digitali sulla coscienza collettiva e sulla formazione della soggettività contemporanea. Ipnocrazia è il suo primo libro tradotto in italiano.

Torri d’avorio e d’acciaio di Maya Wind

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di Giuseppe Acconcia

In Occidente le università israeliane vengono dipinte come bastioni liberali del pluralismo e della democrazia, ma in realtà hanno un ruolo chiave nel regime di oppressione del popolo palestinese.
Rendendo accessibili a livello internazionale molti documenti ufficiali israeliani, Maya Wind mostra infatti come i corsi di laurea, le infrastrutture dei campus e i laboratori di ricerca siano attivamente coinvolti in ciò che è sempre più diffusamente riconosciuto come un regime di apartheid. Descrive il modo in cui i dipartimenti di scienze giuridiche elaborano interpretazioni innovative per mettere Israele al riparo dalle condanne o dalle indagini internazionali per «crimini di guerra» o «genocidio». Rivela come le ricerche archeologiche fabbricano prove a sostegno delle rivendicazioni territoriali israeliane cancellando la storia araba e musulmana e avvalorando l’uso degli scavi al fine di espandere gli insediamenti ed espropriare le terre palestinesi. Documenta le collaborazioni con le forze armate e i produttori di armi nazionali e internazionali. Racconta come gli atenei stessi, fin dalla loro fondazione, fungano da avamposti di insediamento nelle terre palestinesi confiscate. E denuncia la violazione delle libertà accademiche fondamentali di docenti e studenti con approccio critico, oltre alla violenta repressione dei movimenti studenteschi.
Un libro che sta facendo discutere gli atenei di tutto il mondo, perché indica la fondatezza della proposta di boicottaggio dei rapporti di ricerca con le università israeliane al centro delle mobilitazioni contro la guerra a Gaza.

Marinella Perroni: «la teologia è queer»

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 «Non si tratta di “rendere queer” la Bibbia, ma del fatto che essa è già in se stessa, originariamente e sufficientemente, queer» scrive Gianluca Montaldi nell’introduzione all’edizione italiana di un commentario, la Bibbia Queer, curato da Mona West e Robert E. Shore-Goss. A chi ritiene questo accostamento stridente, oppure volutamente blasfemo, il commentario risponde convocando un numero vastissimo di studiosi ed esegeti che interrogano il senso molteplice delle Scritture, ovvero quell’irriducibilità che fa della Bibbia un testo mai integralmente decifrabile o appropriabile, se non in chiave fondamentalista.  Fondamentalismo che irrigidisce la teologia, arruolando l’esegesi in una serie di battaglie (come quella recentissima contro la “gestazione per altri”) che proprio la Bibbia potrebbe invece aiutare a decostruisce con un’altra prospettiva, sovra-naturale (o addirittura contro-naturale).

Α fronte delle molte critiche, l’accostamento tra Sacre Scritture e queerness non ha invece sorpreso Marinella Perroni, una delle figure più singolari della teologia italiana. Nata nel 1947, docente di Nuovo Testamento presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma e promotrice inesausta di una teologia militante (lontanissima però dal “muscolarismo woytiliano”), Perroni ha negli anni intessuto un fitto dialogo con Michela Murgia, che l’ha più volte citata come «capostipite della sua genealogia intellettuale». Proprio a lei dedica ora un libro, Colloqui non più possibili, dove la conversazione riprende a partire da un congedo forzato, da una separazione inevitabilmente dolorosa che permette però a Perroni di restituire la forza del pensiero teologico di Murgia, che non si muove di-contro ma proprio all’interno dell’orizzonte esegetico: «la Bibbia, la gabbia più strutturata e duratura di tutte, poteva essere smontata e rimontata in modo liberatorio» (Ricordatemi come vi pare).

