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Letteratura e lavoro. L’eredità di Paolo Volponi

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di Angelo Ferracuti

Il tema del lavoro, il suo immaginario e i suoi conflitti, quella vita della nostra vita che s’innerva nel nostro destino di individui sociali, non ha prodotto nella letteratura italiana, a parte qualche eccezione, grandi capolavori. Noi non abbiamo Tempi difficili di Dickens, Uomini e topi o Furore di John Steinbeck, e neanche La cittadella di Cronin, Martin Eden di Jack London, tanto per citare uno dei suoi titoli, non abbiamo avuto un reporter di grande classe e temperamento come Orwell che in La strada di Wigan Pier va a raccontare i minatori di una contea inglese, li descrive nella condizione di isolamento esistenziale e fatica fisica, e vive nei loro stessi suburbi. Non ci sono stati libri come La condizione operaia di Simon Weil, la filosofa che per capire i lavoratori va come loro ogni mattina a lavorare alla Renault, e annota nei suoi diari quello che vive a ogni turno.

Da “Settesette. Una rivoluzione. La vita”

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di Pino Tripodi

Dal capitolo Freak Army. La violenza sulle cose contro la violenza delle cose

Non sono i soggetti che impazziscono. È la realtà che impazzisce. Non mi chiedere perché. Non lo so perché. Dopo il settantasette è la realtà che è impazzita. È certo. E in una realtà impazzita non si può evitare di vivere la follia. Sopravvivere è impazzire. Continuare a fare il savio come pretendi tu è la follia vera. Solo uno già pazzo come te può pensare di rimanere savio. Io ero un freak. Ma un freak comunista. Non lo scordare. Un freak comunista non è un freak e basta. Né un comunista e basta. È un freak comunista.

¡Muera la Vida, Viva la Muerte!

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La Santa proibita
di
Valerio Evangelisti
prefazione al bel libro di Fabrizio Lorusso, Santa Muerte,patrona dell’Umanità, Stampa Alternativa

Gli studi affidabili sul culto messicano della Santa Morte, insediatosi anche negli Stati Uniti per via dell’emigrazione, non sono numerosi, e sono molto recenti. Fino a pochi anni fa, e ancora oggi nella stampa occidentale, quella strana forma di religione era liquidata come una specie di superstizione coltivata da narcotrafficanti, carcerati e prostitute, e collegata ad attività criminali (inclusi “sacrifici umani” mai provati).
Da ciò è derivato un intenso sfruttamento massmediatico, con film, telefilm e documentari di dubbia scientificità che insistevano sul risvolto delinquenziale, ignorando tutto il resto: dalle origini del culto alle ragioni del suo rapido propagarsi fra strati popolari poverissimi, da un lato e dall’altro del Rio Grande, non sempre dediti ad attività illecite.
A quest’ultimo proposito, noto che il primo opuscolo prodotto dai santamuerteros stessi in cui mi imbattei, esempio di una vasta produzione non più plausibile di quella degli osservatori esterni, recava preghiere per i taxisti e i meccanici (Sagrada Biblia de la Santísima Muerte, Ediciones Aigam, Chimalhuacán 2007).

Cosa che bastava a suggerire un’espansione che si spingeva ben oltre l’ambito della malavita organizzata. Acquistai l’opuscolo citato, assieme ad altri materiali, in un negozio di articoli religiosi sito nei pressi del mercato di Puerto Escondido, nello Stato di Oaxaca (cioè ben lontano da Città del Messico); dove conviveva con Vangeli e Bibbie del tutto ortodossi, e montagne di rosari e crocifissi. Contendeva il primato di presenza della Santa Morte solo il settore dedicato alla santería, un derivato della religione africana degli Yoruba (come il Vodou, come il Condomblé, come il Palo Mayombe) che credo sia oggi assolutamente minoritario. Cosa che non si può dire per la Santa e i suoi fedeli. Questi ultimi attribuiscono al culto origini antichissime, preispaniche.
Sarebbe una trasformazione moderna delle due divinità Mexica, una maschile e un’altra femminile, che presidiavano l’ingresso del Mictlán, l’Aldilà. La venerazione di questi dei delle tenebre si sarebbe preservata durante e dopo la Conquista, coperta dal segreto, fino a riemergere di recente, nelle forme attuali e incentrata su un’unica figura.

Una leggenda, pur non smentendo la versione ancestrale, attribuisce invece l’avvento della Santa Morte in forme moderne a un curandero (guaritore) dello Stato di Veracruz. Ai primi del XIX secolo costui avrebbe sognato la Santa, e poi ne avrebbe trovato l’immagine – di scheletro vestito con gli abiti tradizionalmente attribuiti alla Madonna – sul tetto della propria casa. Fu l’inizio di una serie di rivelazioni, già duramente condannate dalla Chiesa cattolica dell’epoca.
Si tratta di genealogie non documentate e che lasciano il tempo che trovano. Certo, in Messico convivono stratificazioni religiose che danno luogo a curiosi sincretismi, come omaggi prosaici (lattine di Coca-Cola, dolcetti, ecc.) a santi cattolici, fanatismi per la Vergine di Guadalupe o altre icone sacre che rasentano l’invasamento, una vera mania per gli altarini e le statuette ormai sparita in Occidente. L’anima indigena si sente, eccome. Un pastore protestante americano mi disse, esagerando, che doveva ancora trovare, in Messico, un cristiano vero e proprio. In certa misura, sarei portato a dargli ragione.

La “chiesa” della Santa Morte non può però essere ridotta a una sopravvivenza delle religioni preispaniche sotto falsi veli, come è invece molto palese nei credi di origine Yoruba. Qui non vengono nascosti gli dei perduti sotto nomi di santi (caso tipico: Santa Barbara per Changó o Xangó, dio dei metalli). Le liturgie cattoliche sono a prima vista quelle tradizionali, e così le preghiere. Anche le più eccentriche iniziano con l’invocare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Solo, si aggiunge a tutto un’entità sacra in più, che veste come la Vergine e porta la falce.

Più che divinità antiche, l’iconografia della Santa Morte ricorda l’ossessione per teschi, scheletri e tibie propria del soffocante cattolicesimo spagnolo, dovunque si sia manifestato (si vedano tante chiese di Napoli). Senz’altro su una base molto più remota, ma con tracce salienti della malinconia e dell’indole drammatica che, sotto parvenze apparentemente contrastanti, sono spesso attribuite agli iberici (e anche agli indios messicani: cfr. Octavio Paz, Il labirinto della solitudine). Il discorso è però impegnativo, e non possiedo gli strumenti per affrontarlo.
Quanto alle similitudini col cattolicesimo ortodosso, si limitano alla superficie. Né buona né cattiva, la Santa Morte può essere invocata anche per scagliare maledizioni contro i propri nemici, e per operare azioni di magia tanto bianca che nera. Certi manuali “pratici” (come Los poderes magicos de la Santa Muerte, Ediciones S.M., s.l. ma Città del Messico, s.d.) sono simili ai grimoires medievali e rinascimentali, con ricette per procurarsi amore o denaro, per proteggere il proprio negozio, per confondere chi ci vuol male, per assicurarsi la salute.

Corredati da istruzioni per allestire altari (qui una certa parentela con il Vodou è sensibile, soprattutto nel rito di espirare fumo di sigaretta o di sigaro sul volto dell’immagine sacra), fabbricare talismani, scegliere pietre preziose, attuare fumigazioni. La natura di grimorio è confermata dalla presenza, in alcune orazioni, di termini ebraici mutuati dalla Cabala e transitati nel Medio Evo nei trattati di magia (a loro volta spesso redatti da preti cattolici).
Non ci troviamo dunque in presenza di una teologia articolata e coerente, bensì di una serie di suggestioni di provenienze disparate, unificate dalla potenza della figura misteriosa, ipnotica, temuta e amata, della Santa. Come è stato possibile che una “religione” così approssimativa, che è poco definire sincretica, abbia conquistato il cuore di milioni di messicani poveri e poverissimi, onesti o disonesti, comunque marginali?

Evidentemente forniva risposte a domande, di ordine sia sociale che morale, del tutto ignorate dalla religiosità tradizionale. Per capire quali fossero, occorreva immergersi nei meandri del quartiere di Tepito, labirintico ricettacolo di traffici e luogo caldamente sconsigliato, dalla guida “Lonely Planet” e da altre simili, a ogni turista. Fabrizio Lorusso l’ha fatto, senza lasciarsi intimidire e con un alto grado di partecipazione (critica, è ovvio). Lasciamoci dunque condurre da lui nei labirinti della Santa Morte, ben pochi occidentali conoscono meglio l’argomento. Se non scopriremo la verità ultima, almeno la toccheremo da vicino.

Tre cerchi. Critica e teoria

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di Daniele Giglioli

Spiegare la crisi del rapporto tra critica e teoria letteraria non è difficile, ma è sbagliato. Un vero e proprio errore categoriale. Quando la crisi è crisi vera, è lei che spiega te, non viceversa. Chi pretende di spiegare una crisi o ne è già fuori (la nottola di Minerva che si leva sul fare del tramonto) o si inganna o è in malafede.
Tanto più che bisogna mettersi d’accordo su cosa si intende per crisi. Remo Ceserani ha mostrato di recente quanto lessico e procedimenti della teoria letteraria siano entrati a far parte dell’ossatura epistemologica di discipline che non hanno direttamente a che fare con la letteratura (antropologia e sociologia, psicologia e diritto, e perfino certi aspetti delle scienze naturali). In certi dipartimenti dell’accademia americana non si mette piede se non si snocciolano come un rosario i nomi di Foucault, Deleuze, Derrida, Althusser, e Said e Spivak e tanti altri. E gli studi culturali? Non si occupano solo di letteratura, ma dalle tecniche dello studio della letteratura hanno in gran parte ricavato le loro. E così gli studi postcoloniali, in Inghilterra e in America, e più ancora nei paesi ex colonizzati: mentre stiamo scrivendo ci sarà di certo più di una matricola, a Mumbai come a Hong Kong, a Kinshasa come a Rabat, che apre per la prima volta il suo The Foucault Reader. Se si sta all’indicatore della mera diffusione, altro che crisi: è piuttosto un successo at large, su scala planetaria. Tutto sta a chiedersi, semmai, come sempre, quale sia il rapporto tra la quantità e la qualità. Dove per qualità non si deve intendere la brillantezza o il rigore delle singole riuscite, ma la pregnanza, l’impatto complessivo che la teoria, nata dalla letteratura e poi infeudatasi altri territori, esercita sull’insieme del senso comune.
È qui che la crisi si fa patente. Egemonia nell’accademia (anglofona) non significa influenza. La teoria non è in affanno a causa della perdita di prestigio del suo oggetto primario (la letteratura, non più veicolo privilegiato di formazione per i dominanti, e di acculturazione per i dominati): lo ha barattato con la cultura, e di fronte alla parola cultura annuiscono rispettosamente un po’ tutti. È in affanno perché è venuta meno la speranza che per suo tramite si possa accedere a un’agency, a un empowerment sul proprio destino. Non presso le istituzioni (o almeno non dappertutto; ma a giudicare le cose dall’Italia o da un’Europa sempre più provincializzata si rischia di avere una visione sghemba): accademie, think tank e centri di ricerca. Ma agli occhi di coloro che la teoria stessa ha designato come i suoi destinatari veri: i subalterni, (una volta si sarebbe detto il popolo, poi il proletariato, oggi magari la moltitudine), coloro che si trovano a operare nella realtà sulla base di una mappa ideologica di cui non sono gli estensori ma i destinatari più o meno passivi. La teoria letteraria, ha ricordato Antoine Compagnon, nasce sempre come critica dell’ideologia, letteraria e non solo. Ma di questo c’è ogni giorno minor richiesta. Come ha notato Bruno Latour, alla tipica profferta del teorico: ti raccontano favole, ora ti spiego come stanno veramente le cose, si sente sempre più spesso rispondere: grazie, preferirei di no.

Le ragioni di questo “no” sono le ragioni della crisi. E per verificare quanto è vero che sono quelle ragioni a spiegare noi più che il contrario, proviamo a tracciare per contrasto i contorni dell’oggetto rifiutato. C’è una definizione di teoria coniata in tempi recenti da Fredric Jameson che ha il pregio (nonché i difetti, va da sé) della sintesi. Suona così. Teoria, nel senso storicamente situato che qui ci interessa, è una disposizione del discorso che ha avuto l’ambizione di sostituirsi alla filosofia e ad altri saperi partendo dal presupposto che il pensiero, i concetti e perfino gli oggetti di studio non possono prescindere dalla loro espressione linguistica. Teoria è sostituzione del discorso sul mondo con un discorso su come il discorso rappresenta il mondo. Teoria è critica del linguaggio in quanto il linguaggio non è una finestra sul mondo, ma la condizione stessa di possibilità attraverso cui il discorso umano non solo rappresenta ma modella, trasforma – crea, in un certo senso – il proprio mondo. Il che richiede una costante procedura di controllo, un’autoriflessione senza sosta che censisca puntualmente le implicazioni ideologiche e le conseguenze pragmatiche di ogni descrizione: quasi una sorta di, scrive Jameson, polizia del linguaggio. Ivi compreso del suo, perché, non esistendo davvero per l’essere umano la possibilità di attingere direttamente a qualcosa come un “fuori” dal linguaggio, la teoria stessa non può ambire a configurarsi come una sorta di zona aletica, di spazio esonerato dall’errore, di fissazione definitiva dei concetti e delle rappresentazioni – definitiva in quanto più adeguata, aderente, trasparente alla realtà che designa. Tu parli di fatti, ma in realtà le tue sono parole. Io controllo le parole, e dunque ho più presa di te anche sui fatti. Sospetto generalizzato. Instabilità categoriale. Sfiducia negli statements. Critica come habitus. Ogni discorso come discorso situato, parziale, implicato alle preoccupazioni (agli interessi) di chi parla. Senza per questo di necessità cadere nello scetticismo o nel relativismo nichilista. Diciamo piuttosto una sfiducia costruttiva. Ci costruiamo il mondo col linguaggio e questo è un fatto. Da qui la conclusione che il nemico mortale della teoria è la reificazione, il feticismo del significato ultimo, la metastasi dell’enunciato da procedura di costruzione di verità a ideologia, falsa coscienza, rappresentazione rovesciata.
Fin qui Jameson. Ma non è difficile scorgere dietro le sue parole una galleria di profili familiari. Ognuno riconoscerà i suoi: chi Derrida e la decostruzione; chi Althusser, perennemente crocefisso al dilemma di come la teoria possa porsi a termine medio tra la scienza (il reale è un processo senza soggetto e senza telos) e l’ideologia (ciò che ti interpella e ti istituisce nella pratica come soggetto; la rappresentazione necessariamente immaginaria che individui e classi si fanno, per potervi operare, della loro posizione rispetto a quel reale); chi uno dei padri dell’ermeneutica del sospetto, il giovane Nietzsche (e anche il vecchio) quando avverte che la verità è un «mobile esercito di metafore» perché ogni concetto è una metafora che ha dimenticato di esser tale.

