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Nudo di uomo

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848_14626-sdi Silvia Contarini

Al Ludwig Museum, Museo di arte contemporanea di Budapest, da qualche settimana e fino al 30 giugno c’è una mostra temporanea intitolata The Naked Man. Ci sono capitata per caso, visitavo questo museo che non conoscevo, ho visto il titolo e l’affiche, ho esitato temendo una mostra accalappia turisti voyeurs, una versione al maschile di nudi artistici femminili, ho finito per entrare e ho fatto bene davvero. La mostra ripercorrere l’evoluzione della rappresentazione del corpo nudo maschile, a cominciare dalla Vienna di inizio Novecento e fino ai nostri giorni, dando ampio spazio ad artisti d’Europa centrale, ma non solo. Già esposta al museo di Linz, la mostra ha tre curatrici austriache, cui si sono aggiunte due curatrici ungheresi per la ripresa a Budapest. Chi capisce il tedesco, può andarsi a vedere e ascoltare la presentazione sul sito del museo Lentos di Linz http://www.lentos.at/html/en/2267.aspx, mentre sul sito del Ludwig Museum c’è un breve testo di presentazione in ungherese e inglese e ci sono diverse immagini http://www.ludwigmuseum.hu/site.php?inc=kiallitas&menuId=43&kiallitasId=848

Sulla rappresentazione del corpo femminile, nudo e seminudo, sul canone estetico e sui modelli imposti, sull’oggettivizzazione, lo sfruttamento e l’avvilimento, è stato detto e c’è senz’altro ancora da dire (e tra quello che c’è da dire, andrebbe proseguita l’opera di denuncia come quella dell’agghiacciante documentario “Il corpo delle donne”, il quale tra l’altro mostra come anche le donne abbiano introiettato lo sguardo maschile sul loro corpo).

E sulla rappresentazione del corpo maschile? Mentre guardavo quadri, sculture, fotografie, video della mostra The Naked Men, mi sono resa conto di non aver mai pensato al corpo nudo dell’uomo come a un soggetto di riflessione. Eppure, le problematiche sono molteplici, come evidenziato nei bei testi di presentazione delle varie sezioni (purtroppo non ripresi nel catalogo né sui siti). Il corpo nudo  maschile è emblematico di diversi momenti di crisi che possiamo sintetizzare in antieroismo e anticlassicismo, nella messa in discussione del ruolo maschile tradizionale e ricerca di alternative. Molta attenzione è portata allo sguardo: dell’artista maschio su di sé o sull’altro, dell’artista femmina sul corpo nudo maschile; lo sguardo erotico o lo sguardo razziale; altrettanta attenzione al significato politico e ai rapporti di potere legati al corpo maschile, in particolare nei paesi dell’est prima della fine dei regimi comunisti. Insomma una ricchezza tematica stimolante, ma anche dei begli oggetti esposti, di artisti noti (Egon Schiele, Robert Mapplethorpe, Oskar Kokoschka, Louise Bourgeois, Eduard Munch, Andy Warhol, Gilbert & George, David LaChapelle, Marlene Dumas) e meno noti, quantomeno a me, forse perché come ho detto molti sono di paesi d’Europa centrale.

Sogno di una notte di mezza primavera

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di Antonio Sparzani
(Notte, stanza con due brandine nella sede del Partito, sotto i cuscini niente Kalashnikov ma cellulari silenziati, le tre del mattino)
Pierluigi: Ehi, Enrico!
Enrico (che dorme, come quasi sempre): Eheee?
P.: Ma che fai, mica vorrai dormire?
E.: Ma senti, capo, almeno Palmiro ai tempi suoi dormiva con la Nilde e semmai svegliava lei, ma tu adesso cosa vuoi?
P.: Ho sognato il giaguaro

Abbracci

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Senza parole

Proviamo a ballare insieme quest’ultimo valzer

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di Helena Janeczek

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Tanto volle sopravvivere che poi morì. Tanto vollero sopravvivere che poi morirono.
Lo dico con rabbia perché la cosa che più mi sento stamane è incazzata. Mi pare bene, però, potenzialmente. Mi pare bene che si sia rotta la coltre del Non-Ci-Sono-Alternative, di rassegnazione al meno peggio. Ieri sono successe due cose, in rapida e ineluttabile sequenza.

Walter Siti e l’impossibile

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di Giacomo Raccis      cropped-courbet-siti2

Ci sono scrittori che prediligono titoli piani, anonimi, che passino sotto silenzio, che magari colpiscano proprio in virtù della loro genericità: Ammaniti con Io e te, ad esempio, uscito lo stesso anno del Leielui di De Carlo; ce ne sono altri che invece provano a toccare il lettore che vaga per gli scaffali della libreria con una sola ma incisiva parola: la Violazione di Sarchi o lo Spaesamento di Vasta; ci sono autori, poi, che con un titolo aprono interrogativi a cui talvolta neanche la lettura riesce completamente a rispondere: è il caso di Woobinda di Aldo Nove o, oltreconfine, del 2666 di Bolaño. Poi ci sono gli scrittori che quando devono scegliere il titolo della loro ultima fatica decidono di far squillare le trombe della propria fanfara: Walter Siti, almeno da qualche anno a questa parte, è uno di questi. Tralasciando Autopsia dell’ossessione (2010), che al lettore esperto suonava già familiare, con quel suo esplicito richiamo alla funerea e patologica mania che abita il personaggio protagonista dei suoi principali romanzi, lo scrittore modenese, esegeta e in qualche modo emulo del Pasolini narratore, ci regala, a stretto giro di posta, Resistere non serve a niente (Rizzoli 2012) e Il realismo è l’impossibile (nottetempo 2013): un romanzo e un saggio (“libretto” lo chiama Siti) che a un tempo segnano una cesura nella produzione dello scrittore e provano a gettare uno sguardo retrospettivo su tutta la sua opera. Niente di male, fin qui. Se non fosse che, allo scandalismo provocatorio e moralistico dei due titoli, non sembra corrispondere un altrettanto illuminante contenuto.

Considerato da molti il romanziere italiano più importante degli ultimi quindici anni, Walter Siti sembra aver già dato il meglio di sé, e soprattutto, sembra essersene accorto da solo. Dopo aver stupito tutti con la creazione del più emblematico e riuscito protagonista autofinzionale che la letteratura italiana possa vantare, l’autore si trova in un’impasse. Quel «Walter Siti come tutti» di Troppi paradisi (2006) – già abbozzato in Scuola di nudo (1994) e poi sostanzialmente riproposto nel Contagio (2008) e nell’Autopsia –, cinico profeta della fine di qualsiasi engagement per un intellettuale chiamato piuttosto a dar sfogo alle proprie pulsioni più depravate e ipocrite, e allo stesso tempo sonda esplorativa di un universo borgataro di esplicita impronta pasoliniana, aggiornato alla società liquida (personaggi privi di rotondità psicologica) e televisiva (il mondo della TV come sogno degradato per un riscatto facile quanto deperibile, ma anche come modello di comportamento e specchio di una nuova direzione dell’evoluzione sociale), quel “Walter Siti”, si diceva, sembra aver esaurito la propria missione di perlustrazione. Lo scavo, della psiche dell’io (unico soggetto su cui egoticamente valga la pena concentrare lo sguardo) e della società popolare (ridotta a funzione delle nichilistiche e masochistiche perversioni dell’io), è stato compiuto. Servono nuovi orizzonti: ecco allora giungere in soccorso dell’autore l’ancora inesplorato mondo delle collusioni tra camorra e alta finanza, pur sempre incistato nella realtà popolare di Roma e delle sue periferie. È il panorama che offre Resistere non serve a niente. Ora gli orizzonti necessariamente si aprono: a fianco della capitale compaiono altri set, internazionali ed esotici, dalle vacanze ai Caraibi su aerei privati ai viaggi in trimarano al largo delle Canarie, fino alla più “classica” delle seconde case a Cortina. I “Tommaso” e le “Stella” (nomi tipicamente pasoliniani, riconosce lo stesso Siti) non sono più chiamati a battersi in una disperata lotta per la sopravvivenza, ma diventano protagonisti di un’altra spietata competizione; quella di un mondo, tra capitalismo finanziario, jet set e criminalità organizzata, che porta al massimo grado posta in gioco e violenza d’azione, anche se sembra conservare intatte certe logiche proprie anche dell’universo borgataro (le clientele, la mercificazione del corpo, il cinismo disincantato di fronte alla vita).

Cambiando il mondo rappresentato, però, cambia inevitabilmente anche la posizione dell’io, costretto in Resistere non serve a niente a declinare diversamente il suo egotico desiderio di “fare centro” per raccontare la storia di Tommaso Aricò, «un sellerone mal cresciuto, un formichiere allevato in una tana di furetti; la mascella rettangolare e le labbra sottili, tutto quello che odio di un uomo» (p. 26). Avere accesso a tutti i segreti dell’esistenza di un broker miliardario, affermatosi attraverso “delitti” efferati e pegni impronunciabili, consente però a “Walter Siti” di recuperare per via indiretta il suo ruolo preferito, ovvero trovare le parole per dire ciò che nessuno si confesserebbe mai, e che in questo caso trova una doppia conferma: non solo dall’esperienza moralmente inaccettabile del protagonista, ma anche dalla defezione etica con cui il suo biografo decide di aderirvi integralmente. La legge della verosimiglianza, «verde praticello in declivio dove non si rischiano né querele né accuse di esibizionismo» (165), impone di lasciare a qualcun altro l’onere di fare esperienza diretta del mondo oscuro delle bolle speculative e del surfing finanziario; tuttavia, facendosi specchio deforme della storia altrui, “Walter Siti” riesce ancora una volta a mettersi nella posizione di chi fa scandalo: «credo di dire cose intelligenti solo perché le sparo grosse… sento fraterno chi si mette fuori dall’umano, come se fuori dall’umano ci fosse qualcosa…» (170). A colpire chi legge, allora, non saranno più le scene di sesso libertino e orgiastico, né l’esistenza di quest’individuo al di là di qualsiasi norma etica o sociale: il colpo più duro lo infligge ancora una volta l’autore, o meglio, il suo doppio narrativo, quando rinuncia a farsi filtro imparziale per prendere e dichiarare la propria posizione. Una posizione che non può che essere quella sbagliata, unica possibile per chi ha perso ogni speranza nell’uomo e non attende altro che il suo definitivo esaurimento. Non è “Walter Siti” a confessare il rapporto sessuale avuto con la figlia minorenne di un “socio” in difficoltà economiche, tuttavia è “Walter Siti” a dichiarare la struggente tenerezza procuratagli dal vedere un uomo distrutto dal piacere provato per un atto tanto meschino.

