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Un grandangolo deforma leggermente ai lati l’espressione attonita di Mario e Cristina

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(Un altro piccolo estratto da una cosa lunga che vado scrivendo da tempo)

di Giuseppe Zucco

Uno stencil, Parigi
Uno stencil, Parigi

Un grandangolo deforma leggermente ai lati l’espressione attonita di Mario e Cristina. Il fucile puntato di un microfono allinea il loro silenzio. Una giornalista molto pettinata e truccata più del dovuto, intimando all’operatore di riprenderla esclusivamente dal lato sinistro, con un sorriso di circostanza e un’aura che circonda tutta la sua figura – una materia instabile che potrebbe da un momento all’altro sciogliersi in una cascata di microscopici brillantissimi pixel – chiede ai due ragazzi cosa ne sanno loro della parola amore e in che modo i giovani oggi parlano d’amore racchiusi dentro la piccola fortezza di una coppia.
“Nomignoli?”, dice la giornalista.
“Vi date dei nomignoli?”, dice.
La giornalista ha i jeans aderenti strappati sul ginocchio. Il naso, di una simmetria soprannaturale, arte concettuale più che cartilagine, è il centro dell’attenzione.
“E il sesso orale?”.
“Quante volte a settimana?”.
L’operatore avvisa che c’è stato un problema audio, uno scroscio, sulla domanda. La giornalista lo guarda come si guardano le formiche, in fila indiana, sulle mattonelle di casa, prima di soccombere all’istinto di schiacciarle.
“E nel caso aspettaste un bambino, lo vorreste?”.
“Lo terreste con voi?”.
Mario e Cristina la guardano. La telecamera, non le domande, li mineralizza. Fossili, mica esseri umani. Echinodermi rivestiti di calcare come quelli che si studiano a scuola. Una scena muta tecnicamente perfetta. Almeno fino a quando Mario, non sopportando più lo sguardo tassonomico della giornalista – come se loro due fossero gli esemplari di una nuova inquietante specie di difficile catalogazione se non per le abitudini sessuali e la connessione wireless – butta lì con supremo distacco che hanno già un bambino, che presto ne sforneranno un secondo, che niente e nessuno impedirà loro di registrarlo all’anagrafe con il nome di Marty McFly, il protagonista del migliore film di tutti i tempi.
Poi Mario dice Ehi, guarda, indicando un punto indefinito sopra le loro teste. La giornalista si volta, l’operatore vira meccanicamente l’occhio della telecamera, Mario prende Cristina per mano e inizia a correre, infilando in volata la strada, un vicolo anonimo saturo di vetrine minimaliste, bianche perlopiù, con un solo capo in vista, sebbene non avesse la minima idea di dove andare a parare.
La giornalista e l’operatore, sciolto l’inganno, tengono il passo, veleggiando nella loro scia, la velocità di crociera smorzata dai tacchi (lei) e dal peso della telecamera (lui), urlando ai ragazzi di fermarsi, una domanda, un’altra ancora – ma se la giornalista è una cacciatrice di animali esotici, e quella corsa il completamento imprevisto di un safari, Mario e Cristina sono due felini ormai lontani, le cui macchie del manto continuano a galleggiare nell’aria solo per un effetto ottico.
Sbucano su una strada, ne infilano un’altra. Con il respiro rotto, voltandosi indietro, non trovano alcun retino televisivo a caccia del loro isterico e inutile battere di ali – si fermano. Piegati in due, Mario tiene l’equilibrio appoggiandosi a Cristina, e viceversa. Potrebbero essere appena scampati a una retata di polizia, o essere arrivati senza fiato al punto in cui si concludono gli scippi, o ancora essere inseguiti da uomini bene in carne e con la fedina penale adeguatamente annerita che starebbero per materializzarsi da dietro l’angolo, o con più disperazione i due  potrebbero avventarsi e accanirsi sul primo passante disponibile per ripianare simbolicamente un torto appena subito – la gente non gli passa accanto, fa tutto un giro complicato e ridondante, attraversando dall’altra parte della carreggiata, pur di non sfiorare quelle due masse umane scosse dall’accelerazione cardiaca.
“Non ti bastava un figlio?”, dice Cristina.
“Mi piaccio le famiglie numerose”, dice Mario.
“E i nomi li decidi tu?”.
“Marty McFly non va bene?”.
“Perché non Jack lo Squartatore, allora?”.
“Potrebbe essere un’idea”.
“Oppure Marilyn Manson, no?”.
“Hai la mia approvazione”.
“Mario”.
“Sì”.
“Io chiedo il divorzio”.
“Finalmente”.
Le nubi di una crisi matrimoniale si addensano e svaniscono sopra le loro teste. Mario verifica la tenuta dei suoi undici decimi, impigliando lo sguardo dove possibile, mettendo a fuoco punti anche molto distanti, la vetrina dietro cui leccatissimi trentenni con il bicchiere in mano esauriscono la vena aurifera dei recipienti di nachos, il tronco obliquo di un albero con alcune chiazze grigie a forma di madonnina, due stencil – uno bianco e nero di Gary Coleman, il protagonista de Il mio amico Arnold, eternamente bambino, uno verde fosforescente con le guance incavate dell’ultimo identikit di un pericoloso latitante, entrambi evaporati dal mondo e comunque presenti sui muri di Milano – tutto pure di non voltarsi e avere la conferma che Cristina, al pari degli avvocati, e dei due colpi sordi martellati dal giudice in pectore, sia sparita insieme ai titoli di coda della serie televisiva appena andata in onda in un punto imprecisato dei suoi emisferi cerebrali, una serie così piatta e sentimentalmente trita da chiudersi sul primo e unico colpo di scena della stagione, quel divorzio.
Cristina dice che non divorzierà mai, perché non si sposerà mai, questo sia chiaro. Mario, con fare scocciato, dice che non è nei patti. Se ricorda, l’illuminazione era balenata la più lunga delle notti passate a scambiarsi emoticon e file musicali. Tre giorni dopo il primo incontro, senza l’ingombro di centinaia di parenti e amici di famiglia, si sarebbero sposati, nella prima chiesa, anche metodista, dove capitava. Poi avrebbero speso il resto della vita a conoscersi e avvelenarsi, mandarsi a fanculo e porgersi il termometro con il mercurio già abbassato, viaggiare tipo in Giappone e fare carriera in una qualche multinazionale, guardare i film pirata in streaming abbracciati sul divano e tradirsi ripetutamente lasciando le prove del tradimento allo scoperto, scoparsi in piedi in cucina e mettere al mondo una genia a questo punto decisamente mora ma né troppo alta né troppo corpulenta che un giorno avrebbe sospinto la loro carrozzina di vecchi catorci sconclusionati lungo un corridoio di linoleum lucido e senza quadri alle pareti.
Nightmare finisce con più speranza”, dice Cristina.
“Anche con il catetere sarai bellissima”, dice Mario.
Cristina unisce le labbra, Mario segue lo stato-nazione del pudore estendere autorità e influenza oltre i propri confini, dalle guancie agli zigomi ai lobi delle orecchie, come se qualcosa le avvampasse dentro, di certo non l’innocenza, o ciò che ne resta, la colomba ha già spiccato il volo da quel ramo.
Del resto, né bellissima, né la più bella in assoluto: Mario, approfittando della momentanea superiorità, gira intorno a Cristina, le dita a rettangolo, facendo finta di scattare foto, impressionando la superficie del nulla della rosa allargata dell’imbarazzo, e quindi del viso di Cristina, della leggerissima asimmetria che sposta a sinistra l’equilibrio dei suoi lineamenti. Per quanto impercettibile, è l’unico difetto che Mario riconosca a Cristina, difetto in virtù del quale la realtà è reale e i palazzi si allungano al cielo e le macchine si accodano sui sanpietrini e un gruppo di universitari si dà appuntamento sui navigli e Cristina si schermisce con la mano come per evitare che fosse immortalata sul serio e il tempo rallenta in modo da riuscire a piegarlo e riporlo con estrema cura nei cassetti della memoria e i sentimenti, perfino quelli tragici, i più patetici, il sentimento del disastro della propria epoca, sono accolti e interiorizzati con una letizia scevra di rassegnazione che rintoccherà due o tre volte in tutto nella vita.