I nomi si potrebbero moltiplicare. Ma ciò che conta qui è che la crisi di questa disposizione non nasce dal suo fallimento ma dal suo trionfo. Quale delle discipline che ne sono state investite non se ne è appropriata? L’antropologia? Pensiamo a Geertz e dopo di lui a Clifford, Marcus, Fischer, Crapanzano. La sociologia? C’è stato Bourdieu, e poi il revisionismo dei suoi allievi come Boltanski, se possibile ancora più attenti alla provenienza e al risvolto immediatamente pragmatico e soggettivo di ogni affermazione scientifica. Per non parlare della psicoanalisi, e della storiografia, dove Hayden White appare come un moderato e quasi un codino rispetto al nominalismo scettico di un Frank R. Ankersmit. Non senza reazioni, di distinguo o di rigetto, come è normale; ma l’idea è penetrata.
Più a fondo ancora sembrerebbe essere penetrata nel senso comune. Chi più dell’uomo della strada è oggi un costruttivista radicale? Vai a capire come stanno veramente le cose, ognuno parla per il suo interesse, bisogna capire cosa c’è dietro… E i politici, i potenti, una volta così preoccupati di trincerarsi dietro all’adorazione feticistica del puro fatto: «Lei mi sembra far parte di quella che noi chiamiamo – ha dichiarato nel 2004 lo spin doctor di Bush, Karl Rove, a un allibito editorialista del “Wall Street Journal” – di quella che noi chiamiamo la comunità basata sulla realtà (realitybased community)», e cioè coloro che pensano che le soluzioni politiche emergano da una valutazione coscienziosa della realtà osservabile. In effetti, farfuglia il giornalista: l’illuminismo, l’empirismo… Ma non è più così che funziona, lo interrompe Rove: «Oggi noi siamo un impero, e creiamo la nostra propria realtà nel momento in cui agiamo. E mentre voi studiate questa realtà, nel modo ragionevole che ritenete auspicabile, noi ci muoviamo di nuovo, creando altre nuove realtà, che voi studierete alla stessa maniera, ed è così che vanno le cose. Noi siamo gli attori della storia, e a voi, a voi tutti, non resta che studiare quello che facciamo». Non si sa se disperarsi e applaudire questa franca confessione, che presumibilmente doveva rimanere off records. Siamo ben oltre il tradizionale pragmatismo americano: è come se Bush si fosse scelto per consigliere Friedrich Nietzsche in persona, o meglio ancora un Nietzsche senza follia, senza più scandalo, senza più orrore per aver osato pensare che la verità è solo un sottoprodotto della volontà di potenza. Nulla di più lontano dal grande internamento dei folli (di coloro cioè che si creano da soli la loro realtà, che vivono, come si dice, “nel loro mondo”) che ha presieduto secondo Foucault alla genesi della ragione moderna. La follia è migrata al cuore dell’impero – che non è poi la Casa Bianca ma il rizoma in perenne movimento delle agenzie di comunicazione.
Si potrebbe continuare: per esempio i generali israeliani che citano Deleuze e Guattari per spiegare ai loro soldati le nuove tecniche di rastrellamento nei territori occupati… Ma è meglio fermarsi. Anche perché nulla è più inutile che chiudere la stalla quando i buoi sono scappati. Lo fanno in molti: Eco che prende le distanze, dopo aver lanciato l’opera aperta e la semiosi illimitata, dal nichilismo ermeneutico; Carlo Ginzburg che dopo aver imposto all’onore del mondo le spie e il paradigma indiziario se la prende con Hayden White e la svolta linguistica; Arthur Danto che scomunica i teorici dell’Artworld che a lui si rifanno… Troppo tardi. Non è colpa loro, né nostra. Rimproverarsi di aver creato mostri è una consolazione da Frankenstein. Non sono le idee o le parole a far essere le cose, e credere il contrario è sintomo di un idealismo ingenuo che al di là delle apparenze non ha nulla a che fare con la teoria.
Dobbiamo invece accettare come veri tre assunti, e su questi prendere partito:
1) che la spinta da cui ha preso le mosse la teoria (o la critica tout court, e almeno dall’esortazione a camminare eretti di Kant, 1784) era giusta e lo è tuttora;
2) che le cose del mondo sono mutate al punto che i suoi nemici (non i suoi oppositori, accademici o en artiste: filologi scandalizzati, anime belle, cultori del quieto vivere e del business as usual come ce ne saranno sempre) hanno potuto appropriarsene per i loro fini;
3) che si tratta di comprendere cosa è mutato per vedere se una pratica come la teoria (sì, una pratica) è ancora possibile in un contesto tanto differente.
Per farlo, proviamo a individuare tre linee di forza nella struttura del nostro presente. Linee di forza che potrebbero rivelarsi anche linee di rottura (altrimenti che teoria sarebbe?), e che devono essere pensate, più che come delle rette, nella forma di tre cerchi intersecanti. Cerchi nei quali, più che sforzarsi frettolosamente di uscirne, conviene imparare a stare nel modo giusto.

Il primo cerchio è quello della crisi del paradigma linguistico. Soppiantata dalle scienze della cognizione, la linguistica non è più da tempo la guida delle altre discipline. Non che la ricerca non prosegua. Ma non fornisce più modelli paragonabili per successo e capacità di contagio a quello della linguistica strutturale. Quel modello ha mostrato da tempo la sua corda, è stato criticato dall’interno e dall’esterno, e fin dagli anni settanta anche in Italia c’è stato chi come Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo poteva sostenere che gli sprofondamenti abissali del post-strutturalismo erano il rovescio speculare dell’eccesso di pretese del suo antonimo.
Non ci interessa qui riprendere il discorso, né insistere su errori, sviste, forzature, interpretazioni errate di Saussure o Hjelmslev, semplificazioni come quella della coppia metafora/metonimia proposta da Jakobson o altro ancora. Anche perché credere che un paradigma ceda per collasso interno (o per cattiva alimentazione: se avessimo letto meglio Bachtin, o Benjamin qualche anno prima…), e non per l’attrito col mondo in cui si va a impattare, è di un’ingenuità nemmeno commovente. Di ben altro momento è invece chiedersi cosa ci fosse dietro al successo di quel paradigma: di quale desiderio fosse sintomo, di quale speranza fosse indice, di quale richiesta di verità si facesse portatore.
Il mondo intero come testo: non solo la letteratura (dimenticando autore e lettore, storia e contesto) ma anche la società e la psiche umana. Questo hanno rimproverato agli strutturalisti tanto i loro oppositori old fashioned quanto i culturalisti che ne hanno ereditato lo scettro. Questo e la pretesa di possedere un metodo scientifico esatto in grado di descriverlo, quando invece la critica e le scienze umane in generale sono modalità di conoscenza per loro natura dialogiche, discorsive, interpretative. Ma il sogno (o l’incubo) di una critica trasformata in scienza della letteratura è stato l’estremo rifugio di quell’aspirazione all’universale che la modernità ha inscritto nel suo programma fondativo. A fronte della moltiplicazione all’infinito della produzione culturale, alla fungibilità dei suoi prodotti e alla loro sussunzione sotto il dominio della merce, la critica “scientifica” ha tentato di svolgere la stessa funzione di cattura e addomesticamento che le scienze fisiche esercitano nei confronti dell’infinito naturale. Uno strumento di controllo, e anche un regolatore omeostatico d’angoscia, non dissimile da quel «pensiero selvaggio» che secondo Lévi-Strauss non serve solo a designare gli scambi e servizi in cui si articola la divisione del lavoro sociale, ma a situare la presenza dell’uomo nel cosmo nel momento in cui non ha la possibilità di farlo come soggetto.
Alla critica come scienza si è aspirato fin dal positivismo. Formalismo e strutturalismo praghese hanno dato il loro contributo. Ma non è un caso che quel desiderio sia divenuto egemone negli anni sessanta, al tempo della definitiva trasformazione delle società moderne in società opulente, fondate sul consumo di massa: una accolita di merci (e di comportamenti sociali a esse ordinati) tanto più sconfinata di quella che aveva di fronte a sé Karl Marx.
Innumerevoli, scriveva Barthes in un testo-manifesto come l’Introduzione all’analisi strutturale del racconto, sono i racconti del mondo. Per parlarne, la critica deve compiere lo stesso gesto che ha inaugurato la linguistica moderna: diventare deduttiva, ipotizzare una struttura soggiacente, un modello di tutti i modelli, da cui poi ridiscendere alla molteplicità dei fenomeni concreti altrimenti non intellegibili.
Che si trattasse di un programma irrealizzabile, Barthes è stato tra i primi a capirlo, e lo ha detto in S/Z. Ma a noi interessa qui intenderne l’intima necessità storica. Si apre davanti al critico lo spazio sterminato della letteratura-mondo, orale e scritta, intessuta di una miriade di imprestiti, interscambi, ibridazioni tra il centro e la periferia. E poi le altre arti, gli altri media. E poi la semiotica, che ravvisa segni e codici in ogni recesso della produzione sociale. Aggiungiamoci l’alfabetizzazione di massa, l’aumento vertiginoso della produzione e del consumo, il tramonto di quelle confraternite di gusto che sono le élites, le classi superiori. Troppa grazia. Se però la cultura è un sistema di sistemi, una rete di strutture riconducibili tutte a un’unica struttura sovraordinata (la quale, una volta individuata, avrebbe dovuto coincidere con la natura umana, anche se non lo si ammetteva volentieri, Chomsky a parte) allora abbiamo una chiave universale per accedervi, dominarla, metterla in comunicazione con se stessa. Se tutti i sonetti, da Dante a Baudelaire, sono analizzabili con la stessa procedura, se addirittura oggetto della teoria, come ha scritto Gérard Genette, non è solo il reale ma l’intero «possibile letterario», i testi scritti e quelli ancora non scritti, allora non solo abbiamo una bussola, ma possiamo argomentare i nostri giudizi, e comunicarli, capire e farci capire da chiunque, Ottentotti e Parigini, una volta diffusa la buona novella del metodo. Un metodo si può insegnare, condividere, mettere a punto collettivamente in quel processo di continua aspirazione all’universalità senza la quale della modernità non è più nulla.
Era un errore: ma un errore generoso, non un peccato d’orgoglio.Un errore, semmai, tragico, risultato di un accecamento, ovvero dell’incapacità di vedere quanto l’universalità si stesse sempre più implacabilmente realizzando come dominio del valore di scambio, cioè come trionfo della merce. La struttura vagheggiata dai teorici del Novecento è il nome d’arte sotto cui esercita la realtà della merce, nella sua totale requisizione dell’universo sensibile e intellegibile, lavoro umano compreso, creatività inclusa. Potranno mutare le risposte; ma ogni teoria e ogni critica a venire non potranno, anche in ricordo di quel sacrificio, mai fare a meno della consapevolezza di avere presto o tardi un appuntamento obbligato con quel Moloch. Hic Rodhus, hic salta.

