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Carte da slegare 2014 – a Patrizia Vicinelli e le altre

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pv

9 MARZO

Sasso Marconi (BO),
Sala Giorgi
ore 17,15

FRAGILI GUERRIERE

con Rosaria Lo Russo (poetrice)

presentazione del progetto poetico-politico Fragili Guerriere di Daniela Rossi e Rosaria Lo Russo e letture da Patrizia Vicinelli, Amelia Rosselli, Rosaria Lo Russo

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Carte da slegare 2014, a Patrizia Vicinelli e le altre, a cura di Loredana Magazzeni, Martina Campi, Marinella Polidori, Maria Luisa Vezzali, Giancarlo Sissa

 

Ingresso libero

 

Ucraina, Crimea, Russia

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di Giovanni Catelli
porto di Sebastopoli

Dopo il cambio di potere avvenuto a Kiev, in seguito alla fuga del Presidente Viktor F. Janukovyč e al collasso del regime, la Russia ha immediatamente avviato le proprie contromisure per tenere stretta l’Ucraina nella propria sfera d’influenza. Il sostegno dato da Europa e Stati Uniti alla rivolta ucraina, e la connotazione nazionalista-ucrainofona dei rivoltosi, è stato particolarmente indigesto a Mosca, ed anche ai russofoni delle regioni orientali e meridionali dell’Ucraina stessa. A tutto ciò si è unita una propaganda spinta ai massimi livelli, in cui le tv russe e le tv ucraine di proprietà degli oligarchi fedeli al Presidente, mostravano come predominanti nella rivolta le fazioni di estrema destra, come Pravi Sektor, Svoboda e Spilna Sprava, quasi che la rivolta contro un regime di leggendaria corruzione, che soffocava ormai l’intera economia ucraina, fosse prerogativa di pochi facinorosi nazi-fascisti, odiatori dei russi e di chiunque parlasse la lingua russa.

Le lettere di Emil

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[Ha avuto una vita breve (1956-2003) ma un ruolo molto importante in quella generazione di poeti, che si è confrontata in modo nuovo e radicale con la realtà romena durante gli ultimi anni del regime comunista. Con un brano scritto dal poeta Claudiu Komartin.]

di Mariana Marin

traduzione di Clara Mitola

I

Penso a te
disperso tra quelle città d’Europa
dove io non arriverò mai.
La Rivoluzione non è iniziata nemmeno quest’anno
ma noi continuiamo ad aspettarla,

Le Sorelle della San Francisco perpetua

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di Silvia Pareschi

sisters
Immagine tratta da sistersofperpetualindulgence.tumblr.com/

A chi fosse in cerca di un modo insolito per trascorrere la Pasqua a San Francisco, suggerirei di fare un giro a Dolores Park, oltrepassare gli hipster e le famigliole e dirigersi verso la zona dove si celebra la 35ma edizione dell’Easter Sunday in the Park, il festival che comprende il famigerato “Hunky Jesus Contest”, il concorso per l’elezione del Gesù più fico. Nell’edizione del 2011, al grido di “Perché Gesù aveva senso dell’umorismo”, lanciato dai due presentatori truccati come maschere kabuki in boa di piume rosa e minigonna, si sono susseguiti sul palco, fra gli altri, un Gesù masochista frustato da una suora (anche lei in minigonna), uno Stimulus-Package-Jesus con lo slip imbottito di dollari, uno Yoga-Jesus che si vantava di saper assumere svariate posizioni, un Fat-Drunk-Redneck-Jesus somigliante a John Belushi, un Jesus attraente e muscoloso che si è denudato ed è stato ripetutamente palpeggiato dalla maschera kabuki che fingeva di nasconderlo al pubblico ululante. Quest’ultimo Jesus è arrivato in finale, ma è stato battuto a suon di ululati dal più blasfemo di tutti, che portava legato sul davanti un pupazzo vestito come lui con il quale mimava mosse oscene: Jesus-F…-Christ.

La bambina pugile

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sam harris

Chandra Livia Candiani

È passato un anno.
Ora è prima o dopo?
In cappella si pregava
un Dio a tempo.
Venivo convocata,
non eri ben caricato,
non morivi secondo l’orologeria.

Il treno fantasma di Charles de Meaux

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Train fantôme   di Ornella Tajani

Si intitola Le train fantôme la nuova installazione del videoartista Charles de Meaux, in mostra al Centre Pompidou di Parigi ancora per pochi giorni. Dall’esterno somiglia a uno dei tubi simbolo dell’architettura del museo: rivestito di tessuto bianco, il tunnel presenta all’interno una serie di schermi paralleli che lo percorrono interamente, come i finestrini di un treno, proiettando immagini di città e paesaggi, colti in tutte le fasi del giorno, alternate a brevi flash di film cult. Sailor e Lula in auto, l’esplosione della villa nel finale di Zabriskie Point, Burt Lancaster su un trampolino in Un uomo a nudo, tratto dal bellissimo racconto Il nuotatore di John Cheever; e ancora Stromboli, Taxi driver, Il terzo uomo, Il bandito delle ore undici. Memore della prima installazione mai esposta al Beaubourg – Crocodrome di Tinguely, de Saint-Phalle e Luginbühl -, de Meaux ha voluto ricreare un percorso in cui l’immediatezza dell’immagine si impone sulla complessità del mondo e diventa medium di una memoria collettiva e condivisa. Ciò che lo spettatore guarda gli è già noto, ma nella sequenza delle scene proiettate e nella successione di schermi che catturano l’occhio uno dopo l’altro, senza mai permettergli di soffermarsi davvero, sta il potere di suscitare il ricordo, uno dei temi cui è dedicata questa edizione del Nouveau Festival nell’ambito del quale l’opera è esposta.

«Siamo rimasti con questo gioco di significanti puro e aleatorio che chiamiamo postmodernismo, il quale non produce più opere monumentali sul genere di quelle del modernismo, ma rimescola ininterrottamente i frammenti di testi preesistenti, i mattoncini della vecchia produzione socioculturale, nel quadro di un nuovo e intensificato bricolage. Metalibri che cannibalizzano altri libri, metatesti che raccolgono pezzi di altri testi: questa è la logica del postmodernismo in generale, che trova una delle sue forme più vigorose, originali e autentiche nella nuova arte del video sperimentale», scriveva Fredric Jameson nel volume ormai di riferimento del 1991, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo. L’esempio da lui citato era l’artista Nam June Paik, con le sue opere composte di molteplici schermi, il cui obiettivo era proprio quello di evitare che lo spettatore si concentrasse su uno soltanto, in modo da trascinarlo nella “varietà discontinua” che è la realtà frammentata e schizofrenica del postmoderno.

Le train fantôme rientra perfettamente in questa linea. Sul sottofondo di una serie di rumori meccanici – in realtà cigolii di vecchi robot che seguono la partitura delle Variazioni Goldberg di Bach e che, nella loro ripetitività, restituiscono il senso di un movimento ininterrotto -, le immagini si susseguono in modo tale che la proiezione sullo schermo più vicino allo spettatore sia sempre in ritardo di qualche secondo rispetto alla successiva: proprio come a bordo di un treno, se lanciamo lo sguardo qualche metro più avanti vediamo quello che scorrerà nel finestrino accanto a noi solo pochi attimi dopo. Ma possiamo anche permetterci di guardare il prima e il dopo contemporaneamente, o quasi – o magari percorrere il corridoio del treno al contrario; se a ciò aggiungiamo che la proiezione riprende ciclicamente e senza interruzione, abbiamo un’idea della sincronicità e della rottura della temporalità di cui parlava Jameson, di quell’eterno presente che è unità di tempo di un’epoca in cui il rapporto dell’individuo con la storia si indebolisce e relativizza.

