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Castoriadis e il vocabolario dell’autonomia

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di Andrea Inglese

[Ho curato per il n° 34 di “alfabeta2”, con l’aiuto di Massimo Rizzante, un dossier dal titolo Rileggere Castoriadis. I materiali proposti non possono cogliere che molto parzialmente i contorni della figura di Cornelius Castoriadis (1922-1997), poliedrica e multidisciplinare, giunta alla filosofia e alla psicanalisi dopo un ventennio di assidua militanza nel collettivo politico Socialismo o barbarie (1948-1967) e un’esperienza professionale come economista. Sul sito www.alfabeta2.it è possibile leggere una scheda bibliografica aggiornata sia sul versante francese che italiano e un suo scritto, inedito in Italia, del 1981 (attualissimo oggi sopratutto). Quello che segue è il mio contributo.]

Note Movie : Venere in pelliccia

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Nota
di Sophie Brunodet

Ambiguo, no ambivalente
È come ritrovarsi nello spazio che si frappone, invisibile e quasi inconcepibile, eppure presente, tra l’immagine riflessa in uno specchio e colui che si specchia. Sono la stessa cosa e allo stesso tempo sono differenti; entrambi esistono. È un gioco di rimandi dall’uno all’altro tra riconoscimento ed estraneazione, identità e differenza, essere e possibilità altra d’essere. È un combattimento e una riconciliazione continua quella che si svolge sul palcoscenico di un teatro parigino tra Thomas Novachek (Mathieu Amalric), regista e sceneggiatore di un opera teatrale tratta dall’omonimo libro datato 1870 dell’austriaco Leopold von Sacher-Masoch (1836 – 1895) e Vanda (Emmanuelle Seigner), attrice scompigliata arrivata in ritardo al provino per la ricerca del personaggio femminile della pièce. È un incontro e uno scontro di vite, di ruoli di genere e di potere: mentre per Thomas la sottomissione descritta da Masoch è amore, per Vanda non è nient’altro che un porno. È una lotta tra opposti, anzi, di più. C’è uno scarto dalla semplice, antipatica e poco fantasiosa logica binaria e dell’antitesi: c’è piuttosto un’apertura fatta di andirivieni continui e senza fine di ogni figura, forma rappresentativa, livello comunicativo da e verso altri possibili.

Una delle espressioni più ricorrenti in Venere in pelliccia, adattamento cinematografico dello spettacolo teatrale di David Ives, presentato quest’anno a Cannes dell’ottantenne Roman Polanski, è “ambiguo, no ambivalente”, come continuamente Thomas precisa a Vanda, che immancabilmente si confonde. E proprio tale puntualizzazione ricorrente pare essere un indizio messo lì dal regista affinché lo spettatore si lasci trascinare non tanto in un limbo di incertezza e confusione, bensì in quello ben più affascinante del plurimo e del traboccante. Polanski, in effetti, non si limita a inscenare un gioco dell’equivocità delle identità dei protagonisti e neanche fa una controversia morale sulla sessualità masochista, ma si impegna nella ben più intrigante e complessa messa in scena della molteplicità insita in ogni anima umana, invischiata in viavai continui da ogni area dell’ispirazione, della fisicità, del sentimento, della virtù, dell’estetica dalle quali uomini e donne costantemente passano vivendo.

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Tutta la storia si svolge durante un temporale serale, nel ristretto spazio magico di un non meglio precisato teatro parigino. Non c’è un epilogo vero e proprio della vicenda, lasciata sospesa in una dimensione mitica e surreale alla chiusura del sipario, allo stesso modo in cui l’inizio si innescava nella nebbia di un viale alberato. Polanski ha creato nel suo film un’atmosfera di sospensione nel reale che ricorda quella creata da J.L. Borges nel suo racconto L’altro (Il libro di sabbia, 1975), in cui si trovano l’uno di fronte all’altro il Jorge Luis ventenne e ginevrino e il Jorge Luis settantenne a Cambridge, senza che sia possibile precisare se si tratti di sogno, fantasia o realtà, senza poter decidere inequivocabilmente chi stia sognando o immaginando chi, e che si chiude con una pacifica accettazione dell’assurdo, proprio come mi pare faccia Polanski. Entrambi giocano sul filo del doppio e dell’ambivalente con i loro protagonisti, Borges creando un racconto sullo spazio che separa l’uomo di ieri dall’uomo che è oggi, in un atmosfera incerta tra il racconto di un fatto e il sogno, Polanski muovendosi nel margine tra rappresentato, rappresentante, rappresentazione e realtà, entrambi regalandoci un’esperienza vivida, inusuale, forte.

