di Sergio Baratto
(Qui di seguito il testo che Sergio ha letto sabato 23 marzo alla festa per i dieci anni di Nazione Indiana. G.B.)
Vorrei parlare brevemente di alcune cose che ho imparato nei miei dieci anni di “tirocinio” di scrittura in Rete, da un punto di vista strettamente personale, senza alcuna pretesa di formulare verità assolute. Queste cose che ho imparato le ho raccolte in forma di appunti e riassunte in tre parole. La prima è “responsabilità”, la seconda è “peso”, la terza è “schiuma”.
Responsabilità
Ovvero assunzione di responsabilità, pratica della parola responsabile.
La forma blog ai suoi esordi era molto legata al concetto di anonimato, anzi alla mistica del nickname. In parte per un vezzo un po’ adolescenziale, in parte anche, forse, per via dell’attitudine fortemente autobiografica, diaristica. Il blogger degli albori era come una specie di esibizionista mascherato. Molto sexy!
Perciò, in parole semplici: metterci la propria faccia, o meglio la propria identità, è stato un passo molto importante. È stato un atto “primordiale” di assunzione di responsabilità: «Io Sergio Baratto sono l’autore di queste parole, belle o brutte, stupide o intelligenti, e di esse mi assumo pubblicamente la responsabilità».
Questo poteva sembrare scontato a chi approdava alla scrittura in rete avendo già un’esperienza pregressa di scrittura in luoghi “tradizionali”, cioè su carta, o comunque come autore già pubblicato, come nome già pubblico. Ma non era altrettanto ovvio per chi esordiva direttamente nella scrittura sul Web.
«Metteteci il nome! Metteteci la faccia!» è stata un’esortazione che all’inizio ha prodotto anche parecchie reazioni stizzite, difensive, irricevibili per quanto umanamente comprensibili: di fatto, nessuno di noi era braccato dall’esercito sulle montagne del Chiapas!
Ecco, io penso che davvero non si dia vera libertà senza assunzione di responsabilità. Che la parola (la scrittura) non sia veramente libera senza questo atto preliminare.
Peso
La seconda parola è “peso”, e per me ha a che fare con il dogma dell’ironia. Il dogma dell’ironia, non l’ironia.
Questo dogma ha tre appendici:
1) si deve scherzare su tutto;
2) l’unica cosa che conta è lo stile;
3) Non bisogna mai prendersi sul serio.
“Peso” è una parola disprezzata, che viene usata quasi solo negativamente: essere considerati “pesanti”, cioè vedersi attribuire uno dei peggiori difetti sociali, costa molto in termini di esclusione, di emarginazione; quando diciamo che un film o un libro è “pesante” lo bolliamo fatalmente con un marchio che è peggiore dello stigma di Caino: quel libro o quel film è pesante, cioè poco o punto sopportabile per eccesso di seriosità.
Eppure la serietà non è la seriosità! Il peso non è la pesantezza!
Per me il peso è quello che ti permette di calarti in profondità. E senza peso non puoi volare, ma solo lasciarti trascinare dal vento.
Ovviamente non voglio dire che ambisco a scrivere cose pesanti. Ma mi pare che la gravità sia una forza imprescindibile, quando si parla di scrittura.
Ci sono due forze, una ascendente e una gravitazionale: sono entrambe fondamentali. Se manca la prima non esiste profondità, ma al limite solo sprofondamento; se manca la seconda esiste solo l’evaporazione. Gas rarefatti che si disperdono e si perdono.
Cosa intendo con questa “leggerezza senza peso”? Quella maniera, così diffusa nella scrittura in rete, nei blog, e così supinamente asservita al dogma dell’ironia – quella maniera di scrivere di ogni cosa in modo superficiale, carino, divertente, simpatico, disimpegnato, che ha decretato all’epoca la fortuna di molte cosiddette blogstar e che oggi impera su Twitter. Quella coazione a “scherzare” su tutto, o meglio a prendere a ogni riga le distanze dalle proprie parole, a sottintendere – con una continua, leziosa, stucchevole strizzatina d’occhio al lettore – che non ci si sta prendendo veramente sul serio.
