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Fare l’indiano

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ZIPPO-NATIVE di Gianni Biondillo

(Lo scorso anno mi fu chiesto da Ranieri Polese un pezzo per il suo Almanacco che quell’anno aveva come tema l’editoria. Decisi perciò di parlare della mia esperienza sul web. Le cose che ora riporto qui non sono una novità per i lettori della rete, ma furono scritte come compendio per quelli della carta stampata. Le condivido ora in prossimità del decennale come viatico della festa. G.B.)

 

Il dibattito culturale nel web per me – che non sono uno storico, che racconto queste cose quasi a memoria, senza neppure andare a consultare alcunché – inizia con La Società delle menti, rubrica fissa del portale Clarence. Non ricordo neppure se era il 2001 o l’anno appresso. Ho saputo poi che di letteratura, sociologia, filosofia, arte, etc. se ne parlava già prima, prima ancora della diffusione del web, con le BBS, con il Luther Blissett Project e con tante altre esperienze e aggregazioni attorno al nuovo mezzo tecnologico, nuovo per davvero, oggi quasi non ce ne rendiamo conto: rammento, per dire, che mi sentivo quasi un iniziato quando andavo al Centro di Calcolo del Politecnico per potermi connettere nella rete universitaria (sarà stato attorno al 1990) e comunicare con un amico che studiava alla Pennsylvania State University. Roba da film di fantascienza. Ho visto nascere il World Wide Web, ho consultato Internet anche dopo essermi laureato, l’ho usata come una gigantesca edizione delle pagine gialle, da architetto come strumento di lavoro, ma mai come qualcosa di strettamente connesso al dibattito culturale. Da questo punto di vista ero ancora troppo legato all’idea romantica delle riviste cartacee che leggevo (Nuovi Argomenti, Alfabeta, Linea d’ombra) o alla “terza pagina” dei quotidiani. Terza pagina spostata sempre più in fondo, che diventava decima, ventesima, al punto che oggi aspetto solo che venga dislocata dietro le pagine sportive, in fondo, assieme all’oroscopo, per poi sparire del tutto, definitivamente.

Credo cercai su Altavista (Google ancora non aveva preso piede) qualcosa attorno alla raccolta di poesie Nelle galassie oggi come oggi. Covers di Montanari, Nove e Scarpa. Trovai un pezzo di Giuseppe Genna. Divenne il mio appuntamento quotidiano. Ogni mattina, a studio, prima di scartabellare pratiche edilizie o di mettermi a disegnare passavo dalla Società delle Menti a vedere che aria tirava. C’era nella gestione – al contempo pop e culta – dei temi trattati da Genna una passione che sembrava ormai scomparsa dalle succitate terze (ma sempre più in fondo) pagine culturali, che apparivano al confronto bolse, rigide, ingessate. Devo dire che a distanza di oltre un decennio Genna da una parte e il collettivo Wu Ming dall’altra, restano sempre un passo avanti nella scoperta e declinazione ad uso culturale delle nuove tecnologie (Facebook, Twitter, etc.). Ma quello che all’epoca non sapevo è che da lì a poco mi ci sarei ritrovato immerso fino alla cintola anch’io.

Perché ancora non sapevo che nel novembre del 2001, dopo lo shock degli attentati terroristici dell’11 settembre, un gruppo di scrittori, poeti, intellettuali, aveva deciso di organizzare un convegno per fare il punto della situazione. Scrivere sul fronte occidentale, si chiamava quel guardarsi negli occhi. Decisero di utilizzare i proventi del libro che ne nacque per mettere on line una rivista, utilizzando uno strumento ancora poco frequentato in Italia, che permetteva a chiunque di pubblicare, “postare”, senza particolari conoscenze informatiche, contenuti sul web. Un blog. Inutile dire che a gestire l’operazione fu proprio Giuseppe Genna, il quale, all’ultimo, decise di defilarsi dal progetto per portare avanti una sua pagina personale. Così nacque Nazione Indiana, nel marzo del 2003. La cosa curiosa è che in teoria doveva essere rivista on line senza commenti. Ma per un errore di gestione i commenti furono lasciati aperti, credo se ne accorse Christian Raimo che ne lasciò uno, da casa sua a Roma.

Seguii subito Nazione Indiana come qualcosa di davvero nuovo, dirompente. Autori più o meno miei coetanei, che non riuscivano a trovare spazio nelle asfittiche pagine culturali, al posto di lagnarsi dello status quo intraprendevano percorsi alternativi, scevri da autocompiacimenti, reciproci favori, “marchette” editoriali. (Per inciso: ancora oggi vige su Nazione Indiana l’imperativo di non pubblicare recensioni che parlino di opere dei redattori o vicendevoli elogi, così come non abbiamo mai optato né per l’utilizzo di piattaforme gratuite, che implicavano la perdita della proprietà dei contenuti che abbiamo sempre considerato Creative Common, né abbiamo mai voluto pubblicità di alcuna sorta, sobbarcandoci gli oneri finanziari del progetto, rendendolo così libero da ogni eventuale, involontaria o meno, pressione esterna).

Il blog nacque in marzo. Solo a settembre, non ostante la frequentazione quotidiana, pubblicai il mio primo commento. Sentivo, ormai, di far parte di questa comunità che si disinteressava a quel principio di autorità (e autorialità) che bloccava il dibattito cartaceo e che invece, orizzontalmente, metteva assieme autori e lettori, scrittori e utenti. Il mio primo pezzo, nell’aprile 2004, fu pubblicato di rapina da Tiziano Scarpa. Si innamorò di un mio lungo e ironico commento e decise di trasformarlo in un post. In seguito postai i miei pezzi ospitato da Dario Voltolini, o da un giovane giornalista campano free lance che scriveva cose inaudite e rabbiose, Roberto Saviano. Pochi mesi dopo ricevetti l’invito di far parte della redazione. La cosa interessante è che io non conoscevo di persona praticamente nessuno. Lo racconto perché trovo in qualche modo esemplare, tipico, il modo in cui sono stato arruolato. Nel corso degli anni i redattori si sono avvicendati, alcuni, nel 2006 – fra cui Scarpa stesso, Antonio Moresco, Carla Benedetti (soci fondatori e appassionate anime critiche del blog) – lasciarono Nazione Indiana per contrasti interni. Contrasti espliciti, dichiarati, pubblicati sul sito stesso, nel quale nacque una discussione calda e coinvolta. Altri se ne sono aggiunti, invitati di volta in volta dalla redazione. Dei soci fondatori, dopo nove anni, sono rimasti solo Andrea Inglese e Helena Janeczeck. Eppure, non ostante la più antica critica al blog sia sempre stata che “Nazione Indiana non è più quella di una volta” (ce lo siamo sentiti ripetere già a pochi mesi dalla nascita), credo che lo spirito del blog, la sua tonalità, le sue modalità, i suoi intenti siano sempre gli stessi. Sogno, di mio, una Nazione Indiana dove nessuno dei presenti redattori sia a firmarlo, nelle mani di 20 giovani redattori, sconosciuti, pronti a portare avanti il progetto.

Progetto che, sinceramente, agli albori era visto dalla critica ufficiale, accademica, come qualcosa di curioso e poco interessante. Poco più di un covo di letterati freak frustrati. La stessa modalità dei commenti aperti, la critica spesso ingenerosa ai pezzi pubblicati che ne nasceva, inorridiva la vecchia guardia. E tutt’ora urtica. Anche perché, ammettiamolo, una sorta di male interpretata idea di libertà che circola dalla sua nascita su Internet trasforma, spesso, il web in un far west dove tutti possono dire tutto, trivialità, insulti, aggressioni, nascosti dietro l’anonimato non tanto del nome (mai avuto problemi a relazionarmi coi nickname) ma del corpo. Discutere così, a botta calda, senza guardarsi in faccia aiuta i livorosi – i “leoni da tastiera” li ha chiamati Wu Ming 3 – a scatenarsi, trasformando, spesso, lo spazio dei commenti, in tutti i blog, in un defecatoio dove c’è chi, per fare un esempio, spiega il teorema di Pitagora e chi, come se fosse sensato, dice di non essere d’accordo col filosofo greco. Ma altrettanto spesso non è così. Per me molte discussioni con gli utenti si sono trasformate in luoghi di arricchimento, di scoperta, di condivisione. Ecco, quest’aspetto giustifica, da sempre, la ragione dei commenti aperti, anche se per noi redattori significa una continua attenzione a evitare che le discussioni deraglino nell’insulto gratuito, spesso nei confronti dei meno bellicosi (io ho una procedura standard: gli insulti a me rivolti li tengo tutti, ma se viene maltrattato un mio ospite non ho problemi a cancellare il commento ingiurioso).

Parlo di Nazione Indiana ma questo racconto andrebbe allargato all’intero sistema di blog e siti letterari e culturali che nel frattempo stavano nascendo in quegli anni. Ognuno con la propria identità. Come Vibrisse di Giulio Mozzi (precursore e grande pioniere del mezzo), Zibaldoni, Carmilla on line, nata per trasferire in rete una rivista cartacea diretta da Valerio Evangelisti, o come Lipperatura, blog di Loredana Lipperini dal taglio giornalistico, Minima et Moralia, La poesia e lo spirito, La dimora del tempo sospeso, Absoluteville, Il primo amore, fondato dagli autori che uscirono da Nazione Indiana, e tanti altri. L’elenco, il blogroll, è lungo e meriterebbe di essere fatto per intero. Anche perché l’insieme dei blog culturali ha da subito “fatto rete”: autori di un sito hanno pubblicato su un altro, oppure si sono spostati da una redazione ad un’altra, ci si è letti a vicenda, anche polemizzato, ma più spesso collaborato. Cercato, cioè, di fare massa critica.