Nel secondo cerchio si contempla la fine del paradigma ermeneutico Discende dallo stesso stato di cose appena ricordato. L’interpretazione si è sempre configurata come una pratica da applicare a oggetti di valore già garantito. Prima il testo sacro, poi quello giuridico, e solo dalla fine del Settecento quello letterario, quando la letteratura è stata elevata a oggetto di valore sapienziale come reazione a quella fine del sistema dei generi (alti e bassi, con i loro corrispettivi pubblici) in cui consiste, come ha mostrato Jacques Rancière, il passaggio dal regime delle belle arti e delle belle lettere a quello dell’estetica moderna, soggettiva e proprio perciò impossibilitata a stabilire con certezza i propri confini. Al disorientamento per la perdita di distinzione tra ciò che è costitutivamente (e non condizionalmente, per rifarsi a una nota distinzione di Genette) artistico e ciò che non lo è, si è risposto con la sacralizzazione del letterario, le sacre de l’écrivain di cui ha parlato Paul Bénichou, il poeta che scende alle Madri o che si fa veggente. Un veggente bisogna interpretarlo. Perché solo testi privilegiati (fondativi, decisivi, complessi, difficili) hanno diritto all’interpretazione. In claris non fit interpretatio. Per questo l’interpretazione letteraria ha potuto per un paio di secoli diventare un mestiere, forte di un’alleanza nel segno dell’autorità che teneva insieme sapere e potere, cultura e istituzione, prestigio e cariche, metodo e carriera. Ci sono oggetti più importanti di altri ed io, l’interprete, sono l’unico accreditato a parlarne in ragione della mia competenza, della mia accuratezza, del rigore dei miei procedimenti: lo riconosce anche lo Stato, che per questo ha istituito delle cattedre apposite.
L’idea stessa che la critica sia interpretazione – e implicitamente o esplicitamente teoria dell’interpretazione – è un evento databile. Voltaire non l’avrebbe capita. Chi avesse chiesto a Racine perché scriveva si sarebbe sentito rispondere che lo faceva per la ricreazione dell’honnête homme, non certo per farsi veggente. Ma è databile anche la sua morte. Il dominio della merce, nato insieme al regime dell’estetica per parto gemellare, doveva portare sempre di più ad affiancare ed equiparare ai testi “alti” un universo di produzione simbolica fatta di oggetti che, se così si può dire, non desiderano affatto essere interpretati. Cultura di massa, industria culturale, mainstream, poco importano i nomi. Un videoclip, uno spot, una produzione blockbuster non li si interpreta con gli stessi strumenti di un film di Antonioni.
Più ancora, non li si interpreta proprio. Davanti a questo tipo di prodotti (che sono in schiacciante maggioranza; che rappresentano il principale mezzo di acculturazione delle nuove generazioni; che generano valore, perché si vendono e perché impongono modelli; che stanno unificando in un gigantesco mediascape l’intera superficie planetaria) l’atteggiamento interpretativo è fallace per definizione. Nulla di più ridicolo di un docente di scienza delle comunicazioni intento a spiegare a un diciottenne “come è fatto” un clip che quello capisce meglio di lui, a colpo d’occhio, mentre con una mano invia SMS e con l’altra chatta su Facebook. Velocità, superficie, surfing, fruizione distratta (quella già messa a fuoco da Benjamin per il cinema), presa d’atto senza più rovelli abissali che il mondo vero è diventato favola, sono le attitudini richieste: l’esatto contrario dell’atteggiamento interpretativo.
Né morde più di tanto sopra questa galassia testuale l’altro tradizionale ramo dell’attività ermeneutica: lo smontaggio dell’errore, il debunking, la critica dell’ideologia implicita tanto nel codice quanto nel messaggio. Tu vedi questo, ma in realtà (dove “in realtà” sta per “in profondità”) le cose sono ben diverse. Intanto perché la dimensione della profondità è bandita. E poi perché nessuno è veramente ingannato da uno spot: la partita non è questa. La Willing Subspension of Disbelief è uscita dai suoi cardini, si è fatta habitus forma di vita, attitudine antropologica che addestra il destinatario alle prestazioni necessarie a sopravvivere nella società del capitalismo cognitivo: opportunismo, disincanto, molteplicità senza sintesi, reazione immediata agli stimoli, quel tanto di piacere che è necessario a svolgere volontariamente una prestazione comunque dovuta. E infatti, perché mai governi e capitali privati dovrebbero pagare dei professionisti del debunking? Il limite di quei dipartimenti di Studi Culturali in cui è andata a rifugiarsi (pardon: a trionfare) la teoria non consiste proprio nella loro pretesa di allevare ex cathedra dei sovversivi? A fine Ottocento si deridevano i Kathedersozialisten. A inizio Duemila l’impressione è talvolta la stessa.
Da questo circolo non si esce facendolo girare all’indietro. Il prestigio e il carisma della critica non ritorneranno. E bisogna avere il coraggio di affermare: per fortuna. Erano le vestigia di un mondo gerarchico. Solo assentendo a questo tramonto le tecniche dell’interpretazione potranno essere volte a un compito inedito e migliore, qualcosa che, come il «sogno di una cosa» di cui parlò una volta Marx, abbiamo sempre desiderato senza mai averlo davvero. Perché ciò accada bisogna fare un esercizio di quella che Foucault chiamava l’ontologia del presente: bisogna cogliere l’emergenza di una possibilità che, insieme, era da sempre lì, e, nello stesso tempo, solo ora emerge come effettivamente possibile. Più che fornire altre interpretazioni (indagando al tempo stesso le condizioni di possibilità dell’interpretazione), la critica e la teoria devono avventurarsi in un terreno già da sempre alla loro portata, ma mai esplicitamente rivendicato come proprio. Devono farsi, da interpretazione, esemplificazione, imparare a pensarsi, più che come pensiero e comunicazione, come un gesto, una performance, un evento, un processo costituente che si dà le regole nell’atto del suo stesso accadere. Devono farsi paradigma, modello, esempio di una politica delle verità (per parafrasare Badiou) che non è possibile addurre se non attraverso quell’esempio medesimo. Devono sostenere davanti a chi le ascolta: non conta tanto cosa dico e nemmeno il metodo con cui lo dico, ma piuttosto il fatto stesso che attraverso le mie tecniche io possa prendere efficacemente la parola Non: guardate cosa c’è in questo testo, ma piuttosto: guardate cosa è possibile fare leggendo, guardando e ascoltando questo testo. Un fare, dunque, che aspira al rango dell’agire: praxis, non poiesis, per riprendere una distinzione che struttura il lessico della polis antica. Un processo che ha il proprio fine in se stesso, e non nel fatto di mettere capo a un oggetto esterno a sé, come accade invece nella poiesis, nella produzione. Un atto radicalmente, costitutivamente politico, tanto più tale quanto più i risultati dell’attività critica e teorica diventano di giorno in giorno meno spendibili nel circuito della produzione. Un atto sovrano, e una promessa di felicità, perché soltanto ciò che non ha altro fine cui tendere oltre se stesso può generare qualcosa come una felicità terrena. Solo passando da enunciato a gesto, da simbolo a esempio, da discorso ad atto, la teoria e la critica possono ancora pretendere a un destino. Non a caso i filosofi antichi collocavano al cuore della polis il bios theoretikos.

Il terzo cerchio, infine, citato da ultimo ma primo per genealogia e importanza: la crisi della secolarizzazione. Torniamo per un attimo alla definizione di Jameson: l’inimicizia radicale tra teoria e reificazione, il linguaggio come perpetuo flusso, come energheia e non come ergon, la critica dell’ideologia, non la rinuncia alla verità ma la sfida alla menzogna. Un gesto, ancora una volta, più che un insieme di concetti e tecniche.
Da dove trae origine? Non è difficile rispondere. Da quella sfida all’autorità della religione che era implicita, moderata o estremistica che fosse, nel processo che porta il nome generico di illuminismo. Teoria e critica come sintomo e insieme come fattore di secolarizzazione. Come contesa per la verità con le religioni rivelate, quand’anche si accettasse di concedere loro, come faceva per esempio Voltaire, un’utilità pratica (per tenere a freno le masse: non tutti possono essere illuminati) e un nocciolo di ragione (un qualche dio dovrà pur esserci); ma pur sempre, appunto, per graziosa concessione della ragione. Le cose ultime sottratte dalle mani dei teologi (e poi, non senza un lungo e tortuoso andirivieni, anche da quelle degli scienziati, che pretendevano di averle ereditate). Solo arbitro la critica, e la teoria che ne è il risvolto autocosciente.Ma che questo atteggiamento abbia oggi perso pregnanze e legittimità è di un’evidenza che acceca. Nelle società secolarizzate il sacro rispunta da ogni dove, il mistero è quotidiano, il numinoso si trova in pieno rigoglio: basti pensare alla fortuna di produzioni librarie e cinematografiche come Il Signore degli anelli, Harry Potter, X-files, Il codice da Vinci; alla proliferazione incontrollata e antiecologica di vampiri e lupi mannari; alla stucchevole simpatia di cui gode il Dalai Lama, con grande scorno di Slavoj Zizek. Uno strano sacro, certo: consumabile, domestico, tascabile; ma straordinariamente efficace, complice anche quella generalizzata sospensione dell’incredulità che ha dalla sua, come si è visto, ragioni niente affatto frivole, prima fra tutte quella di garantire il nesso tra piacere e prestazione. Il sacro, diceva Durkheim, garantisce il passaggio dal necessario al desiderabile. In un mondo profano, Dio parla per spot: ovvero, il sacro è ovunque. Lo aveva già intuito (però denegandolo) l’estetica moderna, col suo perpetuo centramento tematico e formale sul dispositivo dello choc. Ma basta allargare lo sguardo oltre i confini del cosiddetto Occidente per accorgersi che la questione è assai più seria. La religione (e con essa la tradizione) è al centro del dibattito sul destino di molti paesi ex coloniali: arabi e indiani, africani e asiatici. Nella galassia degli studi postcoloniali sta facendo versare molto inchiostro la formula celebre di Edward Said secondo cui la critica è intrinsecamente «secolare»: penso in particolare al dibattito fiorito intorno alle riflessioni di un teorico eminente come Talal Asad. Ma cosa significa “secolare” presso popoli per i quali l’illuminismo era il sapere degli invasori? Non a caso c’è chi ha parlato di «coscritti della modernità». Come dobbiamo interpretare i loro linguaggi e i modi della loro politica? Non è lo stesso concetto di emancipazione troppo compromesso, ha osservato Dipesh Chakrabarty, con il nostro linguaggio, la nostra storia, il nostro angolo visuale? Una folla di contadini indiani si solleva in sciopero sostenendo che al momento buono apparirà un loro dio a guidarli. È perché non hanno ancora chiaro il concetto di lotta di classe? Dobbiamo chieder loro di applicare il nostro imperativo di debunking? La nostra teoria può veramente aspirare a essere universale? Se sì, come? E se no, se quel nesso con l’universalità in cui consiste il suo primo titolo di nobiltà viene rescisso, che ne resta? Non rischiamo di continuo di sentirci rivolgere da loro, come anche dai consumatori coatti ma tutt’altro che inconsapevoli delle nostre madrepatrie, il già citato no grazie, non ci demistificate niente, siamo a posto così?
Tanto più che, come va ripetendo da tempo Bruno Latour, nel nostro apparato critico è implicita una sorta di mossa segreta in due tempi che permette a chi la adotta di vincere sempre: a chi crede di vedere un fatto si insinua che in realtà ciò che vede è una proiezione del suo linguaggio su una realtà che non può mai conoscere direttamente; ma a chi ne deducesse di stare con ciò compiendo almeno un atto libero e sovrano (alla Karl Rove, per intenderci) si ribatte che in realtà in quella proiezione non c’è nulla di libero, in quanto condizionata dalle soverchianti e impensate forze dell’economia e della cultura, della struttura e della sovrastruttura. L’altro, non noi, si trova sempre nella posizione dell’idolatra: «it feels so good to be a critical mind». È bello sentirsi parte di una minoranza eroica. Basta poi non stupirsi se le maggioranze ti chiedono di toglierti dai piedi.
Minoranza, minorità, uscita dallo stato di minorità… Era il motto di Kant che abbiamo già citato. Élites, per quanto rivoluzionarie, coscienze dall’esterno di una massa desiderosa (e non solo bisognosa che sarebbe paternalistico e insultante) di credere più che di criticare. Pessima situazione. La radice vera della crisi. Il terzo cerchio è il più terribile di tutti. Quello in cui per la teoria ne va davvero, come diceva Don Abbondio, della vita. Come può rivendicare la dignità della sua genealogia – che è quella e non un’altra, non si scappa – in un mondo globalizzato che ha tutte le ragioni per diffidarne?
Una domanda cui sarebbe ridicolo rispondere in un saggio: non è un lavoro che si fa da soli né tutto in una volta. Da più di trent’anni vi si applicano non a caso tanto Spivak quanto il gruppo dei Subaltern Studies fiorito intorno a Ranajit Guha. Ma cerchiamo almeno una indicazione di percorso valida anche per chi non proviene dal Bengala e non insegna negli Stati Uniti (è il guaio della teoria voler essere sempre e nello stesso tempo universale e situata). Indicazione, d’altra parte, che dovrebbe risultare implicita da quanto siamo venuti dicendo fin qui.
Si è detto che quello strano oggetto che chiamiamo teoria può essere – da sempre e insieme solo ora – davvero possibile unicamente a patto che si pensi, in apparente contraddizione coi suoi termini, come esemplificazione di una prassi. Ma perché ci sia prassi è necessario che ci sia un soggetto. Non un Io – che, come insegna la psicoanalisi, è essenzialmente un meccanismo di difesa. Né meno che mai una cultura, espressione ambigua, scivolosa e temibile. Non per nulla è stata tanto facilmente scippata ai teorici (secondo i quali è un processo performativo sempre in costruzione ecc. ecc. ecc.) per mano di un’accolita di ideologi grossolani intenzionati a servirsene come di una clava verbale che più sostanzialista non si può: la nostra cultura, la loro cultura, lo scontro tra culture… È implicita anche nel concetto di cultura – comunque la si definisca: Bildung o Kultur, autopoiesis o retaggio ancestrale dei lari e dei penati – una dinamica di offesa e di difesa, un’immaginazione del confine. Vuoi, per i reazionari, come territorio in cui non far penetrare gli altri. Vuoi invece, in un senso più profondo, come continua espansione al di là dell’ambiente naturale da parte di una specie umana povera di istinti e ricca di pulsioni, incapace di distinguere come altre specie tra segnale (pertinente alla sopravvivenza) e rumore (trascurabile): poiché non abbiamo un ambiente ci inventiamo mondi. Ma non è mai la specie nel suo insieme che lo fa. Perché ciò avvenga è necessaria appunto l’entrata in scena di un’istanza cui sia possibile imputare la domanda: chi? Chi fa, chi ha fatto, chi ha intenzione per il futuro di far questo? Questa istanza è il soggetto.
Ma il soggetto è stato il grande assente, il capro espiatorio, il fulcro archimedico denegato di tutta la migliore teoria novecentesca: respinto come «fallacia intenzionale» dal New Criticism; degradato a mero esecutore di matrici nella semiotica e nello strutturalismo; decostruito dal post-strutturalismo; indebolito o sociologizzato dalla neoermeneutica e dall’estetica della ricezione; barattato con dubbio profitto con la sua reificazione in “identità” nella vasta galassia degli studi culturali. Con la parziale eccezione, lo si è visto, degli studi postcoloniali e subalterni, dove però per il momento è più un interrogativo che una soluzione. Se è dalla prassi che la teoria muove, e se è alla prassi che ambisce ritornare, il soggetto deve ricominciare a essere la sua preoccupazione principale.
Ed è proprio qui, seppelliti tutti i morti che c’erano da seppellire, che possiamo ritrovare un ruolo efficace anche alla pratica oramai spettrale della critica letteraria. Perché quale migliore addestramento al formarsi e al disfarsi del soggetto di quello che può fornirci l’uso esemplare che facciamo dei testi letterari?
L’esemplificazione è la madre, la matrice e la genealogia di ogni possibile soggettività a venire. Non c’è bisogno di essere un formalista fuori tempo massimo per sostenere che i testi letterari non hanno nulla a che vedere con la trasmissione di un qualsivoglia tipo di sapere. Non è così che funzionano, non è per questo che li scriviamo e li leggiamo. La letteratura non rappresenta mai un «che cosa» dice «chi»: mette in scena un agente, una coscienza, una ragnatela di rapporti possibili tra coscienze possibili: «tutto il conosciuto – diceva Bachtin – deve essere correlato al mondo in cui si compie l’atto umano e sostanzialmente legato alla coscienza agente, e solo per questa via esso può entrare nell’opera d’arte». Presuppone un soggetto perché lo finge. Familiarizza all’uso di sé attraverso l’altro. Mostra come si possa fare un’esperienza che è sempre in situazione e nello stesso tempo fuori dal recinto immediato del nostro angolo visuale. Al di là della cattiva infinità insita nell’opposizione tra individuale e collettivo, istituisce, come dicevano Benjamin e Adorno, il testo e chi lo legge a monade in cui si rispecchia l’universo. Singolarità, in potentia, universale, che è l’esatto analogo linguistico del soggetto materiale della prassi: perché solo nella prassi – necessariamente collettiva, se praxis è partecipazione nella polis – ci si incontra e ci si trasforma come singoli. Coi contadini indiani in rivolta ci confronteremo solo quando avremo la consapevolezza che le loro lotte concrete (e le nostre eventuali) hanno bisogno, per essere davvero efficaci in un mondo globalizzato, di sapersi immaginare a vicenda. Questo può insegnarci a fare la letteratura.
Ma sarebbe feticistico pensare che ciò accada in forza di una sua virtus intrinseca. La letteratura non fa nulla da sola. La letteratura è l’uso che ne facciamo, appunto, come soggetti. Per questo è necessaria la critica, e alla critica è necessaria la teoria, e alla teoria la prassi – e alla prassi la letteratura: in un circolo non più vizioso ma virtuoso. A chi obbiettasse in conclusione che in questo saggio di letteratura abbiamo parlato ben poco, si può in buona coscienza rispondere che non abbiamo parlato d’altro.