[La foto dello stencil è tratta da qui]

Quello che fa rima con “dignità”

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Guardare e ascoltare Stefano Rodotà è ricostituente (vedi alla voce “Costituzione”). Qui potete seguire tutta la manifestazione al Teatro Eliseo il 2 maggio 2013.


Le storie de Lo Sconosciuto

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sconosciutoraccontacover-crop-200x299Di Mauro Baldrati

Lo Sconosciuto racconta, prefazione di Luigi Bernardi – Rizzoli Lizard pp 158 a colori – euro 20

Lo Sconosciuto, Unknow “senza la n finale” come deve precisare spesso, è forse il personaggio più forte, e più longevo, di uno dei maestri del fumetto, non solo italiano: Roberto Raviola, in arte Magnus. Il quale peraltro ha creato altri eroi-antieroi come Kriminal, Satanik, Alan Ford, Necron, I Briganti. Ma nessuno di questi ha ricevuto un’attenzione così meticolosa, così appassionata, come “il viandante” ex legionario, avventuriero, contractor, guardia del corpo, che negli anni ’70 e ’80 percorre le zone calde del pianeta passando da un’avventura all’altra, da un pericolo all’altro, da una sconfitta all’altra. E dire che si tratta di una miniserie: nato nel 1975 per la Edifumetto di Renzo Barbieri, Lo Sconosciuto si conclude nel 1976, con sei avventure. Poi Magnus lo riporta in vita nel 1982, sulle pagine di Orient Express, fino al 1984. In seguito è stato più volte revisionato, rimontato, ripubblicato, da Granata Press, Einaudi, Edizioni Grifo, e Rizzoli Lizard, con un albo risolutivo del 2012.

Unknow ha superato indenne il trascorrere del tempo, a differenza degli altri personaggi, i quali, benché amatissimi dai lettori di Magnus, restano prigionieri del loro periodo, coi suoi eccessi, le sue ingenuità, i suoi specialismi. Invece Lo Sconosciuto sembra sempre attuale, anche se non ci sono i computer (a parte l’apparizione di un “micro-Spectrum a 48 byte” in L’uomo che uccise Che Guevara), o i telefonini, e le auto sono tutte d’epoca. Perché? E’ un antieroe per eccellenza: poco o per nulla romantico, non è un seduttore, non incarna i desideri di vittoria dei lettori, ma è spesso un perdente: se riesce ad arraffare un buon malloppo, quasi sicuramente lo perde, oppure lo dona a chi ne ha bisogno: gli sfruttati, gli sconfitti, gli umiliati. Per parafrasare Benjamin, è “il combattente sentimentale nell’era del capitalismo avanzato”. Infatti se non è romantico, dietro la sua faccia dura, dietro la maschera cinica e spietata, covano sentimenti veri: la generosità, la compassione, la difesa dei deboli. Lo Sconosciuto, con la sua forza, col suo cinismo sentimentale, con le sue crisi, incarna l’archetipo dell’uomo moderno, sempre minacciato, sempre in gioco. Forse è questo il vero motivo della sua longevità.

Sconosciuto dendera-250x326Questo nuovo albo è un compendio di storie e di grafica. Contiene due episodi dove Unknow non è protagonista, ma narratore: Una partita impegnativa, apparso nel 1981 come inserto al Resto del Carlino, narra della “filiera” completa dell’eroina. Si va dalla coltivazione dell’oppio in Turchia al viaggio a dorso di cammello attraverso la Siria, fino allo smistamento a Marsiglia della morfina raffinata, e alla distribuzione sul grande mercato americano, con la longa mano della mafia. Il volo del Lac Leman è una “normale” vicenda di terrorismo, con un aereo dirottato e l’intervento delle forze speciali. La banalità del terrorismo, della follia e della violenza. Scritte e disegnate trent’anni fa, sono storie molto attuali. Magnus offre una delle sue migliori carrellate di personaggi grotteschi, feroci, realistici, con le predilette ambientazioni esotiche, i deserti, le città arabe che grondano cultura antica, benché sventrate dalla speculazione e dall’ingordigia degli uomini.

Poi ci sono vent’anni di copertine de Lo Sconosciuto, una intervista dove Magnus si spende con aneddoti e riflessioni su se stesso e sui personaggi, molti bozzetti inediti e la sceneggiatura originale, manoscritta, di un’avventura rimasta sulla carta, Socco Chico. E’ una vicenda ispirata a una storia realmente vissuta dall’autore bolognese nel mercato di Tangeri, “un luogo complesso e complicato, pieno di gente che viene e che va.” Proprio a due passi dalla casa di William Burroughs, un altro autore di culto contro il quale l’ossido del tempo e delle mode sembra del tutto inoffensivo.

[su Lo Sconosciuto vedi anche questo articolo di Mauro Baldrati pubblicato su Carmilla – jr]

Note- Book : Will Self e Mischa Berlinski

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lavoro-culturale-maggio
L’antropologia degli scrittori
di
Carlo Capello

Nonostante notevoli eccezioni, l’antropologia culturale ha intrattenuto un rapporto ambiguo nei confronti della letteratura, disconoscendo non di rado la propria parentela con la narrazione e la poesia allo scopo di legittimarsi in quanto scienza, con tutti i rischi del caso.

Economia domestica

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di Andrea Amerio
(per proseguire la collaborazione con Il Primo Amore.)
Dove sono stato tutto questo tempo? In esilio, ovvio. Dove? A Malta, uno sputazzo bollente nel Mediterraneo. Che cosa ho fatto? Ma quello che di solito fanno tutti gli umanisti esiliati nel cuore del Mediterraneo: studiare gli strumenti finanziari.
Sì lo so, lo spettacolo è nauseante, ma bisogna farsi forza.

Leggevo tra le notizie di giovedì 22 novembre 2012 che, dopo le pressioni dei grandi istituti di credito italiani, il governo tecnico ha deliberato: niente imposta sui derivati.

Telemachia

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di Daniele Ventre

Sull’orizzonte non c’è che un bagliore rosso di sangue
a ricordare la guerra che è stata e gli incendi lontani
e le città rovesciate e le grida: il sogno di pochi
sulle macerie di troppi. I corvi hanno ricco banchetto:
certo perfino gli dèi sono sazi fino a morire,
delle volute di fumo dai roghi. Ogni tanto c’è un rogo:
fuochi per lutto o magari per vittime, che i sacerdoti
sgozzano lungo la riva del mare o su un picco di monte.

Zero maggio

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PrimoMaggio

di Gianni Biondillo

Alfonso abitava al sesto piano della torre a stella dove vivevo anch’io da ragazzo, a Quarto Oggiaro. Era un operaio dell’Alfa Romeo; si divertiva a raccontarmi di quando era partito da Napoli neppure ventenne e appena sceso alla stazione Centrale di Milano guardandosi attorno si disse, convinto: “questa è la mia città”. Trovò quasi subito lavoro in fabbrica. Il suo caporeparto gli parlava in dialetto milanese e si incazzava se Alfonso (Rossi, un cognome che pare già un luogo comune) faticava a comprenderlo. Per par condicio lui replicava in napoletano, finché, nel tempo, trovarono nell’italiano la lingua franca per comunicare e lavorare al meglio, tutti assieme. All’inizio non conosceva nessuno, ma fra colleghi di reparto, sezioni di partito, riunioni sindacali, nel volgere di poco tempo si sentì già completamente integrato. Qualche mese dopo la sua partenza, la madre dal paese, piangendo di nostalgia al telefono, gli implorò di ritornare a casa. “No – fu la sua risposta – non torno. Qui mi chiamano ‘signor Rossi’, mi danno del lei e rispettano il mio lavoro”. Era uscito dal suo mondo pre-moderno, familista, aveva preso coscienza, sapeva d’appartenere ad una classe in sé e per sé. Erano gli anni Sessanta, gli anni in cui nacqui io, figlio di due immigrati meridionali, sottoproletari e semianalfabeti, che il massimo che potevano augurare al loro figlio era un lavoro come quello di Alfonso, aspirazione autentica di emancipazione sociale a portata di mano. Essere operai, quando ero bambino, era una nota di vanto, era sentirsi parte di una élite, nel cuore di una avanguardia che guardava verso il sol dell’avvenire con fiducia e impegno.

