Correspondances
di
Francesco Forlani
Mi chiedo a volte se è davvero necessario parlare di poesia, spiegare il nesso, il fatto, svelare l’arcano che ci dice della fortuna o della miseria di una poetica, l’affiliazione, la bastardaggine di un verso. Per questo trovo ancora più straordinari i lavori critici in poesia, quelli di cui sono testimone, orale o scritto, portati avanti con cura certosina, attenzione sovrumana all’opera. Penso ai lavori di Biagio Cepollaro, Marco Giovenale, Giuliano Mesa, Andrea Inglese, Francesco Marotta, solo per citare pochi esempi, che già mi dico e dicono che sono sempre gli stessi, nel mio immaginario. Se così poco, ci dicono, serve la poesia al tavolo della letteratura cosa e come servirà una critica poetica, se non a raccogliere le poche briciole cadute dal tavolo, i pochi lettori che restano dopo la scrematura. Nessuno legge più poesia, figuriamoci allora testi critici sulla poesia! Ecco io vorrei essere uno di quei lettori, uno di quei critici. Vorrei avvicinarmi al tavolo, chinarmi e raccogliere poche briciole, riporle in un qualcosa, un sacchetto di carta, un foglio, e scrivere: “queste poesie di Claudia Ruggeri sono belle.” Ovvero dire in lungo e in largo, con dovizia di particolari e maîtrise assoluta di strumenti e aggeggi critici, come e perché sono belle. Tanta è la strada che però mi separa dal tavolo, e poco, troppo poco il tempo per riuscire a dire altro da quanto è stato già detto su Claudia Ruggeri. Critica sincera, che non faccia astrazione del cuore, come hanno scritto di lei Mario Desiati o forse Michelangelo Zizzi oppure semplicemente riuscire a leggere i suoi versi come li ho sentiti detti a Matera, in una chiesa sconsacrata per voce di Alfonso Guida. E metterci la stessa passione di Francesca Canobbio, la cura di sua madre Maria Teresa del Zingaro, con cui ci siamo scritti poche cose. Le poesie che seguono me le ha mandate Elio Scarciglia autore di un documentario, allegato al libro Canto senza voce di Claudia Ruggeri, libro curato da Esther Basile e Angela Schiavone e che verrà presentato a Genova il 12 luglio. Eccole.
Il calice di fiele che mi hai dato
Questa croce pesante
che ho portato senza proteste
sopra il mio Calvario.
Questi chiodi crudeli
ho lasciato trafiggere
il mio corpo e il mio sudario.
Queste piaghe profonde
che ho guardato aprirsi nella carne:
oh, mio Signore, tutto questo,
lo sai,
te l’ho donato.
E pure, adesso che il festino è finito
Oh, mio Signore, ti faccio omaggio,
e, sorridendo,
brindo
col calice di fiele
che mi hai dato.
§
Prego i tristissimi occhi
d’eroe di guardare
che i suoi logori sguardi
vertano sul mio dolore.
E poi volino
fantastici e stanchi
partendo da lì.
Dal dolore.
Prego che Vittoria
sappia che nel suo volo di pietra
è la perdita umana
Prego che Eroe e sua Vittoria
passeggino insieme
per poco, nel mondo.
Che le estati li investano, torride,
e così lunghe notti
nel freddo.
Che la terra riempia di sassi
le palpebre giovani
e le guidi fin dentro
dai suoi dannati.
Prego le ragioni della luce
di illanguidire i loro respiri,
e le sabbie di soffocarne la voce.
Prego il mare
affinché disperda i loro cuori
nelle sue acque.
Poi li trovarono
nella nicchia di un tempio
contorti e iniziati.
Li esposero in lunghissimi
treni di legno.
L’organo vomitava rigido
algide melodie.
Carcerata la loro giovinezza
da tetti di mogano,
zolle di terra
e poi rovi di vermi.
Li trovarono
e trovarono la mia preghiera
nei loro occhi
pallidi ed attoniti.
Lontano, in un giardino fiorito
qualcuno prepara una croce e dei chiodi.
Un giorno dei saggi
potando gli sterpi
in un vecchio giardino
troveranno anche me
con un passero
duro tra i denti.