Così, confermando il paradigma dell’intellettuale decaduto e nichilista (in questo romanzo acuito anche dalla precarietà abitativa del protagonista, che accetta l’ingaggio di Aricò per potersi garantire una casa), lo scrittore propone ancora una volta l’immagine di un personaggio che ha deciso di contravvenire tutte le “convenzioni” del consorzio civile, che si denigra per ogni compiaciuta infrazione, ma che non riesce mai a spostare questa infrazione dal piano del discorso a quello dell’esperienza. “Walter Siti” osserva sempre da fuori, accontentandosi di «un’esperienza mediata da una protesi» (Giglioli, Senza trauma, p. 80): «….forse sei il mio stuntman, quello che esegue per me le scene pericolose…un prototipo della mutazione…o forse, più in profondità, sei il mio vendicatore» (314).

A questo punto, però, bisogna ritornare allo spunto da cui sarebbe voluto partire questo intervento, ovvero il breve saggio Il realismo è l’impossibile, con cui Siti decide di mettere sul tavolo le proprie carte di scrittore. Il lettore meno esperto, che si avvicina con curiosità ingenua ma ricettiva a questo “opuscolo” (80 pagine in formato 10×15), si fa coinvolgere dalla grande enciclopedia che Siti dispiega per esemplificare i passaggi principali dell’annosa questione del realismo (e, detto per inciso, non saremo mai abbastanza grati a chi riesce a rendere chiari e comprensibili concetti di non immediata evidenza, come il barthesiano «effet du réel» o l’astrattissima “semiosi illimitata”). E allora ecco brillanti aneddoti provenienti da differenti latitudini della nostra letteratura, come di quelle straniere, e soprattutto dai più disparati campi di quelle che vengono orrendamente definite “scienze umane”: dalla pittura al cinema, dalle arti performative fino alla storia delle religioni. Siti convoca tutto quanto può contribuire a inserire il discorso sul realismo entro un quadro che comprenda l’intera civiltà occidentale, con tutto il peso della sua tradizione (dove Stanislavskij e Warhol possono stare vicini a Dante e Dostoevskij).

Al lettore più attento, invece, che conosce l’opera del romanziere (e chissà, magari anche del giovane accademico che a 26 anni scriveva Il realismo dell’avanguardia, uscito per Einaudi nel 1973), una volta superata la prima piacevole quanto piatta parte metodologica, viene spontaneo misurare le dichiarazioni più oggettive dell’autore sui modelli rappresentativi del romanzo con la sua ultima e discussissima fatica. E non si tratterebbe certo di un’operazione capziosa. Innanzitutto perché in chiusa di Resistere non serve a niente (312), quando “Walter Siti” e Tommaso Aricò fanno i conti – un po’ didascalici in effetti – sul rapporto che li ha legati durante il periodo della stesura del romanzo, il narratore cita quell’Origine del mondo, tela di Gustave Courbet, che campeggia nelle prime pagine del saggio come modello della sfida all’informe finitezza del mondo a cui si vota il realismo (quadro che avrebbe fatto dire a Picasso: «Le réalisme, c’est l’impossible»). Ma in secondo luogo, perché a chiederci di leggere questi due testi uno di fianco all’altro (e con un occhio anche agli altri romanzi) è lo stesso Siti: «tanto è chiaro che il pudore è andato a farsi benedire e che questo non è un saggio sul realismo ma una bieca ammissione di poetica» (48).

Infatti, una volta conclusa la ricognizione sugli attributi “classici” del realismo (il rapporto conflittuale con il verosimile, la necessaria complicità con verità e menzogna), l’autore decide di esporre la sua specifica posizione al giudizio del proprio lettore. È una strategia ormai nota, quella di Siti, messa alla prova, come si è visto, in tutti suoi romanzi autofinzionali, dove l’io protagonista non teme di scadere nel patetico (che al contrario sembra una corda molto consona a Siti) per chiedere venia al lettore dei propri orribili e bellissimi peccati. Qui non si ha più a che fare con giovani aitanti che si mantengono ricattando i propri protettori, né con l’irresistibile attrazione suscitata da chi si mostra potente e dannato. Qui la posta in gioco è più sottile e astratta, ma forse più importante (almeno per giudicare uno scrittore): si tratta infatti di giustificare le proprie scelte estetiche, le opzioni tecniche e stilistiche dei propri romanzi.

Anche in questa circostanza l’autore non può fare a meno di mettere in campo il proprio armamentario di ammissioni, scusanti e sensi di colpa, inscenando il consueto autodafé. Tuttavia, se è legittimo, e anzi naturale, concedere allo scrittore di fondare la propria formula rappresentativa (il «realismo gnostico») su una personale percezione della realtà («Per stare in equilibrio tra cronaca e lirica, tra amore per la realtà e rancore per quel che la realtà non ha saputo essere per me (o io per lei) […] il metodo che mi sono abituato a usare è l’assorbimento dei miti», 61), meno corretto è che egli ricorra alla sua esperienza emotiva anche per dare conto e giustificare pregi e difetti dei risultati raggiunti in virtù di quella scelta estetica. In questo senso, l’autofiction come tecnica rappresentativa privilegiata di fronte al reale diventa l’esito di una scelta funzionale al confronto tra lo scrittore e i suoi demoni interiori, ovvero una questione “privata”, se è vero, come ci dice Siti, che a determinarla è stata la «paura di morire muto, paura che se parlavo [sic!] sinceramente tutti mi avrebbero abbandonato, paura di sostenere le mie idee senza nascondermi dietro il piagnucolio» (76). Con questa pratica ricattatoria, Siti si mette al riparo da qualsiasi eventuale critica: nulla è più personale e conta di più del rapporto tra uno scrittore e la sua coscienza, non è possibile sindacare su una scelta radicata così a fondo nell’esperienza emotiva dell’uomo. Solo che, in questo modo, il lettore e il critico sono messi fuori gioco, esautorati della loro funzione di interpreti: non possono far altro che constatare, al massimo condividere. Ma a livello empatico, nulla di più. E questo fatto diventa emblematico nel momento in cui Siti, non pago, decide di assecondare la sua vena autocommiserativa e autocompiaciuta (ormai diventata maniera) per mettersi spontaneamente sul banco degli imputati, riconoscendo i propri torti: «ricorro agli stereotipi quando non ho il coraggio di andare a vedere, anche sul piano della poetica il mio nemico è la paura. […] non sono contento di me quando tradisco il realismo per il bozzetto» (77-78).

Siti si costituisce e si consegna alle forze dell’ordine del Realismo: a noi, lettori e critici, non resta che prendere atto dell’ennesima messa in scena di un io che non può rinunciare a esibirsi e demolirsi, che non può fare a meno di imporsi con lo scandalo di un’esasperata autocoscienza. Con maliziosa consapevolezza Siti si mostra ancora una volta in cerca di un’assoluzione che la sua macchina retorica dovrebbe indurre automaticamente. Questa volta, però, è nostro dovere non concedergliela. Se anche possiamo accogliere la sua definizione “residuale” di realismo (per cui lo scrittore non è altro che «uno stolto demiurgo che cerca di mimare una Creazione che non conosce», 59), non possiamo accettare di farne un cavallo di troia che apra il campo a una scrittura sempre più rinunciataria, nelle intenzioni così come nei risultati. Siti ha rivelato il «ricatto dell’argomento» con cui ha cercato di tenere i lettori avvinti ai propri romanzi: ora questo non basta più. La sensazione è che queste pagine teoriche finiscano con il torcersi contro il loro autore, mostrando uno scrittore che, anche nel momento del colloquio più diretto e “sincero” con il proprio lettore, non rinuncia a mettersi in maschera, tanto da lasciarci con il dubbio che quelle che leggiamo siano ancora una volta le parole di un suo doppio finzionale, ennesima manifestazione di un io senza corpo, perso tra i riflessi di un incontrollabile gioco di specchi.

In questo tempo di poetiche incerte ed estetiche ambigue, non credo che alla letteratura italiana serva uno scrittore dallo statuto tanto debole da accettare di farsi teorico solo a patto di non infangarsi sul campo del pubblico agone (e si veda infatti come Siti schivi, e anzi sminuisca, le attuali discussioni sul «nuovo realismo», e al contrario si erga a giudice dei risultati, non dei progetti, dell’odierna narrativa italiana). È vero, Siti ha ragione, sporgersi è il verbo che dovrebbe compendiare ogni forma di realismo, e più in generale di scrittura. E ha ragione anche quando ci ricorda che questo sporgersi non è messo a rischio solo quando si ricorre agli stereotipi, ma anche, o soprattutto, quando si rinuncia a mettersi in gioco. Il problema sta nel capire fino a che punto il gioco che lui ha in mente ci riguarda tutti.

No, il dottor sottile no, per favore no

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Tutto, ma non il pochissimo amato, vetero-craxiano e guerrafondaio Giuliano Amato. Ricordate e rileggete questo, per favore.

Pesce di lago per il pranzo della domenica

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Particolare da Pietro Barucci, Ansa del lago Trasimeno con personaggi e animali, fine ‘800

di Giovanni Dozzini

Una domenica mattina d’inverno di quarant’anni fa arrivò con la sua Seicento e si prese subito a male parole con mio cognato, che a quel tempo era uno dei camerieri del ristorante e ormai da un pezzo fa compagnia alle anime dei nostri vecchi al camposanto. Scese tronfio e grasso come un pachiderma, si tolse gli occhiali da sole e chiese urlando se qualcuno gli potesse preparare un tavolo per pranzare in fretta, anche se era solo mezzogiorno.

La difficile manutenzione social-liberale

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di Andrea Inglese

In Italia, c’è l’ingovernabilità, l’antipolitica e tutto quanto. Ma, si sa, noi abbiamo il baco antropologico, il guasto nazionale ereditario. La Francia, però, difetta di questo alibi. I francesi mica hanno patito vent’anni di fascismo, quaranta di democrazia cristiana, venti di berlusconismo e due mesi di Grillo. Essi si godono un presidente della Repubblica socialista e un governo a guida socialista nelle due camere dal maggio 2012. Inoltre Hollande, come ha ribadito fin dall’inizio del suo mandato, è un presidente normale, che non dice parolacce né urla ai microfoni.