L’opera di de Meaux è un pastiche video che fa appello a un immaginario collettivo, nei luoghi anche anonimi che chiunque può “riconoscere” e collegare a un proprio frammento di esperienza, così come nei flash cinematografici che, in maniera quasi subliminale e fantasmatica, affiorano e saldano tra loro reminiscenze individuali, in un richiamo alla memoria riprodotto senza soluzione di continuità. Proprio la riproduzione e i suoi strumenti erano per Jameson il soggetto più profondo di tutta la videoarte; più poeticamente, però, è Robert Filliou, esponente del movimento Fluxus, che de Meaux preferisce citare in conclusione alle sue interviste: «l’arte è ciò che rende la vita più interessante dell’arte».

dieci poesie

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di michele zaffarano

da paragrafi sull’armonia, ikonaLíber, collana Syn, 2014

Zaffarano_Armonia

o entri nello scambio di segnali
oppure
guardi come tutto funziona
come tutto funziona in maniera diversa
il rapporto tra una parola e le altre
ammette incongruenze
la parola che ottiene un’espressione generale
è questo il valore
eccetera
quello che l’assunto di base rappresenta
rispetto alla dimensione
alla relazione tra i due termini

i pensieri di quelli che parlano a volte riflettono
calcolano i significati delle parole
grazie alla loro struttura
come figure del discorso
che ascoltano parole di conversione
il materiale pensato e passato
pensato perché
passato perché
come una parola semplice senza testo
la grandezza dello stesso nome
senza resto
oppure
quello stato umano astratto
il valore di scambio

i prodotti pensano le parole
le parole pensate sono la forma finale dell’universo materiale
rivelano la forma semplice
di isola
le leggi pensano di non essere soltanto parole

la parola è sempre dalla parte dell’ascoltatore
e viceversa

alla libertà di espressione
alla revisione dei conti
imprime il carattere
di equivalente universale

con queste parole
oppure
con questa forma
è stata sviluppata
una relativa forma di valore

dov’è il valore di parole in fasi di sviluppo minore
si trasformano in valore di scambio
la grandezza e la profondità di una parola
un modello per il movimento viene subito offerto
le parole condividono
le parole sono simili
ogni parola è un segno
ogni forma è un corpo
la precisione del linguaggio
la precisione è un linguaggio
quello che è materiale
nel mondo delle parole
le parole

questo dipenderà
da come torna di nascosto
ai valori
in altre parole
la parola è così
nel frattempo
la parola infetta gli altri rapporti
diventa immediatamente
una forma sociale
di pensiero

in breve
il corpo delle parole
può misurare il valore in comune
il valore dentro il corpo di parole
in comune
la mente umana come oggetto
come oggetto generale
corpo in comune

le parole
un altro genere
una parola specifica
il contenuto del discorso

Quarto paesaggio

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memo7marzo

Vieni a scoprire il Quarto Paesaggio

Venerdì 7 marzo 2014, dalle ore 18 alle ore 20 – Cascina Cuccagna, via Cuccagna 2/4 Milano

 

Presentazione dell’Associazione Non Profit Quarto Paesaggio e del progetto Parco delle Lettere. Parleremo di verde, di libri, di creatività e di come coltivare insieme una cultura naturale nella nostra città. L’incontro è aperto a tutti.

L’Associazione Non Profit Quarto Paesaggio è una libera comunità di cittadine e cittadini, indipendente e autonoma da partiti, sindacati, istituzioni ed enti, che intende promuovere la conoscenza, la valorizzazione e il rispetto del verde in natura, sul piano culturale, scientifico, artistico, creativo, sociale, economico e professionale.

L’Associazione nasce dall’interesse per il verde di un gruppo di milanesi con esperienze professionali nell’editoria specializzata (Nemeton Magazine, Edizioni Ambiente), nell’arte, nel giornalismo e nella comunicazione. Ispirato al Terzo Paesaggio di Gilles Clement, il Quarto Paesaggio è quello espresso artisticamente dall’incontro armonico tra esperienza umana e ambiente verde. L’Associazione intende esprimere questa visione con interventi socio-culturali ed editoriali sul/nel verde rivolti a tutti e in particolare alle comunità creative e alle reti sociali e professionali attente al territorio e alla qualità della vita.

L’obiettivo dell’incontro è di raccogliere idee e adesioni al progetto Parco delle Lettere – Spazi e interventi dedicati alla cultura nel verde metropolitano. Vogliamo attrezzare e qualificare porzioni di parchi pubblici come fonte di ispirazione e sede di aggregazione per chi vuole esprimere, condividere e accogliere messaggi culturali. La proposta è aperta a tutti e si rivolge a coloro che amano il verde e la letteratura, in particolare a giovani scrittori, architetti, designer, creativi e a tutte le associazioni che operano nel territorio metropolitano milanese.

Saranno illustrati gli elementi distintivi del Parco delle Lettere:

Alberi d’Autore: piantumazione di alberi “adottati” da scrittori con appositi racconti ambientati nel verde;

Design Verde: progettazione e realizzazione di arredi e istallazioni funzionali alla lettura e scrittura nel parco;

Centro Verde: mediateca dedicata al verde, spazio per attività di studio e ricerca, taverna letteraria;

Mappe Digitali: sistema di informazione telematica in realtà aumentata sui luoghi letterari e verdi di Milano;

Comunità Culturale: rete di soggetti e attività socio-culturali da svolgersi nel verde.

L’incontro prevede la proiezione di una presentazione e libera discussione sui temi proposti. Saranno in vendita a scopo promozionale libri editi da Quarto Paesaggio e da Edizioni Ambiente. Sarà offerto un stuzzichino leggero a base di pinzimonio. Chi vorrà associarsi a Quarto Paesaggio (quota minima 10 euro adulti, 5 euro giovani under 30) riceverà in omaggio un sacchettino di semi offerti da Bici&Radici.

Contatti:

Giorgio Tacconi

Presidente Quarto Paesaggio

Cel.: 338 9980871

Email: giorgiotacconi@gmail.com

Pagina Facebook: Quarto Paesaggio Milano

Vagiti d’Europa

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di Antonio Sparzani
Gianfranco Contini

I primi vagiti di un’idea di Europa si perdono certamente nella notte dei tempi, ma quello di cui vorrei raccontare qui si riferisce al periodo immediatamente postbellico, anno 1946. In questo anno un gruppo di personalità ginevrine prese coscienza della necessità di una ripresa del dialogo tra nazioni e culture profondamente lacerate dalla guerra e organizzarono le Rencontres Internationales de Genève, (RIG). Gli incontri si tennero in una prima fase con cadenza annuale, dagli anni settanta in poi solo negli anni dispari, mentre negli ultimi anni è ripresa la cadenza annuale; fino al 1995 gli atti sono stati pubblicati, dalle Éditions de la Baconnière, e in seguito dalle Éditions de l’Age d’Homme.
Qui il sito delle Rencontres.
Nel 1946 reporter d’eccezione inviato dall’Italia alle Rencontres fu quello che poi divenne uno dei massimi filologi e critici letterari italiani, Gianfranco Contini e Quodlibet ha pubblicato nel 2012 ― riprendendolo dalla «Fiera letteraria», I, 30, 31 ottobre 1946 ― il suo molto interessante reportage (G. C., Dove va la cultura europea?, con l’ottima cura di Luca Baranelli e un saggio di Daniele Giglioli, pp. 63, € 9.00).