Due volti, innumerevoli personaggi
Due soli attori straordinari interpretano con grande abilità e credibilità un bouquet di personaggi incredibilmente variegato, riuscendo a confondere, a spiazzare e a sorprendere nel loro sfilare raffinato, istantaneo e senza posa, dall’uno all’altro. Mathieu Amalric è Thomas, un timido dalla vita sentimentale piacevole e ordinaria, che dà vita nella scrittura e attraverso la regia teatrale a quelle pulsioni e a quelle visioni cui non riesce a dare corpo nella sua vita. Thomas, però, si rivela anche abile attore, a dispetto della sua inesperienza, nell’interpretare il ruolo maschile della rappresentazione da lui scritta e diretta, quando viene trascinato sul palcoscenico dall’attrice ritardataria determinata a dar luogo al suo provino. E, allo stesso tempo, Thomas, è trasfigurato in Severin, il giovane aristocratico scrittore protagonista dell’opera teatrale, uomo che vive, all’ombra delle sue carte, fantasie erotiche masochistiche, che scorrono sul filo della dominazione – ma sarebbe meglio dire della contrattazione del dominio, aspetto tipicamente masochistico, assente nel sadismo – , abilmente travestito da schiavo mentre persuade ed educa la padrona che ha scelto per sé, Vanda Dunajew. Emmanuelle Seigner è, invece, Vanda, un donna energica, vitale, sprezzante e sboccata, che oltre a essere confusionaria ed eccentrica, è un’attrice professionista dalla memoria impeccabile e una donna solida, dominante nella vita amorosa come in quella lavorativa, intransigente rispetto a ogni sessismo maschilista. Vanda, però, è anche il nome della protagonista della pièce che Thomas vuole portare in scena. Vanda Dunajew è una nobile vedova di fine Ottocento, donna ricca e bella, dal portamento raffinato quanto la sua eloquenza. È passionale ed è fragile, dominatrice solo apparente. E, ancora, Vanda è la trasfigurazione di Venere, potente dea della bellezza e dell’amore, assunta a simbolo della carnalità delle passioni vissute nel momento e dei rapporti di dominio.
Non è possibile tracciare alcuna linea di demarcazione netta tra tutti questi ruoli. Polanski ha magistralmente giocato con la soglia che separa, unisce, ingarbuglia i differenti personaggi e le loro sfere morali, non solo lasciando lo spettatore sospeso e stordito di fronte al continuo slittamento tra l’attore e il personaggio, ma anche costruendo i differenti personaggi per cui le caratteristiche che in un certo momento si sarebbero certamente attribuite a l’uno si scoprono nell’altra, e viceversa.
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Un viaggio nel feticismo
Varcando il portone del teatro, magicamente avvolto dalla tempesta, e ancor più salendo – e scendendo – dal palcoscenico, è un po’ come avventurarsi nel mondo dell’assurdo e del non senso che però hanno assolutamente senso in quanto mondo. Nel film di Polanski realtà, rappresentazione teatrale e fantasia sono così inestricabilmente intrecciati che il passaggio dall’uno all’altro è crescente e inafferrabile. Attraverso un’operazione che riproduce pienamente le dinamiche masochistiche, laddove il masochismo è sospensione, fuga nel sogno, idealizzazione del reale, come già individuato da Deleuze in Présentation de Sacher-Masoch (1967), nel film di Polanski si è portati a sospendere la logica, e a vivere semplicemente questa incredibile esperienza liminare. Per esempio, i suoni di scena sono realistici, mentre i gesti che li accompagnano sono solo recitati sul palcoscenico da Vanda l’attrice e da Thomas durante il provino. Lei non ha davvero in mano un libro e non c’è nessuna tazzina con cucchiaino, eppure noi ascoltiamo il frusciare delle pagine girate e il cucchiaino battere contro il bordo della tazza; il personaggio di Severin si sovrappone progressivamente a quello di Thomas, l’uno diventa l’altro per poi trasformarsi ancora in Vanda, in una vertigine continua; c’è un momento in cui la certezza dello spettatore sul dove abbia inizio la messa in scena, quindi sul limite tra soggetto e oggetto, viene turbata. Succede quando in primo piano, e in controluce rispetto a dove si svolge l’azione, si vedono le sagome delle poltrone del teatro che, così riprese da Polanski, si confondono con i sedili del cinema dove è in corso la proiezione di Venere in Pelliccia, dando l’impressione che Vanda stia arrivando da noi spettatori con il suo passo di danza dionisiaco; tutto il film è intriso di eroticità – il libro di von Sacher-Masoch parla di una donna che accetta di diventare la padrona di un uomo in un rapporto erotico masochistico e Thomas e Vanda sono invischiati in una densa amalgama di attrazione e repulsione reciproca, dominazione e sottomissione continua – , eppure, sono molte di più le volte in cui i corpi “fanno finta di” piuttosto di quelle in cui “fanno esplicitamente”. Al di là del corpo in lingerie di Seigner – corpo felicemente bello e pieno, più simile a quello delle veneri dipinte e a quello delle donne realmente esistenti che a quelli reclamati oggi come modelli di femminilità – tutta la carica sessuale del film scorre sul filo ben manovrato del non detto, non mostrato, non toccato.
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In questo senso, quella di Polanski è una pellicola che adopera e onora il feticcio masochistico, proprio avvalendosi della sua qualità di sospensione tanto del reale quanto dell’ideale per creare un climax di eccitazione e curiosità capace di rapire e trasportare chissà dove lo spettatore. È affascinante perdersi in questa indeterminatezza continuamente riproposta nei vari passaggi della trama e nelle scelte registiche. L’opera di Polanski pare creare uno spazio sfumato dove non è chiaro quale sia il copione e quale l’improvvisazione, quale il personaggio letterario e quale la persona in carne e ossa, quale il palcoscenico e quale lo spettatore, portando sullo schermo una pellicola che riproduce perfettamente la dialettica propria del masochismo, la quale, rinviando nuovamente a Deleuze “non sta a significare semplicemente una circolazione del discorso, ma dei transfert o spostamenti tali da fare che la stessa scena sia svolta simultaneamente a diversi livelli, seguendo capovolgimenti e sdoppiamenti nella distribuzione dei ruoli e del linguaggio ”. È dunque impossibile determinare quale sia la mera rappresentazione e quale l’autentico, ammesso che ce ne sia uno.
Venere in Pelliccia è una sorta di pura assertività o immediata esperienza, dove pur non essendoci inequivocabilità e analiticità, né assoluzione o condanna definitiva, c’è davvero qualcosa di reale e di vivente.

Il trosco

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[Prosegue la pubblicazione di alcuni passi del romanzo inedito Memorie di un rivoluzionario timido. Prima puntata qui.]

di Carlo Bordini

E lì cominciò nel part. Una crisi profonda e siccome io la voglio raccontare poi

 

Parte finale

 Così ci spaccammo. Ci disintegrammo come un melograno maturo, o un jet che supera la barriera del suono, o un vietnamita che incappa in una granata, o un corteo di studenti. Improvvisamente ce ne andammo tutti e ciascuno per la sua strada.

Quattro frammenti (misericordia del tempo)

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di Fabiano Alborghetti

Quattro frammenti (misericordia del tempo)

per Giovanni Orelli

I
Poi talvolta ci si perde.
Non che il cuore svuoti, no: le distanze
forse, altri luoghi o troppi anni

gli affanni concentrati in tutti i giorni
a fare un muro. Il nostro eterno imperfetto.
Bisognerebbe insistere, non essere affiancati

solamente. Sconfiggere le geografie, quando si può.

II
Avevi ragione tu a dire
che se nulla c’è da dire, allora è meglio
un buon tacere. Troppe rane

concertini. Troppe cene di cretini.

III
E quanto pesa infine una frattura
o un pensiero. E una poesia?
Rinunciare agli alfabeti mi dicevi

ed io annuivo, ti capivo. Al Venezia
nei silenzi a tavolino
troppa altezza e una vita da cambiare:

troppo ufficio a darmi addosso e poco spazio
oltre i doveri. La mia valanga:
ogni giorno una discesa

nella gola maleamata, lo strozzarmi
del pietriccio. Quanto pesa una teoria?
Quale resa è più adiacente

e chi risponde, ti chiedevo, a tanto peso?

IV
Un’altra versione . Una suggestione
forse, arrivata l’indomani
traversando il Cassarate: da mondo a mondo

quanti poli, quanti capi della fune e pietre
e prati. Ogni anno è un anno feroce
disperso e spartito, è vero. Ma ogni giorno

è ringraziamento e festa
(nonostante le incisioni).
Ha un fiato buono (e talvolta è capitato)

vertiginoso
quando capita l’altezza. Una quieta grandezza
e ci difende dai randagi.

Poi divaga, ma è sinossi universale.

 

NdA. I Quattro frammenti sono stati scritti appositamente in onore degli 85 anni di Giovanni Orelli: ripercorrono una serie di incontri avvenuti negli anni e in ognuno dei frammenti è incorporato il titolo di una poesia dell’Orelli. Queste poesie sono parte dell’Antologia Sempre, senza misura, curata da Fabio Pusterla e Pietro De Marchi e di imminente pubblicazione per le Edizioni Sottoscala di Bellinzona (Svizzera).

 

Minotauro – minatore

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di Davide Orecchio

Il Minotauro. Antica medaglia attica. © Marie-Lan Nguyen / Wikimedia Commons / CC-BY 2.5
Il Minotauro. Antica medaglia attica. © Marie-Lan Nguyen / Wikimedia Commons / CC-BY 2.5

Only connect!
E.M. Forster

Per distrazione delle connessioni del mondo non mi ero mai accorto che “Minotauro” e “minatore” fossero vocaboli quasi identici. Eppure non hanno, che io sappia, alcuna affinità etimologica.

Minotauro: (mostro attore di mostruosità e sacrifici) il toro minoico, Μινώ – ταυρος.

Minatore: (vittima di un lavoro spesso mostruoso) “che fa mine, che travaglia alle mine” (1764), dal francese “mine” (1314) che riprende il gallico “meina”, ‘metallo naturale, greggio’. (Cortellazzo-Zolli, Dizionario Etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1992, p. 757).