Due anni

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Oggi sono due anni dalla morte di Vittorio Arrigoni. Lo ricordiamo con una canzone – a lui dedicata – di Marco Rovelli
http://www.youtube.com/watch?v=3VhI5_kzZeQ

Il Manifesto di un libraio

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Se io avessi previsto tutto questo
di
Claudio Moretti
vd intervista qui

Qualche giorno fa, poco dopo aver aperto la libreria, il postino entra e mi recapita due buste verdine. Multe. Sarà la sosta vietata di qualche mese prima. Apro senza timore. Prendo il bollettino e leggo la cifra. Iniziano a girarmi. Guardo meglio il foglio del verbale: non è un divieto di sosta, è una locandina abusiva. Mille euro. Una locandina. Di multa. Senza timbro. Mille. Attaccata sulla pietra. Con lo scotch. Milleesettevirgolazerosette.

Si fa tanto parlare di questi tempi del ruolo delle librerie del futuro, di come potranno restare a galla, di chi ce la farà. Sembra di stare in un film,quello degli immortali della serie “solo uno sopravviverà”. Ma tutti concordano che la libreria non potrà più essere quella a cui siamo abituati. Forse perchè se ci fossimo abituati, se si fosse creata un’abitudine alla libreria, significeherebbe che qualcuno ha l’abito o l’abitudine di andarci e magari comprarci qualcosa e forse non ci sarebbe nessun problema. Comunque si abitueranno alla libreria del futuro dove oltre al libro ci troverai il caffè, il libraio avrà fatto il corso di libreria 1, libreria 2 e complementi di libreria, e soprattutto la libreria sarà un punto di aggregazione delle persone perchè altrimenti che ci vanno a fare se il libro lo possono comprare dal divano di casa?

Tutte queste teorie hanno la loro validità, non sia mai che io osi dubitarne. Ma la mia libreria segue due filosofie: deve arrivare a fine mese tutti i mesi e deve piacermi, la libreria e lavorarci dentro. I libri li scelgo io, quelli che voglio. Mi permetto di ignorare delle novità. Non seguo le campagne promozionali. Adesso gli editori cercano di avere un rapporto diretto con i librai, hanno capito che è una grande opportunità per essere visibili. Bravi. Nella mia libreria, da quando vendo anche libri nuovi, il rapporto diretto con gli editori è stata la regola.

Da tre anni ho iniziato a fare presentazioni di libri, incontri con gli autori. Penso che una libreria possa farne a meno, la mia no. Lavoro in libreria ma i festival della letteratura ho proprio difficoltà a seguirli, vorrei andarci ma non trovo il tempo. Allora lo faccio in libreria: chiamo l’autore il cui libro mi è piaciuto. Lo sento parlare alla radio e mi piace, provo a vedere se viene in libreria da me. Ci deve essere qualcosa che scatta, un interesse per il libro, per l’autore che fa diventare l’incontro prima di tutto un incontro fra autore e libraio e, dopo, fra autore e lettori.

La locandina pubblicizzava una lettura ad alta voce fatta in libreria. L’autore leggeva brani da dei suoi libri vecchi, pubblicati anni fa. Una sorta di addio a quel genere di libri, il mese dopo sarebbe uscito un suo nuovo libro di tutt’altro genere. Un omaggio ad un autore che apprezzo e alla sua opera. Copie vendute: zero, non c’era nulla da vendere. Nella maggior parte dei casi, le vendite delle presentazioni non coprono le spese.

Sono un commerciante di libri o un operatore culturale? In questo dilemma si stanno arrovellando in molti. Quando scelgo un libro da mettere in vetrina posso farlo per motivi non commerciali ma voglio che sia venduto. Quando chiamo un autore non lo faccio per vendere i suoi libri a pacchi però so che ad ogni incontro in più la libreria accresce la sua credibilità. I due aspetti, commerciale e culturale, sono intrecciati e non si possono separare. Nè lo vorrei. Non vorrei una libreria sovvenzionata come non voglio una libreria supermercato.

Vorrei la mia libreria, non sovvenzionata ma almeno sostenuta, riconosciuta nella parte culturale che svolgo. Conosciuta e riconosciuta.

Invece fino ad oggi è mancata proprio la consapevolezza di quello che la libreria ha fatto e fa. Per capirlo c’è stato bisogno prima di una serie di chiusure annunciate di librerie veneziane che rende ancora più desertificato il panorama libraio in laguna e poi della protesta a causa di questa multa. Per un giorno le vetrine della libreria sono state oscurate: Venezia città delle librerie invisibili, come tante altre città di librerie che non sono conosciute e che non vengono apprezzate per il lavoro che fanno. Solo quando chiudono si sente la loro mancanza.

Adesso a Venezia sembra che le cose stiano cambiando, grazie anche all’impegno degli scrittori veneziani che hanno deciso di riunirsi e di avere una voce unica a difesa delle librerie.

Per ora, la multa resta. Ma oltre la multa, resta la certezza che adesso in molti si sono svegliati, quelli che sono venuti a protestare al nostro fianco, quelli che ci dicono di non mollare, quelli che adesso ci seguono con più fervore sapendo che è per loro e grazie a loro che una libreria esiste.

Da Costa a Costa

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di Lorenzo Bracco e Dario Voltolini

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Un medico psicoterapeuta e uno scrittore suo paziente si imbarcano spavaldi su una nave da crociera (viaggio in superofferta!),scrivono un diario comico e con quello si avviano verso il premio Strega. Le pagine sotto sono un estratto del libro pubblicato da Booksprint.

L una notte soffrendo d’insonnia si mise a navigare con l’iPad, cosa da non fare se non si è disposti a conoscere l’ignoto. L’iPad è uno strumento strano, incredibile, vuoi vedere una cosa e te ne esce un’altra, come nelle favole in cui, per intervento della bacchetta magica della fata, compare qualcosa dopo uno scintillio.

Tre poesie

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Annovi

di Gian Maria Annovi

Da Italics, Aragno/I domani, 2013.

LA GLORIOLA

                                                                        La gloriola...
                                                                       O povero fanciullo!
                                                                          Giovanni Pascoli

la neonata dentro il cassetto
forse dimenticata nella credenza
o dietro la pila dei giornali di ieri
ha certamente fame

(morirà, probabilmente)

tu invece sopravvivi
al cadere dei tronchi di pino
nella legnaia
alla lezione su Dante
nel fienile:

la gloria della lingua
(pare)
non piange per farsi nutrire

ma se la gloria è gloria
(dunque)
sappia dire la gloria delle cose

ad esempio
il nome per dire
l’ossatura delle piante:
legnanza o legnagione o
legnosura oppure semplicemente
un segno inciso sulla corteccia del cervello
illeggibile se non ti spaccano la testa coi manganelli

sappia dire le cose nuove

ad esempio
il nome dei suoi nuovi cittadini
il nome del paese che ha confini
di corpi affogati e vulcani:

(questo paese ha un nome
impronunciabile)

lingua che cede e cade dalle gengive

che dica l’assoluto tremore
di questa donna: sulla barca che sbanda
di notte col neonato schiacciato
tra le cosce
che non respira

Una sessione di consapevolezza riguardo a Hitchcock e ai film che parlano di grandi opere

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di Giuseppe Zucco

Un poster del film Hitchcock, di Sacha Gervasi, 2013
Un poster del film Hitchcock, di Sacha Gervasi, 2013

Va bene, partiamo dalla morale: se fossimo più trasparenti a noi stessi, se sapessimo leggere meglio il fondo opaco e brulicante dei nostri desideri, forse vivremmo con più ragionevolezza e adesione la nostra vita, soprattutto perché apparirebbe il risultato di una nostra scelta, chiara, limpida, meditata, priva di quella straziante sensazione che qualcosa ti guidi dentro con il pilota automatico, votandoti malinconicamente a una qualche forma di fatalità.

Ed è più o meno con una consapevolezza di questo tipo che varco la porta a vetri del cinema un paio di sere fa: se ho fatto una corsa dal lavoro, e ho comprato il biglietto, e mi sono sorbito con ammaestrata diligenza tutti i promo e i trailer, e ho azzittito la suoneria per evitare di infastidire me stesso e quindi il prossimo, e sono scivolato lungo la poltrona dimenticando di avere un corpo e altre mille incombenze, è anche perché avevo proprio voglia di vedere attraverso Hitchcock come se la fosse cavata il maestro della suspense nel prolungato e spossante continuum che dal primo concepimento alla rottura delle acque lo ha predisposto a partorire una tra le più indimenticabili e gotiche creature della storia del cinema, Psyco (1960).

Del resto, essendo questa una sessione di consapevolezza, mi accorgo di non essere nuovo a questo genere di desiderio. Nella mia neanche così lunga carriera di spettatore, oltre a percorrere le molteplici vie della cinematografia mondiale, attardandomi nei classici siti presenti su tutte le guide, battendo allo stesso tempo strade maestre e sentieri marginali, ho anche trascorso un numero imprecisato di ore a guardare film che mettevano in scena la gestazione travagliata di alcune grandi opere, passando per esempio dal racconto dei sei anni che Truman Capote impiegò per ideare, scrivere, rivedere A sangue freddo (Truman Capote: a sangue freddo, di Bennet Miller, 2005) al resoconto delle difficoltà che Orson Welles attraversò per dare alla luce Quarto potere (RKO 281 – La vera storia di Quarto potere, di Benjamin Ross, 1999).

Ponendomi la domanda del perché ricerchi questo genere di film, dalla profondità oscura del desiderio salgono alla coscienza le bollicine di due risposte. La prima è cercare di mettere a fuoco e cogliere da un’altra angolazione il genio, il talento, la tecnica, la tenacia, la sfida e tutta un’altra serie di cose innominabili riguardo alla vita che crepitano nelle opere originali: cioè, farne una lezione. La seconda, addirittura più importante, è tentare di pensare le grandi opere non come oggetti puri, alieni, avveratisi per miracolo, apparsi sul rullo trasportatore dell’industria culturale perfettamente puliti e incellophanati, ma come parte di un lungo e imprevedibile e sfiancante processo materiale che ha segnato in più punti quella pagina, quella pellicola, quella tela: cioè, farne una lezione situata nel mondo.