Ad Alfonso piaceva suonare la chitarra. Lo conobbi così, studiando assieme a lui i primi rudimenti dello strumento, io ragazzino, lui uomo fatto. Tornava dal lavoro, smetteva la tuta, una doccia e poi si suonava assieme. E si parlava. Mi spiegò che un proletario deve leggere sia Il Manifesto che il Corriere della Sera, ché quello che pensano i padroni dobbiamo sempre conoscerlo. Mi insegnò la moralità del lavoro, Alfonso. Compresi davvero il significato del primo articolo della nostra Costituzione: una Repubblica fondata sul lavoro. Sulla dignità del lavoro, a voler precisare. I lavoratori erano investiti di doveri onerosi – nei confronti dell’impresa, della famiglia, della nazione – ma erano anche portatori di diritti, inalienabili, conquistati negli anni dai padri, dai fratelli. C’era un giorno per ricordarcelo: il giorno della festa dei lavoratori.

Ricordo le feste del Primo Maggio della mia infanzia. Ricordo il silenzio delle strade vuote, le vetrine abbassate come a Natale, i mezzi pubblici che restavano nel chiuso dei depositi. Ricordo le manifestazioni in centro città, affollate processioni sacre del laicismo proletario. Roba del secolo, del millennio scorso. Le fabbriche hanno chiuso, buona parte dei capannoni dismessi sono stati abbattuti, le aree liberate si sono trasformate in preziose occasioni per eccitare la famelica speculazione immobiliare, il mercato privato ha ridisegnato le città indifferente ai temi sociali, senza una politica pubblica che abbia saputo governare la trasformazione. La classe operaia, dagli anni Ottanta in poi, non è andata in paradiso. È andata in pensione.

Il Primo Maggio sembra ormai solo il giorno di un evento musicale da seguire alla televisione, senza capire esattamente cosa si celebri, in una società polverizzata, indebolita, antisolidale. Oggi – ironia della sorte – si festeggia il giorno dei lavoratori lavorando; in un circolo antropofago autolesionista s’è secolarizzata la sacralità del lavoro per oggettiva perdita della classe clericale, che teneva vivo il culto. Il proletariato, e la sua vitalità di soggetto sociale, è desaparecido. Ciò che resta, e accresce le fila sempre più, è un sottoproletariato straccione e sperduto, troppo simile a quello della mia infanzia, che si barcamena in un mondo del lavoro precarizzato e ferino, che non ha più voglia di festeggiare, perché non possiede nulla, perché è fatto di schiavi senza diritti, nuda vita alla mercé di negrieri finanziari, loro sì davvero internazionalizzati. Il rosseggiare che si vede all’orizzonte non è il sol dell’avvenire, è il tramonto del sogno collettivo.

Temo il buio a venire, temo il gelo.

 

1° Maggio – «Festa del lavoro»

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Claudia Maina «Corpi docili»
Claudia Maina «Corpi docili»

Dal gennaio 2008  al 30 aprile 2013 sono morti per infortunio sul lavoro oltre 5000 lavoratori di cui 2553 sui luoghi di lavoro e gli altri sulle strade e in itinere. (Osservatorio indipendente di Bologna)

Dall’inizio dell’anno sono documentati 145 lavoratori morti per infortuni sui luoghi di lavoro. (Osservatorio indipendente di Bologna)

«Molte vittime non hanno nessuna assicurazione, – si legge nel blog dell’Osservatorio indipendente di Bologna, – e muoiono lavorando in “nero”ed intere categorie non sono considerate morti sul lavoro. Praticamente sono morti sul lavoro invisibili»

Nel 2012 sono morti 1180 lavoratori, di cui 625 sul luogo di lavoro (Osservatorio indipendente di Bologna)

Bollettino dei suicidi nel solo mese di aprile. Le morti della «crisi»:

Booking: Stefania Hauser

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hotel

Camera 304
di
Stefania Hauser

Sebastiano dorme beatamente, ne approfitto per uscire sul balcone a guardare il panorama. Il lago è una falsa rappresentazione del mare, se sei nata a Genova e se ci hai vissuto per trent’anni, ma da qui si apre davanti ai miei occhi un panorama che pretende ossequioso rispetto, infatti, prendo una sedia e mi accomodo. Se fumassi, avrei acceso una sigaretta e s Esse fosse qui già l’avrebbe fatto. Dondolo tra i ricordi, come se oscillando riuscissi ad avvicinarmi a tal punto da afferrarli, ma lei qui non c’è e non cambierebbe niente se mettessi più slancio. Quanta acqua sarà? Quanti litri, intendo?

Ho sempre avuto difficoltà a quantificare le cose, devo crearmi un’ipotetica unità di misura e moltiplicarla all’infinito, quindi, quante vasche da bagno sarà questo lago? Prendo la prima e la adagio al porticciolo che vedo ad est, ne metto accanto un’altra, orizzontalmente, e continuo cercando di essere il più precisa possibile, mentre ripeto a voce alta il numero, ogni volta che questo aumenta: trentacinque, e ancora non ho raggiunto la sponda orientale, quarantuno, non sono nemmeno a metà strada, ma resto concentrata sull’orizzonte e aggiungo altre vasche da bagno, cinquantadue, in fondo, si tratta solo di calcolare la prima fila per poi moltiplicarla, no? Ok, ma moltiplicarla per?

Ci penserò dopo… Settantuno. Meglio prenda dei punti di riferimento, però, per capire da dove far ripartire il conteggio se qualcosa dovesse distrarmi, settantanove, dove in linea retta c’è quella terrazza, con le sdraio, ottantuno, l’insegna del bar, novantuno, il lampione, centouno, le fronde dell’albero, centoundici, la postazione del bagnino, centoventuno, la boa del sub, centotrentuno, centotrentadue, centotrentatre, centotrentaquattro. Centotrentaquattro vasche da bagno da una riva all’altra, e adesso per quanto devo moltiplicare? Ops, ti sei accorta che non stiamo parlando di una forma ben definita? Non è un rettangolo, devi considerare la conformazione della costa, quando si apre, quando si restringe, quindi? Quindi parti dalla punta occidentale e ne sistemi una in verticale tracciando una linea immaginaria di vasche da bagno, le conti fino all’orizzonte, ammettiamo per un istante che tutto sia possibile, poi calcoli tutte quelle che stanno alla destra del confine e, come se stessi facendo un puzzle, incastri le vasche da bagno alla litoranea; stessa cosa ad ovest, anche se da questa parte è molto più semplice perché scorre la strada panoramica e non ci sono troppe curve. Ma quanta acqua sarà?

Prova ad indovinare: secondo te? Non riesco ad immaginare, davvero… E mentre il lago assomiglia sempre più al bagno di casa mia, proseguo con le moltiplicazioni, e sono parentesi tonde e quadre, numeri pari e dispari che ondeggiano, acqua trasparente che non ha profondità (non posso permettermi di calcolare anche quella, non ho gli strumenti né l’unità di misura adatta), una distesa di h2o, una spiaggia di vasche da bagno. E poi succede sempre così, quando sto per concludere, quando i miei sforzi stanno per essere ricompensati, ecco che Sebastiano si sveglia e perdo il conto. Quante vasche saranno? Tieni a mente il numero tra una riva e l’altra, ci riproverai un’altra volta.