Il “vecchio mondo” – fatto di critici, giornalisti, scrittori, editori – legato a ritualità novecentesche, iniziò, con lentezza e farragine a sentire il peso di questa avanguardia sgangherata che dibatteva animosamente in rete. Me ne resi conto un giorno, in libreria, quando vidi il libro di un giovane scrittore che nella quarta di copertina al posto di citare firme prestigiose della carta stampata metteva in bella evidenza i commenti positivi ricevuti dai lit-blog. “Ormai al mattino” mi disse un redattore di una grande casa editrice “iniziamo la nostra rassegna stampa accendendo il computer: cosa pubblica oggi Nazione indiana? Cosa Carmilla?”

Il lavoro di scouting fatto dalla rete in questi Anni Zero, dove l’editoria classica sembrava sempre più ridotta a fare cassa inseguendo gli umori del momento e chiudendo perciò tutti gli spazi possibili a scritture altre, differenti, è stato enorme. Pensiamo solo a come la più reietta, dall’editoria, delle attività di scrittura, la poesia, abbia trovato uno spazio dove esprimersi per davvero. Dalla rete sono nati autori che poi hanno trovato sbocchi editoriali. La rete ha dato attenzione ad autori che altrimenti rischiavano la smemoratezza. Anche autori internazionali, di enorme spessore (e qui, con un orgoglio un po’ beota, non ho vergogna a ricordare le traduzioni inedite di autori straordinari fatte su Nazione Indiana e poi ripubblicate, senza autorizzazione, dalla carta stampata. O i premi Nobel sconosciuti dalle pagine culturali nazionali che da noi avevano da tempo trovato spazio e recensioni).

Insomma, qualcosa era cambiato. Agli albori capitava sovente che pezzi pubblicati sui quotidiani venissero poi riproposti dalla rete. Nel tempo accadeva sempre più spesso il contrario: discussioni scaturite dalla rete diventavano argomenti della carta stampata. Esemplare il dibattito sul New Italian Epic che nacque in rete dal testo dei Wu Ming e che si propagò ben oltre il web diventando tema di convegni universitari non solo nazionali. E sempre più spesso autori, critici, accademici curiosi iniziarono a guardare alla rete con maggiore attenzione, intervenendo dapprima magari con automatismi professorali subito cassati da chi in rete ci stava da anni (e che ora un po’ si atteggiava da carbonaro detentore della netiquette) e poi sempre più vicino ai nuovi linguaggi e modalità. In questo modo sono nate altre realtà come DoppioZero, Le parole e le cose, Alfabeta2, etc. così come chi aveva battuto da subito la strada del virtuale ha nel tempo cercato altre inclusive pratiche di scambio culturale: iniziative editoriali “tradizionali” – Il Primo Amore che diventa rivista cartacea, così come lo è Alfabeta2 –  “miste”, come le Murene, librettini pubblicati da Nazione Indiana ai quali abbonarsi on line (senza cioè la classica distribuzione in libreria) – ebook, performance, manifesti – penso all’attività del movimento Generazione TQ -, marce da nord a sud del paese – il “Cammina Cammina” organizzata da Il Primo amore -, ritrovi – penso alle Feste Indiane svolte al Castello di Malaspina in Lunigiana e all’Arci Bellezza di Milano -, e tanto altro ancora.

Questo per dire che ormai quelle che apparivano barriere pregiudiziali che definivano spazi incapaci di comunicare fra di loro, opposti quasi, si sono dimostrate fortunatamente fragili, creando così un modo inclusivo di concepire il campo della cultura, più ampio, variegato, ricco. Fatto di continui feedback fra i vari dispositivi di diffusione della cultura non maggioritaria, non pacificata, non arresa ai modelli omologanti imposti da un centro politico e ideologico che in questi anni difficili ha banalizzato e reso marginale l’idea di cultura in Italia.

Nazione Indiana ha nove anni. Non so se ci sarà ancora fra nove anni. Non so neppure cosa farò io fra nove anni, magari mi dedicherò alla danza classica, chi può saperlo. Nove anni di vita, sul web, sono un’era geologica. So che questi nove anni, a guardarli ora, retrospettivamente – ora che mentre scrivo queste righe do un occhio alla posta elettronica, leggo un messaggio su skype, controllo gli aggiornamenti sui vari lit-blog, rispondo ad un commento –  a guardarli, tutti assieme, mi sembrano passati in un soffio. Gli oltre settemila post pubblicati e le decine di migliaia di contatti unici mensili, invece, mi ricordano il lavoro enorme di resistenza culturale che siamo riusciti, redattori, ospiti e lettori, a produrre, tutti assieme. Gratis, senza alcun tornaconto, per pura militanza, per pura, anarchica felicità. Per amore.

 

(pubblicato col titolo C’era una volta il blog. E poi gli indiani uscirono dalle riserve, in: Fare libri. Come cambia il mestiere dell’editore, (a cura di) Ranieri Polese, Guanda, 2012)

Tra gnomi e troll

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di Francesca Matteoni

 

nani delle caverne

A metà degli anni Ottanta io ero una bambina fervidamente innamorata della lettura e dei mondi che in lei si dischiudevano. Per la festa della Prima Comunione, in mezzo a noiosa paccottiglia d’oro, apparvero due libri, uno sulla storia delle civiltà antiche, l’altro di fiabe della buonanotte. Inutile dire che sono gli unici doni sopravvissuti e amati, oltre alla medaglietta proveniente da mia nonna. Li lessi quella primavera. Il libro di fiabe aveva illustrazioni piacevoli e ordinarie, di bambini, giocattoli, luoghi, folletti. Una in particolar modo, tuttavia, mi rimase impressa, per la malignità della creatura che vi era ritratta: un nano dal mento aguzzo, che richiudeva guardingo il passaggio di roccia nella montagna. All’interno della montagna i nani accumulavano tesori, per lo più rubati agli esseri umani, almeno così diceva la storia. L’unica luce che riverberava dentro le caverne era quella delle pietre preziose e delle monete. Nella quasi totale oscurità i nani si muovevano benissimo e potevano intrappolare per sempre il malcapitato visitatore umano che fosse giunto lì, spinto dal caso o dalla curiosità. Non erano creature raccomandabili e avevano tutt’altra indole rispetto agli unici nani magici che conoscevo, i sette dell’adattamento disneyano della fiaba di Biancaneve. Questo nano malevolo era un lontano parente degli esseri ctonii della mitologia germanica, abitatori di caverne, fabbri e custodi di tesori, e anche dei nani nella Terra di Mezzo tolkieniana, che forgiano metalli nelle profondità delle montagne, ma privo del loro orgoglio e dei tratti eroici. Molto più della storia, mi interessava l’inquietudine, seppure leggera, che derivava da quella figura grifagna, qualcosa che avrei ricercato anche in seguito, leggendo di abitanti delle foreste e delle rocce, cercandoli nelle illustrazioni.

Buon compleanno, Sergio Pitol

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elviaje

di Davide Orecchio

Sergio Pitol compie 80 anni. Fioccano gli articoli e gli omaggi al più colto ed erudito degli scrittori messicani viventi, traduttore di Conrad, Gombrowicz, Nabokov, Austen e James, tra i primi a sperimentare l’autofiction, autore di racconti perfetti, romanzi indimenticabili, biografie letterarie, diari di viaggio. Un creatore di generi e “maestro involontario”, come riconosce lo spagnolo Enrique Vila-Matas:

“Pitol mi ha aperto porte, mi ha mostrato sentieri della letteratura e gli devo quello che sono e ciò che non sono. Lo considero il mio maestro”.

10 anni fuori dalla pozzanghera: programma

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NI-IPA-cut-700x344La festa dei dieci anni ha, incredibilmente, un programma di massima in divenire: invitiamo tutti i redattori presenti e passati di Nazione Indiana e de Il Primo Amore, i lettori e tutti coloro che vorranno partecipare al Teatro I di Milano (via Gaudenzio Ferrari angolo via Conca del Naviglio) sabato 23 marzo, dalle 15.00 alle 23.

Programma provvisorio in divenire:

10 anni fuori dalla pozzanghera

15:00 – Lettura primo post di nazione indiana + presentazione dei blog Nazione Indiana e Primo Amore

15:30 – Fare rete, fare blog
Il blog, come strumento e modalità di discorso, riesce ancora a mappare il presente e a connettere le realtà più interessanti o sta attraversando una crisi? è un trampolino di lancio o una spina nel fianco dell’industria culturale? I principi etici che stanno alla base di molti blog in che modo saranno utili alla loro sopravvivenza e/o a un possibile rilancio?
Modera: Mario de Santis (Radio Capital). Partecipano: Jan Reister, Sergio Baratto, Gianni Biondillo, Vanni Santoni.

