
Trentacinque euro
di
Attilio del Giudice
Ho 36 anni, mi chiamo Felice, come quella fidanzata di Kafka, con la quale finì tutto a carte quarantotto. Mia madre dovette decidere da sola, perché mio padre la lasciò prima che nascessi io.
Mio padre era un cacciatore all’antica e le cartucce se le fabbricava da solo. Infatti disse: ”Vado da Nando – il suo fornitore per le cose venatorie – a comprare un po’ di polvere. E non si vide più. Sembra una barzelletta, ma i fatti andarono proprio così.
Non credo che, nell’incombenza di darmi un nome, volesse ricordare la signorina Bauer, lei, mia madre, scolasticamente, s’era fermata alla quarta elementare. Devo pensare che volesse augurarmi piuttosto una vita felice, tutto qua. In realtà mi ha messo in grande imbarazzo un’infinità di volte, non solo perché questo nome, dalle nostre parti, viene dato quasi esclusivamente ai maschietti, ma anche per circostanze più sostanziali, che mettevano in crisi ora l’identità, ora la mia attitudine a non credere, come una babbea, a una generica felicità, piovutami dal cielo chissà come. Per esempio, è spesso capitato che mi chiedessero chi fossi e io, sconsideratamente, rispondevo: “sono Felice” innescando una serie di equivoci, che non sempre si potevano chiarire subito e, talvolta, con interlocutori a basso quoziente intellettuale, ci voleva la manodidio per far capire che quello ero il mio nome di battesimo e non uno stato di grazia, che, comunque, sarebbe stato una condizione dello spirito mia personale e che non ero obbligata a dichiarare.
Per la verità, anche volendo dichiarare una condizione dello spirito di quella natura (la felicità, appunto), avrei dovuto ricorrere alla mia più naturale tendenza, cioè alla capacità di mentire, clamorosamente. Però non la voglio portare per le lunghe: la felicità non esiste, così dicono tutti e, al massimo, si parla di serenità, di tranquillità, insomma surrogati, tanto per non fare la figura dei piagnoni a oltranza. Va bene, non esiste e siamo tutti nella stessa barca di Caronte, ma io qualche dubbio lo tengo, almeno sulla gradualità dell’infelicità. Per esempio: se non avessi perduto Viviana, mia figlia, all’età di due anni, se Marcello non mi avesse detto: “Ti voglio bene, credimi! ma non ti amo. La nostra spinta sessuale si è ridotta al lumicino ed è meglio per entrambi tagliare la testa al toro e separarci (il toro, praticamente ero io, infatti, in dieci anni, l’ho visto due o tre volte e gli alimenti nemmeno due o tre volte, nonostante le ingiunzioni, l’avvocato, eccetera eccetera). Oppure, sempre per esempio, se mia madre, sul letto di morte, non avesse detto: “ Tu, per me, per la mia vita, sei stata come un cancro”. Poi, dopo un po’, disse che aveva scherzato. Scherzato? Ma si può scherzare così, mentre stai per morire? No, forse la felicità non esiste, ma l’infelicità esiste e come! Ed è assai differenziata tra le persone.
Un’altra cosa: io credo di essere oggettivamente sfortunata, ma non lo voglio sentir dire, mi fa andare su tutte le furie quando qualcuno dice: “poverina, Felice, non hai fortuna”.
Mi offende la considerazione pietistica, anche perché la considero generalmente falsa e ipocrita e so che, sotto sotto, c’è il pensiero di riserva dell’interlocutore, vale a dire: si, sei sfortunata. Ma ognuno è artefice della propria fortuna; quindi io non sarei artefice, anzi sono inderogabilmente una grande artefice della mia personale sfortuna. Naturalmente sarei una stupida, arrogante e fanatica narcisista, se attribuissi solo alla Suerte l’infittirsi dei problemi nella mia esistenza quotidiana (una serie, che manco me ne tiene di elencare), mentre, se non ci fosse stata la malasorte, sarei stata, invece, splendida padrona del campo. No! Molti errori sono stati miei, ne sono decisamente responsabile, questo lo devo ammettere e non hanno quasi mai giustificazioni plausibili. Naturalmente il discorso delle giustificazioni è privato e non ne devo dar conto a nessuno, anche perché i miei errori non hanno arrecato danni né a uomini, né ad animali, a parte un quattro o cinque uccisioni e relativi spennamenti di galline, quando ero ragazza ed ero ospite nella masseria di zio Sergio e mi comandavano di preparare il pranzo. Peraltro, anche adesso, non so dire se questa mia disponibilità a fare il lavoro sporco con il pollame, fosse autenticamente un errore e non una necessità culinaria.