Daniele Giglioli

[Da “il verri” n. 45, In teoria, in pratica, Febbraio 2011. Immagine: Richard Serra.]

Nota.

La diffusione di concetti e metodi della teoria letteraria è illustrata da Remo Ceserani in Convergenze, Bruno Mondadori, Milano 2010. Teoria letteraria come critica dell’ideologia è il punto di partenza di Antoine Compagnon, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Einaudi, Torino 2000. Di Bruno Latour si fa riferimento qui a Why Has Critique Run out of Steam? From Matters of Fact to Matters of Concern, in “Critical inquiry” 30: 2 Winter 2004, oltre che al suo classico Non siamo mai stati moderni, Elèuthera, Milano 1995. La definizione di teoria di Fredric Jameson deriva da un suo intervento al simposio sul “Futuro della critica” organizzato sempre da “Critical inquiry” nel 2003; la si legge nello stesso numero che ospita il saggio di Latour. Un buon bilancio delle difficoltà in cui versa la teoria è quello non più recentissimo ma molto accurato proposto dalla rivista “Moderna” nel 2005, con singoli saggi dedicati alla situazione italiana, inglese, francese ecc. Segnalo in particolare il saggio di Franco Marenco sulla critica inglese, in quanto contiene un elenco esilarante di titoli tutti costruiti in forma di variazione sul tema “contro la teoria/dopo la teoria”.
Chi scrive ha discusso la paura per il contagio del costruzionismo nelle scienze umane in un saggio su Umberto Eco, Carlo Ginzburg e la genesi del nuovo romanzo storico italiano, in un saggio di prossima pubblicazione nell’Atlante della letteratura italiana Einaudi, a cura di Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà. La notizia che l’esercito israeliano si serve di Deleuze e Guattari (macchine da guerra flussi, rizomi…) si legge in Eyal Weizman, Architettura dell’occupazione, Bruno Mondadori, Milano 2009. Di Nietzsche si cita da Su verità e menzogna in senso extramorale, in Id., Frammenti postumi III, Estate 1872 – Autunno 1873, Adelphi, Milano 2005. Il saggio di Kant Che cos’è l’illuminismo, risposta alla domanda posta da una rivista dell’epoca, cui si fa più volte riferimento nel testo, si può leggere insieme alle altre risposte e a saggi coevi (di Mendelssonn, Hamann, Herder tra gli altri) nell’antologia curata da Nicolao Merker, Che cos’è l’illuminismo?, Editori Riuniti, Roma 1987.
Franco Brioschi e Costanzo di Girolamo hanno smontato pazientemente il paradigma strutturalista in libri come La mappa dell’impero, il Saggiatore, Milano 1983, e Critica della ragione poetica, Bollati Boringhieri, Torino 2002 (Brioschi), o come Critica della letterarietà, il Saggiatore, Milano 1977 (Di Girolamo). Di Barthes si cita da Introduzione all’analisi strutturale del racconto, in AAVV, L’analisi del racconto, Bompiani, Milano 1969; e da S/Z, Einaudi, Torino 1970. Di Gérard Genette, da Figure III, Einaudi, Torino 1973, e da Finzione e dizione, Pratiche, Parma 1994. Di Paul Bénichou è da tener presente La consacrazione dello scrittore. L’avvento dello spirito laico nella Francia moderna (1750-1830), il Mulino, Bologna 1993. Di Jacques Rancière, che ha molto influenzato questo scritto, rimando almeno a Il disagio dell’estetica, ETS, Pisa 2007, e Politica della letteratura, Sellerio, Palermo 2010. Una buona introduzione al pensiero di Badiou è il suo Etica. Saggio sulla coscienza del male, Cronopio, Napoli 2006. L’antipatia di Zizek per il ruolo ideologico del Dalai Lama si legge per esempio in Difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, Ponte alle Grazie, Milano 2008. Sul sacro popular-postmoderno fa osservazioni acute Em McAvan, The Postmodern sacred, “Journal of Religion and Popular Culture”, 22: 1 Spring 2010.
Sulla parola d’ordine della critica come procedura secolare il testo di riferimento per gli studi postcoloniali è Edward Said, The World the Text and the Critic, Harvard University Press, Cambridge (Mass) 1983. Un fecondo dibattito su secolarismo e critica è fiorito intorno alle opere di Talal Asad (tra le quali in particolare Formation of the Secularity: Christianity, Islam, Modernity, Stanford University Press, Stanford (CA) 2003, e Is Critique Secular? Blasphemy, Injury and Free Speech, Townsend Century for the Umanities, University of California Press, Berkeley 2009, che contiene anche scritti di Judith Butler, Wendy Brown e Sana Mahmood). Qualche esempio: Michael W. Kaufmann, The Religious, the Secular, and Literary Studies: Rethinking the Secularization Narrative in Histories of the Profession, “New Literay History”, Volume 38: 4, Autumn 2007; Donald E. Pease, The Crisis of Critique in Postcolonial Modernity, “boundary 2”, 37: 3 (2010); la splendida formula sui colonizzati come coscritti della modernità è copyright di David Scott, The Conscripts of Modernity: The Tragedy of Colonial Enlightenment, Duke University Press, Durham (NC) 2004. Mentre vanno sempre tenuti sullo sfondo di queste discussioni Ranajit Guha (iniziatore dei Subaltern Studies), La storia ai limiti della storia del mondo, Sansoni, Firenze 2003; Gayatri Chakravorty Spivak, Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004; e Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma 2004. La cultura come tensione tra ambiente e mondo, istinto e pulsione, è uno dei temi dominanti dell’antropologia filosofica del Novecento (Gehlen, Plessner, ma anche un biologo come von Uexküll e un filosofo come Heidegger), ripreso di recente con grande vigore speculativo da Paolo Virno e Massimo De Carolis. La citazione finale di Michail Bachtin è tratta da L’autore e l’eroe, Einaudi, Torino 1979.

Aspetta primavera, stronzo – Un corso di sopravvivenza editoriale

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(Ricevo questa segnalazione da Tommaso Giagni, e volentieri la ripubblico qui. gz)

“Aspetta primavera, stronzo” è un corso di sopravvivenza editoriale, organizzato dall’Agenzia letteraria Vicolo Cannery.

Trentadue ore, divise in quattro weekend, dal 23 febbraio al 23 marzo 2013.

Un corso libero perché, se ti devi formare, non puoi già avere un curriculum. Gratuito perché i saperi, come le storie, sono di tutti. Dissuasivo perché l’editoria è un deserto con troppi miraggi. Un corso tenuto da professionisti ma non professionalizzante.

Dicono che, dopo un corso di formazione a pagamento, avrai il tuo stage. Che devi appropriarti degli strumenti per imparare il mestiere, e che in primavera quello stage diventerà un lavoro. Dicono che quel lavoro è affascinante e ha il profumo dei libri. Dicono che quel lavoro è una missione anche se costa più di un sacrificio. Allora ti dicono che sei come un figlio e condividi il progetto.

Invece.

Avrai uno stage con un corso di formazione a pagamento solo nel migliore dei casi. Non è formazione, ma lavoro non retribuito. Andrai a sostituire uno stagista precedente e poi a tua volta da uno stagista sarai sostituito. Il ciclo continuerà a ripetersi, fornendo manodopera gratuita all’infinito.

Può anche andar meglio e il lavoro lo trovi davvero, ma sarà sottopagato, intermittente, senza diritti, alienante, in una competizione al ribasso ogni anno inflazionata da nuovi corsisti poi stagisti poi precari. E un giorno qualsiasi di questo inverno senza fine ti faranno aprire una partita Iva, e sarai diventato un “imprenditore”.

Questo corso è per quelli che aspirano a trovare refusi a 0,22 centesimi a cartella; a scoprire che i libri non si sono mai venduti; a sorridere anche se non hanno voglia per una recensione in più; a vedere una prova di traduzione pubblicata in volume; a cedere i diritti sulle proprie opere a condizioni capestro; a cercare visi di donna per una copertina «d’impatto»; a editare libri in cui non credono.

Aspetta. Aspetta primavera, stronzo.

Tutti i sabati e le domeniche dal 23 febbraio al 23 marzo 2013
Orario: 15.30 – 19.30
Kino, via Perugia 34, Roma (zona Pigneto)
Ingresso gratuito soci Arci

REDAZIONE (sabato 23 febbraio 2013):
Alessia Ballinari, Redattori precari, redattrice (ultimo libro lavorato: E. Carrère, Limonov, Adelphi 2012)
Margherita Bianchini, Redattori precari, redattrice (ultimo libro lavorato: A. Forte, La Londra degli italiani, Aliberti 2012)
Luisa Capelli, docente di Economia e gestione delle imprese editoriali presso l’università di Tor Vergata.

EDITING (primo giorno, sabato 2 marzo 2013):
Vincenzo Ostuni, Ponte alle Grazie

COMMERCIALE E LIBRERIA (domenica 3 marzo 2013):
Gianluca Catalano, direttore commerciale Edizioni e/o
Davide Manni, Libreria minimum fax

TRADUZIONE E REVISIONI (sabato 9 marzo 2013):
Gaja Cenciarelli, traduttrice (ultimo libro tradotto: T. O’Neill, City, Playground 2012)
Mirko Zilahi de’ Gyurgyokai, consulente editoriale e traduttore (ultimo libro tradotto: B. Stoker, Il mistero del mare, Nutrimenti 2012)

UFFICIO STAMPA E GIORNALISMO CULTURALE (domenica 10 marzo 2013):
Chiara Di Domenico, responsabile ufficio stampa L’Orma Editore
Loredana Lipperini, giornalista e conduttrice di “Fahrenheit”

L’EDITORIA SECONDO GLI AUTORI (sabato 16 marzo 2013):
Carolina Cutolo
Wu Ming 2

EDITING (secondo giorno, domenica 17 marzo 2013):
Marco Di Marco, Marsilio

GRAFICA (sabato 23 marzo 2013):
Maurizio Ceccato, grafico

Mourir pour des idées: Brassens / De André / Brassen’s not dead

3

Gerorges Brassens, Mourir pour des idées (1972)

www.robertoroversi.it

1

neve-italia-2010

(Da qualche giorno è on-line il sito dedicato a Roberto Roversi: rende disponibile e liberamente scaricabile tutta la sua opera.)

 

È arrivato il tempo in questo tempo non mi

bastava più aspettare e nel tempo

 

il nostro è un grande paese

a camminarlo vien sete.

Questo paese la sete la caccia via.

“Mamme, sapete cosa cantano i vostri bambini?”

Nuvole accartocciate ancora dentro a una pioggia pigra.

Più grande è la Merica.

Ma anche questo paese su cui cade la neve nel silenzio

è grande.

Non lo cammini in un giorno.

Mentre righe d’oro si imprimono

sul cuore della lontana California

Catharina è nel bar attraverso il vetro sfoglia una merendina in-

cellophanata

qua la piazza del mercato è vecchia

e interroga il passato.

Insistere con pazienza sulle parole

anche dentro le parole

trapassate da cinque

fulmini.

Questo inverno canta con i lupi in solitudine.

Colombina e Pierrot lunaire

tracciano ghirigori assiri sulla neve

 

raccolgo nel campo della memoria alcune parole d’amore

 

passeri grigi scendono e beccano la mia spalla nell’ombra

 

la fortuna chissà

 

chissà dove.

 

Mi sono messo a vivere

 

*

 

Da L’Italia sepolta sotto la neve, ora in www.robertoroversi.it

Enemy aliens in America – I romanzi di Julie Otsuka e le storie dimenticate dei giapponesi schedati e internati nei campi di prigionia

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di Silvia Pareschi 

Three boys looking through barbed-wire camp fence - Toyo Miyatake
Three boys looking through barbed-wire camp fence – Toyo Miyatake

Tradurre i romanzi di Julie Otsuka è stata un’esperienza molto coinvolgente, non solo per la bellezza della sua scrittura, limpida, essenziale e fluida, ma anche per il grande interesse delle storie da lei raccontate. Storie poco note persino negli Stati Uniti, dove si svolgono, perché riguardano una minoranza che le ha perlopiù archiviate senza clamore, quasi con un senso di vergogna per ciò che ha subito. Il primo libro di Julie Otsuka che ho tradotto, Venivamo tutte per mare – che in realtà è il secondo da lei scritto, vincitore del PEN/Faulkner Award 2012 – racconta la storia delle migliaia di “spose per corrispondenza” (o “spose in fotografia”) arrivate negli anni ’10 e ’20 dal Giappone alla costa occidentale degli Stati Uniti per sposare loro compatrioti che hanno visto solo in fotografia.

Sulla nave non potevamo sapere che quando avremmo visto i nostri mariti non li avremmo riconosciuti. Che tutti quegli uomini in berretto di maglia e cappotto nero sdrucito che ci aspettavano giù sul molo sarebbero stati così diversi dai bei giovanotti delle fotografie. Che le fotografie che ci avevano mandato erano vecchie di vent’anni. Che le lettere che ci avevano scritto erano state scritte da altri, professionisti della bella calligrafia che di mestiere raccontavano bugie e conquistavano cuori. Che nel sentir gridare i nostri nomi dalla terraferma, una di noi si sarebbe girata coprendosi gli occhi – Voglio tornare a casa – ma tutte le altre avrebbero abbassato la testa, si sarebbero lisciate la gonna del kimono e sarebbero scese dalla passerella per uscire nel giorno ancora tiepido. Questa è l’America, ci saremmo dette, non c’è nulla di cui preoccuparsi. E ci saremmo sbagliate.
[Da Venivamo tutte per mare, di Julie Otsuka, Bollati Boringhieri.]

Nel suo primo romanzo, pubblicato di recente in Italia con il titolo Quando l’imperatore era un dio, Otsuka narra invece la storia di una famiglia giapponese internata nei campi di prigionia americani durante la Seconda guerra mondiale. Una storia non molto conosciuta neppure negli Stati Uniti (un po’ di più sulla costa occidentale, dove molti ricordano ancora l’improvvisa scomparsa dei loro vicini di casa giapponesi), una pagina molto brutta della storia americana che ho voluto esplorare un po’ più a fondo, lasciandomi guidare dalla storia narrata nel romanzo.