17:00 – Scrivere in rete rende più spericolati?
Che impatto ha avuto la scrittura in rete, in virtù del suo formato e delle sue specifiche modalità di ricezione sui generi letterari, da quelli del giornalismo culturale a quelli della scrittura narrativa, saggistica e poetica? Possiamo parlare di una ridefinizione delle frontiere di genere, o di una riattualizzazione salutare di molte forme di scrittura che andavano incontro a un evidente declino?

Modera: Annarita Briganti (Repubblica). Partecipano: Andrea Inglese, Carla Benedetti, Helena Janeczek, Alessandro Gazoia (jumpinshark).

18.30 – Scrivere senza rete: un dialogo tra Walter Siti e Antonio Moresco

19:45 – rinfresco

21:00 – videopoesia con Biagio Cepollaro e Emanuele Magri

21.45 – Marco Rovelli e la sua chitarra: storie di uomini in attitudine di sogno e di combattimento

22.30 Inderogabile chiusura


Saranno presenti, tra gli altri, molti e illustri: l’equipe di Writers, Alessandro Bertante, Giuseppe Catozzella, Gabriella Fuschini, Renata Morresi, Serena Gaudino, Alessandro Broggi, Maria Cerino, Antonio Sparzani, Giacomo Sartori, Silvia Contarini, Teo Lorini, Rinaldo Censi, Francesco Forlani, Davide Orecchio, Maria Luisa Venuta, Giuseppe Zucco, Franz Krauspenhaar, Anna Ruchat, Giovanni Giovannetti.

Il coltello di Lichtenberg

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di Domenico Pinto

Lord_Jim_03«Volevano i fatti. I fatti! Esigevano fatti da lui, come se i fatti potessero spiegare alcunché», osserva il narratore nel capolavoro di Conrad, quando Jim sta alla sbarra per aver abbandonato il piroscafo dov’era primo ufficiale. Il più ancipite eroe della modernità soggiace al giudizio della Storia, lui che ha lasciato una nave che in verità non affonda

Atlantide, Il Grande Dittatore e un dubbio capitale sulla scrittura collettiva – Una lettera a Vanni Santoni

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di Giuseppe Zucco

Mappa immaginaria di Atlantide tratta dal Mundus Subterraneus di Athanasius Kircher, pubblicato ad Amsterdam nel 1665, la mappa è orientata con il Nord verso il basso.
Mappa immaginaria di Atlantide tratta dal Mundus Subterraneus di Athanasius Kircher, pubblicato ad Amsterdam nel 1665, la mappa è orientata con il Nord verso il basso.

Caro Vanni,

domenica scorsa incontro un tuo lungo articolo su La Lettura del Corriere della sera, e affrontando quest’ultimo lo strano caso della scrittura collettiva, un argomento e una modalità di composizione letteraria che affiora ciclicamente nei punti più disparati dell’oceano della letteratura, un’isola tipo Atlantide, con i suoi fasti e le sue cupole dorate che balenano negli occhi di qualche avventuriero per pochi istanti prima di inabissarsi ancora tra i flutti, mi ci sono calato dentro, cercando di avvistare la stessa isola dalla prua del mio divano.

Del resto, è un luogo comune, ormai, anche se il più difficile da conseguire: fare letteratura, perdere giorni sonno forze dietro le continue evoluzioni dei personaggi e della lingua – dei personaggi dentro la lingua, della lingua dentro i personaggi – riesce davvero solo se chi scrive, forzando la propria natura, bucando il guscio di granito in cui prospera incontrastato Il Grande Dittatore del proprio Io, riesca a connettersi a tutto e ogni cosa, dalla materia inerte alla più insignificante creatura alla più lontana esplosione stellare. E scrivere a più mani, da subito, nel furioso e diacronico battere sui tasti di un numero elevato di dita, rende evidente una tra le possibili soluzioni al problema, non fosse altro che Il Grande Dittatore da solista si trova a cantare in coro, guardandosi per forza di cose intorno e tentando di accordare la propria voce a quella degli altri partecipanti alla scrittura. Non è un caso, infatti, che nell’articolo si parli di concertazione nella produzione di un testo: più voci, fondendosi, corrompendosi, modulando ognuna in funzione delle altre, avverano una nuova trama, una nuova tessitura, una nuova composizione in cui un mondo – reale o presunto, minuto o espanso, nella sua ineguagliabile stilizzazione e complessità – trova un senso o lo disperde, lasciando ai propri lettori la sensazione che la vita sia questa festa mobile, per dirla con Hemingway, o la migliore catastrofe in cui avventurarsi o battere i denti.

Da parte mia, andando indietro nella storia della letteratura, sebbene con qualche forzatura, ho sempre inteso la scrittura collettiva come un’officina di letteratura potenziale, la formula con cui i componenti dell’OuLiPo, nel 1960, definivano la letteratura che veniva fuori da una scrittura vincolata, dove i vincoli, le restrizioni, i contraintes, le regole categoriche adottate convenzionalmente prima di mettersi a scrivere – George Perec, per esempio, venne a capo di un intero romanzo senza mai usare la lettera e – costringevano gli scrittori a battere nuove piste, altri modi per affrontare la realtà, il verosimile o il suo contrario. E scrivere in 115, come è capitato a te, mettendo a punto un metodo, convogliando in un unico e coerente risultato le spinte centrifughe a cui porta il furioso e diacronico battere sui tasti di molteplici dita, non è altro che consegnarsi a questa enorme costrizione, tentando di tramutarla da vincolo in risorsa, rendendola più che altro produttiva di idee e soluzioni. Per essere parecchio vintage, questa costrizione non sarebbe altro che una musa, in fondo.

Ma continuando la lettura dell’articolo, oltre a incrociare un illuminante excursus di come la scrittura collettiva abbia trovato in Italia un terreno particolarmente fertile, abbondano tutta una serie di riferimenti ai software open source e all’intelligenza collettiva della rete, certo, alle similitudini con le botteghe rinascimentali come officine di creazione e luoghi di confronto e pianificazione, va bene, alla palestra in cui possono consapevolmente accedere perfetti sconosciuti per diventare poi gli artisti di un prossimo futuro, giustissimo, alla messa in ombra degli aspetti più deleteri e velenosi dell’autore al tempo della società dello spettacolo, senz’altro, alla constatazione che ogni testo è una produzione collettiva a cui concorrono le più diverse e troppe volte anonime professionalità, ok.

E la letteratura? E la fuoriuscita dal proprio Io e la connessione a tutto e ogni cosa? E il mondo e l’assegnazione o la dispersione di senso?

In un attimo scorgo Atlantide, poi volutamente la perdo di vista, non inseguendo più le cupole dorate, ma un dubbio capitale. Che la scrittura collettiva, molto più della scrittura sostenuta in completa solitudine, sia una sfida artistica così impegnativa da un punto di vista psicologico, così sfiancante in campo relazionale, così snervante per la ricerca continua di equilibrio e compromesso tra le parti in causa, che alla fine chi la pratica sostituisce il fine, la letteratura, al mezzo per arrivarci, il metodo di scrittura collettiva – diventato a questo punto un valore, un valore assoluto.

Tra l’altro, lo dici molto chiaramente nell’articolo. Due erano i nostri obiettivi: codificare un metodo di scrittura collettiva che potesse essere usato da chiunque, per qualunque tipo di testo narrativo, e utilizzarlo per realizzare un romanzo a molte mani che fosse sufficientemente valido da arrivare alla pubblicazione con un editore di primo piano.

Ed è proprio a questo punto che il dubbio iniziale ne produce molti altri: possibile che a una simile profusione di forze e immaginazione collettiva debba seguire un risultato piccolo piccolo, cioè un romanzo sufficientemente valido da arrivare alla pubblicazione? E la scommessa, l’ambizione dei risultati? Dove differirebbe questo romanzo rispetto a quello scritto da un unico scrittore, nel numero dei suoi autori? E non è questo un modo per prestare il fianco al mercato piuttosto che alla letteratura? Non è che messa così, i 115 autori, evidenziati in grassetto, manipolati pubblicitariamente come un fenomeno da guinness dei primati, diventano un’arma del marketing e della promozione editoriale invece che un setaccio raffinatissimo delle ossessioni umane?

Io non so se riuscirei mai a partecipare a un progetto di scrittura collettiva. Mi sembra già così complicato, alle volte, allineare le parole in completa solitudine cercando il giusto modo di dire le cose. Mi sembra, alle volte, che il Grande Dittatore mi reclami a sé e che io non riesca fino a fondo a uscire dal suo guscio o, a mali estremi, rendere l’interno di quel guscio un mondo angusto però abitabile – di Ferdinand Céline, in fondo, ce n’è stato uno, e pochi come lui. Ma la scrittura collettiva, secondo me, se spinta al vertice delle sue possibilità, anche se tra mille complicazioni, ha modo di ovviare con molta più forza e decisione questo problema. C’è in gioco la possibilità di connettersi ancora più profondamente a tutto e ogni cosa. Anche se Atlantide, nell’orizzonte di questo articolo, è balenata davvero troppo poco in bella vista.

diaforia: rivista, sito, progetto

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[dia•foria  è una rivista di arti e letteratura versiliese, nata alla fine del 2010 da un progetto di Daniele Poletti. Rivista è però un’etichetta di comodo, infatti ogni numero (finora ne sono usciti 9) è monografico e muta tipo-graficamente di volta in volta, per vestire meglio il contenuto che va ad affrontare. Mutevole e ampio è anche lo spettro di interessi del progetto, tale da abbracciare la cultura nel senso più ampio possibile.