Prose rimate inedite

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di Sonia Lambertini

Spot

L’estate irrompe, troppa luce, il sole d’agosto vuole espansione – non ce l’ho – contrario di riduzione, contrazione. Spiaggia spritz splatter story, bordo piscina e tu sei la star, spalle dritte petto in fuori e tanti saluti da silicon Valley. Pelle dovunque, pelle al bar, pelle al discount, prugne secche tra mele mature in danza perenne tra ciao come stai. Borsa di paglia, cappello di paglia, capelli di paglia, secchi, morti sotto il sole, senza pietà il sapiens estivo, un solo pensiero: melatonina. Ritmo in calo nel caldo di agosto: caffè x 4 nicotina, vitamina, adrenalina. Io cerco l’ombra, il buio chiusura dove il pensiero è in salita, usura. Guardo il foglio, è quello di ieri, spoglio ingiallito pare abbia cent’anni, il caldo l’opprime e svuota pensieri, vuota parole e piene omissioni. Torno in piscina per respirare ed ecco abbozzare pance grosse, pance ovali persino appuntite, spalle incurvate che invadono l’acqua e rubano spazio, aria, il respiro. Snack Lucky secondo caffè ed ecco sul palco di nuovo la star, signora grassoccia dai piedi palmati che nuota dorsale con ventre all’insù. Colori d’estate la cuffia dorata, con fiori piumaggio, perline lampwork. Che abbaglio di luce nel cielo d’agosto, ho perso tre gradi, la calma e il bon ton. Lasciati andare, la natura chiama e chissenefrega il suo canto è maligno e schiaccia i pensieri di giorno, la notte con spot progresso e sbatte in faccia – Io esisto quindi sono / tu no. Amen.

Ricordo di François Cavanna

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François Cavanna se n’è andato. Ha segnato col suo humour dissacrante eppure felice un epoca, la seconda metà del secolo scorso e anche l’inizio di questo. Fondatore di Hara-Kiri negli anni sessanta, intorno al ’68 cambiò titolo alla testata che divenne Charlie Hebdo e tale è restata fino alla sua scomparsa mercoledì scorso per complicazioni polmonari.
Si sono scomodati un po’ tutti a rendergli sinceri tributi a cominciare da Hollande. Perché per oltre cinquant’anni è stata la voce a tratti caustica dell’intelligenza. E forse è da ascrivergli il merito di aver smantellato quanto rimaneva della pomposa retorica che aveva accompagnato la Francia nella prima metà del secolo.
Cavanna non è morto, è andato solo a prendere per i fondelli la morte, ma torna presto…
Su questo pianeta usato ci ritroviamo adesso con un po’ meno intelligenza e memoria e vita e parole vere…
Perché Cavanna è stato uno scrittore pas mal a cominciare dall’autobiografico Les ritals, come erano chiamati con un certo disprezzo i poveri italiani emigrati.
Un po’ di tempo fa la sede di Charlie Hebdo a Parigi era stata data alle fiamme a seguito di vignette ironiche sull’Islam. Attenzione ma proprio per la massiccia presenza di arabi nord africani, integrati nella società francese da mezzo secolo, per questo loro essere a tutti gli effetti francesi che Charlie Hebdo ha voluto dare un segnale in qualche modo definitivo, basta con il fondamentalismo religioso e i suoi eccessi. Certo vi sono stati disordini, interventi della polizia ma il segnale è stato dato e a quel basta dato da Cavanna non sono seguite le maledizioni e le minacce di morte dei tempi di Versetti satanici.
Journal bete et méchant recitava (ancora?) il sottotitolo (sessantottesco) eppure questo foglio ‘cattivo’ e ‘stupido’ ha attraversato impavido più di cinquant’anni di vita francese e non solo inducendo il Presidente della Repubblica ad ammettere che….per la sua impertinenza e le sue provocazioni ha scosso la società francese. Lui, Cavanna, diceva:..la Francia è mia madre, l’Italia mia sorella….

Poesia da Camera a Torino

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A Torino, giovedì 6 febbraio 2014, alle ore 18:30,
presso la Galleria Voyelles & Visions
[ via San Massimo 9/A ]

nel contesto della rassegna CameraIndy (con http://indypendentemente.com/)
a cura di Francesco Forlani e Giovanni Andrea Semerano

letture da tre testi
di Marco Giovenale
èditi dalla Camera verde :

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SOLUZIONE DELLA MATERIA
Politica delle variabili. (11 testi in versi, 1 in prosa, viceversa)
– Collana Calliope, 2009 –

SUPERFICIE DELLA BATTAGLIA
– Collana Cartoline d’artista, 2006 –

TAGLI/TMESI
– Collana Elzeviri, 2014 –

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Interventi critici di
Francesco Forlani

Sarà presente l’autore

https://www.facebook.com/events/650227121689796/

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Una poesia da Superficie della battaglia:
http://www.absolutepoetry.org/IMG/pdf/una_poesia.pdf

*

Si parlerà anche di LIE LIE:
cfr. il video e gli allegati all’indirizzo
http://www.lacameraverde.org/internocamera.html

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programma completo:


9 gennaio 2014

Biagio Cepollaro
LE QUALITA’
(Collana Metra, 2012)

25 gennaio 2014

Andrea Inglese
QUANDO KUBRICK INVENTO’ LA FANTASCIENZA – 4 CAPRICCI SU 2001
(Collana Visioni dal Cinematografo, 2011)

4 febbraio 2014

Massimo Rizzante
RICORDI DELLA NATURA UMANA
(Collana Talìa, 2010)

Nikos Kachtitsis
PUNTO VULNERABILE – 14 POESIE DELLA GIOVINEZZA
A cura di
Massimo Rizzante
(Collana Metra, 2012)

5 febbraio 2014
Francesco Forlani
MANHATTAN EXPERIMENT – 1997 FUGA DA NEW YORK
(Collana Visioni dal Cinematografo, 2010)

6 febbraio 2014
Marco Giovenale
SOLUZIONE DELLA MATERIA
(Collana Calliope, 2009)
TAGLI/TMESI
(Collana Elzeviri, 2014)
SUPERFICIE DELLA BATTAGLIA
(Collana Cartoline d’Artista, 2006)

7 febbraio 2014
presentazione delle
29 Cartelle d’artista
Alfredo Anzellini, Franco Belsole, Umberto Bignardi, Alessandro De Francesco, Gerardo Di Fabrizio, Matteo Di Giamberardino, Francesco Forlani, Lugi Francini, Massimo Fusaro, Elisabetta Gazziero, Marco Giovenale, Matias Guerra, Aram Kebabdijan, Olivier Kervern, Andrea Inglese, Anna Macchi, Franco Mancini, Eugenio Marzaioli, Grazia Menna, Paolo Mussat Sartor, Raffaella Nappo, Gianni Nigro, Andrea Pacioni, Marco Perri, Nicola Ponzio, Ilaria Scarpa, Zeno Tentella, Francesca Vitale, Caroline Zekri

8 febbraio 2014
Toni D’Angela
IL CUORE DELL’ESSERE E IL PENSIERO SENSIBILE – L’ATTO DEL VEDERE DI STAN BRAKHAGE
Introduzione di
Nicole Brenez
10 tavole di
Matias Guerra
(Collana Il Cinematografo, 2013)

15 febbraio 2014

Giusi Drago
TEMPO NEGOZIATO
(Collana Calliope, 2014)

§

sempre
alle h. 18:30 presso Voyelles&Visions
Via San Massimo 9
(Torino)

da “Inventari” (2001)

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di Andrea Inglese

RILIEVI

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Belletrista dai nervi
scoperti sotto scossa
elettrica inarcato: stacco
dal silenzio un fumetto
per schizzo cinetico o furia
o soltanto facezia
lo allungo e lo gonfio con zeppe
lo taglio con chimiche scorie
quando scoppia è rumore bianco
copriti il volto: te lo spedisco.