Persons-of-Japanese-ancestry-from-San-Pedro-California-arrive-at-the-Santa-Anita-Assembly-center-in-Arcadia-California-in-1942
Persons-of-Japanese-ancestry-from-San-Pedro-California-arrive-at-the-Santa-Anita-Assembly-center-in-Arcadia-California-in-1942

Enemy Aliens

Le spose per corrispondenza protagoniste di Venivamo tutte per mare continuano ad arrivare in California fino al 1924, quando negli Stati Uniti entra in vigore l’Asian Exclusion Act, che proibisce l’immigrazione dei cittadini asiatici e vieta loro la naturalizzazione e il possesso di terre. La grande maggioranza degli immigrati giapponesi lavora nelle campagne della West Coast; sono bravi contadini, noti per la qualità dei loro prodotti e per la loro capacità di coltivare qualunque terreno. Doti che non li rendono certo popolari agli occhi degli altri contadini e proprietari terrieri, che naturalmente sono tra i primi sostenitori dell’Asian Exclusion Act. Non si tratta del primo “atto di esclusione” di questo tipo nei confronti degli immigrati asiatici (il primo era stato emesso contro i cinesi nel 1882), ma per i giapponesi le cose cominciano a peggiorare nel 1939, all’inizio della Seconda guerra mondiale. In quel momento non esiste una convenzione internazionale sul trattamento dei civili residenti di nazionalità nemica, e i cittadini dei paesi dell’Asse che vivono negli Stati Uniti non sanno ancora a cosa andranno incontro.

Poco dopo l’attacco a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, i cittadini giapponesi, tedeschi e italiani presenti sul suolo americano – già soggetti all’Alien Registration Act del 1940, che obbliga tutti i residenti di nazionalità straniera (circa cinque milioni) a sottoporsi a schedatura annuale presso gli uffici postali – vengono dichiarati enemy aliens (stranieri nemici). La condizione dell’enemy alien è equiparabile alla libertà vigilata, con l’aggiunta di un coprifuoco notturno. Tutti gli enemy aliens dai quattordici anni in su possono venire arrestati, trattenuti, reclusi e trasferiti forzatamente, senza che vengano loro comunicati i capi d’accusa o le prove a carico. Se in seguito alle indagini oppure a una delazione si ritiene necessario l’arresto, l’enemy alien viene semplicemente prelevato dall’FBI e condotto al centro di detenzione più vicino. Da lì, se giudicato pericoloso, viene trasferito in un campo di prigionia.

La fotografia è di Ira W. Guldner
La fotografia è di Ira W. Guldner

Erano venuti a prenderlo poco dopo mezzanotte. Tre uomini in giacca e cravatta e borsalino nero con il distintivo dell’FBI sotto il cappotto. «Prenda lo spazzolino da denti» gli avevano detto. Era successo in dicembre, subito dopo Pearl Harbor, quando vivevano ancora a Berkeley, nella casa bianca in un’ampia strada non lontano dal mare. Avevano fatto l’albero di Natale e l’intera casa profumava di pino, e dalla finestra il bambino li aveva visti portar fuori suo padre in vestaglia e pantofole e fargli attraversare il giardino fino alla macchina nera parcheggiata accanto al marciapiede. Non aveva mai visto suo padre uscire di casa senza cappello. Era questo che lo aveva turbato di più. Niente cappello. E quelle pantofole: malconce e sbiadite, con la suola di gomma ricurva alle estremità. Se solo gli avessero permesso di mettersi le scarpe, forse le cose sarebbero andate diversamente. Ma non c’era tempo per le scarpe.
[Da Quando l’imperatore era un dio, di Julie Otsuka, Bollati Boringhieri.]

A dust storm hits Manzanar Relocation-Center in California on July-3-1942 - Dorothea Lange
A dust storm hits Manzanar Relocation-Center in California on July-3-1942 – Dorothea Lange

Campi di prigionia

I successi iniziali dell’esercito nipponico nel Pacifico scatenano il panico nella popolazione americana, soprattutto tra gli abitanti della costa occidentale. Il 19 febbraio 1942, sotto la pressione dell’opinione pubblica, Roosevelt firma l’Executive Order 9066, che designa «aree militari dalle quali alcune o tutte le persone possono venire escluse». Tale misura interessa indistintamente enemy aliens e cittadini americani di origine giapponese.

Il cartello era apparso durante la notte. Sui pannelli per le affissioni, sugli alberi e sullo schienale delle panchine alle fermate dell’autobus. Era appeso nella vetrina di Woolworth’s. Di fianco all’ingresso della YMCA. Affisso al portone del tribunale municipale, e inchiodato ad altezza d’occhio a ogni palo del telefono lungo University Avenue. La donna stava restituendo un libro alla biblioteca quando vide il cartello nella vetrina dell’ufficio postale. Era una giornata di sole a Berkeley, nella primavera del 1942, e lei aveva gli occhiali nuovi e ci vedeva bene per la prima volta da settimane. Non doveva più socchiudere gli occhi, eppure li socchiuse ugualmente, per abitudine. Lesse il cartello da cima a fondo e poi, sempre con gli occhi socchiusi, tirò fuori una penna e lo rilesse di nuovo. Era scritto in caratteri piccoli e scuri. In certi punti minuscoli. La donna annotò alcune parole sul retro di una ricevuta bancaria, poi si voltò, tornò a casa e cominciò a preparare i bagagli.
[Ibid.]

La principale “zona di esclusione” è proprio la costa del Pacifico: tutti i giapponesi che vi abitano – circa 112.000, di cui 85.000 tra nisei (giapponesi di seconda generazione, nati negli Usa e cittadini americani) e sansei (i figli dei nisei) – vengono deportati e internati in campi di prigionia, com’era già successo agli enemy aliens considerati pericolosi per la sicurezza del paese. L’Office of Alien Property Custodian si occupa della gestione delle proprietà confiscate ai deportati, i quali ricevono l’ordine di liquidare tutti i loro beni con un preavviso che va dai tre giorni alle due settimane. La War Relocation Authority, invece, gestisce la deportazione dei prigionieri nei campi. La prima tappa è in uno degli Assembly Centers, centri di raccolta allestiti in luoghi pubblici come ippodromi e zone fieristiche. La madre e i due bambini di Quando l’imperatore era un dio passano mesi nel Tanforan Assembly Center di San Francisco, un ex ippodromo dove gli alloggi sono ricavati dalle scuderie.

Per tutta l’estate avevano vissuto nelle vecchie scuderie dietro la pista dell’ippodromo. Al mattino si lavavano la faccia nelle lunghe mangiatoie di lamiera, e di notte dormivano su materassi imbottiti di paglia. Due volte al giorno, quando suonava la sirena, tornavano nelle scuderie per l’appello, e tre volte al giorno si mettevano in fila nella mensa sotto le tribune.
[Ibid.]

Portraits of evacuees housed in the Manzanar Relocation Center in California, taken by Ansel Adams in 1943
Portraits of evacuees housed in the Manzanar Relocation Center in California, taken by Ansel Adams in 1943

Dai centri di raccolta, i prigionieri vengono trasportati a bordo di camion, autobus o treni in uno degli Internment Camps, dove rimarranno fino alla fine della guerra. Il campo dove vengono deportati la madre e i due bambini si trova a Topaz, nello Utah; il padre, invece, dopo l’arresto è stato mandato a Fort Missoula, in Montana, e da lì trasferito a Fort Sam Houston, in Texas.

Sopra il letto del bambino c’era una finestra, e fuori c’erano le stelle e la luna e le interminabili file di baracche nere allineate sulla sabbia. In lontananza, un grande campo vuoto dove cresceva solo artemisia, poi la recinzione e le alte torrette di legno. In ogni torretta c’era un soldato di guardia munito di mitragliatrice e binocolo, che di notte azionava il riflettore.
(…)
Le regole sulla recinzione erano semplici: non si poteva passarci sopra, non si poteva passarci sotto, non si poteva girarci intorno, non si poteva attraversarla.
E se il tuo aquilone vi si impigliava sopra?
Facile. Lasciavi andare l’aquilone.
C’erano anche regole sul linguaggio: Qui diciamo Sala da pranzo anziché Sala mensa; Consiglio di sicurezza anziché Polizia interna; Residenti anziché Evacuati; e non ultimo, Clima mentale anziché Morale.
C’erano regole sul cibo: niente bis, tranne che per pane e latte.
E sui libri: niente libri in giapponese.
C’erano regole sulla religione: non sono ammessi scintoisti adoratori dell’Imperatore.
(…)
All’inizio dell’autunno arrivarono i reclutatori delle fattorie per ingaggiare nuova manodopera, e la War Relocation Authority permise a molti giovani, uomini e donne, di uscire dal campo per dare una mano con il raccolto. Alcuni di loro andarono a nord, in Idaho, a cimare le barbabietole da zucchero. Alcuni andarono in Wyoming a raccogliere le patate. Alcuni andarono nella tendopoli di Provo a raccogliere pesche e pere, e alla fine della stagione tornarono indossando Florsheim nuove di zecca. Alcuni tornarono indossando le stesse scarpe con cui erano partiti, e giurarono che non ci sarebbero più andati. Dissero che gli avevano sparato. Gli avevano sputato addosso. Gli avevano proibito l’ingresso al diner. Al cinema. Alla merceria. Dissero che, dovunque andassero, i cartelli nelle vetrine dicevano tutti la stessa cosa: VIETATO L’INGRESSO AI GIAPPONESI. La vita era più facile dissero, da questa parte della recinzione.
[Ibid.]

Il più tristemente noto di questi campi è quello di Manzanar, nella California orientale, nel quale vengono internate più di 10.000 persone (due terzi delle quali sotto i 18 anni), e che in seguito sarà dichiarato monumento nazionale. Altri si trovano più all’interno, in Arizona, Wyoming, Arkansas, Utah, Colorado, in zone desertiche dove le temperature invernali scendono sotto lo zero.

Al mattino la neve si era trasformata in fanghiglia, e un vento pungente soffiava dai monti Wasatch. «Copriti bene» disse sua madre. Strappò le pagine del catalogo Sears Roebuck e le ficcò dentro le fessure nelle pareti. Chiuse i nodi del legno con i coperchi delle lattine. Andò a prendere qualche secchio di carbone dal mucchio che ogni tanto compariva in mezzo alla strada e accese il fuoco nella stufa. Quando la War Relocation Authority annunciò che avrebbe distribuito equipaggiamento militare della prima guerra mondiale, fece la fila per due ore e tornò con paraorecchie, gambali di tela e tre giubbotti da marinaio blu taglia cinquantasei.
[Ibid.]

Dorothea Lange ritratta da Paul S. Taylor, 1934
Dorothea Lange ritratta da Paul S. Taylor, 1934

Tre fotografi nel campo di Manzanar

Nel 1942 la War Relocation Authority ingaggia la fotografa Dorothea Lange per ritrarre la vita dei giapponesi internati nei campi. Quando le viene chiesto di fotografare le famiglie nippo-americane prima e dopo l’internamento, Lange è già famosa per aver documentato il periodo della Grande Depressione, ed è anche una dei pochi americani contrari all’Executive Order 9066; la sua partecipazione alle lotte dei contadini messicani immigrati l’ha resa consapevole del razzismo diffuso nella West Coast. Lange si butta nell’impresa con grande dedizione, malgrado gli ostacoli che le vengono continuamente posti dalle autorità militari, sempre più sospettose nei suoi confronti. Lavora dal febbraio al luglio del 1942, producendo circa 800 fotografie, di cui la maggior parte scattate, con molte restrizioni, nel campo di Manzanar. Le autorità militari, però, trovano troppo critico lo stile realistico di Lange, e confiscano le foto per tutta la durata della guerra. Al termine delle ostilità vengono trasferite negli archivi nazionali, dove rimangono pressoché ignorate per molto tempo, malgrado la fama dell’autrice e il fatto che ormai siano di pubblico dominio. Solo nel 1972 ne vengono esposte 27 in una mostra al Whitney Museum intitolata Executive Order 9066, mentre nel 2006 una selezione delle foto – circa un ottavo – viene pubblicata nel volume Impounded: Dorothea Lange and the Censored Images of Japanese American Internment, a cura di Linda Gordon e Gary Okihiro.

Un ritratto di Ansel Adams
Un ritratto di Ansel Adams

Nel 1943 l’incarico di documentare la vita nel campo di Manzanar viene affidata al il più famoso fotografo americano, Ansel Adams. L’invito gli viene rivolto dal direttore del campo, Ralph Merritt, che è suo amico, ma questo non significa che il grande fotografo possa documentare tutto quello che vede senza censure. Le sue foto, scattate fra il 1943 e il 1944, verranno criticate perché non mostrano le sofferenze dei prigionieri, anzi, li fanno sembrare soddisfatti della loro vita nel campo. Dopo aver pubblicato una selezione delle foto nel libro Born Free and Equal, nel 1968 Adams le dona alla Library of Congress.

Un ritratto di Toyo Miyatake
Un ritratto di Toyo Miyatake

Il terzo fotografo di Manzanar è uno dei suoi prigionieri, Toyo Miyatake. Prima della guerra, Miyatake è un fotografo commerciale di successo a Los Angeles. Benché fra le misure restrittive imposte ai prigionieri nippo-americani vi sia il divieto di possedere macchine fotografiche, Miyatake riesce a introdurre una lente nel campo e a costruirsi una macchina. Quando lo scopre, il direttore Ralph Merritt gli permette di continuare: dapprima con un assistente bianco che preme l’otturatore al suo posto (per aggirare il divieto), poi semplicemente con la supervisione continua di un bianco, poi finalmente da solo. Nei più di tre anni passati a Manzanar, Miyatake scatta circa 1500 fotografie, in cui la vita dei prigionieri viene documentata da vicino, in tutti i suoi dettagli quotidiani.

La fotografia è di Dorothea Lange
La fotografia è di Dorothea Lange

Paranoia anti-giapponese

Il più grande trasferimento forzato di popolazione nella storia degli Stati Uniti avviene senza che si levi nessuna protesta, né da parte della comunità giapponese, né da parte dell’opinione pubblica. Le organizzazioni per la difesa delle libertà civili rimangono in silenzio, mentre i giornali – primo fra tutti il “New York Times” – sostengono con foga una drastica soluzione di quello che viene definito il “problema giapponese”. Solo i quaccheri si oppongono apertamente alle deportazioni, e a quanto pare Eleanor Roosevelt cerca invano di convincere il marito a non firmare il provvedimento. Un’altra voce contraria – isolata quanto inattesa – è quella di J. Edgar Hoover, il direttore dell’FBI, che indirizza al Ministero della Giustizia un memorandum segreto per smentire la teoria paranoica del “complotto giallo” sostenuta dal generale John L. DeWitt, il comandante della regione militare del Pacifico. La nota dell’FBI non viene recapitata alla Corte Suprema, che decreta, su pressione del governo, la validità dell’Executive Order 9066.