Prendo 450 euro al mese da un istituto magistrale privato, dove insegno Storia dell’Arte e Scienze Umane (Pedagogia e Psicologia). Un abbinamento inconsueto nelle scuole pubbliche, ma l’istituto dove insegno io è uno di quelli in cui certe pignolerie non vengono contemplate e i ragazzi, piuttosto attempatelli, fanno tre anni in uno. L’importante è che le famiglie sgancino un bel po’ di grana, se vogliono arrivare al dunque (al famoso pezzo di cara), datosi che si tratta di persuadere serissime commissioni esterne di docenti integerrimi e poco corruttibili. Almeno così dice il capo, ed è come se dicesse: “ragazze serissime poco incinte…”Mai, almeno una volta, che il boss, dottor Catapane (si ignora il tipo di laurea conseguita, e si sospetta sia un titolo attribuito arbitrariamente dai guardiani di automobili “Venga avanti, dotto’”) esclamasse, anche solo in camera caritatis, non: “poco corruttibili”, ma corruttibili con poco. L’inconfondibile profumo della verità avrebbe inondato l’intero caseggiato, mentre, fatalmente, permane un fetore insopportabile e non solo morale e metaforico. Infatti Orsola Gazzillo, preposta alla pulizia dell’intero edificio, cessi compresi, si può permettere il lusso di non fare una minchia, compensando l’inefficienza dei servizi con l’antica arte dello spionaggio e non risparmiandosi per qualche prestazione sessuale (servizi, per la verità, antichissimi anche questi) richiesta dal boss, nonché gestore, direttore didattico e, naturalmente, direttore amministrativo, richiesta inoltrata, fino a circa un mese fa, perché, negli ultimi giorni, le esigenze erotiche del suddetto pare si siano orientate verso un’allieva, piuttosto in carne, ma, ovviamente, più fresca della Gazzillo, nelle forme e nei contenuti. Fermo restante il gradimento delle attività di spionaggio, che Orsola mantiene sempre intense ed efficaci per il suo tornaconto.
Mandarli a cagare, ovviamente, non è possibile per evidenti ragioni di sostentamento, ma l’esperienza umana e professionale sembra votata al vomito quotidiano, soprattutto perché, tra noi insegnanti, cinque femmine e un prete, vige il coprifuoco e nessuno, anch’io naturalmente, ha il coraggio di uscire allo scoperto e denunciare lo stato delle cose, cioè a dire che nessun docente, in nessuna, anche stronzissima, materia di sudi, può portare avanti, per un alunnato non brillante, anzi, diciamolo francamente, per delle incredibili teste di cazzo, in otto mesi, un programma di tre anni e mettere definitivamente fuori uso una laurea (110 e lode) e quel minimo di dignità, che qualsiasi persona dovrebbe mantenere e proteggere. Niente, non se ne fa niente, si va avanti così, giorno dopo giorno, tristemente, aspettando Godot, con la strizza nel culo di perdere pure questo posticino, visto che l’aver superato l’esame di abilitazione non è stato sufficiente per lo Stato Italiano a farmi avere un lavoro normale nella pubblica istruzione.
Per raggiungere questa scuola, devo prendere una corriera alle sei del mattino. Non sono distanze strepitose (meno di trenta chilometri), ma devo calcolare almeno un’ora e mezza, perché ‘sta corriera, prima di arrivare alla mia meta, raccoglie gente in tre paesini e si ferma anche per la strada per far salire qualche altro disgraziato utente che aspetta e spera.
Ieri faceva un freddo boia, soprattutto un vento sferzante di tramontana mi entrava nelle ossa, benché fossi tutta imbacuccata e avessi messo perfino un giornale sotto la maglia per proteggermi il petto. Aspettavo questa benedetta corriera, che tardava come al solito, battendo i piedi e mi prefiguravo il calduccio accogliente che avrei trovato assieme ad inconfondibili odori di formaggi, che certi contadini portavano nelle ceste di vimini, nella prospettiva di un micro-commercio in città. Insomma un’atmosfera calda, rurale, diciamo demodè, a dispetto sia del gelo esterno, sia delle strabilianti conquiste tecnologiche del nuovo secolo. Devo, poi, confessare, a completamento dell’idillio, che avevo buone probabilità di vedere Mirko, uno studente, che mi piace un sacco, dolce, cortese e bello, forse troppo per me.
Io, generalmente, mi rifiuto di sognare il principe azzurro, ma, stavolta, ogni tanto, mi ritrovo con la mente coinvolta in certi languori cretini. Cretinissimi, non c’è dubbio, perché ‘sto Mirko dagli occhi blu, è fidanzatissimo con una, che, tra l’altro, ho conosciuto e che lui mi presentò con evidente orgoglio, purtroppo non campato in aria, infatti la ragazza tiene tutti i numeri, al contrario di me, che,invece, i numeri li do, come diceva mia madre, tanti anni fa, quando la volevo convincere a scrivere una lettera di perdono a mio padre, avendo saputo che gli era venuto un tumore al fegato.