Essere mamma mi costringe a non lasciarmi trasportare troppo lontano dalle mie divagazioni mentali: se mio figlio non si fosse svegliato, sarei ancora lì a moltiplicare vasche da bagno e, perché no, sarei poi passata ad animare gli oggetti intorno a me (mi diverto a dargli vita propria), oppure, avrei finito con rimanere intrappolata nel mio passatempo preferito: osservare una cosa, o una persona, da un punto di vista specifico e circoscritto e non nel suo insieme, per poi accorgermi che cambia fisionomia. È divertente e più facile di quanto sia riuscita a spiegare, prova concreta è che lo sto facendo proprio in questo momento, mentre cambio il pannolino a Sebastiano: guardo il suo viso partendo dalle labbra – ma sarebbero potuti essere il naso, le orecchie, gli occhi – e lascio che il mio sguardo sul suo viso si estenda a macchia d’olio, palesandomi lineamenti che prima non avevo osservato e che probabilmente non noterei, se guardassi mio figlio nella sua totalità facciale. Va detto che, qualunque sia il punto di vista da cui si osserva, Sebastiano non smentisce la sua bellezza.

Ripasso a voce alta tutto ciò che d’indispensabile va messo nella borsa per una passeggiata con un bambino di venti mesi, ho preso tutto, sistemo Sebastiano sul passeggino, operazione che richiede sempre diversi minuti perché non ne vuole sapere di stare seduto, aggiungo, come sempre, qualcosa all’ultimo momento – in quest’occasione ho preso un libro da leggere – ed eccoci pronti per uscire all’aria aperta.

Gli scrittori sullo schermo e Nella casa di François Ozon

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di Giuseppe Zucco

Un fotogramma del film Nella casa, di François Ozon, 2013
Un fotogramma del film Nella casa, di François Ozon, 2013

Si sa, gli scrittori sono esemplari romantici: così il cinema, quando non è impegnato nella caccia al retino della propria figura romantica per eccellenza, cioè il regista (ultimo capofila, Hitchcock), mobilita schiere di professionisti e maestranze per catturare e offrire al pubblico il visino pallido, tendenzialmente deperito ma luciferino, di un asso della penna.

Ovviamente, sfogliando l’albo mondiale della letteratura, esiste una quantità di scrittori la cui vita avrebbe i numeri giusti per finire sul grande schermo – e infatti, negli ultimi decenni, sono fioccati i biopic più o meno verosimili di Edgar Allan Poe, Truman Capote, Charles Bukowski, William Shakespeare, Virginia Woolf, Francis Scott Fitzgerald. Ma non occorre scomodare i mostri sacri. Le pose di uno scrittore standard invogliano di per sé all’allestimento di un film. Andando a braccio, ce n’è per tutti: dallo scrittore che si fa possedere da oscure forze demoniache (Shining, 1980), a quello bohemien e squattrinato che scrive per assicurare a sé la donna dei propri sogni (Moulin Rouge!, 2001), a quello che svela gli intrighi del potere e ci resta secco (L’uomo nell’ombra, 2010), a quello che svela gli intrighi dello star system e non ci resta secco (False verità, 2005), a quello rintanato e misantropo che torna a nuova vita seguendo le qualità di un allievo piovuto dal cielo (Scoprendo Forrester, 2000), a quello rapito e tagliuzzato senza misericordia da una lettrice accanita e vendicativa (Misery non deve morire, 1990), a quello mentalmente disordinato e interrogato per ore da un commissario a causa di un omicidio (Una pura formalità, 1994).

In un’epoca in cui si legge sempre meno, in cui anche i lettori forti appaiono sufficientemente impallinati dalla crisi, circola sempre più nell’immaginario collettivo il fantasma dello scrittore – una forma di nostalgia che ha più affinità con gli alieni, cioè con proiezioni fantastiche irraggiungibili, che con il vissuto ordinario, disciplinato e regolare di un uomo o una donna che passano ore e ore a schiacciare tasti e allungare stringhe alfanumeriche sulla rappresentazione virtuale di un foglio di carta. Catturato nell’ambra della vita quotidiana, lo scrittore non garantirebbe plot né chissà quale avventura: i fatti più entusiasmanti sono gli schiocchi infinitesimali che accadono tra le sue sinapsi mentre allinea le parole giuste per comporre un libro e/o un mondo. Ma è impossibile filmare quel momento, o quanto meno metterlo in scena con precisione: lì non ci si arriva se non per continue e sempre provvisorie inferenze e avvicinamenti, risalendo le pagine delle sue opere. La vita esteriore di Kafka o Nabokov, per dire, trasposta in un film, suonerebbe parecchio gracile e noiosa – del tutto indipendentemente dagli eventi, rimirando quelle esistenze, succubi della mitologia di una vita straordinaria a cui tendiamo senza sforzo, viene più facile immaginarla come un turbinio.

L’ultimo film-turbinio su uno scrittore s’intitola Nella casa, e l’ha diretto François Ozon. La storia, senza tentennamenti, scatta in velocità: Claude, studente sedicenne del liceo Flaubert, ha un talento, la scrittura. Scrive temi, nient’altro – ma ogni tema sembra il capitolo di un romanzo in cui la famiglia dell’unico coetaneo che frequenta, Rapha, viene passata ai raggi x. Germain, il professore di letteratura francese, legge i temi, rimane sorpreso e sprona Claude a seguire la strada di un realismo spinto, tanto che Claude, con un accanimento crescente di tema in tema, si infila tra le maglie della famiglia e conquista uno a uno figlio, padre, madre con lo scopo di avere un quadro sempre meglio definito delle loro relazioni. Il film fila come un’educazione sentimentale, ma poco per volta diventa un thriller: e così mentre Germain si appassiona sinistramente alle storie di Claude e Claude scivola sempre più in profondità dentro il cuore borghese della famiglia di Rapha, entrambi arriveranno a mettere un doloroso punto a capo alle loro vite.

Il film, nonostante la girandola sfiancante dei colpi di scena, e la colonna sonora incontinente che fodera tutte le superfici della pellicola, ha un pregio: Ozon, tranne che per la scrittura di una lettera per il giornale studentesco, non inquadra mai Claude mentre compone i temi. La scrittura è costantemente messa in scena: se Germain e la moglie leggono a voce alta il tema, Claude diventa il voice over dell’ispezione minuziosa alla casa e ai suoi inquilini – una soluzione che illumina subito l’ossessività di Claude e la morbosità della coppia Germain, e che ci risparmia una delle più grandi pose dello scrittore standard, la scena che avrete visto mille volte e che conoscerete ormai a memoria, dove lo scrittore scrive, cancella, si alza, strappa nuovi fogli ancora, circondato da innumerevoli palline di carta, uno spaventoso blocco creativo che in Shining Kubrick aveva genialmente spostato nella risma di fogli impilati con cura al lato della macchina da scrivere, tutti attraversati dallo stesso ossessivo righino nero, il mattino ha l’oro in bocca.

Resta da capire che genere di scrittore sta puntando il dito contro la borghesia francese, perché una cosa è chiara: quando un film dipana la vita di uno scrittore, e illumina la costruzione di un’opera letteraria, dieci a uno sta propagandando una certa idea di letteratura, un’idea normativa di letteratura, di cosa la letteratura dovrebbe o non dovrebbe fare. Claude è uno studente, siede all’ultimo banco, osserva gli altri senza a sua volta essere osservato – con le stesse modalità, penetra nello spazio privato di una casa, rovista le sue stanze e, senza alcun dilemma etico, studia la fattura e la disposizione degli oggetti quotidiani e si impossessa delle abitudini, ripugnanti e per questo così modeste e umane, dei suoi inquilini. Nelle ricognizioni segrete di Claude, nella loro riproposizione letteraria, regna il distacco assoluto, e se pure è presente qualche momento di mimesi, di confusione dolorosa tra quelle ricognizioni e la sua vita, è solo perché s’innamora in modo adolescenziale della madre di Rapha – amore che almeno in una scena, quella dove la madre di Rapha, distesa sul divano, è ripresa dalle unghie laccate dei piedi agli occhi chiusi sotto lo sguardo rapito di Claude, Ozon gira come se fosse un remake di Lolita a parti invertite (tra l’altro, il professore di letteratura francese si chiama Germain Germain proprio come Humbert Humbert, e la madre di Rapha è quanto di più vicino alla bellezza vacua e ormai avanti negli anni di Dolores Haze).