I capolavori, di per sé, sono realtà totalizzanti, non presuppongono il distacco, piuttosto stringono tra le proprie spire i lettori e/o gli spettatori. I capolavori fagocitano i loro autori, eclissando una volta per tutte la loro vita quotidiana e ogni sforzo compiuto in favore della pura evidenza di un risultato. I capolavori, pensati così, sono dei dispositivi romantici, intorno a cui si addensa la cortina fumogena del mistero, o di tutta una nuova mitologia, invece che la materialità delle circostanze nel loro divenire. Per dire, Psyco, se Hitchcock avesse avuto carta bianca, non sarebbe uguale a quello che noi conosciamo: molte scene, tra cui quella celeberrima dell’assassinio nella doccia – 35 inquadrature in 22 secondi dove non si vede mai affondare il coltello nella carne bianchissima di Janet Leigh, sebbene ogni spettatore alla fine del film ne abbia certezza assoluta – sono state architettate proprio per superare i vincoli che la censura americana dell’epoca aveva imposto alla produzione.

Va da sé che poi i film che portano in scena le grandi opere sono piuttosto deludenti. Non fosse altro che i nuovi autori non sono all’altezza dei predecessori di cui tentano di svelare la formula della loro grandezza – una miscela scoppiettante e hollywoodianamente standardizzata di genio, depravazione e meschineria. Anche se la cosa non deve stupirci né rammaricarci: per avere un film geniale su una grande opera e la sua travagliata lavorazione avremmo bisogno di un regista di valore assoluto – solo che poi ci troveremmo davanti qualcosa che si avvicina più a Otto e mezzo (Federico Fellini, 1963) o Mulholland Drive (David Lynch, 2001) o Barton Fink (Ethan e Joel Coen, 1991) che a un dignitoso making of da cui apprendere come il tale regista ha posizionato i carrelli e a quali sventure economiche hanno fatto fronte le sue capacità compositive. È una strana legge: i capolavori non svelano altri capolavori, semmai li richiamano e li riverberano mentre intanto ricostruiscono il mondo e ci riconnettono a tutte le più minute creature e ci permettono di fare esperienza.

Mi rendo conto che la visione di questi film, messa così, non suona più come la risposta a un desiderio, ma come l’abbandono a una specie di perversione: alla fine non si fa altro che cercare di rivivere e capire e catturare l’insieme di emozioni e sorprese che ti ha dato una grande opera con altri mezzi, per di più inadeguati e votati al fallimento.

Hitchcock, uscito in sala a firma di Sacha Gervasi, fa parte di questa perversione. Il suo obiettivo è quello di dichiarare la girandola di complicazioni produttive che l’elegantissima pellicola in bianco e nero nasconde. Ogni tanto affiora qualcosa legato al processo creativo – che è esattamente quello che ci aspetteremmo da questo genere di film – e così scopriamo che la spinta profonda che ha varato questa produzione è stata proprio la volontà di Hitchcock di filmare l’omicidio nella doccia ricavato da un romanzo omonimo al film che Truffaut definì vergognosamente falso, poiché pieno di convenzioni narrative; oppure che la sfida narrativa di fare morire la protagonista dopo i primi trenta minuti del film precede la lavorazione della sceneggiatura; o anche che solo nell’ultima fase di montaggio Hitchcock si decise a usare il gioiellino della colonna sonora scritta da Bernard Herrmann – il tutto rigorosamente sotto la benedizione di sua moglie, Alma Reville, che ebbe un ruolo fondamentale nella scrittura della sceneggiatura e nel montaggio di molti suoi film, nonostante non venisse mai accreditata nei titoli. Per il resto, veniamo a sapere che al culmine della sua carriera – era appena uscito nelle sale Intrigo Internazionale (1959) – proprio perché tutti gli richiedevano di bissare la suspense e il successo del film precedente, Hitchcock non riuscì a strappare a nessuna casa di produzione i finanziamenti per girare il nuovo film, ritenuto troppo violento e poco adatto al pubblico di massa, tanto che dovette ipotecare la villa in cui abitava e sovvenzionare la produzione di tasca propria e destreggiarsi in completa economia pur di portare a termine tutte le fasi di lavorazione del film.

Ma questo, e qualcosa in più, è appena lo sfondo su cui si situa il film. La reale occupazione del regista, infatti, si muove su un altro piano. Intanto trasforma Hitchcock in una figurina dell’album delle psicopatologie di Sigmund Freud – un omicida mancato, costantemente in oscillazione tra voyeurismo e ossessioni varie, che di frequente vede e dialoga con Ed Gein, il serial killer che ispirò il romanzo e il film e che rimarrà per sempre impigliato tra le nostri sinapsi con il sorriso spettrale di Norman Bates – e poi ne fa il campione di una storia di gelosia. Hitchcock, in fondo, grattando sotto la patina squillante e à la page della fotografia, non è altro che una commedia banalmente sentimentale, con tutto il suo usurato equipaggiamento di urla, incomprensioni, notti in bianco, pedinamenti, tradimenti immaginari che il bacio finale tra Alfred Hitchcock e Alma Reville ripulirà di colpo. Quanto di più vicino a una fiction televisiva da prima serata, insomma: anche se alla fine la sua visione non ti lascia le labbra serrate per il senso di colpa di avere sprecato 98 minuti della tua vita, essendo tutta l’operazione nobilitata dal profilo panciuto di uno tra i migliori registi di tutti i tempi. Alfred Hitchcok impiegato a fini di marketing, per farla breve.

Tuttavia, per gli spettatori più perversi, che intuiscono la delusione ma decidono comunque di consegnarsi a questo film, c’è una scena riparatrice. Siamo verso la fine, la scena dura un paio di minuti. È la prima di Psyco: Alfred Hitchcok non siede tra il pubblico, aspetta fuori dalle porte della sala. Infilato nel suo smoking, cammina su e giù nervosamente. Sembra non accada niente, e in effetti va avanti così, se non che il pubblico, tra urla e gridolini, comincia a suonare la partitura del terrore. In un attimo, Hitchcock si accende, e salta, gesticola impazzito – come un direttore d’orchestra, muove le mani, a tempo, mentre la scena della doccia fila sullo schermo e il pubblico con le pupille dilatate risponde con esattezza da mezzosoprano alle sue disposizioni. Ecco, questa non è un’invenzione del regista, ma la puntigliosa trascrizione filmica di quanto Alfred Hitchcock rilasciò a François Truffaut in un meraviglioso libro-intervista Il cinema secondo Hitchcock: La costruzione di questo film è molto interessante ed è l’esperienza più appassionante che ho fatto di gioco con il pubblico. Con Psyco, mi comportavo come fa un direttore con la sua orchestra, era proprio come se stessi suonando l’organo. E poi: La mia più grande soddisfazione è che il film ha avuto un effetto sul pubblico, ed era la cosa alla quale tenevo di più. In Psyco del soggetto mi importa poco, dei personaggi anche; quello che mi importa è che il montaggio dei pezzi del film, la fotografia, la colonna sonora, e tutto ciò che è puramente tecnico possano far urlare il pubblico. Credo sia una grande soddisfazione per noi utilizzare l’arte cinematografica per creare un’emozione di massa. E con Psyco ci siamo riusciti. Non è un messaggio che ha incuriosito il pubblico. Non è una grande interpretazione che lo ha sconvolto. Non è un romanzo molto apprezzato che l’ha avvinto. Quello che ha commosso il pubblico, è stato il film puro.

Proprio per questo, Hitchcock immaginava Psyco come un film low-budget molto sperimentale che apparteneva più ai registi che al pubblico. Evidentemente, si sottostimava. Nell’ultima pagina del libro-intervista, Truffaut scrive: Quando è stato inventato, il cinema è servito innanzitutto a registrare la vita; era allora un’estensione della fotografia. È diventata un’arte quando ha smesso di essere un documentario. Si è capito che non si trattava di riprodurre la vita, ma di renderla più intensa. La filmografia di Hitchcock è ancora così visitata e ricordata dal pubblico perché ha reso più intensa sia la vita che il cinema. Al punto che anche una pellicola di secondo ordine non fa altro che accrescerne l’aura del regista e spingere a rivedere molti dei suoi film – assicurandosi ancora una volta la minacciosa sensazione che il male, in percentuali ogni volta variabili, conviva in tutti gli atomi dell’universo.

[Le citazioni dell’intervista sono tratte da Il cinema secondo Hitchcock, di François Truffaut, traduzione di Giuseppe Ferrari e Francesco Pititto, il Saggiatore Tascabili, pp. 233 e 293]

. . . per mantenersi quella reputazione che non avevono meritata . . .

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di Antonio Sparzani
Machiavelli Uffizi2

Dopo gli ozi letterari (1516-17), Niccolò Machiavelli, quasi cinquantenne, riesce a ricucire i suoi rapporti con i Medici e viene incaricato di scrivere quelle che diventeranno le «Istorie fiorentine». La scrittura va dal 1520 al 1525 e Machiavelli presenta l’opera a Giulio de’ Medici nel frattempo diventato papa col nome di Clemente VII, nel 1526. Varie vicende ritardano la pubblicazione dell’opera, tra cui la morte di Machiavelli nel 1527, così che le Istorie vedranno la luce solo nel 1532, postume. Vi copio qui il capitolo I del libro V, che mi pare contenga vari spunti che ci fanno risuonare qualche campanello nella testa.