Parole per un rap

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Di Gian Pietro Fiorillo

 

io sono pazzo, pazzo / io sono pazzo tutto anzi strapazzo / se mi strapazzo troppo mi sollazzo /

ma poi mi giro e dormo o parto a razzo / io sono pazzo, pazzo / e parlo per parlare e mi sbarazzo / del mondo, e con che furia / gli faccio le boccacce / rendo pane raffermo per focacce / e gli spacco la faccia, sono feccia / e freccia sono e arco / non vado in nessun posto ma dove vado sbarco / occupo e sbanco e gioco / e prendo il banco / io sono a un tempo spendaccione e parco / spendo il mio tempo inutilmente e calco / come scena la vita come un palco / e per cortili inutili scorrazzo

fra i debosciati vivo del palazzo / ma dopo torno a casa e lì sferruzzo / con i libri proibiti e se mi faccio il mazzo / non te lo vengo a dire non capisci / che studio tutto il giorno e che m’ammazzo / che ci vuoi fare / che ci vuoi fare / che ci vuoi fare / sono pazzo, pazzo / sono solo un ragazzo / e sono sano / e sano / e sano / e sano / e sano / come un pazzo

(coro) sapete noi pazzi non siamo / la brutta impressione che diamo / eppure non siamo neppure / le sterili miti creature / che fanno la questua d’amore / non siamo neppure un cartello / per fare il dottore più bello / credeteci abbiamo un cervello / ed un cuore / proviamo la gioia / proviamo il dolore / sappiamo perfino pensare / diverso dall’operatore / di cui non sappiamo che fare / ma non glielo diamo a vedere / avrà pure lui da campare / di questo suo porco mestiere

e sono pazzo sono perché urlo / mi burlo dei cazzoni ma non ciurlo / nel manico e denuncio chi lo fa  / e sono pazzo pazzo se sul prato  / mi distendo e m’addormo anzi beato  / dopo avere affogato in piscina l’avvocato / e il giudice pirlato  / che venne ad interdirmi / l’ho frullato col girmi / e sono pazzo pazzo sulla spiaggia / non me ne frega un cazzo della pioggia / a dire il vero detesto la bambagia / perché mi fa venir la pappagorgia / e sono pazzo e sono pazzo e grido / e rido se il destino mi minaccia / con il suo ghigno spastico mi abbaia / come un mastino mastico la ghiaia / ma poi basta un festino ed è bonaccia / del grugno del destino me ne frego / dico a me gli occhi plìs così lo strego / e la morte per me è soltanto un segno / è finita la gara e incomincia il convegno / contegno / contegno / contegno / ragazzi / marionette / giovani donne e vecchi ve ne prego

/ mantenete il contegno / nel giorno del trapasso ad altro Regno

 

(coro) sapete noi pazzi non siamo / la brutta impressione che diamo / eppure non siamo neppure / le sterili miti creature / che fanno la questua d’amore / non siamo neppure un cartello / per fare il dottore più bello / credeteci abbiamo un cervello / ed un cuore / proviamo la gioia / proviamo il dolore / sappiamo perfino pensare / diverso dall’operatore / di cui non sappiamo che fare / ma non glielo diamo a vedere / avrà pure lui da campare / di questo suo porco mestiere

io sono pazzo e passo giù in cantina / perché quel topo nero si avvicina / l’avevo chiuso in frigo stamattina / mi porge qualche cosa una mentina / ma no non è una menta è medicina / io sono un pazzo passero lo vedi / sono solo una pezza per i piedi / sono il divanoletto su cui siedi / prendo le medicine e il corpo puzza / in pochi mesi moltiplica la stazza / e sono pazzo e pazzo anche di più

se prendo lo zyprexa e il risperdal / se mescolo la merda che mi date  / con la droga da strada e le fottute / che d’ogni tipo e prezzo voi spacciate / dietro la protezione della scienza / che serve solamente / per lavarvi la coscienza / son malato di mente / e di cervello / perché il cervello voi me lo ammalate / con l’aloperidolo e l’aripiprazolo / con altre terapie poi mi ammaliate / mi bidonate

ma con un po’ di coca mi riprendo / e vado al lungofiume quando è notte / preferisco le botte

a quei cancelli chimici che mi somministrate / cimici sottopelle che iniettate / che ci rendono bestie maltrattate / e che ci fanno urlare / urlare / urlare / urlare / e piangere e pisciare dentro al letto / scappare e rifugiarsi nella pancia dell’orsetto / pisciare con i cani sul muretto / se mi venite a prendere mi getto / da questi cinque piani ora mi butto / e non è ancora tutto nossignori / nostra dama è la donna di dolori

 

(coro) sapete noi pazzi non siamo / la brutta impressione che diamo / eppure non siamo neppure / le sterili miti creature / che fanno la questua d’amore / non siamo neppure un cartello / per fare il dottore più bello / credeteci abbiamo un cervello / ed un cuore / proviamo la gioia / proviamo il dolore / sappiamo perfino pensare / diverso dall’operatore / di cui non sappiamo che fare / ma non glielo diamo a vedere / avrà pure lui da campare / di questo suo porco mestiere

io sono pazzo cazzo / cazzo cazzo cazzo cazzo – e stracazzo / io sono pazzo tutto anzi strapazzo / se mi strapazzo troppo mi sollazzo / ma poi mi giro e dormo e vaffanculo al cazzo / io  sono pazzo pazzo / dico le parolacce sul terrazzo / le grido al tutto il mondo e non m’ammazzo

/ di vino ho sempre piene le borracce / rendo pane raffermo per focacce / e se mi stai sul cazzo io ti spacco la faccia / e sono feccia / sono letame e scarico di cuccia / se posso mi nascondo nel soppalco / quando vengono a prendermi / li scalcio e li scappuccio / e divento invisibile / come carta velina / e divento risibile / come carta di riso / e divento irascibile / come il vento che infuria / e che sfotte la gente troppo seria / e i poveri impiegati disgraziati / che credono d’averci ammortizzati / e i pavidi infermieri / che non lo sanno e sono / solo carabinieri / io sono pazzo cazzo / io per cortili inutili scorrazzo / fra i debosciati vivo del palazzo / frequento case chiuse per far piacere al cazzo / ma dopo torno a casa e lì sferruzzo / con i libri proibiti e se mi faccio il mazzo / non te lo vengo a dire non capisci / che studio tutto il giorno e che m’ammazzo / che ci vuoi fare / che ci vuoi fare

/ che ci vuoi fare / sono pazzo e cazzo / sono solo un ragazzo / e sono sano / e sano / e sano / e sano / e sano / come un pazzo

 

(coro) sapete noi pazzi non siamo / la brutta impressione che diamo / eppure non siamo neppure / le sterili miti creature / che fanno la questua d’amore / non siamo neppure un cartello / per fare il dottore più bello / credeteci abbiamo un cervello / ed un cuore / proviamo la gioia / proviamo il dolore / sappiamo perfino pensare / diverso dall’operatore / di cui non sappiamo che fare / ma non glielo diamo a vedere / avrà pure lui da campare / di questo suo porco mestiere

e sono pazzo sono perché urlo / mi burlo dei cazzari ma non ciurlo / e sono pazzo pazzo se sul prato / mi distendo e m’addormo anzi beato / io sotterro in giardino l’avvocato / dopo averlo affogato in piscina / e il giudice cretina / che venne ad interdirmi / l’ho frullata credetemi col girmi