&
Canto di Madre
Un albero
incantato e festoso
alcova di primavera
leggiadra
Quell’albero non l’ha mai visto
il mio bambino
era già adulto quando nacque:
aggrottava le ciglia
Scrutando il bianco affaccendarsi
di chi controllava il suo pianto:
il mio bimbo
è nato serio
Ha sentito
il composto formarsi
dei ghiacci
ed ha guardato, dal vetro
gli svizzeri giochi
innevati.
Ha amato quell’ordine,
ed ha preferito morire
per non vedere
l’inutilità
di frivola
e scomposta
primavera.
A me ha lasciato
un albero stupendo.
Sotto le sue fronde poserò
boccheggiante
nei violenti ardori
di un’estate
mentre la chioma
scapigliata
mi schiaffeggerà
a sangue.
Già lo fa
che ancora
è inverno nell’addio,
e mi rimane
nella faretra
stremato,
sulla spalla,
una saetta d’azzurro, simile a quello
che colpiva il cuore
con l’aggrottarsi vecchio
che chiedeva venia
d’essere mai esistito.
Quest’albero
che “tu” hai cresciuto
nel mio seno
duro come un cadavere
in un affanno cosmico
ispessisce
ed è la crudeltà
che tu piantasti
per essere ingannato
mentre io
relativa
t’abbracciavo.
Sento nel mio corpo
quel seme
che piantasti,
farsi albero
crescere …ispessirsi
dentro un affanno
cosmico.
La crudeltà
mi ha preso
di stringerti
e ingannarti
Nota post
Sul sito dedicato a Claudia Ruggeri è possibile leggere tantissimi materiali critici e letterari in grado di far capire davvero “la bellezza” della poesia e dell’universo poetico che l’ha generata. E lo fa anche attraverso contrappunti, controcanti, come nello scambio epistolare che qui segue tra la poetessa e Franco Fortini. Solo a prima e distratta lettura parrebbe un dialogo tra sordi, anzi diciamo tra qualcuno che urla, grida e un altro che non sente. In realtà, credo, qui si avverte, nelle parole accorte di Fortini, oltre al leggendario pudore fortiniano rispetto all’amore, qualsiasi forma d’amore, una partecipata paura, sentimento del pericolo, l’Alerte aux poètes. Claudia Ruggeri scrive : “Oggi ho 22 anni ed ho concluso le prime 22 pagine del mio personale dizionario. Le sono destinate. “Bello ventiduenne / come aveva predetto il suo tetrattico”, Majakovskij si mise a dormire “a piene gambe a pieni malleoli” (Blok). Ma questa è superstizione.”
In realtà, credo faccia allusione a Carmelo Bene, altro salentino maudit, eccedente, il Carmelo Bene dei Quattro modi di morire in versi. I poeti detti da Bene erano Majakovskij, Blok, Esenin e Pasternak. Ecco perché Claudia Ruggeri dice Blok ma in realtà si trattava di Pasternak. Fortini raccomanda alla giovane poetessa di liberarsi di Bene? Non so, ma sicuramente del verso “Oh, s’io avessi allora presagito,
quando mi avventuravo nel debutto, che le righe con il sangue uccidono,
mi affluiranno alla gola e mi uccideranno.
Mi sarei nettamente rifiutato
di scherzare con siffatto intrigo.
Il principio fu così lontano,
così timido il primo interesse.”
Lecce, 1 Marzo 1990
Caro professore, ma caro veramente
se pur fantasiosamente. Io sono assolutamente incapace di scrivere una lettera, e lo sono soprattutto se con una lettera devo “comunicare” concretamente. E qui, come fare entrare, e subito, il mio nome; oppure, per esempio, il colore del pullover che indossavo quel giorno, e, insomma il senso di un epistolario caduto e la mania di gerarchia e di aristocrazia che mi prende quando si tratta di “parlarne”, “spiegarne”, di un gesto che è profondo e leggero troppo per non sfuggire ad una qual si sia esibizione.
Insomma ho covato una “dedica” lungo cinque anni; già, perché fu nell’85 che la conobbi e che quella che era stata la predilezione per un poeta s’inverò in un pensiero amoroso e riverente per un uomo. Sentii come un richiamo strano una parentela iniziale una “con esistenza” di destini ed una “elezione” radicale. Anche lei mi guardò spostando appena il Corriere della Sera ed io fui troppo certa che in quello esercitò una comprensione e forse una condivisione di tale “affatata” circostanza. E infatti dopo poco lei mi chiamò in corridoio e lì parlammo, attimi, in piedi, come ladri, soli.