Pierre Drieu La Rochelle. Morte di un delicato.

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di Francesco Filia

Si scrive veramente con l’inchiostro o con il sangue? Che rapporto c’è tra vita e scrittura? Tra esistenza e parola ? Queste domande attraversano l’intera esistenza di Pierre Drieu La Rochelle (13 gennaio 1893 – 15 marzo 1945) fino al suicidio, avvenuto in una casa di campagna, nei pressi di Parigi, alla fine della guerra che lui, collaborazionista, ha interamente percorso dalla parte sbagliata e da cui trae le estreme conseguenze, senza cadere nel melodramma del pentimento. Ma ridurre la fine di Drieu al dato storico sociologico, che pur è presente, di una sconfitta politica, sarebbe non comprendere il cuore del suo percorso artistico e intellettuale. Nella sua opera si agitano e si mostrano, nella loro terribile limpidezza, le questioni che dilaniano la vita di ogni uomo, lo sappia o no. Può essere concepita la vita senza la distruzione? O, meglio, senza l’autodistruzione? Ha senso continuare a vivere oltre la soglia fatidica della giovinezza, sopravviverle? Tradire ciò che si è stati anche solo per un attimo? “Da ragazzo ho giurato a me stesso di rimanere fedele alla mia giovinezza: un giorno ho cercato di mantenere la parola.”

La figura di Drieu è una delle più affascinanti, non solo della letteratura francese, ma anche di tutto il primo novecento, soprattutto per queste domande definitive e inaggirabili, in cui, il fascino dello scrittore e del dandy ammalato di delicatezza si alimentano l’un l’altro, lasciando sempre un che di irrisolto che fa ritornare a leggerlo nuovamente. Forse Drieu come scrittore è incompiuto, perché avrebbe voluto essere scrittore di un solo libro, il libro perfetto, indelebile, “Rimbaud, Lautréamont. Beati gli uomini dai pochi libri: non hanno avuto il tempo di confessarsi, di addomesticarsi ripetendosi” . Invece ha continuato a scrivere, a confessarsi , fino a due giorni prima del suicidio, lasciandoci un ultimo grande testo incompiuto Memorie di Dirk Raspe , biografia romanzata di Vincent Van Gogh, in cui, nell’affinità con il grande pittore olandese, Drieu coglie il cuore di ogni destino artistico, quello di farsi “divorare dalla visione” dell’irrealtà, ossia, da quell’Oltre immanente a ogni cosa che fonda già da sempre quello che noi, per nostra comodità e stoltezza, chiamiamo realtà. Ma la figura di Drieu pone una domanda ancora più inquietante: che senso dare alla nostra vita quando questa, rapita una volta e per sempre dall’atrocità del vero e del bello, inizia a tradirci? Perché per Drieu la vita è degna solo del suo apice e non della decadenza, che pur le è costitutiva e che lui, come gran parte dei suoi personaggi, attraversa sino in fondo. La vita va vissuta nella sua irripetibile selvatichezza, a questa intuizione e non da altro si deve, forse, far risalire le sue scelte politiche scandalose . Il dramma di Drieu e di molti dei personaggi dei suoi libri, che non coincidono mai del tutto con l’autore, è segnato da una doppia impossibilità, quella di esistere autenticamente e di arrendersi al quotidiano, o, se resa c’è, è nelle sue forme più abbiette e autolesionistiche, come estremo gesto di rivolta, folle, patetica e disperata, che però non chiede pietà ma ha l’ambizione, attraverso l’ultimo estremo gesto, di lasciare “una macchia indelebile” su chi resta . Perché quel che conta è solo l’amore, l’ardore dell’esistenza che si sporge oltre se stessa e quando questo slancio vitale si esaurisce, l’amore – e le donne che non si lasciano afferrare, trattenere e anzi sembrano stringere in un assedio che pretende la resa della procreazione – diventa forma vuota, maschera mortuaria e dunque tutto si trasforma in vuoto, in thanatos, in un lento finire che ha solo due vie d’uscita, morire o sopravvivere a se stessi.

Dal confronto tra due opposte possibilità, una richiamante l’altra, nascono pagine tra le più belle dell’intera opera di Drieu, i capitoli di Fuoco fatuo in cui Alain, il protagonista, si confronta, passeggiando per i boulevard di Parigi, con l’amico di un tempo Dubourg, che, a differenza sua, ha accettato il “ritmo elementare della vita”, il caldo rassicurante della quotidianità, simboleggiato dal ventre della moglie che lo accoglie ogni sera nel letto o dall’amore per l’archeologia egizia, amore necrofilo, ma che permette di trovare un interesse per sopravvivere. Dubourg non può salvare Alain, non può distoglierlo dal suo proposito, perché in fondo anche lui sa che sta barando con se stesso (“Dubourg capiva che l’occasione per salvare Alain gli era sfuggita. Si diceva che se fosse veramente sicuro di se stesso, si sarebbe gettato su Alain con brutalità, insultandolo, mettendolo a nudo. Gli avrebbe gridato: ‘Sei mediocre, accetta la tua mediocrità. Rimani a livello che la natura ti ha assegnato. Sei un uomo: per la tua semplice umanità sei, per gli altri, ancora inestimabile'”) . Alain, con la sua sola presenza, mostra le cose per quel che sono, eppure anche Alain sa che in Dubourg c’è l’altro se stesso deformato; è come se i due vecchi amici guardassero nell’altro se stessi in uno specchio e vedessero la strada non presa. In Alain c’è già il distacco di chi si sente finito, in Dubourg il cruccio di chi sopravvivrà, in entrambi le braci sempre più tiepide di un amore per la vita che non ha più di che alimentarsi.

Del suicidio, il tema dei temi nell’opera e nella vita di Drieu, è fin troppo facile parlarne male, giudicarlo come un atto frutto di una qualsivoglia disperazione, vile o un atto contro Dio, come lo giudicano le religioni, ma invece in esso sono in gioco la libertà e il destino. Drieu coglie un aspetto del gesto estremo che nessun atteggiamento strettamente moraleggiante potrà cogliere. Nella possibilità dell’autodistruzione irrompe la questione del sacro, del patto sancito da ogni uomo per il solo fatto di esser nato. Patto sancito con cosa? Come nominare quella forza che ci fa stare al mondo, come corrispondere all’enigma che siamo? Ecco che nella possibilità ultima che la morte evoca e che il suicidio anticipa, irrompe l’alterità, l’estraneità radicale che, per contrasto, ci riguarda più da vicino, fino a toglierci il fiato, fino a toglierci la vita. Alterità che si fa gesto in noi nella vertigine dell’auto distruzione e in tale gesto è raccolto, per un attimo che si fa soglia irrevocabile, tutto ciò che quel singolo uomo è stato, è e, in maniera tragicamente paradossale, sarà ancora per un istante: altezza e bassezza, autocommiserazione e disprezzo di sé, amore immedicabile per la vita e disgusto dei giorni che si ripetono sempre uguali, lucido delirio autarchico (“La vita non andava abbastanza in fretta per me, io l’accelero. La corda si allentava, io la tendo. Sono un uomo. Sono padrone della mia pelle, lo dimostro.”) e estrema consapevolezza dell’impossibilità di bastare a se stessi (“Ma in fondo a te stesso ti credi un delicato. Quanto a me, lo credo, non posso non crederlo. Avrei voluto piacere alla gente, ma mi manca qualcosa. E, in fondo, questo qualcosa mi disgusterebbe.”) e, infine, sapere di non poter uscire dalla propria radicale solitudine e che, per un’inezia o per un vizio, per un piacere unico e irripetibile, diventa un percorso verso la perfezione del morire (“Ebbene, ora l’ho capito, la solitudine è il cammino del suicidio o almeno il cammino della morte. Nella solitudine assoluta si prova un piacere unico, superiore a ogni altro, per il mondo e per la vita; è il solo modo per gustare fino in fondo un fiore, un albero, una nuvola, gli animali, gli uomini, anche quando passano lontano da noi, e le donne; ma è la china lungo la quale ci si perde”) . La via della bellezza è la via della morte, in questa equazione sembra riecheggiare la sapienza platonica del Simposio, del Fedone e del Fedro. Dove, però, a differenza di Platone, la psicagogia non porta ad una anabasi salvifica, ma ad una catabasi della Disperazione, non ritrovare se stessi, ma perdersi in maniera definitiva nell’indistinto della morte, come unico modo autentico di essere fedeli all’errore che si è, perdersi nel nero abbagliante del nulla ( vorrei rientrare nella notte senza stelle, nella notte senza dei, la notte che non ha mai portato il giorno nel suo seno, che non ha mai aspirato al giorno, che ha mai prodotto il giorno, la notte, immobile, muta, intatta, la notte che non è mai esistita e non esisterà mai. Così sia . In questo senso il suicidio per Drieu è il rito, nel senso forte del termine, che ci inizia all’enigma dell’esistenza e del mondo, al suo fondo buio, a quel qualcosa che si nasconde dietro a ciò che noi nominiamo nulla e che non si dà in altro modo possibile. L’auto-distruzione fino al gesto estremo, non solo e non tanto come un atto di disperazione, quindi, ma come punto d’arrivo di una logica implacabile, compimento della vera Disperazione strutturale che noi siamo, che non si accontenta del rimorso, della tristezza o del melodramma del ‘se avessi’, ma arriva sino allo strappo finale, lì dove si spezza il nesso tra parola pensiero ed essere, dove la parola si ritrae o, al massimo, arriva postuma e dove, se riesce a dire qualcosa di essenziale, non ha la pretesa di salvare ciò che non può essere salvato .