Claude, a questo punto – e Germain potrebbe andarne fiero, gli insegnamenti e le letture che impartisce filano in questa direzione – sarebbe uno scrittore realista. Osserva con distacco quanto accade nella casa, studia con freddo rigore i comportamenti dei suoi inquilini, ripropone in modo calligrafico gli eventi principali ricollocandoli nella cornice di un tema, e in coda a ogni tema, per accrescerne la suspense, allunga l’ombra carica di incognite e di oscuri presagi di un continua.

Ma è realismo questo? Prendendo per buona la definizione che ne dà Walter Siti, avremmo qualche dubbio. Scrive Siti nella seconda pagina de Il realismo è l’impossibile: “Il realismo, per come la vedo io, è l’antiabitudine: è il leggero strappo, il particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale – mette in dubbio per un istante quel che Nabokov (nelle Lezioni di letteratura) chiama “il rozzo compromesso dei sensi” e sembra che ci lasci intravedere la cosa stessa, la realtà infinita, informe e impredicabile. Realismo è quella postura verbale o iconica (talvolta casuale, talvolta ottenuta a forza di tecnica) che coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà […]”. Ecco, a guardare bene, nella scrittura di Claude non c’è traccia di questa antiabitudine, né tantomeno la descrizione impietosa della famiglia di Rapha accoglie qualche illuminazione che piega le sbarre della nostra stereotipia mentale. In fondo, appare già tutto ampiamente visto e codificato: e così alle pose di uno scrittore standard che desidera cogliere la realtà nel suo divenire, segue un adolescente ricco ma tarato con tendenze omosessuali, un padre molto parvenu che tenta con piccoli e miseri mezzi di arricchirsi ancora, una moglie insoddisfatta della propria vita e dell’arredo del proprio appartamento con qualche velleità artistica, un professore di letteratura che un tempo ha scritto un romanzo ma con scarso successo, una moglie del professore che dirige una galleria d’arte contemporanea al solo scopo di vendere le opere e garantirsi la stagnazione perpetua dentro i confini di una classe sociale in cui ha stipato la sua esistenza. Una borghesia da operetta, in fondo, nel cui mondo, la realtà, piuttosto che lasciarsi cogliere impreparata, è preparata da tempo.

Nonostante ciò, perdura la sensazione che Claude sia in tutto e per tutto uno scrittore realista. Anche se il modo in cui Claude sbozza la massa informe della realtà, stilizzandola in una figura già riconoscibile, non sembra trovare precedenti nella tradizione letteraria, ma nella logica di un altro mezzo, la televisione – del resto, per tutto il film, Claude non esibisce alcuna preparazione letteraria, anzi ne sembra piuttosto asciutto, sarà Germain a somministrargli in corso d’opera i romanzi che potrebbero soccorrerlo nel suo apprendistato. Due sono gli indizi più forti: il fatto che Claude osservi senza essere visto gli abitanti di un luogo chiuso come una casa, e l’evidenza che i temi si chiudano tutti con un identico espediente, quel continua. Insomma, è come se la scrittura di questo adolescente, la cui formazione deve qualcosa in più alla televisione che ai libri, fosse un pendolo che oscilla tra le forme di un reality e quelle di un serial televisivo. D’altra parte, Claude si muove all’interno della casa con la stessa invisibile discrezione di una telecamera sul set di una edizione del Grande Fratello, e quel continua, che in gergo televisivo verrebbe etichettato come cliffhanger, non ricorda nient’altro che il rito straziante con cui finiscono e danno l’arrivederci ai telespettatori le puntate di una telenovela o di una soap-opera, sempre in corrispondenza di un colpo di scena o di un climax narrativo.

Ecco che in un attimo si svela il nume tutelare di questo realismo: non tanto Gustave Flaubert, come il film tenta ossessivamente di suggerirci, ma John de Mol, l’inventore multimilionario del Big brother, il format olandese che ha mutato per sempre il destino della comunicazione. Questo realismo, infatti, perfettamente in linea con quanto propone Claude, è di tipo conservatore, non si pone mai l’obiettivo di cogliere impreparata la realtà, piuttosto propende a confermarla, a renderla persistente nelle sue stereotipie, a chiuderla una volta per tutte dentro quei modelli e quelle consuetudini che in modo molto elegante e consolatorio chiamiamo spirito del tempo. Un realismo che organizza, predispone e struttura la vita quotidiana dei propri protagonisti nella trama di una proposizione morbosa delle loro avventure sentimentali e corporali. Il tipo di realismo che non eleva mai in universale il particolare, ma che rincorre i particolari, di tutte le taglie, rovistando nel cassonetto dei tic e delle manie. Ed è proprio questo che incanta più di ogni altra cosa la coppia Germain: non tanto lo stile e la lingua dei temi di Claude, quanto la possibilità di essere fino in fondo dei voyeur senza correre alcun rischio – che, in fondo, allargando il raggio dalla televisione ai new media, è la strettoia in cui ci infila l’uso mai troppo ingenuo dei social network.

Se dovessi trovare, per il realismo per come lo intendo, un verbo riassuntivo, indicherei il verbo sporgersi”, scrive in chiusura di saggio Walter Siti. Ma alla fine del film, anche se non si rivela subito alla coscienza dello spettatore il senso di colpa per essere stato piacevolmente sedotto da un realismo conservatore, tutti tirano un passo indietro: la famiglia borghese si ricompone felice, Claude e Germain fantasticano di scrivere con il sorriso sulle labbra, la realtà a cui si ispirano da modello diventa definitivamente una copia pacificata, tutta la tensione irrisolta del conflitto svanisce di colpo. E anche la letteratura, di cui il film doveva darne una versione attraverso il ritratto di uno scrittore sedicenne, alza la manina e fa ciao ciao.

[Le citazioni sono tratte da Il realismo è l’impossibile, di Walter Siti, nottetempo, pp. 8 e 79]

2666 non è lontano

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di Helena Janeczek

Arcimboldo-Il Bibliotecario

Grazie a Antonio Coiro, ho scoperto che oggi Roberto Bolaño avrebbe compiuto 60 anni. Ho quindi deciso di “festeggiarlo” con l’estratto di un intervento che verrà pubblicato negli atti del Seminario sul Romanzo dell’Università di Trento.

Sono anni che in Italia si dibatte su filoni di poetica intesi come alternativi, anzi vicendevolmente escludenti: l’opzione realista, aggiornata in formule come il “ritorno al reale” o “docufiction”, rivalutata come veicolo necessario di engagement, contrapposta a barocchismi postmoderni, filiazione libresca e citazionista, ma anche alla “restaurazione” del romanzo neo-borghese. Narrazioni che decidono di veicolare preoccupazioni contenutistiche attraverso le gabbie di noir o thriller si scontrano con la convinzione che la vera letteratura debba fondarsi sulla ricerca formale quasi sempre identificata con la scrittura e con lo stile.

¡Que viva la traducción! – La letteratura italiana in Spagna 2

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(Dopo la prima intervista, ecco una seconda che chiude idealmente il capitolo sulla letteratura italiana in Spagna. Questa volta saranno Celia Filipetto e David Paradela López a rendere molto più chiara e definita la situazione. gz)

Un’intervista a Celia FilipettoDavid Paradela López di Ilide Carmignani e Giuseppe Zucco

Un'opera di Escif, street artist spagnolo
Un’opera di Escif, street artist spagnolo

Che spazio occupa la letteratura italiana nell’insieme delle letterature tradotte in Spagna?