Reader’s Digest

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blog+-+shining

 

Senza atipie

 

di

Matteo Cavezzali

 

E poi c’è questo posto che si sono inventati per venirci a nascere e a morire. Tanti corridoi lunghi e identici. Quasi deserti.

Qui ho incontrato una donna grassa con le stampelle, un bambino che piangeva di stanchezza e una anziana seminuda. Uno vestito di bianco che parlava al cellulare mi guarda e mi fa: ti sei perso. Io gli ho detto di sì. E lui fa spallucce: capita a tutti.

Faccio altri corridoi, scale e corridoi. Poi una mi dice di aspettare, allora mi siedo su una sedia a forma di sedia ricoperta di finta pelle blu a forma di sedia e aspetto. Accanto a me un vecchio tossisce. Aspetto. Tossisce. Aspetto. Tossisce.

Si spogli. Mi fanno mettere nudo brillo su un tavolo mentre una, vestitissima, mi osserva attraverso una lente con sguardo disinteressato. Parla con l’altra. Che le melanzane alla parmigiana vanno fritte per bene, che non capisce come certuni, questi salutisti, pretendano di farle senza friggere, le melanzane. Anche l’altra non capisce, come fanno. Si rivesta.

Non mi dice niente, ma capisco che non ho niente. Mi da solo un foglio con scritta un sacco di roba. E in fondo si legge “senza atipie cliniche”. Insomma bene, non ho niente. Vuol dire così? Sì. Bene. Così me ne vado subito da qui.

Lo chiamano “ospitale” ma io preferisco tornare a casa per pranzo, quelle due dottoresse e la loro parmigiana mi han messo appetito. Qui, dove si nasce e si muore, sono nato anche io, ma preferirei morire da un’altra parte. Magari a casa, ucciso dalla frittura di melanzane. Caduto a faccia in giù sulla parmigiana, col pomodoro che cola sulle guance. Che su quello le dottoresse han proprio ragione. Se non le friggi non ha senso nemmeno venire al mondo in questo palazzo anonimo fatto di corridoi  tutti uguali. Tanto vale rimanere di lá. (Là dove? É lo stesso posto dove si torna poi?). Lá, dove si sta prima di arrivare in questo mondo bastardo invaso di salutisti che mangiano leggero e sono sempre dietro a farsi visitare, senza mai avere niente.

 

 

 

 

Ando caz sta Zazà?

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La domenica pomeriggio su Radio Tre, c’è un programma che mi piace assai e si chiama Zazà . A loro, in particolare all’indiano Piero Sorrrentino dedico questo divertissement. effeffe

Boum Boum Za zà
di
Francesco Forlani

(campanella da schola)

Ke lu effeffe mica se capacitava de sta cosa, une chose simplex à l’orecio, à l’ocio, li sensi tuti. Parce que la campanela sonne sonne, sona Carmagnola quelques chose pouvait significar et dicere, pefforza. Mais alors, si l’era la campanela daa fine da a lesson cum l’è ca dintro nun ce steve nisciunn persone in da l’aùla, sapite cuma l’è, no, que manco se sente la prima nota que tuti e masculi et e fimine cole borze atracolla se precipitano à la porta cum tanta foga que te parono barbari afamati a colazione a sacco de roma? Eh eh eh

et si pure, ammettenn que la campana n’etait pas kela daa fine mais do cominciamento, cuma l’è, ke afora nun ce steve nisciunn persone de l’aùla, que manco se sente la prima nota que tuti e masculi et i fimine cole borze atracolla se resten sur la porta cum tanta rigdità de suonane et de scontento, immobili que te parono uardie svizzere cum le alabarde speziali? Eh eh eh

Mo lo fato grave que se tratava du terzo juorne de schola, et que mica à tuti li nomi ce stava na facia, mo, nun digo de Carlo Albatrosi che pure na facia intelligente ce teneva o primo banco, et que copia copiassa l’examen nun se passe, teniva à derecha lo Sergio Garufo, de Monza come la monaca e à gauche l’anema servagia de Georgia Amada. Accussì lu Cicio Panico, lu Marco Pelliccia et ttut et trinta sette tappetà perous, fino a la lettra zeta.

Egggià,perché sapite no? (pausa) e certe que lo sapite che lo dito indice do prufessò l’est pisaaaaant, l‘est puuuttteenttt, come lo dito de dieu ne lo giudizio universale de Micalangiulo et score sur lo registro da acopp a asotte, de l’alto, lo basso lu fragile et cum tanta lentezza che killi, i piskelli studend et studendess te sgamano subte tout de suite si staie pe l’interrugare la letra A, la G, L, M, o accusì ce pare, pecché quannne quanne ce pare que staie sotte sotte de l’elenco da a lista da spisa, que l’albatrosi suspira de salvezza e se sente afora do rischio et daa paura, que les jeux sont faits et rien ne va plus, kille, ò prufissure, a la surprisa generali nun te ciama proprio l’Albatrosi , ca poco ce manca che chille s’insurge et te menacia d’aller, d’ire, a purtare prutesta ò taaar et à tribunal? Eh eh eh

Ma o fato grave l’est que da l’inicio de l’anno, le seul ca teniva la lettra zeta nun ce stava, et manco na facia teniva, et manco lu sexo, car inspiegabilmente,- indifferentemente daa segreteria nun l’avevano mica soperta la ragioni- kella persone, studente? Studentesa? Vecio, magari ripetente, ou giovine dutata, teneve seulemen nu nome, ou lo cognome, qui sas qui sas qui sas, de deux sillabi, l’istess, Za et Zà.
Mo però le problema nun era de sapire dovestazzazzàomaronne mie, le prubleme ere de savoir dove stivetuta a classe, nasculi et fimine, et pensanne et rirenne, lo effeffe se girette vers a lavagna et con lo geseto blanco, de droite à gauche, à caracter cubitale cume l’è, cume nun l’è, ce steve scritte: SCIOPERO! Firmate ZAZà

Ah però
Et ke se vulive sapere e sto mistere, lo effeffe a Zazà, là lu putive trovare

Election day

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pappalardo 2

Votate votate ! APOLITICS NOW! (effeffe)

Tragicommedia d’una campagna elettorale

Fino al 9 marzo puoi vedere e votare on line

il film in concorso al Festival dell’Italian Cinema di London

http://www.italiancinemalondon.com/ido14/

Apolitics now

(istruzioni per l’uso)

di

Giuseppe Schillaci

Cos’è la politica oggi?  La campagna elettorale ci mostra le diverse facce del Paese: se crediamo nella democrazia, infatti, i candidati alle elezioni sono lo specchio nel quale ci riflettiamo. E osservando le campagne elettorali del 2012, la prima dopo la caduta di Berlusconi, vediamo che l’Italia è scossa dal caos politico e dalla necessità di un cambiamento radicale. I risultati delle elezioni nazionali del febbraio 2013 e la situazione attuale Letta – Renzi erano già prevedibili nel 2012 (amministrative di maggio e regionali siciliane di ottobre): crisi dei partiti della Seconda Repubblica; astensione e sfiducia nella politica tout court; grande numero di candidati e di nuove formazioni politiche (spesso improvvisate); divisione della sinistra e debolezza della sua classe dirigente; importanza decisiva del carisma personale (e della capacità comunicativa-spettacolare) dei candidati; emersione netta del fenomeno Grillo.