/ e l’ho mandata / a cercare il nirvana con i vermi / e sono pazzo pazzo sulla spiaggia / detesto la violenza e la distanza / fanno cagare i medici con la condiscendenza / stampata sulla faccia / io faccio breccia / per quei pochi tatuaggi sulle braccia / per i capelli lunghi con la treccia / perché mangio il briccino e me la rido / del chimico frustino che mi danno / in vena e alla capoccia fanno danno / danno / danno / fanno / Gesù perdona loro se non sanno / non me ne frega un cazzo detesto la bambagia / perché mi fa venir la pappagorgia / e sono pazzo e sono pazzo e grido / e rido se il destino mi minaccia / con il suo ghigno spastico mi abbaia / come un mastino mastico la ghiaia

/ ma poi basta un festino ed è bonaccia / del grugno del destino me ne frego / dico a me gli occhi plìs così lo strego / e la morte per me è soltanto un segno / è finita la gara e incomincia il convegno / contegno / contegno / ragazzi marionette / giovani donne e vecchi ve ne prego / mantenete il contegno / nel giorno del trapasso ad altro Regno / io sono pazzo e passo / giù in cantina / perché quel topo nero si avvicina / l’avevo chiuso in frigo stamattina / mi porge qualche cosa una mentina / io sono un pazzo passero lo vedi / sono solo una pezza per i piedi / prendo le medicine e il corpo puzza / in pochi mesi moltiplica la stazza / e sono pazzo e pazzo anche di più / se prendo lo zyprexa e il risperdal / se mescolo la merda che mi date / con la droga da strada – e puttanate / che d’ogni tipo e prezzo voi spacciate / dietro la protezione della scienza / che serve solo per lavarvi / la coscienza / son malato di mente / e di cervello / perché il cervello voi me lo ammalate / con altre terapie poi mi ammaliate / mi bidonate

 

(coro) sapete noi pazzi non siamo / la brutta impressione che diamo / eppure non siamo neppure / le sterili miti creature / che fanno la questua d’amore / non siamo neppure un cartello / per fare il dottore più bello / credeteci abbiamo un cervello / ed un cuore / proviamo la gioia / proviamo il dolore / sappiamo perfino pensare / diverso dall’operatore / di cui non sappiamo che fare / ma non glielo diamo a vedere / avrà pure lui da campare / di questo suo porco mestiere

io sono pazzo e kazzo con la kappa / quando m’inkazzo picchio con la zappa / io sono un verme amici e datemi la pappa / in fondo sono solo lo smandrappa / sono un bambino piccolo che scappa

/ benché quello che vuole lui ce l’abbia / ma sa giocare solo a far castelli / di rabbia / rabbia / rabbia / rabbia / rabbi / rab / ra / r / rap / rapì / rapito

 

(coro) e rapirono il pazzo tra la folla / ne fecero un pupazzo con la colla / lo appesero al reparto psichiatrico / e dissero alla madre non è niente / è malato di mente / ne faremo un perfetto demente / ve lo restituiremo / entro quindici giorni / improrogabilmente

/ sapete, spiegava il dottore / non contano i sogni o il dolore / è solo questione / di neurotrasmissione / il giovane l’ha squilibrata / non gliela faremo bilanciata / i pazzi sapete non sono / del tutto diversi da un sano / è solo che sono malati / ma noi ve li diamo guariti / diciamolo fanno impressione / se sbavano un poco e il tremore / non deve turbarvi in eccesso / abbiamo dei farmaci adesso / che fermano il battito stesso / del cuore / talvolta il malato poi muore / però posso dirvi in coscienza / che questo prescrive la scienza / signora noi siamo soltanto / dei medici ancora il trapianto / non c’è del cervello / di certo sarebbe più bello / col bisturi e con il coltello / e il trapano appeso a tracolla / però con la chimica odierna / facciamo miracoli, senta / se ce lo dà in pasto due giorni / facciamo che il pazzo / non torni mai più / ad essere il pazzo che fu

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Dolores Prato

1

Come una favola.
Nata e vissuta (tutta la vita) senza punti di riferimento (padre, madre, religione, amici….) scrivere fu giocoforza, fu improrogabile necessità dettata dal bisogno di ritrovare se stessa, di riconoscersi, di darsi nome, connotati, un’identità.
Il titolo del suo capolavoro, Giù la piazza non c’è nessuno, può apparire fuorviante, la scrittrice di fatto popola le settecento pagine incantate di una miriade di personaggioggetticosepiante. La totalità di una vita minuta, vista, osservata, scrutata con i suoi occhi estatici di bimba.
Era una necessità vitale scrivere della sua entrata nel mondo, dei suoi silenzi, dei suoi soliloqui incessanti intorno a personeoggetticosepiante.
Testimonia, riflette quanto osserva, implacabilmente o amorevolmente, senza giudizi di valore. Riporta tutto il tempo della Treja d’antan, tutta l’aria di Treja e tutta la sua gente (vista, sentita, intravista) che rivive o vive come forse mai ha vissuto. Non un tempo ritrovato quanto invece un tempo mai lasciato.
Nel grande, geniale, borghese ventaglio di Proust vi è lo scorrere ininterrotto, senza pause, senza momenti estatici, afasici o indicibili: sfilate militari, salotti bene, conversazioni brillanti e conversari inani, il Padre demiurgo e la Madre onnipresente…..
La Prato non deflette dall’ impellente necessità, necessità perdurata per tutta la sua lunga vita, di narrare mille e mille particolari di quel mondo osservato specularmente, o sorpreso oppure intravisto nella sua infanzia ammutolita, quasi la sua fosse l’infanzia del mondo. Treja: il mondo tutto.
In questa piccola città della mia morte aveva scritto il Leopardi di Recanati, una Treja poco discosta, analogo balcone sull’Adriatico. Il natio borgo selvaggio che ispirò il poeta per tutto l’arco della sua vita. E così Treja, la Treja dell’infanzia di Dolores riportata totalmente intatta ottant’anni dopo.
Che cosa hanno conservato gli occhi, le percezioni, le registrazioni minuziose e nello stesso tempo incantate di una bimba attonita, assolutamente partecipe e insieme avulsa dal mondo a cavallo del secolo? Treja assurgeva a simbolo e come si era conservato intatta…
La riproduzione, la conservazione non pedissequa ma sapiente, questo catalogo di usi, di gesti del quotidiano, il sapore non effimero di una vita minuta, velata, intensa, inesauribile, attenta, mai banale, suggellandosi all’eterno.
Una globale restitutio antropologica della vita di Treja e nello stesso tempo l’inatteso, la sorpresa: il dono dello scrivere, la poesia. L’antropologa, la sociologa, la psicologa….. la bambina insomma che ha immancabilmente tutto registrato con la memoria profonda, prodigiosa che tutto registra e che poi seppelliamo. Dolores affidò tutta se stessa allo scrivere, finendo per divenire in questa ininterrotta pratica, una scrittrice col dono dell’unicità.
E io che fui? una bambina un po’ dolorosa, un po’ curiosa potrebbe dire chi la guarda dal buco del Portone del Priorato, una bastarda dirà chi la guarda dal disincanto. Bastarda integrale dico io. Spuntata da un ramo di antichissima nobiltà, innestata con un poderoso ramo israelita, io che sono? Quel bocciolo di melanconia che era dentro di me sin da piccina, spuntato dal plurimillenario dolore ebraico…..un pudding di elementi millenari ed occasionali messi a lievitare nella piccola madia della madre…. Così concludendo scrive di sé nell’appendice.
Le storie tutte stanno lì appese e aspettano. Lo scrittore (di storie) buca l’involucro e’narra’. Sono involucri a diversa altezza, giusta la qualità della storia, il grado di conoscenza che la storia può dare. Gli involucri bassi sono piuttosto dozzinali, inutili, come la tele. Poi ci sono gli scrittori (pochi) che narrano (quando sanno narrare) sempre o quasi dei propri accadimenti. Kerouac ad esempio, anche ossessivamente. E la Prato? Di lei conosco solo questo libro unico del quale ho provato a dire qualcosa.