Sogliono le provincie, il più delle volte, nel variare che le fanno, dall’ordine venire al disordine, e di nuovo di poi dal disordine all’ordine trapassare; perché, non essendo dalla natura conceduto alle mondane cose il fermarsi, come le arrivano alla loro ultima perfezione, non avendo più da salire, conviene che scendino; e similmente, scese che le sono, e per li disordini ad ultima bassezza pervenute, di necessità, non potendo più scendere, conviene che salghino, e così sempre da il bene si scende al male, e da il male si sale al bene. Perché la virtù partorisce quiete la quiete ozio, l’ozio disordine, il disordine rovina, e similmente dalla rovina nasce l’ordine, dall’ordine virtù, da questa gloria e buona fortuna. Onde si è da i prudenti osservato come le lettere vengono drieto alle armi, e che nelle provincie e nelle città prima i capitani che i filosofi nascono. Perché avendo le buone e ordinate armi partorito vittorie, e le vittorie quiete, non si può la fortezza degli armati animi con il più onesto ozio che con quello delle lettere corrompere; né può l’ozio con il maggiore e più pericoloso inganno che con questo nelle città bene institute entrare. Il che fu da Catone, quando in Roma Diogene e Carneade filosofi, mandati da Atene oratori al Senato, vennono, ottimamente cognosciuto; il quale, veggendo come la gioventù romana cominciava con ammirazione a seguitarli, e cognoscendo il male che da quello onesto ozio alla sua patria ne poteva risultare, provide che niuno filosofo potesse essere in Roma ricevuto. Vengono per tanto le provincie per questi mezzi alla rovina; dove pervenute, e gli uomini per le battiture diventati savi, ritornono, come è detto, all’ordine, se già da una forza estraordinaria non rimangono suffocati. Queste cagioni feciono, prima mediante gli antichi Toscani, di poi i Romani, ora felice ora misera la Italia. E avvenga che di poi sopra le romane rovine non si sia edificato cosa che l’abbia in modo da quelle ricomperata, che sotto uno virtuoso principato abbia potuto gloriosamente operare, non di meno surse tanta virtù in alcuna delle nuove città e de nuovi imperii i quali tra le romane rovine nacquono, che, sebbene uno non dominasse agli altri, erano non di meno in modo insieme concordi e ordinati che da’ barbari la liberorono e difesero. Intra i quali imperii i Fiorentini, se gli erano di minore dominio, non erano di autorità né di potenza minori; anzi, per essere posti in mezzo alla Italia, ricchi e presti alle offese, o eglino felicemente una guerra loro mossa sostenevono, o ei davono la vittoria a quello con il quale e’ s’accostavano. Dalla virtù adunque di questi nuovi principati, se non nacquono tempi che fussero per lunga pace quieti, non furono anche per la asprezza della guerra pericolosi; perché pace non si può affermare che sia dove spesso i principati con le armi l’uno l’altro si assaltano; guerre ancora non si possono chiamare quelle nelle quali gli uomini non si ammazzano, le città non si saccheggiano, i principati non si destruggono: perché quelle guerre in tanta debolezza vennono, che le si cominciavano sanza paura, trattavansi sanza pericolo, e finivonsi sanza danno. Tanto che quella virtù che per una lunga pace si soleva nelle altre provincie spegnere fu dalla viltà di quelle in Italia spenta, come chiaramente si potrà cognoscere per quello che da noi sarà da il 1434 al ’94 descritto dove si vedrà come alla fine si aperse di nuovo la via a’ barbari e riposesi la Italia nella servitù di quelli. E se le cose fatte dai principi nostri fuori e in casa, non fieno, come quelle degli antichi, con ammirazione per la loro virtù e grandezza lette, fieno forse per le altre loro qualità, con non minore ammirazione considerate, vedendo come tanti nobilissimi popoli da sì deboli e male amministrate armi fussino tenuti in freno. E se, nel descrivere le cose seguite in questo guasto mondo, non si narrerà o fortezza di soldati, o virtù di capitano, o amore verso la patria di cittadino, si vedrà con quali inganni, con quali astuzie e arti, i principi, i soldati e i capi delle repubbliche, per mantenersi quella reputazione che non avevono meritata, si governavano. Il che sarà forse non meno utile che si sieno le antiche cose a cognoscere, perché, se quelle i liberali animi a seguitarle accendono, queste a fuggirle e spegnerle gli accenderanno.

Note-book: Parole sante di Eva Clesis

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Nota sull’ultimo libro di Eva Clesis, Parole Sante.

Canto e controcanto524686_10151537732932071_464886817_n-1
di
Francesco Forlani

C’è in Eva Clesis una tale naturalezza nello stile, nella frase, nelle sequenze, che mi sono a lungo chiesto se in lei la narrazione, qualunque tipo di narrazione, si “facesse” con la scrittura, se solo grazie alla parola le cose potessero essere. Insomma, nei libri di Eva Clesis accade qualcosa di simile a un’invenzione da stregoneria, di uno sciamanesimo però di tipo popolare, non esoterico, aristocratico. Le cose, insomma. è come se si parlassero prima fra loro, intrecciate a strani rituali, credenze, segreti di famiglia, ancor prima di rivelarsi al narratore, al lettore, quasi prescindendo dall’uno, dall’altro.
C’è in queste “parole sante” di Eva Clesis, un’inversione sintattica imprescindibile; perché ci si possa salvare, bisogna dapprima “intendere” la parola, sentirla e poi si vedrà se, insomma, sono sante o meno. Si tratta di un polar? Di un noir? L’intrigo è solido, i colpi di scena non mancano certo, e sempre al tempo giusto, eppure non è soltanto un noir, nè solamente un polar.
Si tratta di una scrittura in un ritmo che conviene a quegli strani paesaggi del Sud Italia in cui perfino quando le strade evaporano al sole, e il calore appesantisce i passi, la parola è nervosa, rapida, veloce come una fucilata. Quasi il contrario di quanto accade al nord, dove il passo è sicuramente veloce, il movimento rapido, ma non la parola, rarefatta e che nelle conversazioni sembra sempre evaporare insieme al vino, al respiro.
La dimensione del racconto è meridiana. Per quanto lo spessore del volume superi le duecento pagine l’architettura è quella del racconto, più che del romanzo, i capitoli compiuti, mano a mano, rendendo la lettura agile, accattivante (e cattiva). Meridiana è la dimensione perché è una narrazione che può esistere solo attraverso l’esperienza comune e comunitaria. La lingua madre, locale, scàlpita in tensione continua con quella matrigna, globale, standardizzata. Una storia venata, anzi svenata, di credenze, è “Parole sante”, abitata, anzi domiciliata da mostruosità più o meno taciute, segreti più o meno confessati, che anche quando sembra arrecare sollievo, ” in fondo qui siamo una grande famiglia” in un tempo che atomizza ogni cosa, isola senza solitudine i propri abitanti, di colpo, ma non all’improvviso, ti vomita addosso il male, la condanna di essere una terra, una cultura come la nostra, meridiana e meridionale, incapace di raccontarsi come altro, da una grande famiglia.

Animus e Anima: Beppe e Maria tra Jung e Collodi

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Beppe

Francesca Palazzi Arduini

Sembra incredibile ma oggi l’Italia offre due personaggi dai nomi biblici, Giuseppe “Beppe”, e Maria, come catalizzatori sociali dell’opinione pubblica e dell’affettività. Maria, severa ma compiacente amica che conduce all’espressione dei propri sentimenti, dell’affettività, del proprio talento artistico, e guida benevola le persone nell’espressione di sé, amorevole Avvocata (termine usato anche per la Madonna che intercede e aiuta) di tutti che permette a tutte/i di esprimersi perché ognuno può essere anche solo per un attimo al centro dell’attenzione. Maria la sacerdotessa della tv  fatta dalla gente, distinta e discreta manovratrice in sordina di un immenso potere gestito dietro le quinte, forse vestale di ritualità, di sottomissione e di gioco cruento paludato poi sullo schermo da una infinita dimostrazione di lealtà. Maria l’Anima, la parte permeabile e ‘passiva’ di noi, che gestisce le nostre timidezze e invita pacata ad aprire i cuori, poi si fa l’Altra, colei che ragiona, che ammonisce le passioni incontrollate e il trascendere, che invita all’equilibrio tra i desideri e la realtà.

A questo personaggio che “fa parlare” e spesso solo guarda e tace, dittatrice della scena televisiva, per ogni età, e regna nei salotti e nelle cucine, fa da contraltare il Re delle piazze, Giuseppe detto Beppe. Lo stereotipato principio maschile quanto cozza con Maria! Lui è incontrollato, la scena dal vivo è solo sua, non fa parlare gli altri se non per concedergli un millesimo del suo spazio, gli altri sono coloro di cui è portavoce, ai quali fa da promoter, che vuole portare con sé alla vittoria … ma sono pur sempre quasi muti e grigi nell’arena. Il pubblico, i militanti, gli elettori, possono se vogliono scrivere dei loro desideri in uno spazio che è il regno di Giuseppe, e anche sua proprietà. La rabbia, l’aggressività verbale, l’intolleranza di chi non ne può più, è espressa da Lui, che gesticola, urla, sfida e impreca. Compito della sua Massa è lavorare per giungere agli scopi indicati come comuni. Lì, nella banale e quotidiana manovalanza, c’è per loro soddisfazione e parola, lì le energie di Beppe confluiscono come a Pentecoste nel loro discorso. Viene in mente il breve saggio “Psicologia del reclutatore”, nel quale Patrizia Santovecchi, citando G. Le Bon, scrive: “Il leader deve saper cogliere le aspirazioni segrete della folla e proporsi come colui che è capace di realizzarle; come l’incarnazione stessa di tali desideri”. Ma chi oserà riconoscere l’incredibilità, e la scontatezza, di questa situazione psicologica? Pochi, in una società nella quale l’inconscio, lo dice bene Recalcati, è non più un sintomo di qualcosa da scoprire ma un difetto da truccare.

Se Maria gestisce quindi il suo potere con dedizione ma non si pone come modello con la sua vita privata e le sue opinioni personali, che semmai dirigono il gioco ma non si paludano da Verità, lui, contrariamente al Giuseppe evangelico, salta alla ribalta con prepotenza e afferma di possedere la Verità. Ogni cosa che dice è una trovata risolutiva, ogni accenno che fa è dimostrazione di saperne più degli altri, di avere in mano la soluzione dei problemi, con la parola. La parola diventa arma che sconfigge la complessità, le lunghe frasi e le tematiche pesanti per la loro storia e la loro composizione si sciolgono in poche frasi, la parola d’ordine è: unanimità. Così chi lo sostiene lo fa per disperazione politica, passando sopra a quella veemenza e allo strisciante superleaderismo (come  definito da Federico Boni), o perché “ha scoperto i problemi dell’economia ascoltandolo”. Qui Beppe è l’ago che rompe la bolla autistica del cittadino senza più classe sociale e appartenenze e lo introduce in una nuova più accogliente bolla totale, la “piattaforma”, progetto di una connessione web non più caotica ma da lui amministrata ed ispirata sulla base di una visione generale non del tutto esplicita.

Anche la vita privata di Beppe è poi oggetto che incarna i desideri del giovane maschio italiano: Beppe ha vissuto e vive di parole, artista e libero da condizionamenti, è ciò che  l’italiano mite, precario o sottomesso al lavoro non sa e non può; fa jogging, nuota e va in barca, ha una moglie (il nome non importa, non è nemmeno compagna di lotte o first lady, è lì e basta) piacevole e non italiana, un discreto conto in banca accumulato con i click degli AdWords di Google. Non vecchio né giovane, ondeggia nella mezza età, capace di catalizzare con spirito giovanile, la chioma brizzolata del saggio richiama il personaggio di Pinocchio. Ecco un’altra versione di animus e anima nell’inconscio collettivo italiano: La Fata turchina è Maria. Il Grillo parlante, che ha avuto il compito di fare da Super-io al burattino di legno, è Beppe. E si sa, il Super-io è bravo a stabilire le regole e ha il compito di punire le trasgressioni, è concentrato fuori da sé, un po’ come Travaglio (ma senza Complessità aperta in mano). Mentre Maria quindi è incarnazione dell’interno, del principio femminile, vero o falso che sia, del dialogo e dell’emotività, Beppe è l’incarnazione della rabbia punitiva verso gli altri e liberatoria verso se stessi, la fase finale della ricerca di libertà (dalle tasse, dai caporali? La libertà svolazzante del mondo virtuale diviene modello per quello reale,  ben differente nella sua concretezza materiale), quella libertà spesso venduta dai truffatori del Paese dei balocchi o della Casa delle libertà, a caro prezzo, agli ingenui cittadini. Giuseppe è a volte anche Mangiafuoco nella fantasia degli italiani (e di Bersani), la  volontà che si crede potenza, della finalità del rendere tutti unanimi, della conquista della maggioranza assoluta che trasforma tutti i burattini.