 

La situazione degli italiani

I provvedimenti che colpiscono i nippo-americani si rivolgono all’inizio anche contro i cittadini italiani e tedeschi, che però rimangono quasi immuni dal clima di paranoia collettiva che circonda i giapponesi. Il 12 ottobre del 1942, in occasione della festività di Columbus Day, viene annunciata l’esenzione degli italiani dalla categoria degli stranieri nemici. Il partito democratico tenta in questo modo di riconquistare il voto di quasi sei milioni di elettori italo-americani, che rappresentano una componente importante della coalizione rooseveltiana.

 

A Japanese family returning home from a relocation center camp in Hunt, Idaho, found their home and garage vandalized with anti-Japanese graffiti and broken windows in Seattle, Washington, on May 10, 1945. (AP Photo)
A Japanese family returning home from a relocation center camp in Hunt, Idaho, found their home and garage vandalized with anti-Japanese graffiti and broken windows in Seattle, Washington, on May 10, 1945. (AP Photo)

Ritorno a casa

Nel gennaio del 1945 l’ordine esecutivo viene revocato. I prigionieri lasciano i campi, e a ciascuno vengono assegnati 25 dollari e un biglietto ferroviario per tornare a casa. Molti, però, al loro ritorno non trovano più quello che avevano lasciato. Chi ha ancora una casa è fortunato; anche molti contadini hanno perso le loro terre.

Il resto del nostro mobilio era sparito. Non aveva importanza. Eravamo a casa. Eravamo fortunati a essere a casa. Molti di quelli che erano tornati in treno con noi non avevano più una casa dove tornare. Quella sera avrebbero dormito negli ostelli, nelle chiese e sulle brande dell’YMCA.
[Ibid.]

Gli ultimi campi, quelli dove sono stati internati gli enemy aliens considerati pericolosi, vengono chiusi nel 1946. Il padre di famiglia di Julie Otsuka può tornare a casa.

E allora arrestatemi pure. Prendete i miei figli. Prendete mia moglie. Congelate i miei beni. Sequestrate il mio raccolto. Perquisite il mio ufficio. Saccheggiate la mia casa. Cancellate la mia assicurazione. Mettete all’asta la mia impresa. Intestate a un altro il mio contratto d’affitto. Assegnatemi un numero. Informatemi del mio reato. Troppo basso, troppo scuro, troppo brutto, troppo orgoglioso. Mettetelo per iscritto – è nervoso durante la conversazione, ride sempre nel momento sbagliato, non ride mai – e io firmerò sulla linea tratteggiata. È furbo e infido, è spietato, è crudele. E se un giorno vi chiederanno se c’era qualcosa che volevo veramente dire, per favore, sappiate che era questo:
Mi dispiace.
Ecco. Ho finito. L’ho detto. Ora posso andare?
[Ibid.]

Nel 1948 viene approvato l’American Japanese Claims Act, che consente ai nippo-americani deportati di chiedere il risarcimento per i beni perduti. Nel frattempo, però, l’agenzia delle imposte ha già distrutto gran parte della documentazione fiscale del periodo 1939–42, e così solo una piccola percentuale delle perdite viene risarcita.

After the orders to-relocate and detain-persons of Japanese ancestry were  rescinded evacuees began returning home and camps began to close.
After the orders to-relocate and detain-persons of Japanese ancestry were rescinded evacuees began returning home and camps began to close.

Epilogo

Per molto tempo nessuno parla più dell’internamento degli enemy aliens. Alla vergogna del governo americano si aggiunge la resistenza dei giapponesi, convinti che la divulgazione di questo episodio possa danneggiare la comunità e infangare il nome delle famiglie coinvolte. A partire dagli anni Settanta, tuttavia, l’argomento comincia a venire discusso nelle università, e alcuni membri della comunità nippo-americana cominciano a fare pressioni per ottenere le scuse ufficiali e un risarcimento da parte del governo. Nel 1980 Jimmy Carter nomina una commissione d’indagine che stila il rapporto Personal Justice Denied, nel quale si decreta che non esisteva alcuna necessità militare per l’internamento della popolazione civile. Otto anni dopo, il 10 agosto 1988, Ronald Reagan firma il Redress Act, l’atto di riparazione che, insieme alle scuse della nazione, decreta l’ammontare del risarcimento da assegnare a ciascuno dei circa 60.000 sopravvissuti: 20.000 dollari, una cifra puramente simbolica che non può certo ripagarli di tutto ciò che hanno perso.

 

Julie Otsuka è nata in California, vive e lavora a New York. È autrice di due romanzi, When the Emperor Was Divine (2002; pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri nel 2103 con il titolo Quando l’imperatore era un dio) e The Buddha in the Attic (2011; pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri nel 2102 con il titolo Venivamo tutte per mare).

Properzio – II, 17, 28 b, 29 b

5

trad. isometra di Antonio Maggio

 

17

Fare promesse all’amante, di vane ed effimere notti,

è come avere mani ricoperte di sangue.

Questo ripeto nel letto, ma stanco nel vuoto deserto

dove solo consumo la mia notte più amara.

Le porte di Francesco Nardi

1

OOA_N1di Francesco Nardi

(…)

È chiaro che questo non era un
“tran tran”
anzi mi aveva scombussolato a tal
punto
che ero finito ancora al centro
psichiatrico diverse volte
due mesi prima degli esami mi
era capitata
una malattia all’intestino dal quale
me ne
avevano tolto 70 centimetri
e dovevo studiare ed ero fiacco e
non
riuscivo a concentrarmi… né a
dormire
insomma non so proprio come ho
fatto a
finire il liceo
e sono passato con 6+
Poi è morto mio padre

[…]

Poi ho passato sei anni qui da solo a
dipingere senza che un amico
varcasse le porte di casa mia con i
fratelli che rompevano le scatole perché
gli sporcavo il pavimento della sala
invece di lavorare.

[…]

OOA_N2Tra gli anni 70 e gli anni 80 non so che
dire io ho avuto anche un vuoto “continuo”
di memoria e di tutto.
Sarà stato il militare
sarà stato il manicomio in senso vero
saranno stati gli psicofarmaci
sarà stata la malattia?
sarà stata la mia indole pigra?
sarà stata la mia famiglia?
sarà stata la mia fuga dalla società?
E di “coscienza” si parla
andare nel “profondo”???

[…]

ne ho fatte più di cinquanta
quando raccoglievo le prime porte tutti mi
prendevano per matto
“dipinge le porte di casa sua”
era quello che pensavano
Non ne ho toccata una di porte di casa mia
Ora persone vengono qui soprattutto donne
OOA_N3non sanno nulla di pop,
non sanno nulla di transavanguardia,
non sanno nulla di arte minimale,
non sanno nulla di arte povera
non sanno nulla di nulla di arte – tutto quello che dicono
è bello e questo no – non mi piace –
Quando dipingevo le prime porte sono stato
per sei anni senza che nessuno entrasse a
casa mia di questi pseudo amici follinesi
e che ti facevano anche i malocchi gettendoti il sale
davanti casa tua
pretendono e ti danno in cambio poco o
vestiti e cianfrusaglie vecchie
Ce ne sono cinquanta porte qui e vogliono
anche una installazione
quella che non c’è più…
ed erano stati qui quando c’era…
e vogliono quella che non sanno “più”
e non hanno “mai saputo”
e vengono qui a mezzanotte con l’amica che
ha visto la porta appesa al ristorante
OOA_N4fatta 10 anni fa
ed hanno il denaro per la Saab, per la Bmw,
la moto ed il Mercedes
strombazzano
e ti sorridono
gli chiedi trecento e dicono che sono
troppi allora penso: chiedo forse troppo?
Chiedo 200 e dicono che sono troppi
E te ne danno 150
e c’è anche stato chi non ti da nulla
vestiti vecchi appunto in cambio
e promesse mai mantenute
Non sapevo che gli artisti venissero
trattati così da queste parti
altrimenti non l’avrei nemmeno fatto.

 

a-casa-sua

 

Francesco Nardi (1952 – 2013)

 

 

 

 

 

 

Dialogo tra Checco Nardi e Daniela Rosi (nel 2012):

DR “Francesco sei soddisfatto che le tue opere siano arrivate a Parigi?”

FN “Tu sei contenta?”

DR “Certo Francesco, sono molto contenta!”

FN  “Bene allora, son contento per te!”

 

[i testi di Francesco Nardi e le immagini delle sue opere sono tratti dall’articolo “Le porte di Francesco Nardi, pittore di Follina”, di Daniela Rosi, pubblicato su “Osservatorio Outsider Art”, n° 5, ottobre 2012, Palermo; nel suo articolo, che comprende anche una breve biografia, Daniela Rosi ha selezionato i testi dell’artista da: “Ridotto al minimo”, di FN, Grafiche Antiga, 2005, Crocetta del Montello, TV, ora esaurito]

 

 

 

 

Brevi riflessioni su “Zero Dark Thirty”

3

di Giancarlo Alfano

Cari lettori di NI, mi permetto di fare due brevi riflessioni a partire dalle considerazioni, intelligenti e utili, di Andrea Inglese.

La prima riguarda una dimensione specifica dei linguaggi dell’audiovisivo oggi. Inglese ci spiega la discussione rifluita nei media. Purtroppo io non l’ho seguita, ma dalla sintesi proposta vedo che non si fa riferimento alla “vischiosità” dei media odierni, alla marcata tendenza a far circolare storie e personaggi attraverso formati differenti.

Ciao Gabriele

8

Gabriele Basilico Ho appena saputo che Gabriele Basilico non c’è più. Ve lo dico con le lacrime agli occhi. L’ultima volta che ci siamo parlati era al Festival della Fotografia Europea dello scorso anno. Come al solito ci siamo detti di vederci più spesso e come al solito non l’abbiamo fatto.

Era nato a Milano nel 1944. Laureato al Politecnico di Milano era per noi giovani studentelli di architettura l’occhio perfetto.

Quando pubblicai il mio Metropoli per principianti, nel 2008, molti mi contestarono l’assenza di fotografie. “Le uniche che vorrei sarebbero quelle di Basilico” rispondevo, vezzoso. Neppure un anno appresso lo conobbi, proprio ad una mostra di sue fotografie, a Lucca. “Se me lo chiedevi te le davo volentieri le mie foto” mi disse. L’idea che Basilico mi leggesse era inconcepibile per me, troppo onore, troppa responsabilità,  troppo tutto!

“Dobbiamo fare una cosa assieme prima o poi”, mi disse, un’altra volta, allo Spazio Oberdan, a Milano. Era un uomo generoso, è tutta colpa mia, della mia ignavia, se non se ne è mai fatto nulla.

Scusate, non riesco a dire molto di più. Qui sotto allego una sua fotografia che ho scaricato da qui.

Ciao Gabriele, e scusami.

 

Gabriele_Basilico_.

 

 

Nuovi autismi 32 – Le mie speranze

9

giordano_falzoni_soleil avec la lune 46-48di Giacomo Sartori

Come tutti gli uomini io sono sempre vissuto di speranze, e vivo ancora di speranze. Spero che la mia malattia abbia una remissione e che sarò liberato dal dolore, spero che la data cosa e la tal altra abbiano un buon esito, spero che non si abbatta la data catastrofe che prima o poi so si abbatterà. Spero che le cose che scrivo incontrino interlocutori a esse confacenti, che abbiano quella minima rispondenza che mi illudo potrebbe procurarmi schegge di pace e benessere. Spero più spesso di avere tempo a disposizione, di non essere strangolato dalle necessità, di essere calmo e poter fare le mie cose. Quasi mai spero di cambiare vita, o di essere felice in modalità straniere alla mia presente quotidianità: spero piuttosto di poter seguitare a fare quello che sempre faccio senza tensioni e senza ansie, senza angoscia, sentendomi bene. Sono come uno scommettitore che punti ormai a una vincita moderata, quasi esigua, ma proprio per questo forse più accessibile, meno aliena. Un giocatore incallito e rovinato dal vizio del gioco, e proprio per questo dimesso, ma non ancora arreso all’evidenza che non si vince mai, non si può vincere.

Passo le giornate a sperare, e quindi abito il futuro: il presente non mi riguarda molto, non mi ha mai coinvolto più di tanto. Il presente lo prendo come le incombenze che ci vengono imposte, come un compagno di viaggio che nolenti o volenti si deve sopportare. Una pantomima con i suoi innegabili difetti, le sue ineluttabili limitazioni, le sue cose orrende. Non è che mi ci ribelli e tanto meno che accumuli rancori, perché sono di indole pacifica, e ho anche spigolato qua e là chicchi di saggezza, ma di là a provare entusiasmi ce ne vuole. Solo il futuro mi seduce, il presente quasi sempre mi da uggia. Vivo in un perenne sabato del villaggio, sullo scadere però della giornata, con la pedissequa domenica che già incombe. Chi mi è più vicino ogni tanto mi dice che dovrei immergermi nell’oggi, che solo quello conta e è vero. Io a tratti mi sforzo, mi sembra anche di fare dei progressi: un tempo il presente mi era per principio ostile e mi ripugnava, ora mi scorta e mi tiene compagnia, e qualche volta mi ispira simpatia. O perfino mi manca: lo spio, lo ausculto come si interpellano i silenzi più enigmatici. Poi però al primo intoppo torno a imbozzolarmi nel futuro, che come è noto non esiste, torno a sperare. Spero che farò la data cosa, che si avvererà la tal altra. Ho quindi l’impressione di non aver vissuto, e per molti versi davvero si potrebbe dire che non ho vissuto.

Da piccolo speravo di morire, in modo che le persone che conoscevo fossero molto tristi, da essere affranto io stesso. La prospettiva di morire mi riempiva di beatitudine, mi faceva versare lacrime di dolorosa felicità, certo la più grande ebbrezza che abbia mai provato. Ma forse più che una vera speranza era un’immaginazione. Resta il fatto che le mie lacrime si portano dietro questo strascico di esaltata disperazione, e quindi piangere è l’attività più appagante che conosca. Ma si piange così poco. L’ultima volta è successo a Roma un mese fa, davanti a un quadro.