Homo Bulgaricus

1

popovdi Romano A. Fiocchi

Alek Popov, I cani volano basso, traduzione di Sibylle Kirchbach, Keller editore, 2013.

 

L’editore Keller ha un solo difetto: non pubblica autori italiani. Il suo essere un editore di confine (la casa editrice ha sede a Rovereto, Trento) sembra che lo spinga a guardare oltre questo confine, all’esterno, per portare all’interno nuove suggestioni, voci diverse dalle nostre, autori che parlano altre lingue e osservano con altri occhi. In ogni caso, da quell’editore puro che è, Keller pubblica ciò che ama pubblicare. E sceglie con gusto e grande competenza. Basti pensare all’uscita già nel maggio 2008 del romanzo Il paese delle prugne verdi di Herta Müller, premio Nobel l’anno successivo. Oppure, per quanto sulla scia della notorietà, a preziosi testi di nicchia come Il re s’inchina e uccide (2011) e Il fiore rosso e il bastone (2012), dove la Müller inventa un suo proprio linguaggio (le ombre di legno piallato, le frange del tappeto d’asfalto, il cielo della bocca, lo zucchero dei cadaveri, e così via). Oppure ancora gemme letterarie come Accadimenti nell’irrealtà immediata di un misconosciuto ma eccezionale Max Blecher, rumeno di origine ebraica morto di tubercolosi spinale a soli ventinove anni.

Detto questo, I cani volano basso del bulgaro Alek Popov (qui il sito ufficiale dell’autore) è sicuramente un Keller un po’ inconsueto. Popov è uno strano miscuglio di sarcasmo dozzinale e di intonazione letteraria, di formule da best seller e di derisione delle stesse, un alternarsi di pagine poetiche e di pagine piene di dialoghi al limite della banalità, ma anche un libro di acute analisi degli spietati meccanismi del liberismo americano e di denuncia delle macerie morali lasciate dal crollo del muro di Berlino. Il tutto attraverso una satira con battute di questo tipo: “Sembrava che lo spirito della cleptomania fosse evaso dalla tomba del comunismo come la maledizione di Tutankhamon”.

I cani, insomma, volano basso e alto. Non mi sono “rotolato sul pavimento per le risate”, come promette la citazione del Vormagazin sulla prima di copertina, forse perché tra le righe vi ho sempre letto una nota amara. Indubbiamente la scrittura di Popov ha spunti di sottile umorismo ma un umorismo alla Pirandello: i personaggi vivono un disagio interiore che impedisce di ridere di loro nonostante la comicità della situazione. È un disagio, quello raccontato da Popov, di natura sociale e storica. L’homo bulgaricus che appare via via come EBS, “Emigrante Bulgaricus di Successo”, FBC, “Fermento Bulgaricus Cialtrone”, oppure FBP, “Fermento Bulgaricus Paraculo”, è in tutti i casi succube del sogno americano e di quel vuoto culturale venutosi a creare tra la fine del comunismo e l’invasione del capitalismo.

È questo l’aspetto più interessante de I cani volano basso. I fratelli Ned (Nedko) e Ango (Angel) Banov – quasi sdoppiamento di un unico personaggio – sono lo strumento che permette a Popov di insinuarsi nei perversi meandri del potere finanziario sia in America che in Bulgaria. In un casuale scambio di ruoli, l’EBS Ned Banov torna in Bulgaria su incarico dell’azienda per cui lavora, mentre Ango Banov atterra in America e senza volerlo, con un’altrettanto casuale attività di dog sitter, raggiunge il successo a cui il fratello rinuncia deliberatamente. È Ned, con la sua graduale presa di coscienza, che permette a Popov di denunciare le nefandezze del sistema. Un sistema che quando chiede sacrifici di posti di lavoro addita il colpevole ora nella faccia dell’uomo crudele “con l’accento da Far East europeo”, se il sacrificio avviene in America, ora in quella dell’uomo crudele con l’accento angloamericano (il collega Kurz), se avviene nel lontano Est europeo. È Ned, per tramite dell’invettiva di Kurz ormai passato dall’altra parte della barricata ossia dalla parte dei lavoratori in sciopero, che fornisce la vera chiave di lettura di un mondo che asservisce chiunque ne faccia parte. Riporto qui di seguito il punto saliente del discorso di Kurz che la penna di Popov costruisce con semplicità ed efficacia:

“Ecco l’essenza dell’economia del libero mercato. Il tempo è denaro. Ma il denaro non si può trasformare in tempo. L’alchimia viaggia in un solo senso. E quando arrivi a capirlo, il tuo tempo è ormai scaduto. Ti resta solo la magra consolazione che, volendo, puoi comprarti una Ferrari. E la soddisfazione è che la maggior parte degli altri invece non se la può permettere. Però sei stato fatto fesso esattamente come tutti gli altri. Ogni persona che si ritrova a dover vendere il proprio tempo è un proletario. Anche il sottoscritto”.

Alla successiva domanda del collega Kurz su cosa vorrebbe essere tra altri dieci anni, l’EBS Ned Banov risponde che gli piacerebbe prendersi una vacanza a tempo indeterminato, in una casa sul lago, con una donna di cui essere innamorato, e una barca a remi.

“Caro ragazzo, – gli dice Kurz – fra dieci anni, ammesso che il mondo esista ancora e non sia ridotto in cenere, sarai senior partner e in tutti i miei trent’anni di lavoro non ho mai visto neanche un senior partner prendersi una vacanza a tempo indeterminato. A meno che non fosse stato costretto per malattia o morte. E non ti auguro né l’una né l’altra. Ma in un punto hai ragione: non siamo proletari. Eppure neanche nomadi. Siamo servi della gleba. In senso figurato, non concreto, il che è anche peggio. Perché da questo nasce il nostro destino esistenziale… Non è di un lavoro che siamo schiavi ma di uno stile di vita. E del denaro che ci permette di condurlo! Non importa da quale fonte provenga. Puoi cambiare il lavoro un’infinità di volte, alla fine ti ritroverai comunque a fare sempre la stessa cosa. Vorresti ritirarti in una casa sul lago? Una con tutti i confort scommetto! E vorresti al tuo fianco una donna da amare? Immagino che la vorrai bella e buona! E non manca neanche la barca a remi… Sei proprio sicuro di non nutrire in realtà pretese assai alte? Ma dai, torna coi piedi per terra! Vieni a vedere come vive la gente. Guardali bene, coloro che possiedono una sola cosa – il tempo. E il tempo non è vero che è denaro, il tempo è vita. Quindi quando lo finisci, resti a secco per sempre”.