 

Apolitics Now! tragi-commedia d’una campagna elettorale è il racconto della fine di un’ epoca, la deriva di un Paese che soffre ma continua a sghignazzare, che urla e spera nel miracolo, danzando sull’orlo del precipizio. Il documentario racconta la campagna elettorale per il sindaco di Palermo, nell’aprile-maggio 2012, le prime elezioni dopo la caduta del governo Berlusconi: nella quinta città italiana, una delle più povere d’Europa, va in scena una versione grottesca della politica-spettacolo.

ballaroA Palermo, nel maggio 2012, si confrontano ben 12 candidati per l’elezione a sindaco: 7 dei vecchi partiti, seppure molti mascherano la propria appartenenza al sistema, e 5 candidati dei movimenti civici, tra cui quello di Beppe Grillo, ma anche il Movimento dei Forconi, e poi ancora: comunisti e fascisti, giovani post-berlusconiani e vecchi democristiani, generali dei carabinieri in pensione e imprenditori dell’autonoleggio: molti di loro proclamano orgogliosamente di non essere né di destra, né di sinistra, e nemmeno di centro. E anche a Palermo va in scena la tragedia della sinistra eternamente divisa, laddove il sindaco storico di Palermo, Leoluca Orlando, s’oppone al suo giovane delfino, Fabrizio Ferrandelli, vincitore ufficiale delle primarie: padre contro figlio.

Alle elezioni amministrative del 2012, in tutta Italia i partiti della cosiddetta Seconda Repubblica crollano: il movimento 5 stelle diventa il secondo partito italiano, e si parla già di Terza Repubblica. Apolitics Now! mostra i candidati che girano la città alla ricerca di visibilità e consenso: comizi tradizionali e post-moderni, spettacoli e cabaret, raduni di piazza e salotti, mercati storici e periferie abbandonate.

Il film è una co-produzione Stella Productions con France Televisions ed è stato diffuso in Francia nel settembre 2013. In Italia ha vinto il premio del pubblico al Salina Doc Fest.

 

 

 

MAIN CREDITS: Scritto, diretto e prodotto da Giuseppe Schillaci, DOP Carlo Sisalli, SUONO Danilo Romancino, MUSICA Gianluca Cangemi e Luca Rinaudo per Almendra Music, MONTAGGIO Laurence Miller.

 

 

 

I poeti appartati: Nunzio e Giuseppe Festa

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gli alberel

Gli alberelli del dopolavoro

di

Nunzio Festa

Nella loro innata semplicità, sono creazioni che riempiono due momenti vitali.

I loro compiti: coprire il momento del riposo prossimo al lavoro e posizionato quotidianamente tra lavoro e lavoro, dopo una giornata di cantiere e prima d’un’altra giornata di cantiere; riempire l’immagine del regalo a chi si vuol bene o a chi, in maniera più semplice, si vuol ringraziare. Gesti d’affetto; il primo per se stesso, il secondo per gli altri – a cominciare dalla più prossima delle persone che si hanno a disposizione.

Il rame s’intreccia ai pensieri. Ed, evidente che sia, spinge i suo colori (dello zincato come del rossiccio) verso l’unico rinfrancarsi possibile. Quando la famiglia dista circa un migliaio di chilometri dal posto di fatica e mentre lo spazio del lavorare abita, quindi, migliaia di metri dalla propria casa.

Giuseppe Festa, mio padre, ha iniziato a rapportarsi con i mestieri in genere all’età di dodici anni. In un caseificio gli han innanzitutto insegnato a “fare le mozzarelle”. Ma è stato l’incontro con un anziano del suo paese d’origine, Ginosa, provincia di Taranto e provincia d’alluvioni che fanno danni su danni, a regalarsi un altro segreto, che questa volta è da custodire nella cesta, poco spaziosa sicuramente, del tempo libero.

Anche se l’opera delle mani è incontra la dimestichezza che ci vuole per preparare la pasta di latte, epperò cresciuta nella lucidità e nella fermezza della carpenteria.

Da sempre lui si sposta dal suo paese d’adozione, Pomarico, provincia di Matera e provincia di frane e smottamenti che fanno paura legata col nastro della rassegnazione ad altra paura, per “non restare fermo”.

Giuseppe Fest

Però l’operaio, se messo in condizione di ‘procurarsi il pane’, ha pure la necessità di togliersi dalla testa cattivi pensieri e solitudine. Dove non conosci persone, per esempio. Oppure mentre sei in zone difficili da scoprire. Almeno che tu non voglia o sia costretto dalle condizioni imposte a stare nelle lamiere di quelle baracche montate tipo sul correre delle autostrade – panorama di molti spostamenti e viaggi. Ché i cantieri, specie nell’ex Belpaese, son sempre aperti. E da secoli i padroni dunque han studiato una formula sicura: issare nelle zone d’intervento dell’appalto di turno, quando tipo il lavoro durerà molti mesi, casette in lastre di lamiera che dovrebbero garantire agli operai il riposo del ‘trasfertista’. Che poi possono trasformarsi, alla bisogna certo, in veri e propri alloggi temporanei. Si legga, come a prendere una fotografia recente e famosa, la letteratura di settore sui cantieri aperti dalle parti del Mugello. (Perché là, inoltre, gli interventi finanziati han messo le maestranze e gli operai generici, vedi i lucani di Lauria, partiti per salire senza valigia di cartone ma con certezze di stabilità di cartone sui monti della Toscana, in un’ulteriore situazione imbarazzante: ché son essi stessi, insomma lo è il loro ‘normale’ lavoro, nel contempo contro popolazioni in opposizione ai progetti e immediatamente coinvolti nelle operazioni a danno delle fonti acquifere dell’area ospitante).

Con finto distacco, mio padre posiziona le sue opere sul tavolo che accoglierà la cena. Pronti per la foto.

Questa volta è quasi testimone d’un successo. Soddisfatto che finalmente qualcuno torni a interessarsi delle sue cose.

Ogni volta che ho regalato a qualcuno le sue creazioni, lui era “fuori” almeno dalla Basilicata.

Adesso gli alberelli che ha intrecciato nel recente passato sono soltanto un ricordo. Che però potrà ritornare in forma di futuro. Scostando, su tutti, relax più di sicuro più dispendiosi.

Non è andato e non andrà a giocare a carte nelle osterie di Massa e Carrara ripresi da Rovelli, Giuseppe Festa. Comunque i suoi alberelli sono un brindisi del lavoratore.

Lo Schola Post

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scolapasta

 

Alcolismo e insegnamento
di
Régis Jauffret
(traduzione di Francesco Forlani)
Faccio l’insegnante. Disprezzo i miei studenti come un datore di lavoro i suoi impiegati. Se avessi ereditato una fortuna da mio padre, invece di questo bilocale che è spazioso quanto due vasetti di yogurt, non sarei costretto a subire la loro gioventù radiosa e rivoltante per un cinquantenne allo sfascio sulla strada della vecchiaia e della morte. Il liceo in cui insegno si trova in un quartiere borghese della capitale. I genitori non si preoccupano affatto del rendimento dei loro rampolli. Gli basta fare buon uso delle loro relazioni, perché a fine anno il preside riceva una telefonata imperativa di un ministro o del provveditorato che ingiungono di promuoverli alla classe superiore. Nonostante tutto, il mio lavoro mi piace. Per via delle vacanze, degli scioperi, dei congedi per malattia. Inoltre, posso fare lezione anche  pressoché ubriaco, senza che l’amministrazione mi faccia pervenire una nota di biasimo.
Quindici anni fa, ho incontrato una collega assunta da poco, nella sala professori. Abbiamo fatto l’amore nei bagni della palestra. Seguivamo il ritmo delle flessioni che eseguivano gli allievi obbedendo ai colpi di fischietto della professoressa d’ educazione fisica. Abbiamo goduto tirando lo sciacquone per coprire il rumore dei gemiti. Ci siamo sposati il mese successivo per ragioni fiscali.
Adesso abbiamo soltanto rare conversazioni telefoniche. Lei non è completamente impazzita ma il suo stato mentale necessita di un ricovero all’anno. Ha squallidi rapporti con altri pazienti le cui performance sono rese deplorevoli dagli psicotropi. Pur non avendo alcun problema materiale e il cibo è decente, le capita di emettere un lamento che mi pare il primo tiro di una sigaretta interminabile il cui fumo si appresterebbe a gettarmi in faccia. Io riaggancio immediatamente nel timore di peggiorare il morale già a terra tra  burrasche di birra e gin.
Da tempo faccio a meno di una vita sessuale. Preferisco di gran lunga l’alcol, è anonimo, muto, e basta aprire la bocca per raggiungere l’ebbrezza, l’estasi. Gli perdono il mio decadimento e queste nausee che al mattino mi danno l’impressione di essere stato ingravidato durante la notte.

da Microfictions

Poesia contemporanea. XII Quaderno italiano.