“Egli è convinto di credere al nulla, pensa di abbandonarsi al nulla, ma sotto questa parola negativa, sotto questa parola approssimativa, sotto questa parola limite c’è qualcosa che gli resta nascosto” . In questi passaggi, rivelatori del pensiero e del vero sentire di Drieu, sembra quasi delinearsi una filosofia neoplatonica, una teologia negativa, il Mónos di cui parla Plotino a cui si può giungere solamente superando la dualità del divenire in una forma di mistica negativa, nel caso di Drieu non ascendente ma discendente e nichilistica . Questa deriva consapevole di Drieu è testimoniata dal diario e dall’ultimo suo libro pubblicato in vita, I cani di paglia , libro di rara sottigliezza analitica e di una bellezza livida, che prende il titolo da una frase del Daodejing di Laozi posta in epigrafe , in cui la crudeltà dell’esistenza è connaturata alla condizione umana, che sembra essere un esperimento del destino in mano a forze sconosciute dove ognuno – il collaborazionista, il traditore, il comunista, il gollista – in situazioni limite, come quelle della Francia occupata dai nazisti, fa i conti tragicamente con ciò che è, con il carattere che lo abita, che lo possiede, al di là di ciò che vorrebbe essere, al di là della sua volontà .

Drieu alla fine dei suoi giorni sente il fascino di un pensiero originario che lo possa liberare dal carcere dell’esistenza e, di volta in volta, questa liberazione si presenta sotto forme diverse, dalla filosofia neoplatonica alla sapienza evangelica, dalla mistica alla teologia negativa, dai Veda all’Upanishad e al Taoismo, vie che però, al di là delle intenzioni dello stesso Drieu, non potranno mai essere abbracciate da lui, letterato fino al midollo , che ha riversato tutto il suo sangue nell’inchiostro della scrittura, scrittura che non potrà mai contenerlo tutto nonostante il suo amore per la terra, per ogni singolo dettaglio e che, però, alla fine si mostrerà incapace dell’ultima parola che possa dire ciò che parola non è. C’è un’ombra che cade tra la parola e la cosa, è questo il limite disperante di ogni gesto letterario. Drieu quindi è uno scrittore incompiuto non per una sua mancanza soggettiva d’artista, ma perché quel che egli vuole dire si ritrae definitivamente dalla parola, cede il passo a quel che non potrà mai essere nominato. E proprio per la sua radicale alterità e quindi sacralità, più sacro di qualsiasi dio, il nulla o ciò che attraverso esso è, richiede un rito, l’ultimo e il solo, che però non ha il conforto della ripetizione ma l’indicibile vertigine dell’irripetibilità, del mai più, del per sempre .
L’ek-stasi di un delicato, cioè di colui che coglie l’intima violenza e bellezza dello stare al mondo, in un’epoca senza dèi è il suicidio. Il perdersi oltre la dispersione dell’esistenza, l’uscire fuori di sé nel tutto infinito (“L’infinito crea il finito e rimpiange l’infinito.”) ed è al tempo stesso fare i conti per la prima e ultima volta con le cose – attraverso un gesto, questo sì veramente politico – con la muta barriera inscalfibile che le avvolge e che ci avvolge. Fare i conti con la nostra costitutiva sconfitta. “Una pistola è solida, è d’acciaio. È una cosa. Scontrarsi, finalmente, con le cose”. (Pierre Drieu La Rochelle, Fuoco fatuo, cit., p. 115)

 

Tabucchi inquieto

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Antonio Tabucchi, un anno dopo. Per il primo anniversario della morte (avvenuta a Lisbona, il 25 marzo del 2012), i suoi editori stanno mandando in libreria testi di e su Tabucchi (Feltrinelli stampa una raccolta di “Saggi” curata da Anna Dolfi, e “Mi riconosci” di Andrea Bajani che racconta gli ultimi giorni dello scrittore; tutte le opere di Tabucchi pubblicate da Sellerio escono ora in un volume con prefazione di Paolo Mauri). Al ricordo di Tabucchi la Regione Toscana, a Firenze, dedica una tre giorni che si intitola “Dialoghi inquieti“. Il 23 marzo al Teatro Cantiere Florida di Firenze, Versiliadanza mette in scena “Nel tempo di questo infinito minimo io ti dico Good Bye Mr Nightingale”, un’azione teatrale ispirata a “Notturno indiano”. Il giorno dopo, sempre al Florida, è la volta di una maratona di lettura dalle opere di Tabucchi. Al centro della giornata del 25, all’Odeon, ci saranno i rapporti fra letteratura e cinema. La mattina, introdotto da Anna Dolfi, si comincia con “Tristano e Tabucchi”, un raro filmato del 2003 in cui lo scrittore racconta la gestazione del romanzo “Tristano muore”. Nel primo pomeriggio, alla presenza del regista Roberto Faenza, viene proiettato “Sostiene Pereira”. Alla sera, infine, conclusione con la proiezione di “Notturno indiano” di Alain Corneau. Sempre nel pomeriggio porteranno i loro ricordi gli editori Inge Feltrinelli e Antonio Sellerio; gli scrittori Andrea Bajani, Paolo Di Paolo, Romana Petri, Ugo Riccarelli; le studiose dell’opera di Tabucchi, Anna Dolfi e Thea Rimini; e, infine, Antonio Padellaro, direttore de “Il Fatto”, che prima sull'”Unità” poi sul “Fatto” pubblicò gli ultimi interventi politici di Tabucchi.

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video arte #19 – daito manabe

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Daito Manabe, Face Instrument, 2008.

Comme un roman

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Je me souviens
L’homo poeticus dei romanzi
Sul rapporto tra romanzo e memoria
di
Simona Carretta

La memoria, forma ed effetto del romanzo

«Je me souviens», io mi ricordo, è la scritta che figura sulla targa delle automobili di Montréal, città in cui mi trovo a trascorrere qualche giorno per via di un convegno. Il significato originario di questa massima, considerata il motto ufficiale del Québec almeno dal 1883 – quando l’architetto Eugène-Étienne Taché la iscrisse sulla facciata del Parlamento -, è ancora oggi oggetto di varie interpretazioni. Che indichi l’antico legame del Québec con la cultura francofona o semplicemente l’attenzione dei quebecchesi verso il loro bagaglio storico, l’adozione di questa massima esprime, da parte del Québec, l’assunzione della memoria a valore.

Così, anche Montréal, la cui architettura combina stile liberty ed elementi futuristici, cattedrali neogotiche e grattacieli, ma che per alcuni aspetti mi appare come un concentrato della vecchia Europa, stranamente posto fuori dall’Europa (basta entrare in una delle fornitissime librerie del Boulevard Saint-Laurent per ritrovare il cuore della letteratura europea, nello stile delle migliori librerie parigine), si presenta ai miei occhi, che la visitano per la prima volta, come città della memoria.

Se mi soffermo su questo è perché vi scorgo il segno di una piccola coincidenza, dal momento che il convegno a cui sono invitata ha come oggetto proprio il tema della memoria, da esaminare in rapporto al romanzo.
Mentre ci penso, rifletto sul fatto che l’attitudine alla ricerca di corrispondenze, quel filo rosso che permette la connessione tra i ricordi, sembra rispondere ad un tipo di immaginazione che si potrebbe qualificare come romanzesca.
I meccanismi che decidono della reminescenza di un avvenimento, o del suo oblio, non sembrano infatti rispondere a parametri logici, ma ad un altro ordine di criteri, apparentemente particolari e soggettivi: rispondenti al desiderio dell’uomo, più o meno inconscio, di rappresentarsi il proprio vissuto secondo una trama. Sotto questo impulso, la memoria organizza una composizione che accoglie, più facilmente, i ricordi di quei determinati eventi che sembrano confermare quel particolare significato, individuato come chiave di interpretazione dell’esistenza, mentre tende ad escludere gli altri, destinati perciò a cadere nell’oblio.

Qualunque sia il disegno così tratteggiato, che ritragga lo svolgersi di un’esistenza più o meno felice, dalla sua contemplazione l’uomo trae una gratificazione. Questo disegno infatti, a prescindere dagli esatti contenuti della sua rappresentazione, appare, in ogni caso, bello: aggettivo da intendere nel senso di armonioso, compiuto.
Il piacere che se ne trae corrisponde principalmente ad una soddisfazione di natura estetica: la stessa che si prova davanti ad una composizione (figurativa, musicale o letteraria) nella quale ogni elemento trova chiaramente la sua collocazione e che può dirsi, per questo, riuscita.