Kurz, ovviamente, farà una brutta fine perché chi parla così sta appunto dall’altra parte della barricata, quella senza potere. E dà fastidio a chi il potere ce l’ha e vuole mantenerlo ad ogni costo.

Interessante, tra gli aspetti letterari, è la struttura del romanzo suddiviso in quarantaquattro capitoli con tanto di prologo e di epilogo. Nei capitoli si alternano le voci narranti in prima persona dei due fratelli, salvo nel capitolo trentatré dove subentra inaspettata la voce di Diane, evanescente personaggio femminile che cambierà più maschere e finirà per innamorarsi del più innocente dei due, Ango. L’alternanza delle due voci principali è evidenziata dall’utilizzo di due tempi diversi: il presente per Ned e il passato remoto per Ango. Non solo, il tempo del romanzo scorre nella stessa direzione ma con due punti di partenza diversi a seconda del protagonista. Il primo capitolo si apre con Ned che si riprende dal coma, ossia nelle battute finali del romanzo, mentre il secondo capitolo vede l’entrata in scena di Ango appena atterrato negli Stati Uniti, ossia all’inizio del romanzo. La narrazione di Ned sarà infatti una sorta di incessante flashback che avrà la soluzione di continuità appunto nel risveglio dal coma.

Il prologo si ricongiunge invece all’epilogo attraverso il tema della scatola di plastica nera che contiene le ceneri del padre di Ned e Ango, matematico, morto in circostanze misteriose negli Stati Uniti e rispedito in patria per ben due volte: false ceneri nella prima consegna, presunte autentiche nella seconda. In Popov il tema del contrario, del tutto non è ciò che sembra, è decisamente uno dei temi portanti. Non per nulla l’arrivo delle ceneri di Mr Banov senior in Bulgaria sarà il pretesto per una delle definizioni più belle, quella di patria: “Un luogo nel quale tornano i morti e dal quale scappano i vivi”.

Un’ultima cosa: l’espressione i cani volano basso si riferisce alle quotazioni di un’azienda che produce cibo per cani. Ancora una volta il sottile umorismo di Popov.

Il boss in salotto, senza coraggio né fantasia

2

di Angela Bubba

Nei giorni in cui La grande bellezza riceve la nomination all’Oscar come miglior film straniero, in Italia entra prepotentemente in classifica Un boss in salotto, pellicola dai risvolti prevedibili quanto noiosi, la quale s’inserisce nel già parecchio frequentato filone dei lungometraggi a tema Nord vs Sud. La storia in questo caso è incentrata sulla fervente Cristina alias Carmela (Paola Cortellesi), meridionale di nascita ma settentrionale di spirito, molto più dei figli e del marito Michele (Luca Argentero), la cui vita viene sconvolta dall’arrivo del fratello Ciro (Rocco Papaleo), accusato d’intrattenere rapporti con la camorra e in attesa di giudizio: indicando la residenza della sorella come luogo in cui scontare la pena, infatti, l’uomo stravolge la routine domestica, ne invade senza rispetto gli ambienti e fa scricchiolare le abitudini e convinzioni più intime. Crolla così l’immagine della felicità salutista o per meglio dire orribilmente asettica dell’inizio, a favore di un ritratto umano che fotografa, in maniera però oltremodo banale, tutto il servilismo, il provincialismo e l’immaturità su cui viene fondata una famiglia.

La vita lunga

1

La Vita Lunga

Lo psica

8

[Ringrazio l’autore che mi ha permesso di pubblicare dei brani del suo romanzo inedito Memorie di un rivoluzionario timido. Precede il primo di questi brani una nota su vicende e temi del  progetto narrativo. A. I.]

di Carlo Bordini

°°° Questo romanzo totalmente legato all’autobiografia è una sorta di bilancio di circa vent’anni della mia vita. Poiché sono stati anni pieni di traumi, la stesura di questo libro è stata una lotta con me stesso. Per questo ci ho messo un tempo lunghissimo a finirlo. Un bilancio, un esame di coscienza su due temi fondamentali: il rapporto con la politica (sono stato a lungo militante di un gruppo trotskista) e i grovigli affettivi che hanno caratterizzato i miei rapporto col mondo femminile. Il tutto preceduto da un’adolescenza vissuta tra depressioni, cambi di facoltà, fughe in autostop e sedute dallo psicanalista. Una normale figura di disadattato, quindi, alla ricerca di un equilibrio. Scritto in periodi diversi e con stili diversi, abbandonato e ripreso, questo libro non poteva che assumere una struttura disordinata e barocca, che accettava, come inevitabile, un fluire profondamente disomogeneo. Terminato da poco, è inedito.°°°

Viola Amarelli – Cartografie della pura presenza

8

di Daniele Ventre

Mappe per solitari*: questo explicit nominale in corsivo chiude, come suggello e anti-titolo, Cartografie di Viola Amarelli (Editrice ZONA, Arezzo, 2013): una trama di prose poetico-narrative dai titoli parentetici e parentetizzati che si presenta così con la facies di un testo implicitamente palindromo, in cui il tessuto del reale, riversato in un ordito disseminato di snapshots, diventa ologramma speculare di sé stesso. Dai postscripta che con quell’explicit si concludono, e che troviamo in clausula come potenziale fulmen e chiave di decrittazione del libro, è necessario cominciare nel tentativo di porre le basi di un’intelligenza del testo che vada al di là della retorica del critico diffusore, e cerchi di intuire, per quanto possibile, la sostanza del progetto poetico che l’opera definisce. La palindromia formale e concettuale di Cartografie si palesa, secondo il modo di vedere che abbiamo subito accennato e che tenteremo ora di illustrare il meglio possibile, in un punto focale dei poscripta, che recita: “il bello, il giusto. amenità avventizie per cecati. tu guarda, tu, il reale. e. il raddrizzo. tu guarda, tu, verso. il meglio che si possa. il meglio che ci tocca”. Campeggiano qui il tema dei fondanti assiologici, ridotti a trastulli fittizi per gli esseri umani fasciati di buio esistenziale (Il bello, il giusto –poco dopo “la verità: funzione. la classica o derivata…), e quello del reale, o per dirla in forma solo apparentemente ricompattata nell’esserci empirico, delle nudecrudecose della raccolta poetica della Amarelli che di poco precede Cartografie. Sul bello, sul giusto, sul reale, campeggia lo sguardo, Einblick, prospettiva di inquadramento, ma anche darśana, inneres Auge, occhio interiore e com-penetrante-si, fra riassestamento cognitivo, inquadramento corretto, ma non necessariamente quello della visione ordinaria e verso, versus come linea scritta e come “contro” opposto al raddrizzo. Si instaura così un rapporto riorientato fra realtà e rappresentazione letteraria, con a mezzo la pagina e la fruizione del lettore a fungere da diaframmi impropri e osmotici, e da specchi reciprocamente distorcenti: una rappresentazione implicita dell’esperienza del lettore, e dell’esperienza in genere come singolarità ermeneutica, sistema aperto in cui soggettività e oggettività si intersecano nel gomitolo inestricabile dei vissuti.

MICHAIL ROMM Il fascismo ordinario [1965]

8

di Orsola Puecher

Ho molto, forse troppo, evocato voci e storie a me molto vicine, ma a volte la malinconia chiede distanza, silenzio, cerca quiete nella dimenticanza, vuole addolcire la sofferenza individuale in un dolore comune, in una reazione ad esso razionale e “politica”.