Nel 2012 sono stati tradotti in spagnolo 19.792 libri, di cui 1.074 dall’italiano, cioè il 5% (fonte: Federación de Gremios de Editores de España).

 

Quali sono gli scrittori più conosciuti fra i moderni e i contemporanei?

Dal punto di vista del grande pubblico: Alessandro Baricco, Andrea Camilleri, Umberto Eco, Erri De Luca, Paolo Giordano, Margaret Mazzantini. In rete troviamo, per esempio, questo elenco di autori italiani “indispensabili”.

 

Viene tradotta anche la poesia? E la letteratura di genere, la saggistica, i libri per ragazzi?

Della letteratura di genere si traducono soprattutto autori di gialli e di noir: Massimo Carlotto, Andrea Camilleri, Gianrico Carofiglio, Maurizio De Giovanni, Giorgio Faletti.
Praticamente tutta la saggistica straniera tradotta in Spagna proviene dai paesi di lingua inglese o dalla Francia, ma ci arrivano comunque gli autori italiani di fama mondiale: Vattimo, Eco, Bobbio, Negri, Montalcini.
Quanto alla poesia, facendo una ricerca sui siti (qui e qui) troviamo più di cento case editrici che si occupano del settore. Un’indagine veloce ci conferma che, a parte le lingue classiche, la poesia tradotta segue più o meno la stessa tendenza della narrativa con l’inglese, il francese e il tedesco come lingue prevalenti. Ad esempio, Ediciones Hiperión, casa editrice che ha una collana di poesia, ha pubblicato, sì, alcuni autori italiani – Giuseppe Gioachino Belli, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Chiara Matraini, Mario Luzi – ma sempre molto pochi in rapporto a un catalogo in cui prevalgono gli autori inglesi, francesi e tedeschi. DVD Ediciones, casa editrice specializzata in poesia, ha pubblicato soltanto quattro libri di poeti italiani: Pier Paolo Pasolini, Filippo Tommaso Marinetti, Michelangelo e Dino Campana.

 

Quanto sono tradotti i classici?

I classici, in generale, sono ben rappresentati. Tra le case editrici che pubblicano classici italiani possiamo citare Cátedra, che ha pubblicato, tra gli altri, Vittorio Alfieri, Ludovico Ariosto, Giorgio Bassani, Pietro Bembo, Giovanni Boccaccio, Michelangelo Buonarroti,  Gabriele D’Annunzio, Dante Alighieri, Carlo Collodi, Ugo Foscolo, Carlo Emilio Gadda, Carlo Goldoni, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Machiavelli, Giacomo Leopardi, Elsa Morante, Alessandro Manzoni, Alberto Moravia, Cesare Pavese, Francesco Petrarca, Luigi Pirandello, Italo Svevo, Federico de Roberto, Giovanni Verga ed Elio Vittorini (vedi qui).
Un’altra casa editrice dove troviamo classici italiani tradotti è Austral. Per la prosa accoglie Boccaccio, Castiglione e Verga in mezzo a 150 titoli di classici spagnoli, inglesi, tedeschi e francesi. Per la poesia, offre Dante e l’Antología esencial de la poesía italiana, una scelta di poesie di 55 autori a cura di Antonio Colinas, fra cui di nuovo Dante e Petrarca, Pascoli, Ungaretti, Quasimodo, Montale.

 

Quali case editrici dedicano spazio agli scrittori italiani? Che tipo di linee editoriali hanno? Esistono case editrici specializzate in letteratura italiana?

Non esiste una casa editrice specializzata soltanto in letteratura italiana. In linea di massima, possiamo dire che le case editrici commerciali pubblicano più che altro gli autori mainstream che già hanno avuto successo in Italia, ci riferiamo ad Anagrama, Minúscula, Lumen, Seix Barral, Tusquets. Poi ci sono case editrici più piccole, come Sajalín, che recuperano autori del Novecento, ad esempio Beppe Fenoglio, Giuseppe Bonaviri, Luigi Bartolini; un’altra piccola casa editrice che pubblica autori italiani è Gadir: Carlo Dossi, Dino Buzzati, Elio Vittorini, Luigi Malerba, Diego Marani, Aldo Palazzeschi, Carlo Levi, Elsa Morante, Andrea Camilleri, Luigi Pirandello, Mariolina Venezia, Italo Svevo, Carlo Cassola, Dante Alighieri, Roberto Vecchioni, Edmondo de Amicis, Giovanni Verga, Grazia Deledda.

 

Che parte hanno i traduttori nella scoperta di nuovi autori?

Si può dire che sono rari i casi di traduttori che consigliano un autore da tradurre. Di solito, le case editrici seguono altre vie.

 

Le case editrici spagnole con partecipazione italiana hanno dedicato e dedicano attenzione alla letteratura italiana?

A guardare il catalogo, non più delle altre: Anagrama ha sempre avuto scrittori italiani (Baricco, Tabucchi), Duomo ne ha soltanto due o tre. E Lumen del gruppo Random House Mondadori pubblica, è vero, alcuni autori italiani (Alessandro Piperno, Elsa Morante, Elena Ferrante, Maurizio De Giovanni, Umberto Eco, Andrea Molesini, Cesare Pavese, Natalia Ginzburg, Margaret Mazzantini, Vitaliano Brancati, Giorgio Bassani) ma sempre pochi in una scuderia in cui prevalgono autori di altre nazionalità (vedi qui).

 

Quale accoglienza riserva il pubblico spagnolo agli autori italiani? Gli scrittori più conosciuti  (Eco, Tabucchi, Camilleri, Calvino, etc.) sono riusciti in qualche modo a fare da traino?

Forse Eco  e Camilleri sono riusciti a fare da traino ad altri scrittori di gialli e di noir. Anche Calvino, Tabucchi, Calasso e Magris, nella loro nicchia, hanno aiutato a introdurre altri autori.

 

Che immagine ha il lettore spagnolo dell’Italia? Secondo voi, gli stereotipi che ci caratterizzano all’estero possono influire in qualche modo sulla scelta dei titoli italiani da tradurre in spagnolo?

No, l’Italia è un paese che appare spesso nei notiziari spagnoli, secondo noi è abbastanza conosciuto e non c’è bisogno d’importare libri basati su stereotipi. Tuttavia, ogni tanto, si verificano fenomeni come Gomorra di Saviano, che ha portato alla pubblicazione di un gran numero di libri sulle diverse organizzazioni malavitose italiane.

 

I libri italiani che vengono tradotti in spagnolo che tipo di lingua e lavoro sulla lingua presentano? Si traducono (e si vendono) principalmente libri scritti in maniera più semplice? C’è un’affinità linguistica tra le opere italiane tradotte in Spagna o si tende a dare diffusione anche a libri particolarmente elaborati sul piano stilistico?

Dagli autori citati si può dedurre che sono rappresentati i più svariati modelli di lingua: da quella di Dante a quella di Mariolina Venezia. Non ci sembra di riscontrare un’affinità linguistica particolare fra le opere tradotte in Spagna.

 

Esistono riviste o blog letterari che, nel caso i giornali non siano interessati a questo tipo di lavoro, si prodigano nel promuovere e suggerire ai propri lettori libri italiani?

Su Facebook si trova Letteratura Italiana.

 

Quanto conta il lavoro dell’Istituto Italiano di Cultura in Spagna per quanto riguarda la diffusione culturale?

L’Istituto Italiano di Cultura di Barcellona, quello che noi conosciamo, organizza varie attività: proiezioni cinematografiche, incontri gastronomici, proiezione di opere liriche, gruppi di lettura e anche presentazioni di libri tradotti in spagnolo e catalano, a cui partecipano case editrici e professori universitari, non sempre i traduttori. Siamo convinti che tutto serva, purché le diverse attività vengano adeguatamente pubblicizzate e richiamino un minimo di pubblico. Purtroppo non sempre è così.