Anche per Murgia, infatti, queerness e teologia hanno in comune la loro irriducibilità. In God save the queer, un catechismo femminista pubblicato nel 2022, la scrittrice si domandava, a proposito della carica sovversiva del “queer”, ma anche dell’assoluta alterità (della dissomiglianza) del Dio cristiano: come normalizzare chi rifiuta il concetto stesso di norma?  «Simili domande» scrive Murgia «sono piste di ricerca sociologica, ma sono anche domande teologiche, perché – estratte dal contesto – sono applicabili al Dio cristiano nella sua accezione di essere “Totalmente Altro” rispetto a noi».  Un’interrogazione queer che evita allora «di rapportarsi a Dio con definizioni – padre/madre o maschio/femmina, ma estensibili anche a bianco/nero, giovane/vecchio e altre dicotomie escludenti – che per le persone si stanno rivelando insufficienti o superate. La queerness come pratica della soglia è adatta a ragionare di un Dio trino che nella Persona di Cristo ha detto ai suoi: “Io sono la porta”.».

Emerge qui la radicalità di un pensiero che, forzando l’apparente sbarramento tra la militanza e l’interrogazione biblica,  delegittima non solo l’arruolamento oppressivo del culto cristiano (che per secoli ha trovato nel misticismo una straordinaria contro-narrazione), ma anche l’inconciliabilità tra fede e femminismo, spesso dichiarata per un (fin troppo) facile rigetto della religione tout court. Perroni invece ci pungola attraverso il pensiero di Murgia, tocca le questioni non stemperandole ma muovendosi nello stesso gesto radicale, in una forma di comune scottatura, come quando – a un certo punto del libro – si rivolge così a Murgia, riprendendo proprio la questione della “soglia”: «la tua radicalizzazione del discorso sulla soglia arrivava a individuarla non come luogo di passaggio verso nuove possibili fasi della vita o verso occasioni ancora inedite, ma come contesto interiore in cui abitare la soglia addirittura delle identità molteplici e accettare perciò come condizione permanente la continua rigenerazione non soltanto delle relazioni, ma perfino di sé. In un gioco, nel caso della famiglia queer, di reciproca libertà e di cura e di responsabilità di ciascuno e di tutti».

Una rigenerazione che diviene dunque mandato etico, e che mi ha spinto a provare a mia volta a entrare in questo dialogo “impossibile”, e a raggiungere Marinella Perroni al telefono per parlane insieme.

 

 

Giorgiomaria Cornelio: Partiamo dal titolo. “Colloqui non più possibili” sembra in qualche modo contraddirsi, dato che il libro stesso è un continuo dialogo, non solo tra te e Michela Murgia, ma anche con tante altre voci che convochi. È un libro che, nonostante parli di morte e congedo, trabocca di vita. Quindi, mi chiedo: davvero i colloqui non sono più possibili? O c’è ancora una promessa, uno spazio inatteso di dialogo con il dibattito contemporaneo?

 Marinella Perroni: Sai, il titolo in fondo smentisce se stesso. È come quelle persone che parlano del silenzio senza mai farne esperienza, o di cose come il sesso, come direbbe Woody Allen, proprio perché non lo fanno. Certo, il libro parla della fine di una persona, della perdita, ma è anche un libro che esplora i legami, che rivive le parole e i pensieri di Michela. Il “non” del titolo riguarda l’impossibilità di continuare a parlare con lei in un tempo che non esiste più. Ma questo non significa che il dialogo non continui.

 

G.M: Quindi, questi colloqui agitano ancora una memoria carica di futuro…

M.P: C’è però una tristezza che non può essere elusa, una sofferenza che viene fuori ogni volta che qualcuno, come te adesso, mi fa parlare di Michela. È una fatica che sento intensamente, soprattutto ora che l’età avanza e le perdite si accumulano. Non puoi fare a meno di portarle dentro, anche se cerchi di mettere da parte il dolore. Eppure, i colloqui non sono solo un modo per ricordare, ma un tentativo di tenere viva una relazione che non è finita, che continua ad evolversi nel tempo. Penso che questo libro sia un germe per tanti altri discorsi. In ogni pagina assenza e presenza sono due realtà che fanno una danza macabra o una meravigliosa danza primaverile.

 

G.M: E in queste pagine mi sembra che tu tocchi anche temi molto complessi legati alla fede, all’interpretazione delle Scritture. Parli di una teologia pubblica e di una teologia queer, che non si limita a una concettualizzazione distante, ma che è coinvolta interamente nella crisi: che sceglie di abitarla.