Per molti anni ho ruminato il suicidio, ora sono come una barca nella corrente, mi piace lasciarmi trasportare. Certo se le onde crescessero forse tornerei al pessimismo di un tempo, che era anche una forma di godimento, ma per ora mi è dolce farmi cullare. Cerco di non avere rimpianti, non mi sembra bello, e soprattutto poco sincero. Però intendiamoci, sono attaccato all’esistenza, e i legacci che a essa mi incatenano sono appunto le speranze.

Molte mie speranze sono prosaiche, quasi triviali. I ristoranti per esempio mi hanno sempre suscitato epiche e vivide speranze. Infinite volte passando davanti a un dato ristorante sorgeva in me, sorge tuttora, la speranza di andarci a mangiare. Non ancora un desiderio, che a rigore potrei provare a soddisfare: un vago anelito. Mi dico che quel ristorante che sto guardando ha l’aria proprio invitante, mi dico che si deve mangiare davvero bene, e questo basta per generare in me una minuta gioia. Poi beninteso non ci vado, e non di rado il locale cambia apparenza o gestione, da giapponese diventa messicano, o anche chiude, ma il vizio non si spegne: la lista dei ristoranti che hanno risvegliato in me speranze più o meno volatili sarebbe davvero molto lunga. Non parlo dei ristoranti di lusso, che non sono alla mia portata (l’ho già detto, le mie speranze sono morigerate): mi piacciono i locali che mi sembrano accoglienti, dove intuisco si potrebbe mangiare bene e potrei essere contento.

Naturalmente qualche volta mi capita di andarci davvero, in uno dei ristoranti nei quali ho vagheggiato entrare. Come è immaginabile è sempre una prova avvilente. L’ambiente interno non ha quella preziosa particolarità che mi ero prefigurato da fuori, e anzi appena seduto a un tavolo perde tutta la sua singolarissima aura magica, diventa simile a tanti altri esempi che già conosco. Con quelle sacche di tristezza, di sordida mestizia, che caratterizzano i luoghi pubblici. Quegli angoli magari puliti ma senz’anima, che catturano lo sguardo e lo rendono afflitto. E comunque il cibo si rivela essere di solito quello che è, del cibo, cibo richiamante squilibri e imperfezioni, sommarietà, o anche bassezze, imposture, pericoli, come quasi sempre succede al cibo commerciale. Niente a che vedere con la flagranza naturale di una mela molto matura di un albero dimenticato, di una frittata preparata con passione su un fornelletto da campeggio, di una conchiglia strappata a uno scoglio. Il ristorante di turno è insomma detronizzato, diventa un tassello come un altro nella mia mente, una bottega dove si smerciano piatti così-così, se non poco digesti, letali per il mio fisico delicato. Ma ripeto, non frequento i ristoranti cosiddetto di alto livello (che certo mi incomoderebbero prima ancora di approdare all’organolessi).

Analoghe speranze me le suscitano i paesi lontani. Penso spesso a questo o quel luogo dove non sono stato e che per un verso o per l’altro mi attira, mi dico che prima o poi ci andrò. Nella mia mente mi figuro il dato paesaggio o la data metropoli, e spero di gustarli, mi immagino che entrando in contatto fisico sarei felice. Nella mia testa sono un grande viaggiatore. Qualche volta arrivo perfino a informarmi dei biglietti aerei, a esplorare goffamente i prezzi e le modalità. Poi però non vado da nessuna parte, o meglio torno sempre nei posti che già conosco. I cosiddetti viaggi turistici mi ripugnano, e le località nuove mi respingono, mi tengono a distanza con la loro indifferente alterità. Da decenni prendo gli stessi treni, gli stessi aerei, cammino per le stesse strade. Io amo quei treni e quelle strade, dove posso fare le uniche cose che mi interessano, non altri treni e altre strade, treni e strade che non hanno niente a che fare con me. O meglio, un po’ li odio, li considero per così dire i miei carcerieri, i miei spietati aguzzini, ma anche li amo. So che non potrei amare di primo acchito spazi e architetture nuove. Non prima di esserci stato tanto tempo, prima di averci penato e sofferto. Ho sperimentato che mi è impossibile amare senza passare per un travagliato apprendistato. So che i turisti amano la loro immagine, la loro domestica ombra riflessa su sfondali rinomati, non i posti dove sfilano.

Talvolta, ma non tanto spesso, una mia speranza si aggruma, coagula prendendo la forma di un’entità perseguibile, di un desiderio preciso: un oggetto, un’azione. Sono il primo a stupirmene. Certo prima succedeva, e anzi i desideri che ne derivavano erano non di rado impazienti, dispotici, brutali, immorali, sadici. Da anni constato che la forza prorompente di questi non è la stessa: si diradano, diventano meno densi e più lassi, come un cielo che si rassereni. Non si presentano nuovi candidati, e quelli residui regrediscono allo stato di nembi sfilacciati: vaghe speranze, appunto. Le speranze sono meno impegnative e più malleabili (i desideri si addicono ai giovani e ai fanatici, dopo una certa età affaticano): sono piacevoli compagne di viaggio, discrete e servizievoli e docilmente funerarie come geisha.

(l’immagine: Giodano Falzoni, “Soleil avec la lune”, 1946-1948)

Allegria!

6

di
Francesco Forlani
Ti ricorderai. Tu che dici che non vedi San Remo per curiosità ma per obbligo da imperativo catatonico, il cielo stellato sopra di me, un televisore piattoschermo dentro di me.

Un paese con lo sfratto esecutivo

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lettera dalla Spagna di Mónica Flores Fernandez

“Articolo 25
Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione e alle cure mediche ed ai servizi sociali necessari[…]”
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

“Artículo 47
Todos los españoles tienen derecho a disfrutar de una vivienda digna y adecuada. Los poderes públicos promoverán las condiciones necesarias y establecerán las normas pertinentes para hacer efectivo este derecho, regulando la utilización del suelo de acuerdo con el interés general para impedir la especulación.”
Constitución Española del 1978.
(1)

Dopo la teoria, ancora la teoria

16

 

di Paolo Zublena

Se si dovesse tracciare in poche righe la storia della critica (e del rapporto tra teoria e critica) nell’ultimo mezzo secolo, il risultato potrebbe essere – con gli ovvi limiti di una semplificazione – relativamente lineare e geograficamente non troppo discontinuo, tolte ovvie sacche di discronia, di inerzia o di marginalità. A grandi linee,

Ci vuole molta lotta nella classe: una lettera aperta

44

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di
Chiara Di Domenico

Cara Giulia,
quando penso a te e a me mi viene in mente uno strano collage che forma due donne. Tu col tuo lavoro, e io col mio. Mi viene in mente, a pensare questo, che abbiamo una grande responsabilità verso chi oggi un lavoro non ce l’ha, o rischia di perderlo (a dire il vero anche io ho un contratto a progetto, come sai, ma sono serena e fiduciosa nel futuro). Abbiamo più o meno la stessa età. Siamo nate nello stesso periodo, ma siamo cresciute in maniera diversa. Qualcosa però nonostante tutto ci ha accomunate. Gli anni Settanta in cui siamo nate, l’amore per i libri, i nostri padri. Tuo padre è stato minacciato dalle Brigate Rosse, mio padre nel 1978 rischiava la pelle mentre faceva il suo lavoro, chiamato a presidiare come poliziotto le strade di Roma, nei giorni del rapimento Moro. Chiamava ogni sera, per fare sapere che era vivo.

In questi giorni dove per fortuna l’unico piombo è quello della carta, quegli anni in cui siamo nate sono stati evocati più volte. Io, a parere di alcuni, sono stata una terrorista a fare il tuo nome: non ho lanciato una bomba, ho lanciato una frase. Che in un paese attinto da venti anni di televisione spazzatura e di risse in tv si è trasformata in una slavina. Non mi sento vittima per le offese dozzinali e volgari, per le sentenze alla sottoscritta costruite sui sentito dire: è stato detto che sono un’idiota, una cretina, una prezzolata dal PD, una forcaiola. Qualcuno ha anche scritto che, a guardarmi bene, Lombroso non aveva tutti i torti. In quel famigerato intervento a “Le parole dell’Italia giusta”, mai concordato con nessuno, ci tengo a ribadirlo per l’ennesima volta, ho citato una tua intervista di qualche anno fa, in cui tu dicevi di essere stata assunta a 23 anni. All’epoca non eri neanche laureata, e come tanti altri che non l’hanno detto ma l’hanno pensato, sono rimasta sconcertata.

Non voglio più entrare in merito a questo caso velenoso e stupido, buono a togliere l’attenzione dal quasi milione di precari presenti in Italia e a dare la scusa per parlare sui giornali dell’ultimo scandalo piuttosto che dei problemi che stanno affossando questo paese. Per questo motivo non ti chiedo scusa (così come non chiederò le scuse di chi mi ha strumentalizzata e ricoperta di insulti in questi giorni), ma ti dico grazie. Grazie per avermi aiutata a riportare in primo piano questo problema drammatico.

Proprio oggi è uscito un comunicato sulla trattativa in corso per 51 precari in Mondadori. Bene. Augurandomi che queste assunzioni prevedano un’ effettiva acquisizione dei diritti impliciti in un contratto a tempo indeterminato, mi viene in mente che nell’azienda dove lavori, in tutto il gruppo editoriale Mondadori intendo, la Rete Redattori Precari di cui faccio parte ha rilevato un numero di precari ben maggiore. Uomini e donne che da anni lavorano in azienda ricoprendo diverse mansioni, donne e uomini meritevoli se un’azienda così importante si è avvalsa del loro lavoro per lungo tempo. Molti di loro avevano un contratto a progetto. Con la legge Fornero, come sai, questi contratti sono arrivati a un punto di svolta: o l’assunzione, o la consulenza tramite partita iva, o il licenziamento senza nessun paracadute sociale, che sai meglio di me che se un contratto a progetto non viene rinnovato non è previsto nessun TFR e nessun sussidio di disoccupazione.

Ieri i tweet di Monti cinguettavano ottimi propositi per i giovani, il lavoro e la meritocrazia. Ottimo, cara Giulia. Qualcosa mi dice che in tutto questo ci sia il nostro zampino. Tuo, tirata tuo malgrado in questo “catfighting” come l’ha definito qualcuno (e devo dire che in questi giorni di politici e cani non mi dispiace questa definizione) e mio, che comunque sto ancora sentendo dei bei sassi planare sul mio scudo.

Mi dispiace sinceramente per gli inconvenienti che ci sono arrivati addosso da questo strano caso, ma vedo che tu stai bene, che la tua reputazione ne è uscita rinforzata, e anche io ho ricevuto un tale calore e incoraggiamento da tanti, per quell’intero discorso, che ogni mattina invece di svegliarmi preoccupata sorrido, e sono quasi felice a vedere che questo paese non è morto e ottuso come ce lo dipingono.
Pensavo che tanta disattenzione alla vita quotidiana della gente avesse ucciso definitivamente la partecipazione, e invece riscopro con gioia che la gente interviene, dice la sua, addirittura in molti mi hanno detto che torneranno a votare, nonostante tutto.

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Cara Giulia, dobbiamo fare un altro passo, un passo importante. So che per entrambe non è facile conciliare tanto lavoro con l’impegno, ma chi fa cultura in un modo o nell’altro prima o poi è chiamato, per forza, a fare qualcosa per quel paese che ci ha dato istruzione e possibilità.Facciamo in modo che queste possibilità siano per tutti. Che tutti abbiano la loro chance. Che sia davvero, e senza nessuna ombra, un paese democratico basato sul lavoro.

Dobbiamo ridare fiducia a questo milione di persone, che si stanno avvicinando pericolosamente alla soglia dei quarant’anni, quella soglia che un mercato del lavoro spietato ha segnato come il punto di non ritorno per guadagnare uno stipendio ed essere quindi dei liberi cittadini, capaci da soli di pagarsi un affitto e mantenere una famiglia. E non possiamo deludere quegli altri che ogni giorno, appena usciti dalle università, ci chiedono come si fa a entrare in questo mondo incantato dell’editoria. Verso di loro abbiamo una responsabilità ancora più forte. Non dobbiamo illuderli, e allo stesso tempo non dobbiamo deluderli.

Sappiamo entrambe che la flessibilità, nell’anno di crisi 2013, è indispensabile. Lavoriamo ogni giorno a fianco di situazioni difficili. Conosciamo entrambe persone che in questi mesi hanno perso lo stipendio. Dobbiamo lavorare anche per loro. Esercitare la nostra posizione per riportare ogni giorno sui giornali e nel quotidiano queste storie. Senza vittimismi (ecco, se c’è una parola che mi ha colpita di quelle che hai usato parlando di me e che non mi appartiene è proprio questa), mediando con chi può migliorare le condizioni dei nostri colleghi, rendendo il linguaggio difficile del mondo del lavoro alla portata di tutti. Spronando i numerosi intellettuali che conosciamo a tenere alto un dibattito civile e costruttivo sul valore della cultura pubblica e dell’uguaglianza sociale, a ricordarla e praticarla ogni giorno.

Così ho pensato che sarebbe bello davvero, se ci fossi anche tu sabato prossimo ad un incontro pensato proprio per i lavoratori precari. Si chiama “Alta Partecipazione”, l’ha organizzato un gruppo di associazioni che da più di un anno si batte per una flessibilità giusta, per dare stabilità a tutti ma senza perdere i nostri diritti. Perché il lavoro è cambiato, e bisogna dare a tutti quanti i mezzi per conoscerlo e interpretarlo meglio. Perché non esistano più partite iva con un solo committente uccise dalle tasse, perché non si chieda più alle persone di lavorare dodici ore al giorno senza neanche lo straordinario, perché la maternità sia una gioia e non un problema.

Dobbiamo spazzare via questa rabbia, questo sconforto.
Alta partecipazione è una bella occasione. Potremo finalmente conoscerci, riappacificare gli animi, partecipare attivamente a un dibattito portato avanti da un anno in maniera produttiva. Al momento l’unica forza politica che ha aderito è appunto il PD, ma sarebbe bello e auspicabile, visto che il lavoro è un diritto di tutti, a destra e a sinistra, che anche le altre forze politiche partecipassero.

Bene, è tutto. Non ti rubo altro tempo in questo lunedì pomeriggio.
Spero di vederti a Roma. Lo so che stai a Milano e che il tempo libero è poco, ma sarebbe davvero un segno di qualcosa di nuovo, di diverso rispetto agli spettri degli anni in cui siamo nate e che a qualcuno è tanto piaciuto rievocare, a sproposito.
Conto su di te. E perdonami se questa è una lettera aperta, ma non c’è niente da nascondere tra noi. Non più.