Così, gli adepti di Maria vengono scelti per ubbidienza e dedizione ma premiati con lo spettacolo di se stessi, mentre quelli di Beppe il Reclutatore restano incagliati nel sogno del potere assoluto, raggiungendo il quale, allora  e solo allora, sarà possibile ottenere ciò che si vuole, sconfiggere il “sistema” corrotto ed essere protagonisti, al fianco di Beppe, della Storia. Già le cinque stellette sembrano cucite sulle mostrine … riuscirà la massa a vedersi per quello che è e rendersi autonoma? L’Animus scuote la testa: l’altro, il contagioso, il marcio, il corrotto, il vecchio, l’ottuso, è il pericolo; facendo questo mostra una realtà inesistente, in cui tutti i mali sono stati causati da Altri. L’interlocutore, cioè, è presentato sempre come nemico e come un falso, al massimo come un inetto. Gli individui non iscritti, quindi  “nemici” o incapaci, scompaiono dietro l’ombra delle loro opposte e varie fazioni: non può esservi dialogo perché solo noi stessi rappresentiamo ciò che è degno e meritevole, non c’è bisogno di rappresentazione, di scenario e di soggetti differenti, con diverse storie, visioni ed esigenze. La politica dunque è un gioco senza senso (che brutta parafrasi del ‘Bene comune’ e di Simone Weil!), giostrato da chi si diverte a presentarsi “diverso” ma non lo è, perché l’unica “differenza” valida e vera deve essere contenuta in chi segue Beppe e lo sceglie come voce. L’iperbole del partitismo si accartoccia nel totalitarismo digitale per Beppe, l’iperbole dell’emozione si allarga nel circo della banalità per Maria. Così il qualunquismo diviene virtù, sia quello che ha solo amici, di Maria, che quello che ha solo Nemici, di Beppe.

 

 3 aprile 2013

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[Testo preparatorio per il lavoro d’artista di Saverio Feligini alla quinta Biennale d’arte contemporanea promossa da Satura, Genova 2013. Di Saverio Feligini è l’immagine collage in apertura.]

 

L’ombra del Grillo

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di Nicola Fanizza

Uno spettro si aggira fra le tenebre trasparenti che avvolgono la nostra penisola: lo spettro del grillismo. Che si fa latore di inedite speranze di salvezza, di nuovi sogni e, insieme, di nuovi incubi. Alcuni fra i nostri direttori di coscienza  ritengono che il M5S si configuri addirittura come un fenomeno di rinascenza del fascismo. Da qui il loro invito a combattere contro il nuovo mostro bicefalo. La consegna è una sola: instillare nelle masse il germe della paura.

La caccia

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cover_la_caccia   di Gianni Biondillo

Laura Pugno, La caccia, Ponte alla grazie, 131 pagine, 2012

 

Mai parlare di “genere” se vuoi essere ben voluto dalla critica, né di racconti se vuoi che un editore ti venda (mistero di una tradizione letteraria in realtà fatta sostanzialmente di racconti, quale quella in lingua italiana). È per questo che La caccia di Laura Pugno viene presentato come un romanzo “letterario”, quando è a tutti gli effetti un racconto “fantastico”. La mia è una semplice constatazione non un (pre) giudizio, e dalla mia so che la fortuna dell’autrice sta nell’essere un’ottima poeta, e i poeti mediamente leggono (e scrivono) fantasy, gialli, fantascienza senza pregiudizi.

Due i personaggi messi in scena in questo onirico racconto, tutti e due portatori di passati indicibili e presenti sfocati e inquietanti: Mattias, un ragazzo capace di entrare in contatto telepatico con chi tocca e Nord, il fratello scomparso da una città, Leilja, dove vige un regime postbellico opprimente e militaresco. Di lui Mattias segue le tracce telepatiche che lo portano sui monti selvaggi del Gora, dove è scomparso, proprio come scomparve anni addietro il loro padre. Entrambi alla ricerca affannata di un mistero: la Bestia. Animale o mostro? Vero o illusorio?

La storia si apre col corpo di una ragazza bellissima ritrovata morta nella casa di Nord, ma il sangue rappreso non è di lei, è del fuggiasco. Come si dipanano tutti questi misteri, a caccia di chi prima il fratello maggiore e poi quello minore vanno nel bianco accecante della neve di montagna?

Al di là di una certa prevedibilità dell’intreccio, la ricchezza di questo lungo racconto sta, come è ovvio, proprio nella scelta linguistica: asciutta, pietrificata, scabra. Laura Pugno sembra quasi, in altra forma e genere, dialogare con la lingua poetica che ben conosce: la bestia che i suoi protagonisti cercano è davvero molto simile a quella descritta da Giorgio Caproni ne Il Conte di Kevenhüller. I protagonisti la cercano ma ci sono dentro. O “dietro la Parola”.

(pubblicato su Cooperazione n. 50 dell’11 dicembre 2012)

video arte #20 – floris kaayk

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Floris Kaayk, The Order Electrus, 2005.

Gente perbene

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di Renata Morresi

Sono appena tornata dai funerali di Civitanova, Marche, Italia. L’ho saputo proprio all’ultimo, dopo due giorni in giro fuori, senza connessione, non capisco perché nessuno m’abbia telefonato per dirmelo, un messaggio, niente. L’ho saputo solo sabato, nel primo pomeriggio, mentre me ne sto ancora in pigiama a trafficare davanti al computer. Prima m’imbatto in questo status di Eleonora – siamo in classe insieme nello stesso corso, nella speranza di trovare uno straccio di lavoro reale – :

Ecco, io ieri sera mi sono allungata sul divano, pensando di lasciarmi alle spalle la prima parte di un qualcosa che dentro di me so essere un’ennesima sanguisuga attaccata sulla pelle di gente perbene. Ecco, io sul quel divano ho preso il telecomando, ho acceso la televisione e mi ha travolto il silenzio di una silenziosa disperazione, quella che ti fa credere che essere perbene sia una maledizione, quella che ti fa pensare che magari c’è un altro posto in cui nessuno potrà calpestarti mai più.

Bevo il mio caffè e non capisco, mi piace e non capisco, funziona un po’ così su Facebook, arriva sempre prima la pelle e a volte solo quella. “Mi piace”, e passo oltre. Dopo due minuti Alessandra mi tagga a una manciata di suoi versi, una poesia agile e stretta, che fa scivolare veloce il cursore, un solo verso più lungo, repentino: “oggi muoiono in tre a Civitanova”. Si vede che una cosa non capìta passa, ma la somma di due cose non capite e uguali smuove. Figuriamoci tre.

Dopo un secondo sono su Google News. Dopo un secondo infilo i jeans e il giubbetto. Dopo un secondo sono in macchina che scendo verso la costa. Sto andando ai funerali, non so bene perché, a che titolo, secondo quale fede, cosa cerco, cosa offro, ma dentro la testa sto già scrivendo questo. Sto guidando, sto guardando, sto scrivendo di queste cose attorno. Eccola la primavera marchigiana, mezzo sole e mezzo freddo, le molte strade che la rigano da est a ovest, quasi tutte lasciate a metà a ridosso dei monti azzurri, riasfaltate quando passa un papa per i santuari qua intorno, di qua e di là i campi a rotazione, scacchi di terra che alternano grano, granturco, barbabietole, girasole, i campi fotovoltaici, i vivai, e più vai verso il mare, le zone industriali, i capannoni abbandonati, le enormi scritte Vendesi sui pacchiani centri commerciali mai finiti, le sale scommesse e le villette a schiera, dove in ogni cucina per decenni le donne cucivano tomaie per le fabbrichette della zona, la miriade di piccole ditte e officine dismesse, la mega-villa di Della Valle qui a due passi. Appena arrivi in una nuova cittadina t’accolgono le rotonde affittate ai grandi marchi, coi loro insulsi logo-monumenti. Una caterva di cartelloni pubblicitari t’annuncia una animazione che vedrai solo nei motorini. Giro a destra, poi a sinistra, sono sul lungomare, con le lunghe file di palme straprotette da giunte comunali di ogni colore, per creare quell’effetto caraibico che pare piaccia tanto alla famiglia-tipo in vacanza. Eccomi qui, in questo ex-borgo marinaro, ex-centro del boom della scarpa, ex-salottino buono dei modaioli, dove all’ultimo giro il movimento 5 stelle ha stravinto. Questa è la riviera Adriatica, coi lounge bar fichetti e a pochi metri le prostitute sulla statale, le vetrine stilose in centro, che cambiano gestione una volta l’anno, i Suv parcheggiati sul marciapiede, i pescatori a rezzaglio alla foce del fiume, i capannelli di badanti ai giardinetti, i pakistani che giocano a cricket al primo spiazzo che riescono a trovare, quelli di Forza Nuova ad attaccare manifesti. Non è né Nord, né Sud, e ha grossomodo i difetti e le virtù di entrambi, con la goffa scontrosità e la grezza vitalità di ogni provincia, con l’improvvisazione e il tira’ a campa’ di tutta Italia.

Sto per arrivare in piazza, alla chiesa dei funerali, non c’è tanto traffico e trovo subito posto e allora mi prende un magone, la paura che la città non sia venuta, che non saremo che quattro gatti, che la solitudine abbia infettato tutti e non importi a nessuno di questa cosa pazzesca: di essere soli anche se non in uno, di essere succubi non solo in coppia, di essere impotenti in così tanti, una famiglia di tre che s’ammazza. Penso e cammino e quasi corro per fare più in fretta e tre mi sembra un numero così enorme, tre persone adulte che si siedono a tavola ogni giorno e il loro tavolo si squaglia, tutto quello che li unisce e separa si squaglia, e si scivolano addosso, l’uno sull’altro fino a essere uno stesso corpo, e poi uno stesso posto vuoto, il corpo affondato nella solitudine nera, nera, nera. Solo lei mangia.