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(Ricevo e volentieri diffondo l’esito delle selezioni per il Dodicesimo quaderno di poesia italiana contemporanea, edito da Marcos y Marcos. AB.)

Questi i sette nomi, le cui raccolte costituiranno la pubblicazione:

Maddalena Bergamin, Maria Borio, Lorenzo Carlucci, Diego Conticello, Marco Corsi, Alessandro De Santis e Samir Galal Mohamed.

XII QUADERNO DI POESIA ITALIANA CONTEMPORANEA

EDIZIONI MARCOS Y MARCOS

Comitato di lettura: Franco Buffoni (coordinatore) – Umberto Fiori – Fabio Pusterla – Claudia Tarolo – Marco Zapparoli

I lavori si sono svolti in cinque fasi:

A) Una prima selezione ha eliminato circa 150 delle oltre 200 candidature in vario modo pervenute.

B) Nell’arco di dodici mesi (dall’ottobre 2012 all’ottobre 2013) Buffoni, Fiori, Pusterla, Tarolo e Zapparoli, attraverso una fitta serie di letture hanno approfonditamente preso in esame l’opera dei seguenti autori, rilevando in ciascuno di loro vari motivi di interesse poetico:

1. Michele Bellotti
2. Maddalena Bergamin
3. Maria Borio
4. Massimiliano Bossini
5. Alessandro Canzian
6. Lorenzo Carlucci
7. Maxime Cella
8. Tiziana Cera Rosco
9. Diego Conticello
10. Agostino Cornali
11. Marco Corsi
12. Carlo Crosato
13. Guido Cupani
14. Sophie Curzon-Siggers
15. Elisa Davoglio
16. Nicola D’Altri
17. Gianluca D’Andrea
18. Emanuele Del Rosso
19. Roberta Durante
20. Alessandro De Santis
21. Andrea Donaera
22. Daniele Falcinelli
23. Pietro Federico
24. Gregor Ferretti
25. Samir Galal Mohamed
26. Vincenzo Galvagno
27. Gianluca Garrapa
28. Serena Gatti
29. Alessandro Gioia
30. Omar Ghiani
31. Francesco Iannone
32. Raimondo Iemma
33. Domenico Arturo Ingenito
34. Emanuela Lorenzi
35. Franca Mancinelli
36. Massimiliano Martines
37. Luciano Mazziotta
38. Tommaso Meozzi
39. Marco Morbidoni
40. Davide Nota
41. Maurizio Paganelli
42. Silvia Patrizio
43. Antonio Pizzol
44. Cristiano Poletti
45. Daniele Poletti
46. Federico Rossignoli
47. Marco Sandre
48. Marco Tedeschini
49. Leonardo Vilei
50. Stefano Visigalli

C) Un secondo giro di letture della durata di due mesi (novembre e dicembre 2013) ha ridotto la possibile rosa ai seguenti 20 autori:

01. Michele Bellotti
02. Maddalena Bergamin
03. Maria Borio
04. Lorenzo Carlucci
05. Diego Conticello
06. Agostino Cornali
07. Marco Corsi
08. Carlo Crosato
09. Guido Cupani
10. Gianluca D’Andrea
11. Alessandro De Santis
12. Samir Galal Mohamed
13. Omar Ghiani
14. Raimondo Iemma
15. Domenico Arturo Ingenito
16. Franca Mancinelli
17. Luciano Mazziotta
18. Marco Morbidoni
19. Cristiano Poletti
20. Federico Rossignoli

D) Un’ulteriore selezione, avvenuta nel mese di gennaio 2014, ha ridotto a 14 gli autori:

01. Maddalena Bergamin
02. Maria Borio
03. Lorenzo Carlucci
04. Diego Conticello
05. Marco Corsi
06. Gianluca D’Andrea
07. Alessandro De Santis
08. Raimondo Iemma
09. Franca Mancinelli
10. Luciano Mazziotta
11. Samir Galal Mohamed
12. Davide Nota
13. Cristiano Poletti
14. Federico Rossignoli

E) L’ultima selezione è avvenuta nel mese di febbraio 2014. In questa fase si è dovuto tenere conto anche del fatto che alcuni degli autori selezionati avessero nel frattempo pubblicato raccolte importanti con prefatori autorevoli, o addirittura l’opera omnia, rendendo in tal modo meno essenziale o addirittura superflua la loro presenza nei Quaderni. Fatte tutte queste e molte altre considerazioni, il Comitato di lettura ha infine selezionato per il XII QUADERNO DI POESIA ITALIANA CONTEMPORANEA i seguenti 7 autori:

01. Maddalena Bergamin
02. Maria Borio
03. Lorenzo Carlucci
04. Diego Conticello
05. Marco Corsi
06. Alessandro De Santis
07. Samir Galal Mohamed

Milano, 25 febbraio 2014

Il coordinatore
Franco Buffoni

Scampolo d’estate

2

turner 7

di Luca Ricci

Quello stabilimento balneare per famiglie non era più nel pieno delle sue attività per due motivi: si avvicinava settembre ed erano le due e mezzo del pomeriggio. Chi non stava facendo un sonnellino sulla sdraio era indaffarato a fissare catatonico il mare piatto come una tavola. Rosa, una bambina di quasi otto anni, tirò un calcetto sullo stinco del nonno: «Detesto il mio nome».

Il nonno guardò la nipote e poi, poco più in là, il gioco d’ombra che il profilo degli ombrelloni disegnava sulla rena.

«Detesto il mio nome», insisté Rosa. «Lo detesto.»

Il nonno rimase con gli occhi incollati alla linea ondulata che separava il solleone dall’ombra ancora per qualche istante. Pensava che tra poco anche quell’estate sarebbe finita, i pattini sarebbero stati tirati via dalla riva e le cabine chiuse con delle assi di legno. Poi, lentamente, si girò verso la bambina.

«E perché mai lo detesti?» domandò.

«Perché è anche il nome di un colore.»

«E con questo?»

«Mi piacerebbe un nome che indicasse soltanto me,» concluse Rosa, con tutto l’astio capriccioso dei suoi quasi otto anni.

Il nonno scrollò la testa vistosamente. I capelli se n’erano andati quasi tutti tra i trenta e i quarant’anni, e quindi aveva avuto tempo a sufficienza per farsene una ragione e per superare il trauma della calvizie, cosa che altri suoi coetanei invece cominciavano ad affrontare soltanto adesso.

«Quel che è fatto è fatto,» disse sorridendo alla nipote. «Mamma e papà non possono più cambiartelo.»