In questa continua commutazione, ad opera della memoria, di eventi quotidiani o puramente accidentali in un racconto interiore che presenta una struttura coerente si manifesta una profonda tensione umana, in cui si può cogliere – credo – uno slancio etico.
Questo corrisponde alla speranza di poter sempre cogliere, attraverso il turbine degli eventi, la raison d’être di un’esistenza; speranza che sembra raccogliere l’unico residuo forse ancora superstite di ciò che un tempo era la fiducia nel destino. Così l’uomo, forse senza neanche saperlo fino in fondo, stabilisce in ogni momento la propria gerarchia dei ricordi secondo leggi di natura estetica.

Se, da un lato, l’arte del romanzo sembra riflettere i processi della memoria nella definizione delle sue strutture compositive, allo stesso modo, la maniera in cui l’uomo tende ad elaborare i propri ricordi risulta in qualche modo influenzata dalla lettura di opere romanzesche: la stessa capacità di ricordare sembra essere ispirata dai romanzi. Da alcuni in particolari.

«E’ proustiano !» – diciamo, in genere, di un ricordo che improvvisamente ci assale, restituendoci un frammento di vita lontana e, con esso, quel che un tempo eravamo e che credevamo per sempre perduto.
Attraverso i continui andirivieni nella memoria del suo personaggio protagonista (questi salti temporali nel passato o nel futuro, a cui i critici danno il nome di «flashbacks», o «flashforwards») Proust – molto più che la filosofia di Bergson – condiziona la maniera di ricordare propria dell’uomo moderno.
Lo abitua a organizzare la sua memoria per «serie di variazioni su tema» (per riprendere un’espressione cara a Deleuze, lettore della Ricerca): a confrontare, in ogni istante, quel che di nuovo accade con tutti gli episodi precedenti della stessa “serie”; questo, alla ricerca di «segni», cioè di antiche premonizioni che confermino il suo carattere di necessità.

In questa attitudine al confronto con i ricordi si riconosce la cifra artistica dell’universo proustiano, in cui ogni evento assume un senso solo se è possibile rapportarlo ad avvenimenti precedenti.
Per il narratore della Ricerca, la gioia di poter finalmente baciare Albertine non sarebbe la stessa, se non alla luce della disperazione, provata tante volte in passato, di potervi mai riuscire.
La stessa esperienza dell’amore – alla luce di quello che impariamo, leggendo Proust – sembra essere indissociabile dalla possibilità di ricollegare, con il filo d’Arianna della memoria, le relative immagini, e sensazioni, che con il tempo abbiamo accumulato della persona amata.

Per questo, si può dire che Proust abbia scoperto una nuova possibilità della memoria: quella di fungere da detonatore per il riconoscimento delle esperienze di senso (ossia, cariche del valore di necessità); questo, attraverso il rilievo delle coincidenze significative che possono riscontrarsi tra avvenimenti sparsi nel tempo.
La memoria, allora, sta al romanzo come un effetto. Tuttavia, essa vi corrisponde anche come forma, ossia come componente formale necessaria alla realizzazione dell’obiettivo conoscitivo del romanzo: sviluppare una visione dell’esistenza che si mantenga problematica e relativa (una visione dunque alternativa a quella, più sistematica, della scienza, o all’immagine piatta e superficiale della vita veicolata dai media).
A tal fine, l’elemento della memoria svolge un ruolo importante: l’introduzione, nel tempo del romanzo, del tempo passato – ossia, di una dimensione temporale presentata come diversa da quella in cui si svolge la principale storia raccontata – fornisce un’ulteriore angolazione da cui considerare i fenomeni narrati e contribuisce, in tal modo, a problematizzarli.

La stessa scoperta della relatività del tempo – ricordava Bachtin – rappresenta la principale conquista del romanzo ed è connessa alla stessa nascita di quest’arte; in questo elemento consiste, soprattutto, la sua lontananza dall’epos: genere che, invece, descrivendo le gesta degli eroi, presenta la loro epoca come un passato ideale e «assoluto».
Ne Le grandi scomparse. Saggio sulla memoria del romanzo (Les Grandes disparitions. Essai sur la mémoire du roman, PUV, Saint-Denis, 2008), Isabelle Daunais scrive che la propensione ad esaminare il presente attraverso il ricordo del passato, ossia a scoprire il “nuovo” attraverso l’osservazione di quello che un tempo c’era e ora non esiste più, contraddistingue la storia del romanzo, a partire dai suoi più celebri capolavori.

In Don Chisciotte o Madame Bovary, il motore di avvio della storia è costituito proprio dallo smarrimento registrato dai protagonisti, una volta constatata l’impossibilità di vedere corrispondere il mondo in cui vivono al bagaglio delle aspettative personali, quest’ultimo elaborato su modelli ereditati dal passato; che si tratti dei codici in vigore nei romanzi cavallereschi, amati da Don Chisciotte, o del galateo tipico delle storie d’amore ottocentesche, preferite da Emma.

Custodire la memoria poetica

Il romanzo contemporaneo è ancora popolato da figli putativi di Don Chisciotte o Madame Bovary; personaggi, a loro a volta lettori di romanzi, che si ritrovano a sperimentare la distanza tra il mondo di cui parlano quei romanzi e la realtà che li circonda.
Ad esempio, questo è il quadro entro il quale si definisce la vicenda esistenziale di David Kepesh, il protagonista del romanzo di Philip Roth Il professore di desiderio (1977).

Il problema di Kepesh è essenzialmente questo: come riuscire a resistere, quale senso dare alla vita, nel momento in cui ci si rende conto di vivere in un mondo – precisamente, quello occidentale post sessantottino – in cui la logica consumistica, a cui anche i rapporti umani sembrano ormai sottoposti, sembra rendere sempre più difficile non solo la possibilità di costruire delle relazioni d’amore durature, ma anche quella di abbandonarsi spensieratamente alla passione? Questo tormento accompagna il personaggio di Roth per tutto il corso della sua vita erotica: dal periodo della sua prima formazione universitaria trascorsa in Europa – dove si dedica ad una vera e propria tournée di amori libertini, di cui però si stanca presto – al fallimento del matrimonio con Helen, bella e ricca ereditiera che si scopre innamorata molto più dell’idea dell’amore che del marito. Per finire, con l’amara constatazione della natura dispotica che – al pari dei sentimenti – sembra contraddistinguere anche il desiderio, l’attrazione fisica, la cui volubilità può rischiare anch’essa di mettere in pericolo relazioni apparentemente stabili e durature; come quella che, al termini delle sua vicissitudini sentimentali, Kepesh intreccia con la dolce Claire.

A fare da contrappunto al contesto di disordine amoroso in cui si muove Kepesh, l’esempio dei suoi genitori: una classica coppia “vecchio stampo”, che incarna gli ideali di amore eterno e fedeltà reciproca. Non è un caso che – soprattutto nella seconda metà della romanzo – essi vengano descritti come deboli, fragili (verso la fine, la madre di Kepesh muore); in questo modo, essi simboleggiano la condizione di precarietà in cui, ormai, versano gli ideali da loro testimoniati.
Questo scenario conflittuale fa emergere un nuovo dilemma: nel momento in cui quei codici che prima avevano regolato i rapporti tra uomo e donna, tanto le dinamiche dell’amore quanto quelle del desiderio, si sgretolano e questi ultimi allora si manifestano nella loro nudità mostruosa, come forze astratte e ingovernabili, su quale base allora, se non sull’amore, né sulla passione, ciascuno può credere di vedere fondata la sua identità?

Il personaggio di Roth sperimenta questo disorientamento in maniera tanto più intensa non solo perché nato proprio a cavallo di questo cambiamento epocale, ma anche in quanto uomo di lettere.
Kepesh è un docente di letteratura comparata che, proprio nel momento in cui la sua vita amorosa sembra assumere una piega drammatica, si prepara ad organizzare un seminario sul tema del romanzo amoroso; l’intensa lettura dei romanzi a cui si dedica lo porta a confrontare la miseria delle sue esperienze con la storia delle grandi passioni descritte in Anna Karenina o Madame Bovary, o con le avventure licenziose di Henry Miller o Colette, e a trovarla, di conseguenza, ancora più difficile da accettare.

Proprio il ricorso di Kepesh alla letteratura può rappresentare, però, l’ancora di salvataggio contro il disorientamento di cui è vittima.
Anna Karenina (1877) il capolavoro di Tolstoj menzionato dal Professore di desiderio, è anche il libro preferito da Tereza, protagonista del romanzo L’Insostenibile leggerezza dell’essere (1984) di Milan Kundera.
Cameriera di provincia costretta dalla famiglia ad abbandonare gli studi, Tereza è però una lettrice appassionata: nei romanzi, ritrova quella bellezza di cui appare sprovvisto, invece, il mondo della sua prima giovinezza.
Il romanzo di Tolstoj viene menzionato più volte nell’Insostenibile leggerezza dell’essere, fornendo l’occasione per alcune riflessioni sul problema della memoria poetica: questione che contribuisce allo sviluppo del tema principale del romanzo kunderiano, articolato intorno all’opposizione leggerezza-pesantezza.