Il giovanotto con me, è sempre educatissimo e galante, senza mai esagerare, e mi conserva il posto sulla corriera vicino a lui e mi ascolta quando parlo e ha sempre parole di incoraggiamento, insomma è un figlio di puttana, che mi vuole fare innamorare per forza e se questo non lo capisce e si comporta così, spontaneamente, perché è nato gentile, io non ho nemmeno la soddisfazione di dire: “ma guarda che stronzo!”
Allora, mentre aspettavo la corriera e battevo i piedi e me ne andavo per la tangente con questi pensieri agrodolci, è arrivato un tale con la bicicletta, uno massiccio sulla cinquantina. Si è avvicinato a piedi, tenendo la bicicletta dal manubrio. Io pensavo che volesse fare qualche considerazione sul tempo, sul gelo, sul vento, invece ha detto.” Tengo solo trentacinque euro, mi faresti un pompino?”
L’istinto è stato quello di urlare, di dargli una borsata in faccia, di ingiuriarlo, ma mi sono trattenuta. Eravamo soli, nell’incerta luce dell’alba, in piazza non si vedeva anima viva, una mia reazione emotiva poteva essere pericolosissima. Così ho pensato di tenerlo a bada con un atteggiamento diverso: “ Mi dispiace, signore, io non sono una prostituta.”
“Allora, non se ne fa niente?” ha detto lui.
“ No, mi dispiace, non se ne fa niente.”
E’ rimontato sulla bicicletta e se n’è andato, pedalando piano, forse per darsi un contegno o perché aveva il vento contrario.
Tremavo di indignazione, ma forse era il freddo. E’ arrivata la corriera. Appena dentro, ho dato uno sguardo panoramico ai passeggeri. Porca vacca! Mirko non c’era.
Mi sono seduta a fianco di una filippina, che fa la serva in città, una che sorride sempre, ma si fa i fatti suoi, e mi sono messa a riflettere: “Che cosa gli ha fatto pensare che fossi una puttana? Certamente non il mio abbigliamento, più adatto a una spedizione artica, che a un generico adescamento stradale; nemmeno un particolare rilievo del lato b (come dicono quelli che hanno paura di dire la parola culo e vantano, per questo, una sorta di estetica del linguaggio), magari valorizzato e messo in mostra mediante gonne aderenti o jeans in pelle, dato che il piumone nero che indossavo, copriva tutto quasi fino ai piedi. Sarà stato lo sguardo? Non lo so. Certo è che mia madre, tanti anni fa, quando, qualche volta, veniva a cena Marino, il figlio di donna Assunta (una lontana parente) che stava facendo il militare a Caserta, diceva: “non lo guardare con quello sguardo da zoccola”.
A tredici anni non disponevo di gran varietà di sguardi e m’ero fatta l’idea che, se anche le tette tardavano a farsi rispettabili, io, comunque, avevo un arma formidabile per mettere a tappeto il sesso forte: “ lo sguardo da zoccola”. Poi, col tempo, questa bella illusione svanì, mentre le tette restarono piccole e gentili, ed è noto, che le dimensioni circoscritte sono appetibili solamente da pochi intenditori e collezionisti; tanto è vero che, nonostante ci sia la più grande crisi economica dopo quella del 29, i chirurghi plastici non hanno mai smesso di fare soldi a palate.
Eppure, quella proposta, volgare, indecente e offensiva, attribuibile a un uomo di nessun conto, forse a un malato, mi ha fatto più male di quanto, di primo acchitto, m’era sembrato di dover smaltire. Per tutto il viaggio mi sono tormentata con un interrogativo atroce. “Ma chi sono io, se chiunque può, impunemente, oltraggiarmi? Valgo proprio meno di niente? Posso essere calpestata come un insetto schifoso?” Insomma, esageravo col masochismo, che è una mia specialità. A poco a poco, però, m’è venuto incontro un pensiero più razionale e abbastanza consolatorio: la mia pochezza c’entrava poco, lì, al posto mio, ci poteva stare anche un premio nobel; benché, devo ammettere che difficilmente un premio nobel si potesse trovare in quella piazzetta alle sei del mattino col freddo e col vento. Però dipende, magari chissà…
Si, perché capita sovente che le associazioni libere si sentano libere di condizionarci e non possiamo farci niente. Del resto non è la prima volta che mi accorgo del trucco: la libertà di scelta, kantiana e cristiana, deve essere una presa per i fondelli, una “sola” colossale che ci hanno fatto credere, per darci addosso con le responsabilità. Infatti, senza che potessi decidere di censurarmi ed evitare la mancanza di rispetto, mi è venuto in mente Madre Teresa di Calcutta, premio nobel, appunto. Una che ci poteva pure stare col gelo e col vento lì, in quella piazzetta, presso la fermata della corriera e, naturalmente mi è venuto in mente, nel controcampo, quel signore massiccio con la bicicletta, che le dice: Madre Tere’, tengo trentacinque euro…. Eccetera.
Maledette associazioni libere, andatevene a fare in culo, voi e Karl Gustav Jung!