Giro l’angolo finalmente, la città è venuta, la piazza è piena. Adesso rallento, mi sento un po’ storta e ridicola, sono arrivata di corsa, sono arrivata tardi, vado più piano e giro lenta in mezzo alla folla, e non solo perché so che non entrerò nella chiesa che oramai è troppo piena, ma perché voglio sentire, ho la stupida fame di sapere cosa si sta dicendo la gente. E cosa vuoi che si dicano, che è una tragedia, che ogni giorno ne muore un altro, che il comune doveva sapere, doveva intervenire, che è uno schifo, c’è chi dorme col cane nel letto, chi va alla messa ogni giorno, che mio nonno operaio andava a roma a fare le lotte, che nessuno ha mosso un dito, che i delinquenti non si suicidano mai, che il sindaco s’è portato a casa i rom e noi adesso, che i grillini però, che è colpa della banca, è colpa di equitalia, che è perché loro non hanno chiesto, che perché loro si vergognavano, che è una vergogna, che vergogna, vergogna, vergogna, assassini, assassini, assassini – quando escono gli amministratori locali – omicidio di stato, e, alla fine, uccido un politico! uccido un politico!
La cosa più strana che ho sentito è questa: È che non avevano figli – e questa frase mi sembra così assurda, così vera. Mi illumina d’un tratto sul nostro nuovo proletariato, su un’Italia che ha affondato la borghesia senza liberarsi del borghesismo, un paese dove non avere figli non solo è, come volevano i tradizionalisti, contro natura, ma è anche, quando invecchi, fatale.

Adesso sto sulla soglia della chiesa, scivolata su un fianco del portale d’ingresso. I carabinieri si sono girati verso l’interno per la benedizione. La messa è finita, la gente s’addensa per uscire, ma non c’è calca, solo una gran confusione di voci, tra chi parla sommessamente, chi parlotta nervosamente, chi piange. Si fa silenzio quando una signora bionda raggiunge il microfono, a leggere un messaggio che le amiche hanno scritto ad Anna Maria Sopranzi: Ti ricorderemo che leggevi il giornale sul tuo terrazzino, ricorderemo il tuo sorriso buono. Non eri tu a doverti vergognare della tua povertà.

Sono parole semplici, quelle sulla bontà. Sono, dicono i cinici, le parole di rito pronunciate sempre ai funerali. Ma come fai a non credere alla bontà di queste persone, tre che si organizzano insieme per tirare a campare, non sanno chiedere aiuto ai servizi sociali, ma uno si fa un orticello, uno, lasciato a piedi dal fallimento della ditta, s’arrabatta a cercare lavori, a pagare debiti e arretrati, una pensa all’affitto con la pensioncina da artigiana, come fai a non crederci? a questi pensionati indigenti, a questi licenziati dal presente, al loro esodo da ogni diritto? a una coppia di sessantenni che lascia un biglietto ai vicini con su scritto “scusateci”? a un fratello che capisce d’un tratto di essere solo e non ha un’esitazione, va dritto giù al porto? a un uomo che a quelli che accorrono e s’arrampicano sugli scogli e gli gridano “fermati”, “nuota”, con la mano fa cenno di no, che vuole morire? Ah, lo so, lo so, sto scrivendo con tutto questo pathos e mi scordo di dire che così sta facendo l’Italia, un paese che per anni invece di protestare, resistere e pretendere diritti e rispetto, s’è lasciato affondare.

O forse, forse non è anche questa disobbedienza civile?

Sono in mezzo alla folla e non vedo più niente, mi alzo sulle punte e scorgo solo le telecamere alte sulle braccia dritte degli operatori, inquadrano qualcuno là in mezzo, c’è chi dice il sindaco, chi la presidente Boldrini. Che diritto avete di stare qui, urla qualcuno. Escono le bare, tutti applaudono. C’è una signora semplice vicino a me, continua a parlare da sola, perché applaudite, bisogna piangere, perché applaudite, bisogna piangere. Un altro, sottovoce: ci vuole un grande forza, un grande coraggio. Penso che voglia dire che occorre grande forza per tirare avanti, farsi coraggio per vivere, ma ora che lo scrivo non ne sono più così certa. Vorrei dire qualcosa anch’io, ma sarei solo un’altra voce.

 

*

 

Sono tornata a casa, davanti ho una poesia di Massimo Gezzi, “Sul molo di Civitanova”.

A un certo punto dice:

 

Non è mai finita, penso mentre guardo
i tuoi capelli rovistati dal grecale
finché non muore tutto
c’è speranza di risolverlo il dilemma
che mette il segno uguale tra vita
e non vita, in quest’angolo di porto occidentale
che ogni volta è se stesso ma insieme
è anche altrove, e per caso non coincide
con il luogo dove gli uomini
vendono tutto per fame

 

Mentre la leggo mi pare incredibile che questi versi di qualche anno fa traccino così bene la geografia della disperazione di oggi: il salto veloce tra vita e non vita, il caso che gira e fa di questo luogo un altrove, quello degli ultimi. Sono i versi di un giovane uomo, pieno di sentimento del mondo, sì, del suo dolore, ma anche di fede.

Di lì a poco tornerò in rete, riscriverò a Eleonora:

Ciao, sono appena uscita dal funerale, ovvero, non sono mai entrata visto che la chiesa traboccava di gente – gente in lacrime, gente incredula, gente arrabbiata, e tanti hanno urlato, sì, molti urlavano anche contro, e a stare insieme, ho notato, l’urlo, lo sfogo, persino il pianto vengono meglio, liberano veramente – ma come liberarsi dalla solitudine quando sei solo, dalla disperazione quando sei disperata, quella è la cosa difficile davvero, tanto da sembrare, a volte, addirittura eroica. Non so bene cosa mi ha portato qui, di certo non la fede, d’istinto mi viene da dire la fede in questa gente semplice, come dicevi tu, semplicemente perbene.

 

Hipster non avrai il mio scalpo – Viaggio nella nuova San Francisco e nel covo dei pirati di McSweeney’s e 826 Valencia

9

di Silvia Pareschi

Un graffito di Banksy a San Francisco
Un graffito di Banksy a San Francisco

I beat sono preistoria. La libreria City Lights di Ferlinghetti sopravvive, quest’anno compie sessant’anni ed è ancora bella, ma Haight Street (quella che fa angolo con Ashbury) è una strada piena di negozi di narghilè, frequentata soprattutto da tossici e turisti. Niente di tutto questo sarebbe particolarmente degno di nota, se non fosse che la fama di San Francisco come città “letteraria” è ancora fondata su quello che accadde qui negli anni Cinquanta.

Nel frattempo sono cambiate tante cose. Alla fine degli anni Novanta è arrivato il dot-com boom, la bolla speculativa della New Economy che ha attirato in città imprenditori, programmatori e professionisti del marketing, cambiando radicalmente il panorama sociale della città. I quartieri di classe operaia e di classe media sono stati aggrediti da un intenso processo di gentrification, che ha fatto schizzare alle stelle i prezzi delle case e ha cominciato ad allontanare i soggetti economicamente più deboli. Oggi, girando per la città, una delle prime cose che salta agli occhi è la scarsissima diffusione della classe media, presente quasi solo tra la numerosa popolazione asiatica; per il resto, la città è abitata soprattutto da bianchi benestanti, ispanici poveri e neri poverissimi. Scarseggiano anche le famiglie con bambini: in conseguenza del costo proibitivo delle scuole, che spinge le famiglie a trasferirsi nei sobborghi, San Francisco è la città americana con la più bassa percentuale di abitanti al di sotto dei diciotto anni.

Negli ultimi anni la città sta vivendo all’interno di un’altra bolla: il tech-boom. Un colossale afflusso di investimenti tecnologici si è riversato non solo sulla vicina Silicon Valley, ma anche sulla città stessa, che ospita Twitter, Yelp e migliaia di pendolari che la utilizzano come città dormitorio. Rebecca Solnit, nell’articolo Google Invades, descrive gli autobus-navetta dai finestrini oscurati che ogni giorno portano migliaia di persone negli uffici di Silicon Valley. La conseguenza di questo enorme fiume di soldi è che San Francisco è oggi la città con il mercato immobiliare più caro degli Stati Uniti. Le open houses (le visite collettive in cui tutti i potenziali acquirenti visitano una casa nello stesso giorno) sono affollate di persone molto giovani e molto ricche che cercano di accaparrarsi la casa offrendo più del prezzo richiesto e pagando tutto subito in contanti. Le case vanno a ruba così in fretta che per riuscire a comprarne una molti arrivano a firmare un documento con cui dichiarano di rinunciare all’ispezione. O la va la spacca, e se poi la casa non è solida lo scopriranno al primo terremoto.

Come scrive Solnit, “Tutto questo sta cambiando il carattere di una città che un tempo costituiva un rifugio per dissidenti, eccentrici, pacifisti e sperimentalisti. Come tante altre città che sono fiorite nell’era post-industriale, nel’ultimo quarto di secolo San Francisco è diventata sempre più inaccessibile, eppure ospita ancora una schiera di scrittori, artisti, attivisti, ambientalisti, eccentrici e altri che non lavorano sessanta ore alla settimana per le corporation (anche se forse siamo solo cimeli del passato). Le città in rapida espansione allontanano anche coloro che svolgono servizi essenziali per salari relativamente modesti, come insegnanti, pompieri, meccanici e carpentieri, insieme a quelli che hanno tempo per dedicarsi all’impegno civile.”

Insomma, la città che ha dato vita al concetto di tecnologia come arte del nuovo millennio è diventata troppo ricca per generare un fermento artistico che non sia dipendente dalla tecnologia. La creatività è quella delle start-up, la creazione è quella di prodotti di consumo sempre nuovi e attraenti, e anche i graffiti artist vengono reclutati per fare cartelloni pubblicitari. La Stanford University Press, ossia la casa editrice accademica della quinta università più ricca degli Stati Uniti (oltre che culla del tech-boom) è stata trasferita due volte negli ultimi anni, in sedi sempre più lontane dal campus, perché il suo ruolo di produttrice di libri non viene considerato abbastanza importante da permetterle di occupare una proprietà immobiliare così preziosa.