Rosa rovesciò con un piede un secchiello pieno d’acqua accanto alla sdraio: quello era il modo che aveva trovato per protestare.

«E poi sai cosa ti dico?» proseguì il nonno. «Il rosa è un bellissimo colore, anzi il più bello che ci sia.»

«Vorrei qualcosa di più originale.»

«Del tipo?»

«Arancione, ad esempio.»

Il nonno pensò all’estate come a una specie di capodanno diluito nell’arco di tre mesi. Ma forse quella definizione non andava più bene per lui. Dopo una certa età che cosa restava? Qualche partita a carte, e poi le uscite in bicicletta. Lo metteva di buon umore, di tanto in tanto, osservare la durezza ancora perfettamente integra dei suoi polpacci.

«Vorresti chiamarti così? Signorina Arancione?» chiese infine alla nipote.

«Perché no?»

Il nonno provò a considerare la cosa con serietà: «E allora perché non Signorina Blu o Signorina Verde?».

Rosa sorrise, pareva elettrizzata da quelle proposte.

«Ma sono brutti nomi,» riprese il nonno. «L’originalità non è bella per forza. Non credi?»

Rosa ricacciò il breve accesso d’entusiasmo dentro uno sguardo crucciato.

«La verità è che tutti i bei nomi indicano anche un colore,» cercò di concludere il nonno. «Pensa a Viola, o Azzurra o Bianca.»

Nel frattempo all’ingresso dello stabilimento stava succedendo qualcosa. Da lì, vicino al mare, non si capiva bene. Ma era cominciato un viavai strano subito dopo le rastrelliere per le biciclette e le aiuole fiorite, un movimento anomalo considerata anche la fiacca del primo pomeriggio.

«Pensa a chi si chiama Viola, o Azzurra, o Bianca. Loro mica si lamentano come te», ribadì il nonno.

«Ma io sono io», sbuffò Rosa.

Il nonno le prese tra le dita un ciuffo di capelli: «Anche questo è vero».

«Allora mi dai ragione?»

«Te la darei,» ammise il nonno. «Ma senti un po’, vuoi sapere la verità?»

Rosa fece di sì con la testa.

«Beh, la verità è che adesso devo andarmene a sgranchirmi un po’ le gambe.»

Rosa parve molto delusa dalla verità del nonno. Guardò in direzione dell’orizzonte e poi, proprio nel momento in cui stava per voltarsi verso l’ingresso dello stabilimento, il sole la colpì dritto in faccia. Decise allora di afflosciarsi sulla sdraio per qualche istante prima di correre a perdifiato sulla riva. La sua intenzione era chiara: seminare il sole, o quantomeno giocarci ad acchiappino.

 

Il nonno invece proseguì fino all’ingresso. A quanto pareva tre nudiste s’erano intrufolate nello stabilimento approfittando del momento di torpore generale. C’era una caletta non lontano da lì, di cui solitamente le famiglie parlavano sottovoce, frequentata proprio da amanti del naturismo. Quelle tre però avevano sistemato i loro teli davanti alle cabine, in una zona in prossimità delle docce, e avevano tutta l’aria di essere un po’ brille e su di giri. Il nonno si mise a guardarle insieme a qualche altro uomo che, esattamente come lui, aveva lasciato il proprio ombrellone per andare a constatare di persona cosa mai stesse succedendo. Ridacchiavano e si davano di gomito l’un l’altra, avevano proprio l’aria di essere fuori di testa. Con ogni probabilità la sera prima avevano acceso un fuoco sulla lingua di sabbia della caletta e trascorso la notte a gozzovigliare. E in un modo o nell’altro adesso erano arrivate fin lì. Magari proprio per cercare di scandalizzare i normali, quelli che al mare ci andavano in costume, o forse soltanto un passo dopo l’altro, spinte dalla voglia d’avventura e dall’incoscienza. Non erano brutte ragazze benché quell’atteggiamento spavaldo facesse perdere loro un poco di femminilità. Ma erano pur sempre nude, totalmente nude. A un certo punto una divaricò le gambe, le spalancò completamente, quasi in segno di sfida. Non si capiva se nei confronti delle amiche o degli uomini che, nel frattempo, erano sensibilmente aumentati di numero. Il nonno riconobbe anche uno dei responsabili e un bagnino. Eppure nessuno diceva niente, nessuno impediva alle nudiste di fare quello che stavano facendo. Così lo spettacolino proseguì ancora per qualche minuto. Il nonno non capì bene chi tra gli uomini partì per primo. Non ci fu in effetti molto tempo per capirci qualcosa. In pratica le ragazze erano state attorniate e in quella maniera qualcuno si sentì sufficientemente protetto e quasi autorizzato dagli altri a sdraiarsi insieme a loro. Non ci fu una fase preliminare dalla quale qualcuno avrebbe potuto capire che la situazione sarebbe trascesa. Le ragazze se ne stavano a gambe aperte e sembravano voler dire: «Ce n’è per tutti qui». Visto quello che stava succedendo il muro degli uomini istintivamente cercò di compattarsi ancora di più. La maggior parte di quelli che non erano rientrati a casa a schiacciare un pisolino stava ancora dormendo sotto l’ombrellone, quindi in un certo senso sarebbe bastato limitare gli schiamazzi e la confusione. Quando una signora, una habitué dello stabilimento ben nota anche al nonno, si prese la briga di fare capolino molti credettero che sarebbe partita immediatamente una chiamata alla polizia. Era la classica signora di mezza età che, pur non disdegnando di riuscire ancora attraente (indossava un pareo molto elegante che le fasciava i fianchi), abbassava immediatamente gli occhi o inforcava gli occhiali da sole quando le capitava di sentirsi addosso lo sguardo di un uomo. Eppure al cospetto di quella scena non indietreggiò di un passo, e non si lasciò scappare neanche una frase di disapprovazione. L’unica cosa che riuscì a dire fu: «Schifose». Il nonno a quel punto si girò in direzione della riva. Avrebbe dovuto tenere d’occhio la nipote, in fondo gliel’avevano affidata solo per il primo pomeriggio: un compito facile da portare a termine, se non fosse successa quella cosa assurda. Rimase qualche istante incerto sul da farsi, poi trotterellò a malincuore in direzione del mare.

 

Rosa stava disegnando sulla sabbia indurita e idratata dalle onde il suo nome con un piede.

«Vedi?» disse al nonno appena lo vide. «Il mio nome non piace neanche al mare.»

«Perché?»

«Altrimenti non lo cancellerebbe.»

Il nonno guardò la nipote, ma senza farsene accorgere anche l’ingresso dello stabilimento. Cercava di fare del suo meglio per tenere disperatamente sotto controllo tutt’e due i fronti.

«Guarda laggiù,» osservò Rosa fissando l’orizzonte. «L’estate è finita.»

Effettivamente il colore del cielo in un punto ancora lontano ma già visibile, quasi a pelo d’acqua, si stava scurendo come se qualcuno avesse squarciato un tendone.

«Sai che ti dico Rosa?» fece d’improvviso il nonno.

«Cosa?»

«Che hai ragione tu. Se il tuo nome non ti piace perché dovresti tenerlo? Per quali stupide convenzioni uno non può scegliersi il nome che vuole?»

«Posso cambiarlo?»

Il nonno annuì molto velocemente con la testa. Adesso sembrava avere fretta, una fretta terribile.

«Ma tu prima avevi detto che non potevo,» osservò Rosa aggrottando le sopracciglia.

«Sbagliavo.»

«E papà e mamma non avranno nulla da ridire?»