Scrivi, per esempio: «forse proprio per questo per secoli la Chiesa cattolico-romana ha espulso la Bibbia dal suo orizzonte teologico e quelle protestanti hanno cercato di tenerla a bada nelle gabbie del fondamentalismo letterario. È un insieme di libri complesso e contraddittorio, difficile. Soprattutto, però, è un libro sovversivo perché ti impone di andare alla ricerca del segreto della vita che la fede certamente illumina ma a corrente alternata, e mai senza farti nascere delle domande».

 In un’epoca come la nostra, può davvero esistere una teologia che non sia anche una teologia della crisi?

M.P: : Sì, purtroppo può esistere, perché esiste sempre una teologia “di palazzo”, quella che sta dentro le istituzioni, che segue il potere, che ha il compito di legittimare lo status quo. Ma quella non è la teologia che mi interessa. La vera teologia, quella che ha come base un Gesù che rifiuta il potere del palazzo – sia politico che religioso – è una teologia che nasce dalla crisi, che non ha paura di abitare il dolore, la perdita, la solitudine. La teologia che mi interessa è quella che esce dal palazzo, quella che guarda il mondo dal di fuori e lo interroga.

 

G.M. Quindi parliamo di una teologia che non è mai distante dal dibattito, e che non si rifugia nelle certezze. Proprio per questo nel libro hai affrontato (dialogando con il pensiero di Murgia) temi come la GPA (gestazione per altri), senza dare risposte nette, ma coltivando un’idea di complessità in netta distanza, per esempio, con il pensiero che ha portato a formulare recentemente il “reato universale” (arrogandosi il diritto dell’universalità).

 Quello che mi colpisce è che, mentre in alcuni ambienti si cerca di costruire certezze morali, questo libro sembra rifiutare quella logica, aprendo spazi a una riflessione più profonda, anche se più incerta.

 M.P: Quella del “reato universale” sarebbe una cosa spaventosa se non fosse ridicola, nel senso che a un certo punto quando tu ti rendi conto che non c’è nessun fondamento giuridico a una pretesa giuridica, allora capisci che questa pretesa non serve a dirimere i problemi della realtà, ma soltanto a orientarla ideologicamente. Quello che stiamo vivendo è un momento in cui alcune persone tentano di imporre verità universali. E lo fanno spesso appellandosi a principi religiosi, come se il cattolicesimo fosse una specie di monolite che offre risposte definitive. Ma questa non è la mia esperienza, e neppure quella di Michela. La legge, la religione, le istituzioni, in fondo, sono costruzioni umane. Quando leggi che i magistrati dovrebbero entrare in politica o che la Chiesa detiene la verità su questioni come la GPA, capisci che non c’è più una distinzione netta tra diritto e potere. È ridicolo, ed è per questo che ci dobbiamo interrogare. La legge è uno strumento per gestire il mondo, non per dettare verità assolute.  Io non ce l’ho con le istituzioni in sé, ma con l’idea che si possano usare per imporre una visione unilaterale e moralista.

 

G.M. : Quello che mi sembra emergere, soprattutto nel tuo approccio, è la necessità di mantenere una distanza critica, di rimanere fedeli soltanto a una ricerca senza destinazione certa.

 M.P.: Ogni volta che qualcuno si trova all’interno di un sistema, deve essere consapevole che la vera libertà di pensiero può venire solo da una visione che non è mai completamente dentro a quel sistema. È una questione di scelte personali, di storia, di esperienza. Chi guarda con occhi critici ha sempre una risorsa in più. E questo vale non solo per la teologia, ma per ogni campo di pensiero.

 

G.M.: La Bibbia è spesso vista soltanto come un testo conservatore,  da strumentalizzare, come avviene nel fondamentalismo. Eppure, leggendo il commentario queer recentemente pubblicato, oppure il tuo libro o ancora God Save The Queer di Murgia, le Scritture sembrerebbero tramutarsi  in una sorta di iniziazione alla pluralità. Può la Bibbia, anche per chi non studia teologia, essere un testo di rilettura queer del mondo? Un testo che ci aiuti a esplorare nuove possibilità di vita?