In questo momento il cuore della gentrification è il Mission District. È il quartiere hipster per eccellenza, quello dove vive la maggior parte di chi lavora nelle tech companies, e dove l’anno scorso, quando Facebook è stata quotata in borsa, sono spuntati all’improvviso un sacco di milionari ventenni che hanno cominciato a comprare case e aprire ristorantini carini e tutti uguali. La gentrification è partita da Valencia Street, fino a pochi anni fa una zona poco raccomandabile e oggi completamente “hipsterizzata”. La parallela Mission Street resiste, ma l’inesorabile processo di imborghesimento non impiegherà molto ad allontanare tutti gli inquilini che ancora vivono negli appartamenti con l’affitto controllato (per una legge cittadina, l’ammontare dell’affitto viene bloccato – a parte l’adeguamento all’inflazione – nel momento in cui l’inquilino firma il contratto. Ma quando l’inquilino se ne va, il padrone può riaffittare la casa al prezzo che vuole). A Mission, un appartamento con affitto controllato può costare 500 dollari al mese. Un bel monolocale soppalcato in una zona ancora un po’ malfamata del quartiere può costarne 5000. Il Mission District, con la sua popolazione prevalentemente ispanica e working class, con i suoi splendidi murales e la sua storia di lotte per i diritti civili, è troppo appetibile per non venire completamente inghiottito.

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Un graffito di Banksy a San Francisco
Un graffito di Banksy a San Francisco

È con tutte queste cose in mente che vado a visitare la sede di “McSweeney’s”, al numero 849 di Valencia Street, nel cuore di hipsterland. Malgrado abbia sempre avuto un rapporto un po’ conflittuale con l’estetica delle riviste fondate da Dave Eggers, e di “McSweeney’s” in particolare, sono molto interessata ai progetti filantropici di Eggers in campo scolastico. Perché quello che potrebbe sembrare uno dei pionieri della gentrification del Mission District è in realtà qualcuno che non solo ha rivitalizzato l’ambiente letterario della città, ma ha anche fatto tantissimo per aiutare negli studi i giovani più disagiati. Mi accompagna Ilaria Varriale, una giovane traduttrice italiana che sta facendo uno stage non retribuito nella casa editrice di Eggers. Prima di entrare, mentre Ilaria finisce il suo caffè, le chiedo come ha fatto ad arrivare lì. “Dopo un Master in traduzione e qualche anno come redattrice freelance ed editor della narrativa straniera per Transeuropa,” mi racconta, “ero curiosa di vedere come funzionassero le cose altrove. Così ho approfittato di un bando pubblico per il finanziamento di esperienze professionali all’estero, ho scritto un progetto di training editoriale, e quando è arrivato il finanziamento sono partita per San Francisco.”

Prima di entrare nella redazione vera e propria si passa dall’ufficio di ScholarMatch, un’organizzazione non-profit fondata da Eggers nel 2010 per aiutare i ragazzi di famiglie disagiate – soprattutto afroamericani, ispanici e figli di immigrati di prima generazione – ad accedere al college. Il giovane direttore di ScholarMatch, Noel Ramírez, mi spiega come funziona il programma, che mette in contatto il singolo donatore con lo studente beneficiario della donazione, permettendogli di seguirlo fino al diploma. Inoltre l’ufficio di Ramírez fornisce consulenza gratuita ai ragazzi sulla scelta del college, e anche un certo sostegno psicologico alle famiglie, che non sempre accettano di buon grado che i figli si allontanino per andare a studiare. Dal 2010 a oggi, ScholarMatch ha fornito consulenza a più di 100 ragazzi e ha distribuito $274000 in 135 borse di studio. E i numeri continuano a crescere. Mentre lo ascolto ammirata, Ramírez mi passa opuscoli in cui i donatori e i beneficiari raccontano entusiasti della loro “collaborazione”, altri con il prospetto finanziario dell’organizzazione, con numeri e percentuali (22 sono i volontari che lavorano con gli studenti; l’88% dei beneficiari sono i primi della loro famiglia a frequentare il college; il 67% appartiene a famiglie che vivono sotto la soglia di povertà; il 63% dei finanziamenti viene da donatori individuali, il 26% da fondazioni e solo il 6% da corporation), e altri ancora con la storia dell’organizzazione e gli orari dei corsi e dei seminari di preparazione al college.

Dopo la chiacchierata con Ramírez vengo introdotta nella stanza successiva, dove si trova la sede della casa editrice. Un grande stanzone open space, con i muri di mattoni rossi e tante scrivanie dove tutti lavorano concentrati e silenziosi sulle loro sedie spaiate. Ma ormai le mie riserve sull’estetica hipster di McSweeney’s hanno perso ogni rilevanza davanti all’impegno, alla bravura e al candore disarmante di queste persone. Ilaria continua la sua presentazione: “Qui sono molto bravi a coniugare divisione organica del lavoro e iniziativa creativa, quest’ultima incoraggiata e valorizzata perché genera ritorno economico. Io mi occupo soprattutto di progetti legati alle primissime fasi del lavoro o alla chiusura di una pubblicazione, come selezione delle proposte, copy editing e fact-checking, e nel contempo posso proporre un titolo, un pezzo, qualsiasi cosa che ritenga valida. Gli standard sono altissimi e le proposte approvate poche, ma tutto viene preso in considerazione; la collana di poesia di McSweeney’s, per esempio, è stata creata a partire dall’idea di un intern. Il fatto che la valutazione delle idee individuali sia un momento come gli altri del flusso di lavoro è uno degli aspetti che apprezzo di più di questo posto.”

Vengo presa in consegna da Chelsea Hogue, l’associate editor che mi porta in giro per la stanza e mi presenta tutti. Si alzano, mi sorridono e mi stringono la mano. Sono giovani, gentili e simpatici. Clara Sankey, la giovane assistente di Eggers, è seduta vicino alla cave di Dave, un specie di cubicolo chiuso da una tenda dove il fondatore ha il suo ufficio. Clara mi informa, premurosa, che se voglio può chiedere a Dave di uscire a incontrarmi, ma io preferisco non rubargli tempo. Sono curiosa di continuare la mia visita. Dopo aver raccolto il bottino di libri e riviste che Chelsea mi ha generosamente elargito, vengo a mia volta raccolta da Clara, che mi fa attraversare la strada per entrare nel magico mondo hipster del Pirate Store.

Nel 2002 Eggers e l’educatrice Nínive Calegari hanno aperto 826 Valencia, con lo scopo di “aiutare gli studenti dai 6 ai 18 anni a migliorare la qualità della loro scrittura, e gli insegnanti a sviluppare nei loro alunni la passione per la letteratura”. Poiché si trattava di uno spazio a uso commerciale, Eggers e Calegari hanno deciso di aprire un “negozio per pirati”. Dietro il negozio c’è il laboratorio di scrittura, un altro stanzone pieno di grandi tavoli, libri e bambini. Arriviamo mentre si sta concludendo uno dei laboratori di scrittura che i volontari dell’organizzazione tengono qui dentro tre volte al giorno. I programmi sono numerosissimi ed esaltanti. Quello a cui assisto io è un field trip, una mattinata in cui un’intera classe di una scuola pubblica cittadina (quelle frequentate dai meno abbienti, perché spesso ingiustamente ritenute di scarsa qualità e quindi scartate dai ricchi in favore delle costosissime scuole private) visita 826 Valencia per discutere con uno scrittore locale o partecipare a un laboratorio di poesia o di giornalismo. I laboratori più popolari sono Storytelling e Bookmaking, durante i quali gli studenti scrivono tutti insieme una storia dal finale sospeso, e poi scrivono individualmente il proprio finale con l’aiuto dei volontari. Infine un disegnatore prepara un libretto illustrato e rilegato per ciascuno studente, che potrà così tornare a casa con la propria creazione. Clara mi mostra alcuni libretti, che sono splendidi, e mi spiega che oggi purtroppo manca “l’editor”, un volontario vestito da pirata che ogni tanto spunta sbraitando da una botola nel soffitto, ma che alla fine approva bonario tutti i progetti. 826 Valencia offre anche aiuto con i compiti, laboratori all’interno delle scuole e sostegno ai giovani scrittori, con progetti come il Young Authors’ Book Project, grazie al quale ogni anno un personaggio famoso (Khaled Hosseini, Amy Tan, Isabel Allende, Robin Williams, l’ex sindaco di San Francisco Gavin Newsom) presta il proprio nome come sponsor per un’antologia di scritti degli studenti di una scuola particolarmente a rischio (le scuole pubbliche, se non raggiungono un determinato punteggio nella valutazione degli studenti, perdono finanziamenti e possono venire chiuse. L’efficacia del sistema di valutazione è al centro di un dibattito che si sta facendo sempre più intenso). Gli studenti lavorano insieme ai tutor di Valencia per perfezionare i loro scritti, e poi il libro esce con l’introduzione dello sponsor.

Tutto questo, e moltissimo altro, viene fornito gratuitamente. 826 Valencia lavora con più di 6000 studenti all’anno e impiega più di 1700 volontari. Nel corso degli anni sono state aperte sette “filiali” in giro per il paese, a New York, Chicago, Ann Arbor, Seattle, Los Angeles, Boston e Washington, D.C. Nel 2010, 22000 studenti hanno usufruito dei programmi degli “826 chapters” in giro per la nazione.

Eggers e Calegari sono arrivati in Valencia Street più di dieci anni fa, quando questa zona era ancora molto malfamata, ben lontana dal boom che sta attraversando adesso. Hanno rappresentato l’avanguardia di una certa estetica hipster in campo letterario, eppure in un certo senso appartengono ancora alla “vecchia” San Francisco, a quella schiera di “scrittori, artisti, attivisti, ambientalisti, eccentrici e altri che non lavorano sessanta ore alla settimana per le corporation” di cui parla Solnit. Appartengono ancora alla gloriosa tradizione della filantropia americana, quella che dona generosamente il proprio denaro e il proprio tempo per sostenere progetti di valore sociale, artistico o ambientale. I giovani milionari di Silicon Valley, al contrario, sono generalmente poco inclini alla filantropia e per nulla interessati a impegnarsi all’interno della comunità in cui vivono, con il risultato di accelerare lo sfaldamento sociale già intensificato dall’abnorme afflusso di denaro proveniente dalle loro tasche. Tra queste due concezioni del “nuovo” nell’arte – una “nuova” estetica per un’arte “tradizionale” che in quanto tale può essere già considerata vecchia, e una nuova idea di tecnologia come arte del nuovo millennio – non ci sono dubbi su quale vincerà, su quale probabilmente ha già vinto. Io, intanto, andrò a fare la volontaria nel negozio di pirati.

[Le foto dei graffiti sono state tratte da qui]