 

Biografie

David Paradela López (Barcellona, 1981). Laureato in Traduzione presso l’Università Autonoma di Barcellona e l’Università degli Studi di Bologna, e in Letterature Comparate presso l’Università di Barcellona. Ha tradotto dall’inglese e dall’italiano in spagnolo e in catalano una quarantina di libri di Curzio Malaparte, Dacia Maraini, Rita Levi-Montalcini, Fabio Geda, Roberto Pavanello, Stanley Cavell, Philip Kerr, Misha Glenny, Stacy Schiff e altri. Ha collaborato al volume Hijos de Babel. Reflexiones sobre el oficio de traductor en el siglo XXI e dal 2009 gestisce il blog Malapartiana.

Celia Filipetto (Buenos Aires, 1951). Laureata in Traduzione presso l’Università di Granada. Ha pubblicato oltre centocinquanta traduzioni dall’inglese, dall’italiano e dal catalano. Ha tradotto in spagnolo, fra gli altri, Milena Agus, Maurizio de Giovanni, Elena Ferrante, Natalia Ginzburg, Ring Lardner, Niccolò Machiavelli, Salvatore Niffoi, Flannery O’Connor, Dorothy Parker, James Thurber y Mark Twain. Ha collaborato come traduttrice con “La Vanguardia” di Barcellona e con “The Barcelona Review”, “Saltana” e “Literatura sonora”. Ha insegnato nei corsi post-laurea di Traduzione Letteraria presso l’Università Autonoma di Barcellona e l’Università di Málaga.

[La foto dell’opera di Escif è tratta dal sito Collateral]

note book : Roberto Saviano

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rob

da Zero Zero Zero
di
Roberto Saviano

La ferocia si apprende

Mi chiedo da anni a che cosa serva occuparsi di morti e sparatorie. Tutto questo vale la pena? Per quale ragione? Ti chiameranno per qualche consulenza? Terrai un corso di sei settimane in qualche università, meglio se prestigiosa? Ti lancerai nella battaglia contro il male, credendoti il bene? Ti daranno lo scettro di eroe per qualche mese? Guadagnerai se qualcuno leggerà le tue parole? Ti odieranno quelli che le hanno dette prima di te, ignorati? Ti odieranno quelli che non le hanno dette, quelle parole, o le hanno dette male? A volte credo sia un’ossessione. A volte mi convinco che in queste storie si misura la verità. Questo, forse, è il segreto. Non segreto per qualcuno. Segreto per me. Nascosto a me stesso. Tenuto in disparte nelle mie parole pubbliche. Seguire i percorsi del narcotraffico e del riciclaggio ti fa sentire in grado di misurare la verità delle cose. Capire i destini di un’elezione politica, la caduta di un governo. Ascoltare le parole ufficiali inizia a non bastare. Mentre il mondo ha una direzione ben precisa, tutto sembra invece concentrarsi su qualcosa di diverso, magari di banale, di superficiale. La dichiarazione di un ministro, un evento minuscolo, il gossip. Ma a decidere di ogni cosa è altro. Questo istinto è alla base di tutte le scelte romantiche. Il giornalista, il narratore, il regista vorrebbero raccontare com’è il mondo, com’è veramente. Dire ai loro lettori, ai loro spettatori: non è come pensavi, ecco com’è. Non è come credevi, adesso ti apro io la ferita da cui puoi sbirciare la verità ultima. Ma nessuno ci riesce mai completamente. Il rischio è credere che la realtà, quella vera, quella pulsante, quella determinante, sia completamente nascosta. Se inciampi e ci caschi, inizi a credere che tutto sia cospirazione, riunioni segrete, logge e spie. Che qualsiasi cosa non sia mai accaduta come sembra. Questa è l’idiozia tipica di chi racconta. È l’inizio della miopia di un occhio che si ritiene incontaminato: far quadrare il cerchio del mondo nelle tue interpretazioni. Ma non è così semplice. La complessità sta proprio nel non credere che tutto sia nascosto o deciso in stanze segrete. Il mondo è più interessante di una cospirazione tra servizi di intelligence e sette. Il potere criminale è una mistura di regole, sospetto, potere pubblico, comunicazione, ferocia, diplomazia. Studiarlo è come interpretare testi, come diventare entomologo.

Eppure, nonostante tutti i miei sforzi, non mi è chiaro perché si decida di occuparsi di queste storie. Soldi? Fama? Gradi? Carriera? Tutto infinitamente meno rispetto al prezzo da pagare, al rischio e all’insopportabile mormorio che accompagnerà i tuoi passi, ovunque tu vada. Quando riuscirai a raccontare, quando capirai come rendere accattivante il racconto, quando saprai esattamente dosare stile e verità, quando le tue parole usciranno dal tuo torace, dalla tua bocca e avranno un suono, tu sarai il primo a provarne fastidio. Sarai tu il primo a odiarti, con tutto te stesso. E non sarai l’unico. Ti odierà persino chi ti ascolta, cioè chi sceglie di farlo senza alcuna costrizione, perché gli mostri questo schifo. Perché si sentirà sempre messo dinanzi a uno specchio: perché io non l’ho fatto? Perché non l’ho detto? Perché non l’ho capito? Il dolore si fa acuto e l’animale ferito spesso attacca: è lui che mente, lo fa per depistare, per corruzione, per fama, per soldi. Raccontare il potere criminale ti permette di sfogliare come libri palazzi, parlamenti, persone. Prendi un palazzo di cemento e lo immagini come costruito da migliaia di pagine, e più puoi sfogliare quelle pagine più puoi leggere quanti chili di coca, quante tangenti, quanto lavoro nero ci sono in quella struttura. Immagina di poter fare così con tutto ciò che vedi. Immagina di poter sfogliare qualunque cosa sia intorno a te. A quel punto potrai capire molto,ma arriverà un momento in cui vorrai tenere chiusi tutti i libri. In cui non ne potrai più di sfogliare le cose.
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Puoi pensare che occuparti di tutto questo sia un modo per redimere il mondo. Ristabilire la giustizia. E magari in parte è così. Ma forse, e soprattutto in questo caso, devi anche accettare il peso di essere un piccolo supereroe senza uno straccio di potere. Di essere in fondo un patetico essere umano che ha sovrastimato le sue forze solo perché non si era mai imbattuto nel loro limite. La parola ti dà una forza assai superiore a quella che il tuo corpo e la tua vita possono contenere. Ma la verità, ovviamente la mia verità, è che c’è solo un motivo per cui decidi di star dentro a queste storie di mala e trafficanti, di imprenditoria criminale e stragi. Fuggire ogni consolazione. Decretare l’inesistenza assoluta di qualsiasi balsamo per la vita. Sapere che quello che saprai non ti farà stare meglio. Eppure cerchi continuamente di saperlo. E quando lo sai inizi a sviluppare un disprezzo per le cose. E per cose intendo proprio le cose, la roba. Vieni a sapere immediatamente come vengono fatte le cose, qual è la loro origine, come vanno a finire.
E anche se stai male ti convinci che questo mondo puoi capirlo davvero solo se a queste storie decidi di star dentro. Puoi essere un divulgatore, un cronista, un magistrato, un poliziotto, un giudice, un prete, un operatore sociale, un maestro, un militante antimafia, uno scrittore. Puoi saper far bene il tuo mestiere, ma questo non significa necessariamente che tu per vocazione, nella tua vita, voglia star dentro a queste vicende. Dentro significa che ti consumano, che ti animano, che bacano ogni cosa del tuo quotidiano. Dentro significa che hai nella testa le mappe delle città con i cantieri, le piazze dello spaccio, i luoghi dove si sono siglati patti e dove sono avvenuti omicidi eccellenti. Non ci sei dentro solo perché stai in strada o ti infiltri come Joe Pistone per sei anni in un clan. Ci stai dentro perché sono il senso del tuo stare al mondo. E da anni ho deciso di starci dentro. Non solo perché sono cresciuto in un territorio dove tutto era deciso dai clan, non solo perché ho visto morire chi si era opposto al loro potere, non solo perché la diffamazione scioglie nelle persone qualsiasi desiderio di opporsi al potere criminale. Stare dentro ai traffici della polvere è l’unica prospettiva che mi abbia permesso di capire le cose fino in fondo. Guardare la debolezza umana, la fisiologia del potere, la fragilità dei rapporti, l’inconsistenza dei legami, la forza immane del danaro e della ferocia. L’assoluta impotenza di tutti gli insegnamenti volti alla bellezza e alla giustizia di cui mi sono nutrito. Mi sono accorto che la coca era il perno attorno a cui ruotava tutto. La ferita aveva un nome solo. Cocaina. La mappa del mondo si tracciava sì con il petrolio, quello nero, quello di cui siamo abituati a parlare, ma anche con il petrolio bianco, come lo chiamano i boss nigeriani. La mappa del mondo si costruisce sul carburante, quello dei motori e quello dei corpi. Il carburante dei motori è il petrolio, il carburante dei corpi è la coca.