 M.P.: Questa è una domanda complicata, perché la Bibbia è tanto, anzi, è davvero troppo. È un testo vasto, che esonda, che non può essere ridotto a una singola cifra. Pensa appunto all’uso che ne fanno i Trumpiani, o i fondamentalisti israeliani, che la trasformano in una bandiera ideologica. Per questo poco tempo fa ho scritto a un amico: “La Bibbia è stata la rovina della storia.” E lui ha risposto che, purtroppo, è vero. Ma io, come Michela, sento anche che la Bibbia possiede il potenziale per essere la liberazione della storia. È tutto nel modo in cui la maneggiamo. È vero che le istituzioni religiose la usano in modo fondamentalista, seguendo una tendenza che sciaguratamente vediamo dominare oggi in tutti gli ambiti, dalla politica alla società.

 

G.M.: Quindi, tu intendi la Bibbia come una sorta di “vettore” di liberazione, e insieme di oppressione. Dipende da come orientiamo la lettura, o meglio: dalla nostra capacità di non cedere a un unico orientamento, conservando il “molteplice senso delle Scritture”…

 M.P: Esattamente. Il problema, come dicevo, è che oggi viviamo in un’epoca di fondamentalismo a tutti i livelli. Per esempio, alcuni cattolici dicono che se una cosa la fa il Papa, allora è una grande cosa, e non si può discuterne. Non esiste possibilità di  dialogo. Ma il fondamentalismo non è solo un fenomeno religioso: è un’attitudine psicologica, una modalità di guardare al mondo che si nutre di paura, di discredito dell’essere umano, e di miti come quello dell’Eroe. Questo tipo di antropologia ha prodotto i fascismi, e li produce ancora oggi. Fondamentalismo significa voler ridurre la realtà a un’unica verità, senza spazio per il dibattito, senza spazio per la pluralità. E la Bibbia, se letta in maniera superficiale, può diventare un veicolo per quel tipo di pensiero. Ma se la leggiamo con occhi queer, è capace di mostrarci qualcosa di molto più vasto e profondo.

 

G.M.: Abitando la tua riflessione, potremmo allora dire che se è vero da una parte che la Bibbia “esonda” e può essere un testo di iniziazione all’identità molteplice e mai “conclusa”, dall’altra però è anche quel testo che ci costringe a fare i conti con il riemergere dei fascismi, a capire che non possiamo cancellare il passato, non possiamo fare a meno di studiarlo. Insomma: per evitare i fascismi è bene prendere in analisi i miti fondativi che nascono proprio da una distorsione delle Scritture, capire che la Bibbia è molto più grande di ogni idealizzazione strumentale che ne fanno le destre, che ne fanno i fondamentalisti.

M.P.: La Bibbia è un testo enorme. I fondamentalisti ne estraggono una lettura che limita e riduce la sua ricchezza, ma noi dobbiamo imparare a prendere la Bibbia nel suo insieme, a non cadere nella trappola di una lettura ideologica. Per esempio, l’Antico Testamento è incredibilmente ricco e “diffrattivo”. Non è un testo da ridurre a una moralità rigida. È piuttosto un racconto che contiene una molteplicità di storie, voci, conflitti, ed è lì che si nasconde una potenzialità che i fondamentalisti non vogliono vedere.

 

G.M.: Molti, parlando della Bibbia, sembrano però preferire il Nuovo Testamento, mentre l’Antico Testamento è spesso giudicato come oscuro, interamente patriarcale. Tu, invece, da studiosa militante del Nuovo Testamento, sembri avere una particolare affezione per l’aspetto anticotestamentario…

M.P.: Sì, la mia affezione per il Vecchio Testamento è profonda. Trovo che il Vecchio Testamento rappresenti perfettamente l’assunzione della molteplicità, il riconoscimento che la realtà è complessa. Dopo di che, io sono neotestamentarista, sono cristiana, ma il Nuovo Testamento, pur essendo fondamentale per il cristianesimo, tende ad avvicinarsi a un’idea di unicità, di verità assoluta. L’Antico Testamento è invece l’espressione di una lunga storia di lotte, di conflitti, di differenze, che sono proprio ciò che caratterizza l’esperienza umana. Certo, ci sono nell’Antico Testamento anche aspetti difficili da comprendere, violenze terribili: non è che nella Bibbia si raccontino solo storie edificanti!