Il nonno guardò precipitosamente in direzione dell’ingresso dello stabilimento. Era successo qualcosa? Le avevano fatte smettere, magari rivestire?

«Perché non decidi il tuo nome nuovo e poi non lo scrivi sulla sabbia?» propose alla nipote.

«Però le onde mi cancellerebbero anche quello nuovo.»

«Ok, tu intanto sceglilo, io torno subito.»

Il nonno percorse ad ampie falcate la distanza che separava la riva dall’ingresso dello stabilimento. Il capannello di persone era ancora lì, e anche le tre nudiste ormai completamente sopraffatte e forse anche incredule e spaventate rispetto a quello che avevano innescato. Il nonno ricominciò a osservarle: non ne aveva puntata nessuna in particolare, sarebbe sceso semplicemente sulla prima disponibile, la prima che si fosse liberata. Ci pensò su ancora un istante e poi si fece largo tra gli uomini. Appena inginocchiato l’avvolse subito un odore molto intenso di genitali, crema doposole e sabbia intrisa di sudore. La ragazza che aveva sotto se ne stava immobile, con gli occhi socchiusi e le labbra tremolanti. Forse sussurava qualcosa. In ogni caso parole straniere di cui non avrebbe saputo stabilire il significato. Alzò la testa giusto il tempo per rendersi conto che stava temporeggiando troppo. Per un momento ebbe il timore che quel raptus l’avesse abbandonato. Per un momento pensò anche dall’altra parte della spiaggia, con ogni probabilità, sua nipote si stava scegliendo un nome nuovo. E chissà quale mai avrebbe scelto di darsi. Ma doveva muoversi, non c’era più tempo da perdere. Fece leva sulle braccia come per prepararsi a uno scatto.

Poi sentì i polpacci da ciclista indurirsi, e ne fu fiero come quando si alzava sul sellino per una salita.

 

Questo racconto è contenuto nel libro Toscani Maledetti (Piano B Edizioni, 2013, a cura di Raoul Bruni), antologia che raccoglie alcune tra le migliori nuove voci della Toscana: Vanni Santoni, Pietro Grossi, Emiliano Gucci, Fabio Genovesi. 

Il cane di Pavlov

9

di Vincenzo Frungillo

frungillo

[Fase 1.]

Il vantaggio di studiare la scienza
è vedere tutto nella sua funzione,
prepararti all’amministrazione,
lasciare la linea d’ombra dell’adolescenza.
Una cosa è importante nelle leggi:
sabotare le costanti,
metterle alla prova,
rinvenire le varianti,
ciò che resta pur se cambia.
Nelle cavie da laboratorio
si ripete il sacrificio,
l’innominato destino
di chi sorseggia il vuoto
come se fosse fonte prima.
Da lì attinge l’occhio della ragione.
Per millenni l’hanno fatto i maschi,
io sono stata la prima donna,
questo ha suscitato tanto scalpore,
sono Tatiana che distrugge il suo eroe.

Bruno non era pronto per mettersi a nudo.
Allora sono stata io a fare la prima mossa.
“Se vuoi, dopo l’aperitivo,
puoi venire a casa mia,
ti mostro le foto dei cani.”
Lui ha sorriso, ha guardato gli amici.
Aveva paura, cercava aiuto.
“Si, sarebbe bello, così capisco”.
Era proprio quello che volevo,
mostrargli ciò che dicevo.
Nel parco Bruno ha ripreso a parlare,
non si teneva, era eccitato,
e piuttosto ubriaco.
Mi ha sfiorato per due volte la mano,
credo sia stato un caso,
poi ha indicato un fiore:
“La luce che ci attraversa
illumina tanto la vita che la morte,
la loro bellezza sfiorirà tra poche ore”.
“L’hai scritta tu?”
“Non l’ha scritta nessuno.
Avessi potuto, t’avrei offerto un fiore,
spero vadano bene anche le parole”.
Mi ha indicato un altro fiore,
mi ha chiesto se conoscevo il suo nome,
gli ho risposto che erano azalee
e che nel parco poteva trovare varie piante,
oltre ai viburni e alle rose.
“Io amo la poesia,
a volte invento versi, strofe,
mi diverto, poi mi passa…”
Ho ribattuto che era meglio,
“ché niente e nessuno ne è degno”.

Gli amanti se non hanno la stessa temperatura,
sono ridicoli come i cani dopo gli amplessi.
Io e Bruno non c’eravamo ancora capiti.
E non ci saremmo mai intesi,
se io non avessi forzato il gioco.
Per questo bisogna forzare,
fare del sesso, superare le parole,
la romantica evasione,
l’ideale di una vita insieme.
Ciò che davvero conta è la carne,
e le torture, perché la carne,
come lo spirito e il piacere,
si consuma, allora bisogna affondare,
eccedere, andare oltre, provare dolore.
Io so da sempre come stanno le cose,
perché ho messo tra me e voi
l’esperienza della morte;
più volte sono morta
tra le braccia di un carnefice…
l’umiliazione ultima, prima della polvere..
Chi di voi sa di cosa sto parlando?
Siete solo buoni ad ascoltare.
Fate perizie, sindacate,
siete qui per capire come
una segretaria abbia potuto torturare, mordere!

Siamo arrivati a casa,
gli ho servito un bicchiere di vino,
lui lo sorseggiava guardandosi intorno,
gli ho chiesto di seguirmi,
gli ho preso la mano,
lui ha preso coraggio
e mi ha stretto le dita con desiderio.
L’ho portato in camera da letto.
“Ecco questo è il cane di Pavlov”.
Gi ho detto, mostrandogli la gigantografia
che ho sistemato sul mio letto.
“Uno dei suoi cani, è stato imbalsamato,
dopo l’esperimento del 1908,
alla bocca gli hanno applicato una fiala
in cui è contenuta la sua bava”.
“Non ti fa impressione,
tenerlo sul letto, come fai a dormire
con quel coso sulla testa!”
“Non dirmi che da piccolo,
a casa tua, non c’era un crocifisso?”
“Certo, ma che c’entra!?”
“C’entra un uomo, o meglio il suo cadavere,
che prima di essere stato ucciso
è stato torturato. Diciamo che il cane
è il corrispettivo di quel corpo.
Ogni epoca ha il suo dio,
e la legge per cui si muore.
Chi era il poeta che diceva
bisogna o che la scienza
annienti il cristianesimo
o che faccia tutt’uno con esso?
-lui mi ha guardata perplesso-
Ma il motivo per cui amo questa foto,
e che più m’inquieta, è che nessuno sa
se la bava contenuta nell’ampolla
sia di prima o di quarta fase,
se esista davvero l’oggetto del desiderio.
Ecco perché amo questa foto,
la tengo sul mio letto”.
“Mi sento poco bene, mi si secca la gola”.
Lui ha detto con uno strano pallore.
“Non ti preoccupare”. L’ho rassicurato.
“Tra poco tornerai a salivare”.

[Da Il cane di Pavlov (Resoconto di una perizia), Edizioni d’If, 2013, Premio Russo-Mazzacurati]

Un Borges piccolo piccolo

8

Sfortunatamente sono Borges

di Mariano Terdjman

traduzione di Maria Nicola

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1

Mio nonno rimase cieco prima dei quarant’anni. Quando lo conobbi era un uomo altissimo, calvo, religioso e sorridente. Portava gli occhiali anche se non gli servivano. Una forma di civetteria, forse, che confondeva i bambini come me. Una volta chiesi perché portasse gli occhiali, se non ci vedeva, e nessuno seppe cosa rispondermi. Ma più che a mio nonno penso a mia nonna, che lo curò tutta la vita. Mia nonna si lamentava di tutto: aveva conosciuto un uomo, lo aveva sposato, aveva avuto due figli con quell’uomo, e quello, prima dei quarant’anni, non ci vede più. Non lavora più e si trasforma, come per incanto, in un masso pesantissimo da portare. Mia nonna non si lamentava di lui, però si lamentava di tutto.