Gobetti, i padri, il cimitero

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di Helena Janeczek

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Lunedì 22 aprile mi arrampicavo ignara per il cimitero Père Lachaise alla ricerca di una tomba tra le decine di migliaia di coloro che dormono lassù sulla collina. Il cielo era sereno, l’umore in ripresa, però a fatica. Scarpinando tutto il giorno per Parigi, mi capitava comunque la fortuna di perdermi la strigliata del Presidente al Parlamento e al Partito, la scena perfetta di un paese dove i padri soffocano i figli e ancora più i nipotini per poi consegnarsi come scolaretti volontari all’autorità riesumata di un quasi novantenne.

Il 25 aprile di mio padre

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liberazione
di Davide Orecchio

C’è una casa nel corso del tempo dove un uomo non parla, un bicchiere di whisky sta sulla libreria scura, una sigaretta accesa sta sul bordo dello sgabello, un televisore trasmette gli anni settanta, un bambino squaderna sul pavimento il libro di Gianni Rodari, una palla rotola sul parquet scheggiato, un gatto entra dal terrazzo, centinaia di volumi crescono negli scaffali fino al soffitto: di letteratura, storia, teatro, poesia, sociologia, denuncia, compromesso, reazione, rassegnazione, rivoluzione e provocazione.

Ma il libro numero uno è lui, il signore in poltrona.

Text : Roger Salloch

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Stasera alle 20 arriva a Torino, da Parigi, Roger Salloch. Roger esporrà i suoi lavori da domani fino a metà maggio alla nostra galleria libreria. Di lui ho pubblicato su Sud ( qui è possibile scaricare l’intera collezione) e NI dei bei testi e fotografie ed è grazie a lui che, sempre su Sud, Peter Handke suo amico da sempre, dopo una cena, “bien arrosée”ci diede questo splendido testo che l’amico Stefano Zangrando tradusse alla grande.
A chiunque si trovi per Torino in questi giorni raccomandiamo vivamente di fare un salto alla Voyelles & Visions e ancor più domani e dopodomani in modo da poterlo incontrare. Segue un piccolo testo che Elena Ientile, curatrice di questa mostra, ha scritto per i lavori di Roger effeffe

Una nota
di
Elena Ientile
L’incontro tra letteratura e fotografia è, nei lavori di Roger Salloch, qualcosa di più di una trasversalizzazione dei linguaggi artistici. L’una non può fare a meno dell’altra e le immagini di Text si rendono eloquenti di questo approccio a cominciare dal titolo stesso. Dal punto di vista letteralmente immaginifico, le fotografie di Salloch ricalcano la leggerezza del vivere momento per momento, per poi radicarsi ad una dimensione solo vagamente più pragmatica per mezzo della parola: scritta, ermetica, che non lascia troppo spazio alla poesia ma nemmeno se ne sottrae, la meta-poesia di Salloch riflette, come una lente, il cristallino scorrere di quegli attimi vitali – ritratti in un rigoroso bianco e nero- per mezzo di una poetica fatta di rimandi speculari, in cui non c’è confine tra l’oggetto riflesso e quello riflettente.

Nato negli Stati Uniti, Roger Salloch vive e lavora a Parigi. Dopo gli studi in Storia Politica ad Harvard, comincia a scrivere, pubblicando articoli d’arte per l’edizione francese della rivista Rolling Stone e su The Magazine di Santa Fe. I suoi racconti e saggi sono stati pubblicati su The Paris Review, Fiction, Plouhgshares, The North Atlantic Review, The Atlantic, the New York Times Book, The New Republic e Sud, trimestrale culturale italiano. Dal 2004 Sud ha pubblicato, su ogni numero, le sue fotografie in bianco e nero. A New York è rappresentato dalla Jennifer Lyons Literary Agency, mentre a Parigi è seguito da Pamela De Monbrison della ANOA Galerie Mobile.
Le sue fotografie sono state esposte per la prima volta nel 2002.

La miniera di fango

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(Questo articolo è stato scritto quando ancora si disponeva soltanto del papa dimissionario, ma neppure l’aitante Francesco potrà più dormire sonni tranquilli. È di queste settimane, ad esempio, il lancio pubblicitario di Mea maxima culpa: silenzio nella casa di Dio di Alex Gibeny per la collana Real Video di Feltrinelli…)

Di Andrea Inglese

I credenti, quelli di verace fede cattolica, che ancora io presumo esistano anche nella miscredente Europa, dovrebbero avere mente soprattutto intesa ai misteri della fede, che sono un po’ come i mattoncini su cui si edifica tutta la dottrina loro, e anche la pratica, e di questi misteri poi, come la trinità divina e il ciclo incarnazione-ressurezione del Cristo, è proprio il re del Vaticano ad esserne sommo custode, e anche per ciò stesso infallibile, come già ratificava il previdente Pio IX nel 1870, con il primo Concilio.

Discorso di Bersani alla sua coscienza

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di Italo Testa

bersani foto

Discorso di Bersani alla sua coscienza (durante le elezioni del Presidente della Repubblica),
o discorso del mentitore

Io mento quando dico che il PD è un partito di sinistra.
Mento quando dico che il PD è alleato con SEL.
Mento quando dico che il PD non si alleerà mai con il PDL.
Mento quando dico di essere il segretario del PD.
Mento quando dico che il PD è il PD.
Mento quando dico di essere Bersani.
Mento quando dico che Bersani non è D’Alema.
Mento quando dico di mentire.

Classe politica italiana sperimenta la clonazione presidenziale

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napolitanonapolitano
Ma alcuni scienziati americani  segnalano i rischi di una tale operazione.

WHAT ARE THE RISKS OF CLONING PRESIDENTS?

In territorio nemico, a Milano. (Con un estratto dal romanzo).

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Libreria Popolare,
via Tadino 18, Milano

Conversazioni in libreria

Martedì 23 aprile, ore 21
In territorio nemico
di SIC (Scrittura Industriale Collettiva)
Minimum Fax, 2013.

Ne discutiamo con Jacopo Galimberti (uno dei 115 autori),
Alessandro Broggi, Paolo Giovannetti, Italo Testa, Paolo Zublena.

E con Gregorio Magini e Vanni Santoni, i due fondatori di SIC.
Coordina Antonio Loreto

SIC – Scrittura Industriale Collettiva indica un metodo di scrittura collettiva ideato da
Gregorio Magini e Vanni Santoni, la comunità aperta che lo utilizza e il gruppo di 115 scrittori, coordinato dai due fondatori, che ha realizzato il romanzo In territorio nemico.

Ne abbiamo parlato recentemente su Nazione Indiana qui e qui.

In territorio nemico

[Un estratto dal libro]

[…] «I Comandi tedeschi», disse Maiolica,