 

G.M.: Però noi dobbiamo fare i conti, lo dicevamo prima, anche con questi aspetti terribili, leggerne e rileggerne il mito, senza costringerci in una specie di “catechismo igienico” e moralista.  Anche perché può esserci del fondamentalismo anche in questo. Tu scrivi il contrario: «il compito di quella che chiamiamo teologia pubblica è entrare nel confronto tra i saperi»… senza strettoie, senza facili idealizzazioni.

M.P.: La Bibbia può insegnarci a vivere con la contraddizione, con l’incertezza, senza idealizzare il passato o pensare che la soluzione sia tornare a un’età “dorata” che non esiste. È un atto di liberazione, anche se non facile. Il punto è che dobbiamo essere disposti a fare i conti con la realtà nella sua interezza, senza nascondere la nostra paura. Se impariamo a leggere la Bibbia con questi occhi, vedremo che è molto più grande di come ce la raccontano i fondamentalisti. È il testo della molteplicità, e della vita che non si accontenta di risposte facili.

 

 

“El Petiso Orejudo”, l’operetta trash di María Moreno

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[Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la prefazione di Francesca Lazzarato al volume di María Moreno, L’atroce storia di Santos Godino. El Petiso Orejudo, Edicola Edizioni 2024, tradotto dalla stessa Lazzarato.
Buenos Aires, 1912: il figlio di poverissimi immigrati italiani Cayetano Santos Godino viene arrestato con l’accusa di undici crimini. All’epoca ha sedici anni e diventerà oggetto di studi e congetture pseudo-scientifiche fino alla sua morte, avvenuta in una gelida prigione alla fine del mondo. La sua storia – raccontata da María Moreno in un testo che fonde cronaca, saggio e romanzo – non è solo quella di uno dei criminali più misteriosi e celebri, ma anche quella di una società che rifiuta con violenza ogni manifestazione di alterità, mostrificando e punendo chi vive ai margini. Moreno è una giornalista, scrittrice e critica culturale.
Alla prefazione di Lazzarato aggiungiamo la pagina iniziale del libro.]

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di Francesca Lazzarato

È dagli anni Settanta che María Moreno va anticipando tendenze e mutamenti di rotta in campo letterario, anche se continua a definirsi una giornalista, ancor prima che una cronista, una romanziera, una saggista. Cominciò a scrivere per mestiere negli anni bui del Proceso de Reorganización Nacional, quando la censura ebbe il paradossale effetto di trasformare certe pagine culturali o di costume di quotidiani e riviste in un laboratorio dov’era possibile insinuare sotterraneamente idee proibite o sperimentare nuove strategie narrative. Moreno poté così permettersi di lasciar affiorare nei suoi articoli elementi di erotismo, dissidenza e controcultura, che l’ambiguità di uno stile barocco ed ellittico era sufficiente a mascherare, consentendole di affrontare temi che, allora come oggi, l’hanno resa un punto di riferimento per il pensiero della differenza.

La sua è un’opera vasta e complessa da situare tra il giornalismo, fonte di testi poi rielaborati e raccolti in una dozzina di volumi, e una narrativa caratterizzata dalla fusione di generi diversi, dal saggio alla cronaca al romanzo, fino alla cosiddetta “scrittura dell’io” concentrata soprattutto nello straordinario Black out (2017), quattrocento pagine in cui Moreno parla, con mirabile audacia formale, della sua storia, di un corpo sofferente o desiderante e dell’alcolismo di cui si è spogliata come di un abito logoro, ma anche della fitta costellazione sociale e intellettuale di un’Argentina non così remota, eppure viva solo nella memoria.