Molto tempo dopo conobbi Borges. O meglio: i suoi racconti, il suo modo di parlare, le sue virtù, la sua cecità. E mi colpì sempre una cosa, una frase fatta, una specie di slogan che era suo: «Sfortunatamente sono Borges». Per esempio, nella prefazione al Manoscritto di Brodie: «L’avanzare dell’età mi ha insegnato la rassegnazione all’essere Borges». Per esempio, in Nuova confutazione del tempo: «Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges».

Non ho mai cercato spiegazioni nella psicologia per questo genere di cose, e odio – io che non odio quasi mai niente – quelli che lo fanno: trattare il lamento di Borges come un difetto personale, frugare nella sua vita, nella sua infanzia, nel suo rapporto con suo padre, con sua madre, con i suoi pari, con le donne, con i suoi amici; fare della psicologia applicata mi pare basso, paternalistico e fallace. Ma la frase rimane lì e mi perseguita: Sfortunatamente sono Borges.

 

2

Andiamo per gradi. Borges non dice, per esempio, «sfortunatamente sono io». Non dice, per esempio: «sfortunatamente sono nato». Non dice: «Sfortunatamente sono quello che sono». Borges si rammarica di essere Borges. Primo punto. Sarebbe errato, credo, procedere nella direzione del cognome, della linea paterna e forse della cecità che eredita da Jorge, suo padre. I ciechi, come mio nonno, non si lamentano.

Borges trasforma la cecità in materia letteraria, in un elemento della sua poesia. Secondo punto. Terzo punto. Borges è un uomo di successo. Quando scrive Il manoscritto di Brodie (1970), Borges è un autore di fama internazionale: rispettato, amato, analizzato e citato. Quarto punto: Cerco lamenti di altri scrittori. Scopro questo: Raymond Carver prima di compiere i trent’anni si rende conto di non avere le capacità per scrivere un’opera voluminosa, un romanzo, e perde ogni ambizione a diventare un grande scrittore. Franz Kafka lascia annotato nel suo diario che non potrebbe «vivere di letteratura  a causa della lunga gestazione dei miei lavori e del loro carattere insolito».

Di che cosa si lamenta Borges, che non muore nell’anonimato come Kafka? Di che cosa si lamenta se non ha scritto romanzi, come Carver, ed è un’icona della letteratura universale? Qual è il suo cruccio? Di che cosa si lamenta un uomo di successo?

 

3

Di questo, del successo.

Il Destino è una delle idee più potenti nella letteratura di Borges. Quel momento preciso in cui uno decide chi è. Gli esempi sono tanti. Forse Borges decide chi è quando scrive El Aleph, il racconto che s’intitola così. Neppure tutto il racconto: la descrizione dell’Aleph. «Arrivo, ora, all’ineffabile centro del mio resoconto; comincia, qui, la mia disperazione di scrittore. Ogni linguaggio…». Quelle pagine sono le più memorabili di tutta la letteratura argentina. Di lì in poi Borges è Borges. Idolatria, sottomissione, rispetto. Di lì in poi tutti vanno da lui a chiedergli una grazia. Borges, ci parli del tempo. Borges, sia profondo. Borges, ci parli dell’universo, della complessità, del destino. Borges diventa un classico, lui che è chiarissimo quando parla dell’altro grande classico nazionale.

«Quaranta o cinquant’anni fa i ragazzi leggevano il Martín Fierro  come oggi leggono S.S. Van Dine o Emilio Salgari; a volte clandestina e sempre furtiva, quella lettura era un piacere e non l’esecuzione di un obbligo pedagogico. Oggi il Martín Fierro è un libro classico e questo attributo è inteso come sinonimo di tedio».

Il lamento di Borges non è che il tentativo, disperato, di non diventare uno scrittore di successo, un classico, una gran noia. Con quella frase Borges chiede che la sua voce venga ascoltata al di là delle definizioni che minacciano di trasformare la sua opera in un mattone, in un’icona, in una vetta.

 

4

Mia nonna sopravvisse a mio nonno per quindici anni. Continuò a lamentarsi di cose minuscole e io ci misi forse troppo tempo a capire che quella era una forma d’amore. Non l’amore attuale, che è puro piacere. Un altro tipo d’amore, che era anche impegno, promessa, destino. Le cataratte di mio nonno oggi si curano con un intervento di cinque minuti. Esci dalla sala operatoria e ci vedi. E continui, come se niente fosse, la tua vita. //

 

Mariano Terdjman è nato a Buenos Aires nel 1980. Ha studiato lettere e scrive per il cinema. Collabora con diverse testate, cartacee e digitali. Nel 2012 è uscito il suo primo libro di racconti, ¿Vos estás segura de lo que vamos a hacer? (Tu sei sicura di quel che stiamo per fare?), che è stato accolto molto bene dalla critica argentina.

Ad esempio: il tempo. Sulla musica di Karlheinz Stockhausen

1

di Massimiliano Viel

(due brani dell’introduzione a Karlheinz Stockhausen, Sulla musica, a cura di Robin Maconie, Postmedia Books, 2014. Vd. anche qui.)

114cover300dpi Stockhausen è stato di volta in volta additato come kitsch, elitario, intellettuale, naive, inascoltabile, troppo semplice, antiarmonico, neotonale, nazista, esterofilo, pazzo, antiespressivo. Insomma di lui e della sua musica è stato detto di tutto, ma questo è il prezzo da pagare per chi decide di smettere i panni civili per diventare non semplicemente una figura pubblica, ma un simbolo, un bersaglio in piena luce, specie se, come in questo caso, si tratta di una personalità complessa e non facilmente riducibile a un solo semplice stereotipo di massa e che è quindi perfettamente adattabile alle necessità di chiunque voglia costruire una propria identità.

Forse il punto culminante di questa “messa in crisi” di Stockhausen in quanto personaggio pubblico è stata la famigerata e controversa intervista del 16 settembre 2001 ad Amburgo in cui il compositore sembra fare affermazioni quanto meno avventate sull’attacco del 11 settembre. È un punto culminante sicuramente per l’entità culturale dell’argomento, così delicato e controverso, e anche per la diffusione a livello planetario dell’incidente, aiutata ancora di più da internet, tanto da far gridare la stampa alla fine della carriera di Stockhausen. Non è importante sapere esattamente cosa è successo: chi scrive sa che il compositore aveva l’accortezza di registrare in tutta autonomia le interviste proprio per proteggersi legalmente e moralmente dall’uso avventato e malizioso da parte della stampa di ciò che veniva detto durante le interviste. Le accuse rivolte a Stockhausen, con le conseguenti ostracizzazioni del mondo musicale e non, sono rientrate in breve tempo, una volta che la frase, secondo cui l’attentato dell’11 settembre sarebbe stato “la più grande opera d’arte mai realizzata”, è stata inserita nel giusto contesto di ciò di cui si parlava nell’intervista, e cioè della presenza di Lucifero nel mondo. Anche se l’opinione pubblica ha breve memoria, internet invece non dimentica: i filmati di accusa su youtube sono lì a dimostrarlo. E così dobbiamo concludere la nostra pars destruens, aggiornando la lista delle accuse a Stockhausen con quelle, che pur dimostrano la loro inconsistenza al primissimo approfondimento, di satanista e antiamericano.