Qualsiasi mezzo attraverso il quale lo spettatore è costretto a guardare inquadrature familiari come se non le avesse mai viste prima, o con il quale la mente dello spettatore si fa più attenta al significato più ampio dei vecchi materiali, questo è lo scopo di una corretta compilation.

[Jay Leyda (1964), Films Beget Films, London: Allen & Unwin.]


Il Fascismo ordinario, documentario del regista Michail Romm, assemblato nella Russia post staliniana con spezzoni di pellicola requisiti dopo la fine delle Seconda Guerra mondiale a Berlino, è una lunga meditazione sul fascismo, sul nazismo, sui fascismi e sulle dittature in genere, e quindi, in controluce, sullo stesso totalitarismo russo; offre molte immagini, alcune ormai familiari, altre ancora inedite, che riescono a sorprendere e ad aprire nuove prospettive di riflessione nella attuale, spesso un po’ ripetitiva e involontariamente retorica, ridondanza di commemorazioni e testimonianze per il Giorno della Memoria.


Il racconto è affidato principalmente al montaggio, ai fermo immagine significativi e alla contrapposizione mirata dei vari spezzoni d’epoca, materiale propagandistico di cinegiornali e Kulturfilm nazisti, fotografie, con l’aggiunta di alcune parti girate al momento, in tempo di pace, che ampliano la scala temporale e creano un effetto emotivo particolarmente efficace e proiettato nel presente.

Ho cominciato a raccogliere materiale secondo il seguente principio: quello più rilevante su Hitler è stato messo in un rullo, Göring è entrato in un’altro, un terzo rullo era riservato a gente che posava corone, un quarto alle parate militari, un quinto alle folle plaudenti, un sesto alla vita quotidiana dei soldati, e così via. Ho diviso il materiale fino in 120 possibili temi civili e militari, fra temi dal periodo pre-Hitler e del periodo di Hitler. Il materiale è stato organizzato in questi argomenti e poi messo insieme in singoli episodi.

[Romm 1965: 4]

Abbiamo montato il film come un film muto. Ho improvvisato il commento sezione per sezione, senza pensare alla sincronizzazione, senza perseguire effetti standardizzati «documentario», come fosse un monologo dell’autore, come se stessi pensando al materiale in quel momento, invitando lo spettatore a pensarci, contemporaneamente. A mio parere è stato proprio questo mezzo artistico – l’interazione fra la carica emotiva, il montaggio artistico e il monologo dell’autore – che ha dato al film la sua speciale qualità.

[Romm 1975: 279]



Il commento non è un testo scritto affidato alla voce fuori campo manierata di uno speaker professionale e impersonale, ma quella che si sente è la voce dello stesso Romm, che chiosa con tono discorsivo, a volte ironico, a volte solenne i singoli spezzoni, in presa diretta.

Il documentario inizia e finisce in un asilo moscovita. I disegni di alcuni bambini sono il simbolo della creatività naturale, innata in ogni uomo, che sempre viene brutalizzata dal concetto di massa inerte e non pensante, insito in tutte le dittature. L’individualismo borghese non era uno dei peggiori peccati, punito con il Gulag anche dal regime sovietico?
Attraverso l’analisi storica dell’ascesa del nazismo e della sua caduta, i filmati di propaganda, delocalizzati dal loro contesto originale, finiscono per essere rappresentazioni tragicomiche. Romm le commenta in prima persona, spesso riferendosi direttamente al suo pubblico con domande, e arriva a impersonare, nel Capitolo Otto, Hitler stesso che narcisisticamente sfoglia il suo album fotografico di pose improbabili.
Dopo la fabbricazione del monumentale tomo mistico del Mein Kampf, con pergamena e acciao, destinato a durare mille anni come il Reich, ecco le parate militari con svastiche e tamburi, prima ancora dell’avvento del nazismo, e le feste popolari con milioni di salsicce. Ed ecco che viene analizzato un’aspetto particolare della questione razziale: il tentativo di ottenere una razza pura attraverso l’inseminazione programmata di donne fertili ad opera di soldati e SS, per ottenere i perfetti pargoli “Doni al Führer”, con la buffa dotazione di culle portatili con cui i soldati venivano equipaggiati, quando andavano in licenza, per spingerli a fare il loro dovere di inseminatori ariani.
Non può mancare una fugace ma pregnante apparizione del nostro Mussolini, l’inventore della parola fascismo e del gesto, il saluto romano, che Hitler gli ha solo bellamente copiato con un angolo leggermente diverso, e campione assoluto per il martellamento della propaganda.
Qui è protagonista di un tipico filmato al balcone, con la solita gestualità demenziale, di cui Romm dice:

Il contenuto del discorso e’ irrilevante. E’ necessario vedere la sua faccia, piuttosto che ascoltare quello che sta dicendo.

Alla sua sinistra ondeggia una specie di fantasmatico alone nero, messo dal montatore per nascondere un certo tal personaggio che gli stava accanto e che, in quanto a lui particolarmente inviso, era stato cancellato se non dalla Storia, almeno dalla pellicola.
Il plagio e l’imbarbarimento della massa, che doveva essere pronta a obbedire agli ordini più terribili, inizia dall’infanzia e investe ogni aspetto della vita tedesca. Perfino i crani dovevano essere regolari e corrispondere a rigidi parametri ariani.
L’ordinarietà del fascismo, la sua quotidianità sta, quindi, sia nell’essere consapevolmente instillato e permeato in ogni aspetto della vita, stimolando gli istinti peggiori dell’essere umano, che nella conseguente convivenza di vita normale e barbarie, attraverso cui si acquisisce una stolida, ottusa insensibilità dei limiti dell’umano.

Dal diario del dottore in medicina e filosofia, professore straordinario Josef Kramer:

Ho partecipato a una speciale attivita’ oggi.
Era piu’ terribile dell’Inferno di Dante.
Abbiamo dovuto ordinare nuovi pantaloni, stivali e una giacca da Berlino.
Abbiamo dovuto assistere nuovamente un’attivita’ speciale.
Questa volta, sono state selezionate donne denutrite per lo sterminio.
Sapevano cosa stava per accadere e le SS hanno un po’ faticato con loro.
Il menu del pranzo e’ zuppa di pomodoro, mezzo pollo, birra a volonta’ e gelato alla crema di vaniglia.
Di sera – una piacevole cena presso la casa del comandante.

 

Il lungo percorso attraverso le immagini e gli orrori della guerra finisce là dove era cominciato, con i bambini dell’asilo moscovita, perché:

Non esistono bambini cattivi.
Tutti i bambini del mondo sono buoni.
Tutto dipende da come formeremo i loro caratteri, da come li trasformeremo.

Il documentario termina con una piccola fiaba raccontata da una bambina:

C’erano una volta un vecchio e sua moglie. Avevano una gallinella maculata.
Un giorno la gallina depose un uovo, e non era un semplice uovo, ma uno d’oro.
Il vecchio cerco’ di romperlo e non ci riusci’.
Hanno continuato a cercare di romperlo, ma inutilmente.
Un topo corse e agito’ la sua piccola coda; l’uovo cadde e si ruppe.
Il vecchio pianse, e la moglie pianse, ma la gallina disse: “Non piangere vecchio,non piangere vecchia donna! Faro’ un nuovo uovo, questa volta non uno d’oro, ma semplice.

[trad. sottotitoli inglesi di Orsola Puecher]