Anche se continua a tenersi lontana dal mercato e dalle gerarchie del canone, la sua figura si è lentamente spostata dal margine al centro di un contesto editoriale ormai propizio a quella che si usa chiamare cronaca, genere di frontiera attorno al quale si addensano numerosi equivoci e sulla cui natura si continua a dibattere, ma che per Moreno rimanda innanzitutto alla tradizione latinoamericana del secolo XIX, impersonata da José Martí, Amado Nervo o Ruben Darío. E se riconosce in Rodolfo Walsh l’autentico cronista investigatore, colui che scova, redige e diffonde le notizie in un circuito parallelo a quello dei media e del potere politico, l’autrice argentina assegna pari importanza al Manuel Puig della maturità, che in Sangue di amor corrisposto accoglie la voce altrui e registra i toni dell’oralità popolare.

Moreno, insomma, non pratica un giornalismo travestito da letteratura, che si propone come testimonianza e si attiene rigidamente ai fatti, secondo i dettami dei cronisti nordamericani; la “sua” cronaca richiede l’esercizio dell’immaginazione e procede verso l’indispensabile creazione di uno stile memore dell’avanguardia attiva in Argentina fra gli anni Sessanta e Settanta (quella di Germán García, di Libertella e Lamborghini, di Fogwill e Perlongher, solo per fare qualche nome). Una scrittura che rivendica la disobbedienza, l’accostamento di materiali eterogenei, l’uso del kitsch come sberleffo alla normatività del “buon gusto”, la passione neobarocca, l’intervento dell’ironia là dove si addensano le ombre della tragedia, e infine la presenza costante di voci subalterne e poco ascoltate. Perché Moreno è ben consapevole del fatto che, come sosteneva il messicano Carlos Monsiváis, il cronista latinoamericano non può rinunciare a una polifonia in cui trovino posto gli emarginati e gli esclusi, proprio come accade nell’ammaliante cronaca-saggio-romanzo da lei dedicato nel 1994 a un reietto leggendario, El Petiso Orejudo, alias Cayetano Santos Godino.

El Petiso, El Oreja, El Orejón: comunque lo si voglia chiamare, questo figlio di poverissimi immigrati calabresi è forse il criminale più misterioso e celebre della storia argentina, e neppure un altro famoso assassino adolescente, Carlos Robledo Puch – serial killer dal volto angelico che terrorizzò Buenos Aires nei primi anni Settanta – lo ha scalzato dal suo spaventoso piedistallo.

El Petiso è diventato figura del folclore, modo di dire, icona, spauracchio, simbolo, e il suo mito fa così saldamente parte dell’immaginario nazionale da aver lasciato innumerevoli tracce: per esempio nelle strade e nei musei di Ushuaia, dove statue e murales lo ricordano, nelle vignette di alcuni comics, sugli schermi (El niño de barro, un film a lui ispirato, è del 2007), nei negozi che ad Halloween vendono la sua maschera, nelle pagine di libri-reportage e di trattati criminologici, o in quelle di romanzi e racconti (il suo fantasma appare, per esempio, in Pablito inchiodò un chiodino, novella di Mariana Enríquez).

Maria Moreno ha costruito intorno a lui un testo magnificamente ibrido, in cui convivono il lunfardo dei bassifondi e il cocoliche (lo spagnolo storpiato dai tanos, gli immigrati italiani, che la traduzione ha scelto di restituire tramite un’allusione all’origine calabrese dei Godino), il linguaggio stilizzato dei medici, l’enfasi e la retorica della stampa e la prosa burocratica di giudici e poliziotti. E, come sempre, la scrittura dell’autrice sfugge a ogni classificazione, si spinge ben oltre le frontiere della cronaca, si fa beffe della tassonomia critica, disintegra i generi e ne mette in discussione la legittimità.