Esco da due anni infernali in cui sono stata affetta da una malattia alla tiroide che mi ha portato crisi di nervi e che mi ha bloccata su tutti i fronti. Ora riprendo a studiare, a scrivere non ancora, a vivere ed a fuggire da questa maledetta città per ritornarvi tuttavia; riprendo riprendo ma non riprendo
tutto, forse. Oggi ho 22 anni ed ho concluso le prime 22 pagine del mio personale dizionario. Le sono destinate. “Bello ventiduenne / come aveva predetto il suo tetrattico”, Majakovskij si mise a dormire “a piene gambe a pieni malleoli” (Blok). Ma questa è superstizione.
Le invio il mio “Inferno minore”, le chiedo di leggerlo; non le piacerà, lo indovino, per il tipo di
scrittura (specialmente non le piacerà la I sezione “il Matto”), epperò non mi biasimi per averglielo dedicato, non se ne offenda. Un’intitolazione collega congiunge individua un maestro, e questo potrebbe infastidirla; ma d’altra parte -il mio inferno essendo perlappunto “minore”- io non sarò famosa: quella dedica rimarrà familiare, un segno di affetto, un debito
Sua Claudia
Milano, 10 marzo 1990
Cara Ruggeri, la rammento benissimo e la ringrazio molto del ricordo e della fiducia e dell’invio.
Ho letto Inferno minore con l’imbarazzo di una ammirazione per l’intelligenza, la sottigliezza e la passione, che deve fare i conti con un giudizio molto cauto per quanto è dell’angolo da cui lei guarda le parole e ascolta il linguaggio. Il ‘pastiche’ culturale, prima ancora che linguistico, occupa tutto lo spazio del lavoro: c’è un accumulo, dalle citazioni alle note, che attraversa i testi, una ripresa di modi e vezzi di troppe avanguardie e neoavanguardie, che fa pensare al sovraccarico di collane e gioielli e anelli che il suo buon gusto certo le impedirebbe di portare.
Badi bene, nessuno meglio di me sa che la poesia è anche letteratura e artificio. E che può essere necessario, per parlare, uno spesso trucco. Però in lei, mi pare, domina un ‘sistema’ letterario così fortemente organizzato e tirannico che la comunicazione metaforica e allegorica stenta a stabilirsi.
Cose che lei ha ben chiare: “amo la tua continua consegna mondana…”, “amo le tue cadute benché siano finte…” Questo ‘romanzo’ psicologico non manca davvero di ritmo, di percussioni interne, di passaggi ‘forti’; mi pare che, piuttosto, ci sia una tendenza a saturare ogni singola composizione con tutti gli strumenti disponibili, con èsiti di soffocazione e di autoannullamento. Mi pare di poter dire che il ‘punto’ non è di scrittura ma di esistenza. Credo intendere che cosa voglia dire essere stata così ammalata e quali tensioni quella specifica alterazione possa avere, non dirò prodotto, ma coltivato; ma ho buona memoria di quel che Giacomo ha scritto per non procedere oltre su questa via banale. E tuttavia vorrei che lei sapesse uscire dal corridoio di specchi delizioso, terrificante e anche infame (“Inferno minore”, appunto) non verso una “salute” e una “salvezza” ma verso una maggiore attenzione (nel senso di ‘risparmio’, di klassische Dämpfung, di limitazione volontaria dei mezzi) alle escursioni dei livelli di linguaggio, di discorso e di esperienza, una minore fiducia nella ‘impunità’ della parola letteraria qua talis. Non ho consigli fuor di questo: di uscire pro tempore verso la prosa più banale e convenzionale prima di tornare al verso.
Mi accorgo di non averle parlato dei versi suoi ma di quel che li precede o li segue. Una lettera non può far altro.
Lei è una ‘testa forte’ e saprà valutare questa lettera quanto merita, cioè pochissimo; la mia vanità, lusingata dal suo ricordo, ne potrà soffrire. Ma proprio di questo lei ha bisogno: di rovesciare quanti modelli porta in sé e fare piazza pulita. Io, per fortuna sua, modello non posso né voglio essere ma invece, e con molta stima e simpatia, il suo
Franco Fortini