In particolare, la questione della memoria poetica sta a dimostrare il valore positivo che può assumere anche il polo della «pesantezza», intesa come necessità.
In un inserto del romanzo che si potrebbe definire meditativo, o saggistico, il narratore riflette sulla struttura del capolavoro di Tolstoj, che sembra basata sulla logica delle coincidenze: gli incontri tra Anna e Vronskij sono infatti spesso determinati da circostanze fortuite; la stessa Anna, verso la fine del romanzo, si toglierà la vita gettandosi sotto un treno, così imitando l’uomo ritrovato sui binari il giorno del primo incontro di Anna e Vronskij alla stazione.
Al contrario di quanto si potrebbe pensare – spiega Kundera -, queste coincidenze non dovrebbero indurre a considerare il romanzo di Tolstoj come troppo «romanzesco»; nel senso di falso, artificiale, troppo costruito.
Per Kundera, l’opera tolstoiana si dimostra invece realista nel cogliere l’impulso degli esseri umani a ricercare la presenza di nessi significativi negli eventi apparentemente accidentali, a cercare di costruire la loro esistenza come se fosse un romanzo; ossia, a sviluppare una memoria poetica: «L’uomo senza saperlo compone la propria vita secondo le leggi della bellezza – continua il narratore dell’ L’Insostenibile leggerezza dell’essere – persino nei momenti di più profondo smarrimento».

Nei suoi saggi, Danilo Kiš chiama «Homo poeticus» l’attitudine a cogliere negli eventi contingenti che scandiscono l’esistenza la trama di coincidenze sotterranee; sarebbe stata l’esistenza di questa funzione – la funzione poetica -, presente nell’uomo sin dalle origini, a permettere agli antichi di elaborare i primi racconti mitici, corrispondenti alle prime forme di ipotesi ontologiche.
Questa propensione a sviluppare un’immagine del mondo che non ne riduca il mistero e la complessità, questa mentalità poetica, oggi sempre più oscurata dalla mentalità tecnologica, può essere custodita solo dai romanzi.
Essi ci mettono in guardia dalla scomparsa di Homo poeticus; dal pericolo che può risultare, al fine del raggiungimento di una felicità e della realizzazione personale, dalla perdita della capacità di coltivare una memoria poetica.
Nei romanzi di Kundera e Roth, i personaggi di Tereza e di David Kepesh traggono proprio dalla lettura uno spunto di salvezza.

Nel caso della protagonista dell’Insostenibile leggerezza dell’essere, proprio l’abitudine a leggere le coincidenze come segnali, appresa sulla scorta delle sue letture, la induce ad abbandonarsi alla storia d’amore con Tomáš.
Anche in Professore di desiderio, l’evocazione dei romanzi letti da Kepesh – che fanno da contrappunto ad un mondo, quello del personaggio, che sembra aver smarrito la memoria – non va intesa come una parentesi o come la prova della chiusura autoreferenziale del romanzo.
Al contrario, il senso della vicenda esistenziale di Kepesh si chiarisce solo nel momento in cui i due piani su cui è articolato Il professore di desiderio, quello relativo alla vicenda principale e quello più saggistico, che costituisce “il romanzo del lettore”, si incontrano.

Ciò avviene verso la fine del romanzo, quando, prendendo spunto da Una relazione per un’accademia di Kafka, Kepesh decide finalmente l’impostazione da dare al suo seminario. Presenterà, ai suoi allievi, una sorta di confessione della sua vita sentimentale ed erotica. Da un lato, questo tentativo risponde all’obiettivo di presentare agli studenti l’universo amoroso di cui parlano i romanzi oggetto del corso come qualcosa di non astratto, ma accessibile a tutti. Questa impresa, però, dà anche a Kepesh una nuova possibilità: quella di ritornare Homo poeticus, di interpretare la sua vita come un romanzo e di trovare così una forma di consolazione.

Desessualizzare lo Stato

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di Pino Tripodi

 In tema di libertà sessuali una piccola rivoluzione – una di quelle piccole rivoluzioni dal passo lento ma dal cammino duraturo – s’avanza nel cuore della vecchio, malato Occidente.

Il primo articolo (Le mariage est contracté par deux personnes de sexe différent ou de même sexe; Il matrimonio è un contratto tra due persone di sesso differente o dello stesso sesso) della legge appena approvata dall’Assemblea nazionale francese pone una serie di problemi che è banale ridurre, come si usa fare nella canea mediatica e nell’agone politico, a quello dell’introduzione dei matrimoni omosessuali.

Metafore della crisi

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di Monia Andreani

Con Twilight viaggiamo dentro una metafora della crisi attuale, che è una crisi globale, scatenata dall’economia tardo-capitalista ma non confinata al campo finanziario o economico. Oggi siamo di fronte ad un livello tale di saturazione della crisi che il quadro molteplice in cui questa si è sviluppata – che è sociale, morale, politico e antropologico – comincia a diventare consapevolezza diffusa. La crisi è anche quella della nostra individualità di persone che vivono quotidianamente la forte diversificazione sociale, la frammentazione dei legami di relazione sociale e personale, la precarizzazione di tutti gli aspetti della vita (a partire dal lavoro), e la cronicizzazione delle malattie – che si è sostituita ai processi di invecchiamento e ha fatto emergere l’impossibilità di guarigione.

«I cardinali sono imbevuti di pregiudizi e il papa è un ignorante» (Wikileaks)

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pioVII
Pio VII, Jacques-Louis David

Wikileak 1
«(…) [I cardinali] Antonelli, Di Pietro e Caselli (…) sono imbevuti dei pregiudizi romani e chiunque debba trattare affari complicati a Roma può avere la certezza di trovare sempre sul proprio cammino Di Pietro e Antonelli. Eppure sono molto diversi l’uno dall’altro. Il primo è silenzioso, riservato e duro, ma ostenta modestia, semplicità, rassegnazione e dolcezza. Non fa che ribattere la volontà del Santo Padre a quel che gli si dice.

L’être dal carcere

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di
Anna Giuba

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T., 6 febbraio 2013
Ciao amore mio,
che disperazione venire a trovarti e saperti lì dentro.
L’avevi descritto bene, il carcere. Ho fatto due ore di treno, poi mezz’ora di pullman e sono scesa sulla statale deserta, accanto alla tangenziale dove passano i tir. Che squallore, vedere scritto il nome della fermata alla pensilina dell’autobus, carceri. È un nome duro da sopportare e da mandare giù.
Quello che mi ha colpita di più, è stato l’odore del carcere rispetto all’aria gelida e pulita di fuori. Un odore forte, di metallo e di umanità compressa, anche se ieri era un giorno di visita in cui non c’era quasi nessuno. È stata dura essere perquisita. E la poliziotta non era neanche poi così gentile. È una grande tristezza, essere qui, le ho mormorato mentre mi metteva le mani addosso. Poi mi ha anche fatto aprire la bocca e ha indagato sopra e sotto la lingua. Ho dei brutti denti, lo so, ho detto, non è colpa mia. E mi vergognavo senza motivo di vergognarmi. Solo per il fatto di essere lì. Poi mi hanno dato un foglio con un numero, che era il numero del tavolo al quale avremmo potuto parlare. Era un grande otto disegnato, e ho pensato tra me e me, il numero dell’infinito, com’è infinito il mio desiderio di vederlo, e la mia sete di lui. Poi abbiamo attraversato cortili e porte blindate con i vetri antiproiettile, e finalmente hanno aperto la porta di ferro pesante con una chiave che faceva rumore, e ti ho visto, di là del vetro, il tuo viso da ragazzino. Il tuo sorriso. Per me.
Dimmelo, forse tu lo sai? Che senso ha il carcere? Privare una persona dalla libertà e basta, non fare niente per lei, non coltivarla come una pianta cresciuta storta cui si mette un’asticella per raddrizzarla. Siete chiusi lì dentro, stipati come bestiame cui non si dà una seconda, o una terza, o una quarta possibilità. Siete esseri umani, cazzo, esseri umani. Una delle cose che mi ha lasciata con il fiato sospeso è stata la somiglianza dei detenuti con i secondini. Man mano che si aprono le porte, e si attraversano i cortili, il filo che vi unisce e nello stesso tempo vi separa dai vostri carcerieri si assottiglia sempre più.
Che tristezza. Anche loro erano uomini, ma ora forse non lo sono più. Durante il colloquio ti ho chiesto se nel carcere ci sono dei corsi di studio per i detenuti. Mi hai detto che no, a parte, forse, un corso di computer che tu non te la sei sentita di fare. E poi hai aggiunto, I corsi sono per quelli che hanno tanti anni da scontare…
E che differenza fa? Perché ti hanno dato solo un anno tu dovresti uscire senza essere migliore? Ma quale logica perversa è questa, non so capacitarmene. Lo sanno tutti che la situazione dei detenuti in questo paese è drammatica, ma ieri, ieri! Vederti così pallido, come davvero un viso che non vede mai la luce. Abbiamo parlato tanto, ogni tanto appoggiavo il viso sulle tue mani, le tue mani piccole, da bambino. Mani che non sono mai cresciute. Le tue mani, che tanti direbbero sporche, ma che per me sono le tue. Non tenerle chiuse, schiudile al sole e lascia che il cielo le purifichi di luce e di consapevolezza. Le tue mani. Ti guardavo, ti indagavo gli occhi, come per entrarci dentro. Le due ore di colloquio sono passate in fretta, sono volate via. Poi mi sono ritrovata al sole rancido dell’inverno, sulla statale. È stato bellissimo vederti. Ma quando ti ho lasciato, lo sapevo. Ti stavo lasciando sulla porta dell’inferno. E la pena più grande è non dividere il suo fuoco tremendo con te.
A presto.
Rossana

Il diciottesimo compleanno

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Il diciottesimo compleanno - copertinadi Alessandro Chiappanuvoli Gioia

Riccardo RomagnoliIl diciottesimo compleanno, 2012, Transeuropa edizioni, 176 pagine  

“In questo libro ogni frase è un animale famelico, pauroso e rabbioso, qualcosa che divorando (e divorandosi) trasmuta da una a un’altra possibilità di esistenza.”