Fedele all’abitudine di riscrivere, rinnovare, riutilizzare, nel 2021 Moreno ha ampliato El Petiso Orejudo, aggiungendovi un poema corale da lei definito «un’operetta trash»: brevi note in prosa e versi in cui si coglie un’eco di tanghi o di strofette da café chantant, che precedono ogni capitolo e si rifanno al tumulto di una Buenos Aires immensa e tenebrosa, un moderno «bosco di mattoni» che, pochi anni dopo la condanna di Santos Godino, Roberto Arlt comincerà a descrivere nelle sue Aguafuertes, cronache attente a ogni minuzia della vita quotidiana. Accanto all’ironico e dolorosamente sarcastico narratore onnisciente della prima versione, che non manca di cedere a più di una tentazione metaletteraria e inserisce nel racconto documenti d’archivio, perizie mediche, articoli, interviste, allusioni a personaggi dell’epoca, Moreno ne ha collocato un secondo, un «poeta macabro dalla squisita e tropicale immaginazione» che dà spazio a travestiti, truffatori, ladruncoli, freaks, malati di mente, bambini sfiniti dal lavoro in fabbrica, sartine tisiche, bimbette arse vive dalla furia del Petiso e galeotti in marcia nel glaciale paesaggio patagonico.

Evocate con rapida efficacia, le loro voci contribuiscono a definire l’immagine di una città-batterio “infettata” dal popolo degli immigrati, forza-lavoro indispensabile ma intrinsecamente minacciosa, la cui pericolosa diversità è riassunta e dilatata dalla figura estrema del Petiso: nuovi arrivati visti come portatori di delinquenza e degenerazione, “primitivi” ma non per questo incolpevoli, proprio come i popoli originari che secondo Domingo Faustino Sarmiento, uno dei padri fondatori della patria argentina, per il semplice fatto di esistere mettevano la nazione davanti a una scelta cruciale tra civiltà e barbarie. La folla di comparse chiamate alla ribalta dall’irriverente “poeta macabro” porta con sé eloquenti fotogrammi della società argentina all’inizio del Novecento, e allo stesso tempo svolge la funzione di coro greco nella tragedia dell’Orejudo, “mostro” impenetrabile giudicato e condannato sulla base del positivismo lombrosiano, che in Argentina, come in tutta l’America Latina, ebbe enorme fortuna e si trasformò in un’efficientissima arma biopolitica.

Resta da chiedersi se quella che María Moreno ci sottopone nel suo esemplare e provocatorio testo-collage, squisitamente frammentario e capace di fondere grottesco e sfumature liriche, sia solo un orrorifico true crime trasformato in letteratura, una storia lontana nel tempo e nello spazio, tutta e solo argentina. Ed è quasi ovvio rispondere che in essa si riflette anche l’inquieta oscurità del nostro presente, e che, dopo oltre un secolo, l’atroce storia di Santos Godino continua a interpellarci con immutata intensità.

***

IL RAPIMENTO
Brr! Che freddo! Notte fonda nella Città Bacillo (come un nuovo focolaio dell’anomalia dominante). Nel ventre nervoso della Cristalería Rigoleau la giornata operaia non si fermava. Macchine bizzarre diffondevano un rumore monotono di striduli ingranaggi, che si espandeva contro il soffitto di lamiera insieme alle grida infuriate del caposquadra e ai soffocati colpi di tosse che sono il respiro del lavoro. Bambini curvi su pozzi fumanti soffiavano bottiglie, altri, seduti davanti a lunghi tavoli, limavano bordi di barattoli (avevano occhiaie come succhiotti e grembiuli grigi come le nubi prima della tempesta). A un tratto uno si addormentò. Il caposquadra si avvicinò in punta di piedi e lo colpì con forza sulla testa. Al di là delle enormi finestre: la mole grigia della Fosforera Argentina, con i suoi bambini al lavoro davanti a grandi calderoni di magnesio. Faville nell’aria, identiche a quelle che sprizzano dalle rotaie del tram. Vampate di veleno dritte nei fragili polmoni. Alcuni tossivano e si pulivano il moccio sulla manica dell’uniforme grigia. Si sarebbe detto un miserabile giardino dei supplizi.

Coro Il palato del popolo
Quando la porca vita inizia appena,
Il sole spunta e pesto ed ammaccato
Il ratto torna quatto alla sua tana

Mentre nella Taverna dei Misteri
Tra il taccuino ed un’arma abbandonata
Last Reason beve gli ultimi bicchieri

Lui va in giro a cercar soddisfazione
Se ci riesce il cuor gli esplode in petto
Mentre fugge fremendo d’emozione
E l’aria sa di sangue d’angioletto!

(firmato «un poeta macabro dalla raffinata e tropicale immaginazione»)