Ecco, io per reazione ho imparato la serietà. Ho imparato che esiste una leggerezza seria, di peso. Io preferisco chiamarla levità, per non confondermi, ma il concetto non cambia.
Scrivendo in Rete ho imparato a prendere sul serio le parole e a dargli peso.
Dare peso alle parole per me è cercare di avere il coraggio delle parole, è attribuire alle parole una potenza creativa, sovvertitrice, perturbante. È salvare l’idea che la parola possa essere agente sulla realtà.
Schiuma
Esiste una cosa leggera ma greve? Sì, è la schiuma.
Intendo per “schiuma” la proliferazione dei discorsi parassiti, l’affollamento intorno ai cliché, la crescita ipertrofica delle parole attorno al banale luccicante, all’effimero più facilmente autopromozionale.
Di questa proliferazione, i luoghi della scrittura in rete hanno sofferto come di una patologia invalidante.
Ma davvero la vocazione dei blog era tutta qui, nel replicare le stesse idee e gli stessi discorsi abusati della stampa e della televisione? Davvero era questa subalternità, questo farsi servire dai media il pastone su cui imbastire la propria scrittura liofilizzata ma fighetta? Non credo.
E non è solo questo. La schiuma è anche il rumore di fondo che diventa un chiasso assordante, cancellante.
Chiunque abbia avuto esperienza dei flame, delle guerre di commenti e del trolling ossessivo, sa di cosa parlo.
Ma davvero l’ambizione della scrittura in rete era tutta qui, nel farsi campo di battaglia per logorroici e ridicoli scontri verbali, per l’esibizione narcisistica e per l’esercizio distruttivo di uno spirito puerilmente litigioso? Di nuovo, non credo.
Questa schiuma è il cavallo di Troia dell’appiattimento. Per molto tempo ha propalato una concezione falsamente ugualitaria della Rete, spacciando la sua essenza orizzontalizzante, cioè profondamente reazionaria e repressiva, per una presunta orizzontalità democratica (io sconosciuto aspirante scrittore di Abbiategrasso posso discutere ad armi pari con lo scrittore pubblicato e anzi dargliele metaforicamente di santa ragione).
Si è venduta come l’unico mezzo di dialogo in Rete, il che è una falsità: il Web 2.0 presenta infatti ben altre potenzialità comunicative, ben altre possibilità di costruzione di reti libertarie e non gerarchiche. In un medium in cui posso aprire un mio spazio personale/pubblico di riflessione e di scrittura, e interagire creativamente e costruttivamente con gli altri nodi della rete, perché mai io, aspirante scrittore di Abbiategrasso, dovrei accontentarmi di partecipare alla proliferazione della schiuma, alla velocità, alla dimensione effimera, autoreferenziale e livorosa, quando la Rete mi dà la possibilità di prendermi il tempo e lo spazio di argomentare, ponderare, distillare le parole?
Quando la mia scrittura in rete suscita reazioni – anche critiche – in altri blog, quando si crea un dialogo a distanza su un piano davvero paritario, l’esperienza è arricchente, non avvilente. Ma, perché ciò avvenga, sono necessarie le due cose di cui ho parlato prima: l’assunzione di responsabilità e l’impudenza di prendere sul serio la parola, di darle un peso.
Perciò io sono convinto che la fine della proliferazione della schiuma è una benedizione per chi scrive in rete.
Quando sento dire che i social network hanno messo in crisi i blog, o addirittura ne hanno decretato – alla lunga – la morte, mi viene da ridere. Penso invece che abbiano compiuto una straordinaria opera igienica, succhiando via e portando con sé la schiuma in altri lidi alla schiuma più consoni.
Trasferendo su di sé questa proliferazione liberano la scrittura in rete.