Giorgio Vasta – Le scritture che traboccano

[Roma, 8 dicembre 2012, Fiera “Più libri più liberi”, ore 15.00: presentazione de Il diciottesimo compleanno di Riccardo Romagnoli (Transeuropa editrice, 2012), intervengono l’autore, Dario Rossi e Giorgio Vasta. – Appena arrivato in fiera, programma in mano, la folla tutta arrampicata. La prima persona che ho incontrato fu proprio Vasta: “È un libro notevole, uno di quei libri che testimoniano la rinascita della narrativa italiana.” Di Romagnoli invece non avevo mai sentito parlare, ma la garanzia della casa editrice mi convinse definitivamente ad assistere all’incontro.]

Qualche mese di purgatorio sullo scaffale della mia libreria. Un progetto grafico d’impatto. Schizzi di sangue stampati nell’interno della copertina. I capitoli scanditi per età, da zero a diciassette anni e nove mesi. C’è una festa di compleanno in preparazione, il diciottesimo di Matteo. Leggo le prime righe. Non è il solito libro.

Piscio e mangio così io penso e fotto, mi spurgo e sbadiglio, come fossi un gibbone reale e una pulca d’acqua bestemmio. Tre ore mancano, e avrò i miei anni nel numero dei diciotto, maggiorenne e responsabile per il mondo e per Luciano e Anna Solmi che sono i miei genitori. Io rispetto le leggi, in nient’altro mi scovo se non in un corpo che segue la gravita e cade. Da un momento qualsiasi della mia vita ho sentito storie né vere né false riempirmi i polmoni di sangue e di aria.

Una rincorsa disperata, nel mezzo, compressa in 169 pagine, un’urgenza sovraumana, verso la libertà salvifica. Matteo è nato assieme al fratello gemello Francesco, nato già morto, già libero dunque. Matteo cresce quindi in una condizione congenita di schiavitù. Un peso opprimente dal quale, vorace, sente di doversi purificare, riscattare. Si dà un tempo, come qualsiasi altro adolescente del resto, 6574 giorni, la distanza per raggiungere gli agognati, fantastici, ingenui, 18 anni, raggiunti i quali sa che sarà libero dai fantasmi della sua stessa casa, dal silenzio del padre, dal bipolarismo (credo) della madre.

Quella di Matteo è una vita spremuta. È una caccia forsennata all’inseguimento della bestia più feroce da domare, il mostro interno, nascosto dentro la caverna del proprio animo. Bruciare le tappe è l’unico senso compiuto che riesce ad attribuirsi. E di questa fame, dell’animale famelico, come lo chiama Vasta, il protagonista è schiavo, il libro ne è schiavo, l’autore stesso pare esserne totalmente prigioniero. Le pagine seguono un flusso che è dato prettamente dall’istinto, la ragione che muove gli eventi, che seleziona cosa dire e cosa non dire, pare irretita da una necessità altera, sconosciuta, irreperibile. “È un romanzo che a volte ho scritto in una specie di trance”, mi ha scritto Romagnoli quando l’ho contattato su internet, e spero non me ne voglia per aver riportato le sue parole. Un vortice di emotività di cattiveria di sensibilità insensibile contemporanea attuale brutalmente ficcante nei nostri giorni terzomillenaristici. Anche il lettore non ha scelta. Io non ho avuto scelta. Ho dovuto seguire, assistere, vivere inerme. Ho potuto leggere con i miei tempi, piano, sciogliere i nodi poetici intessuti tra una frase e l’altra, ma l’impressione era sempre di leggere in discesa, vorticando con la mente in panne, lo stomaco spaccato, il sesso impossessato, costantemente a mezz’asta. Come il piacere del sadomasochismo e tu, lettore, non puoi mai essere il master della situazione. Non hai dato nessun assenso, eppure ti ritrovi legato e incaprettato a mezz’aria, gli orifizi dilatati: diciott’anni sono, ora, il tuo desiderio, carnale, schiavo, sprofonda, obbedisci, leggi.

Il principio di non contraddizione è la versione logica della lotta per la sopravvivenza. Se il principio di non contraddizione non ci fosse sarei ridotto al gorgoglìo di un torrente strozzato che precipita lentamente, trascinando con sé l’intero linguaggio, così come se un qualsiasi essere vivente non sfuggisse la morte già non esisterebbe più. La vita è perché si difende. Oltre i nostri discorsi e il loro senso, oltre la vita, si apre un’unica traiettoria che non conduce ma disperde, un niente che si aggroviglia, e noi non vogliamo che accada, almeno noi che siamo la parte maggiore degli uomini.

Poco, pochissimo posso, voglio, devo aggiungere sullo stile linguistico de Il diciottesimo compleanno. Bastano, del resto, le già citate parole di Vasta. Se poi aggiungessi che il romanzo ha ricevuto una delle prime attestazioni di merito da un certo Antonio Moresco (come mi ha confermato il direttore Giulio Milani), chiuderei un cerchio, metterei un sigillo, amen, fumata bianca, per restare a cavallo dei nostri giorni. Sarebbe come riempire uno spazio, mettere Romagnoli a sedere sul trono, pontificare, nel senso etimologico del termine. Non c’è nessuna sentenza da emettere. Uno squarcio, una breccia, insomma un dibattito, invece, bisogna aprire.

Poesia come poiêsis, creazione, è impressa a inchiostro tra le righe della pagina. Un linguaggio nuovo propone Romagnoli, di per se stesso liberatorio prima ancora che provocante ed estetico. Necessario. Quasi non ci sia altro modo per svelare e velare quei segreti che albergano l’animo umano, che infestano il mondo degli esseri umani, che saturano gli spazi angusti del focolare domestico, che animano la fantasia e le perversioni, certo non solo sessuali, dello scrittore, i segreti che colmano quel tempo familiare e famelico, comune a tutti, che porta all’illusoria liberazione, alla compassata responsabilità, alla vana redenzione, a quel fatidico diciottesimo compleanno.

Mi innamorai di spazi dalle sponde eternamente distanti, vi avrei depositato gli anni successivi, ora per ora.

Note sull’influenza della Neoavanguardia italiana

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[Testo scritto su invito in occasione dell’incontro “Identità concettuale e dilatazione dell’istante”, Tokyo University of Foreign Studies, Tokyo, 4 Ottobre 2010]*

di Lorenzo Carlucci

Ho letto la Neoavanguardia italiana molto tardi, e non troppo. In compenso ho letto le Avanguardie Storiche molto (troppo) presto e molto (troppo?). Forse anche per questo motivo, tendo a percepire il lavoro della Neoavanguardia come un approfondimento – forse necessario – e una continuazione – forse ineluttabile – delle istanze delle Avanguardie Storiche e dei campioni del Modernismo. Da questo punto di vista non giudico il lavoro della Neoavanguardia italiana particolarmente originale o innovativo dal punto di vista artistico (piuttosto che culturale o comportamentale) e sullo sfondo della storia della letteratura mondiale, o anche soltanto europea.

Da Trilogia dello zero (parte seconda) – Poesie inedite di Antonio Bux *

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2.

 

 

“C’è nell’aria una specie di contorno 
mai pronto a superare il paesaggio
piuttosto passaggio stretto dove si filtra 
un dolore dentro, che fatica a respirare.
In questo, perdono le cose la trasparenza
il loro tacere l’ombra nell’abbandono
al dono del colore sbiadendo per inerzia
quando l’oggetto si assomiglia troppo al luogo
e dove tutto ha un peso per eccessiva mancanza
se lo si bilancia cadendo, nel rovescio della materia”

Dieci anni fuori dalla pozzanghera: 23 marzo a Milano

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Nazione Indiana è stata fondata dieci anni fa:

il suo percorso da allora ad oggi è stato così ricco e produttivo da diventare Nazione Indiana, Il Primo Amore e varie altre realtà.

Oggi non celebriamo ricorrenze, ma offriamo proposte che, forti di questi dieci anni di lavoro, siano generose di nuove idee e fantasie per il futuro.

Lo vogliamo fare, tutti assieme, i redattori presenti e passati di Nazione indiana e del Primo amore, insieme ai lettori e a tutti coloro che vorranno partecipare all’incontro-festa che si terrà al Teatro I di Milano (via Gaudenzio Ferrari angolo via Conca del Naviglio) sabato 23 marzo, dalle 15.00 alle 23.

Nazione Indiana, Il Primo Amore e chiunque voglia essere con noi.