Ti aspetto sabato prossimo, al Centro Congressi Frentani, a Roma.

Un saluto, e intanto buon lavoro, a te e a tutti.

Zero Dark Thirty. La cancellazione dell’alterità del nemico e l’esibizione della tortura

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bigelow

di Andrea Inglese

Sono andato a vedere Zero Dark Thirty. Quando ho saputo che negli Stati Uniti avevano già sfornato un prodotto per raccontare cinematograficamente l’uccisione di Bin Laden, sono rimasto lievemente incredulo e ammirato. A nemmeno due anni di distanza dall’evento, la grande macchina narrativa hollywoodiana aveva già fagocitato, elaborato, e confezionato una versione dei fatti da vendere in giro per il mondo con l’intento di far sognare, divertire ed emozionare un pubblico globale.

Corona (+ 3)

7

coronadi Andrew Zawacki

traduzione di Andrea Raos

Corona  

Un io balbettò e un io mutò
voce, un io provò

a legare una fune a un io che
se la slacciava.

Un io guardò un pescatore trainare a riva
dal frangente uno squalo tigre della sabbia,

mentre un altro io era già anni più tardi,
tornato là dove un abitante del posto

aveva messo l'esca per il persico ma abboccò uno squalo.
Un io si sedette sotto nuvole olivina,

nuvole rosso acceso, un cielo cortigiana,
e un io si stese al sole

da bambino, immaginando una canna da pesca
divenuta corona. Un io sventolò una sciarpa

fiordaliso, ascoltò il suono di una girandola
e il suono del vento,

salutò con la mano un imminente
amore passato. E un io andò in giro

a piedi nudi e scottato dal sole attraverso
le inibizioni nicheliche del pomeriggio,

scagliando bottiglie ambrate contro un sommacco selvatico,
il lago piombo, nuotando per raggiungere i suoi

sul molo mentre scendeva il crepuscolo,
mentre lo stesso ragazzo restava indietro

a guardarlo nuotare. Un io credette
che un padre potesse essere ucciso da uno smottare di roccia

e un io si svegliò per scoprire che aveva solo
sognato, benché suo padre fosse già morto,

e un io credette nella bellezza di una casa
non costruita da nessuna mano. Un io promise

che mai niente si sarebbe rotto – e niente si ruppe – 
e un io vide rompersi ogni cosa

e non seppe dirlo.

*

Vertigine

Se il vento che si attarda tra i rami
sfugge da sé solo per finire in quarantena
per via di una bufera sbandata dal nord

e se l'aria si capovolge mimando
i resti dell'imbrunire sconvolta da una gelata precoce
e punita per quanto freddo è il suo freddo

tu, come un proiettile che si incastra nell'osso
e diventa parte del corpo,
non ti sveglierai partita via dal tuo nome.

E io non sarò parte di te.

§

Ci sono cose che vorrei mettere in chiaro
con me stesso. Perché, per esempio,
mentre l'autunno si dipana, non riesca a cementare

me con me stesso, solo luce del sole
sparsa in giro da qui fino al sole. Con “io”
voglio dire una finestra, punto di rosso che sfiora il lago

all'alba o un'eco spulata
lungo il muro, premuta a nascondersi
e sformata dalla voce da cui svanisce.

Voglio dire così tante finestre. Così tanto rosso. 

§

Che non mi si fraintenda.
Quella donna che porta in sé
l'inverno, intirizzita da una neve

che mai si livella – vorrei dire
io la amo. Ma io è parola troppo forte
e amo non abbastanza.

*
Glassscape

Soffio di grigi in campo
fluido e ticchettio di pioggia
	lo-fi – bleu pétrole – 
				un sole
a 60 watt svitato dal
cielo desolato: pietr-
			ame e fanghiglia di carbone,
	benna e loess, per quale fosforo
è un semaforo, setoso
				nelle sue ombre acustiche
		a slucernare, a restare
via quando mi sposto:
figure lontane dal mercurio
		buio, non
          infrangibile, non
	otturabile,
da immagine rumore
ogni contorno stirato a
			strass – 
		come se i margini fossero
invasi da centri o ceneri
			– “Ecchoes 
			to the Eye” –   
o la scarpetta di Cenerentola
soffiata in poli-
		vinile butile
	laminata a vetro.

*

Le forme gelate in familiare lontananza

Questi azzardi,
usciti da una neve speculare

più bella di quanto la sua scarna ed elastica grammatica
dovrebbe consentire, ma l’assiomatica dell’inverno

ristà – intarsiata, soffiata a vetro – sul fiume
spianato incolore, il suo moto

sospeso ormai da ore, anche solo alla vista,
come una cicatrice sutura una ferita,

da taglio, la frontiera tra febbre e fremito,
o una ripresa aerea dei quartieri

open- source della mente
– e allora cosa. Il terreno assalito saturato

da tutto tranne noi benché noi
stiamo qui, una buca nel campo già una tappa

verso la foresta, e perciò siamo trattenuti dai
boschi e dai prati nello stesso tempo, grati a entrambi,

corsivi lungo il nostro elaborato collasso verso l’alluvionale
disastro della storia. Come se il crepuscolo

fosse una forma di cortesia, antiquato, pittoresco
con quei suoi ninnoli, sbatacchiante contro un sottocoppa fragile che accoglie

il poco che è versato – eppure i Fahrenheit di una ricerca,
incisi e ribattuti a cercare

ciò che mai ci tocca
malgrado la nostra mancanza di sentimento, la nostra costante

incostanza nascosta agli occhi e così esposta al meglio,
impreparata alle stravaganze del sonno, la sua aragonite,

dei nomadi punti cardinali del sonno.
Quale flangiata o sfalangiata ipotesi

– qui, oppure qui – chiediamo del ghiaccio,
non poterono nascere, o gene- rarvisi, quali sovranità

del lago sono causa del vento – un’interruzione di chi siamo
e anche di sé – non svaniranno in quello stesso

bianco che le rende alla visione.
Che il fico fiorisca, ai margini

di preoccupazioni personali, il cipresso
come evento statico, i suoi rami vitrati in

cristallo saldato in acqua nel freddo,
di cui il centro è una cosa che nuota

che ingloba il panico presente nei suoi polmoni
sferici, cimmeri, e aspetta un concetto di superficie

per lasciare andare. Abbiamo forse fatto troppe storie
in merito all’impianto formale, rapide a sbiancare le sue mura,

quando la vacuità del contenuto è ciò che vuole
e ciò che è. Solfato di rame e più ramata

aria, tardiva in deviazione ottica:
così l’oro- genico, augurato cuore.

Una notte latente si annuncia
anonima da un hinterland, tagliata dal testo della cornea,

la sua luce spinta avanti in quanto analisi, lo gneiss
che un tempo solo e nel buio ammassò il buio:

tempra, con un carico termale, annullando
ogni icona venuta prima; ma a differenza di chi

la guarda, di chi ascolta entro la sua infernaledischiusa
cornice – e noi non facciamo eccezione – molto tristemente per

lei lei
non morirà mai.

***

Fermata

One of me stuttered and one
of me broke, and one of me tried

to fasten a line to one of
me untying it from me.

One of me watched a fisherman haul
a sand shark from the breaker,

while another was already years later,
returned to where a local man

baited for striper but landed a shark.
One of me sat under olivine clouds,

clouds of cerise, a courtesan sky,
and one of me sunned himself

as a child, imagining a fish-rod
turned fermata. One waved a sash

of cornflower blue, one heard
a windmill, one heard the wind,

one waved goodbye to an imminent
leftover love. And one strolled

barefoot and sunburnt across
the nickel inhibitions of afternoon,

tossing amber bottles at a smoke tree,
the gun lake, swimming toward

his family on the dock as twilight fell,
as the same boy stayed behind

to look at him swim. One believed
a father could be killed by falling rock,

and one woke up to find he’d only
dreamt, although his father was dead,

and one believed in a beautiful house
not built by any hand. One promised

nothing would break, and nothing did,
and one saw breaking everywhere

and could not say what he saw.

*

Vertigo

If wind that wastes its time among the trees
escapes itself, only to end up quarantined
by a derelict squall from the north,

and if the air turns somersaults, miming
the outtakes of dusk, scandaled by an early frost
and punished for its coldness by the cold—

then, like a bullet that lodges in bone,
becoming a piece of the body,
you will not awake apart from your name.

And I will not be not a part of you.

§

There are things I would settle
with myself. Why, for instance,
as autumn unravels, I cannot mortar

myself to myself, nothing but sunlight
littered from here to the sun. By I
I mean a window, redness grazing the lake

at dawn, or an echo winnowing out
along a wall, hard pressed to hide itself
and straining for the voice it vanished from.

I mean so many windows. So much red.

§

Please do not misunderstand.
That woman who carries winter
inside her, dizzied by snowfall

that won’t level off—I would say
I love her, but I is too strong a word
and love not strong enough.

*

Glassscape

Grayscale breath on a fluid
field, with lo-fi
           rainpatter—bleu pétrole—,
                                a 60-watt
sun unscrewed from the
woebegone sky: rip-
                 rap & coal slurry,
    dragline & loess, what phosphor
-us is a semaphore
for, silklike
               in its acoustic shadows
                   louver away, or stay
when I move:
figures astray from the mercury
              dark—shatterproofless,
                   shutterproofless,
image noise
stressing each contour to
                          strass—
             as if the margins were
swarming with
centers, or cinders
                      —“Ecchoes
                   to the Eye”—
or Cinderella’s slipper
blown of poly-
                          vinyl butyral
                  & laminated glass

*

The Forms Frozen in Familiar Remoteness

These hazards,
out of a specular snow

prettier than its gaunt,
elastic grammar

ought to allow,
but winter’s axiomatics

hang—tessellated,
ashblown—on the river

matted colorless,
its movement

suspended for hours now,
if only to the eye,

as a cicatrix
sutures a jackknife

graze, the frontier between
fever & thaw,

or an aerial recon
photo of the mind

’s open-
source arrondissements

—and what of it.
The assailed ground saturated

with anything other
than us although we

stand there, a hole in the field
already a halt

to the forest, and are thereby
held by

woods and meadow at once,
beholden to both,

cursive along our labored
collapse toward history’s

alluvial havoc.
As if twilight

were some kind of courtesy,
antiquated, quaint

in its china, rattling against
a brittle saucer that catches

the little is spilled—and yet
the Fahrenheits of a research,

inlaystricken and outward
struck, to track

what is never not
touching us

despite our lack of
feeling, our constant

inconstancy hidden from view,
that being its proper display,

ill prepared for the vagaries
of sleep, its aragonite,

of language’s nomadic
cardinal points.

What flanged or unphalanxed
hypothesis

—here, or here—,
we ask of the ice,

could not be born, or borne
across, what sovereignties

of the lake effect wind—
an interruption to who we are

and even to itself
—won’t vanish into the very

white that gives them back
to vision.

That the fig tree
flower, at the outskirts

of private concern,
the cypress-pine

as a static event,
its branches glassed in

water soldered crystal under
the cold,

the center
of which is a swimming thing

that packs the current taut
within its globed,

Cimmerian lungs, and waits
for a concept of

surface to let it go. Have
we fussed too much

with the formal design, quick
to flaxen its walls,

when emptiness
of content’s what it wants

and what it is. Bluestone
and the bluer

air, late
thru an optic swerve:

so the oro
-genic, augured heart.

A latent night
announces itself

anonymous, from a hinterland,
cut from the cornea’s text,

its light rushing forth as
analysis, the gneiss

that once alone and in
the dark amassed the dark:

anneals, with a
thermal freight, annulling

every icon came before;
but unlike those who

look at it, who listen inside its
helllatched

frame—we being no
exception—sadly enough for

it it
cannot die.

“Gli italiani sono bianchi?”

6

balotelli

di Tatiana Petrovich Njegosh

Soltanto ci si confonde con chi ci assomiglia, da ciò la necessità di mantenere netta separazione fra le due razze bianca e nera.(Alessandro Lessona a Rodolfo Graziani, 5 agosto 1936)

Il razzismo fascista segna una svolta cruciale, sia per l’affermazione di un razzismo di stato, sia per la costruzione della ‘bianchezza’ e ‘arianità’ dell’uomo “nuovo” italiano, prima con il divieto della mescolanza razziale nelle colonie (il Regio decreto del 1937) e poi, dal 1938, con le leggi antisemite in Italia. Gli studi dedicati all’antisemitismo, all’antiebraismo e alle leggi razziali antisemite in Italia sono stati numerosi, e ai fenomeni di antisemitismo ancora ampiamente diffusi corrispondono, in una certa misura, rituali pubblici (come la Giornata della memoria, il 27 gennaio), nonché una opinione pubblica discretamente informata e reattiva. Nonostante i molti recenti studi sul colonialismo italiano, invece, poco è stato fatto per capire i rapporti tra antisemitismo e razzismo coloniale, nonché, più in generale, per illuminare i nessi tra la categoria di razza e quella di identità nazionale dall’Unità a oggi.

[…] il Regio decreto del 1937 è un esempio italiano di razzismo istituzionalizzato, la cui pressoché totale rimozione, nonché il mancato collegamento con le norme sul meticciato del colonialismo liberale e soprattutto con le successive leggi razziali del 1938-39 ne oscurano l’importanza e il significato. Nonostante la ‘brevità’ della sua storia coloniale e la ristrettezza del suo impero, l’Italia detiene il “triste primato” di “numerosi” “crimini di guerra”, e rappresenta inoltre un vero e proprio “caso” perché con le leggi del 1937 “la colonia anticipa la madrepatria” rispetto alla legislazione antisemita successiva, creando “sostegno di massa ad un progetto razzista, reazionario e totalitario” (Labanca 422, 420). La società coloniale italiana era di fatto una società segregata, ma la legislazione razzista introdotta nelle colonie nel 1937 segna un cambiamento, un’incongruenza. Come ribadito da Nicoletta Poidimani, le politiche razziali e sessuali del regime sono state sperimentate nelle colonie e poi attuate nell’Italia fascista a sostegno del progetto di costruzione di una nuova identità imperiale italiana. Quello che quindi sembra un’incongruenza, un impiego di risorse normative del diritto privato a ‘tutela’ di un esiguo numero di cittadini italiani in Africa, forma in realtà, come ha sostenuto e dimostrato Barbara Sòrgoni, il “cuore” del dibattito del colonialismo europeo, della schiavitù e della segregazione statunitensi. Il “cuore” del problema, con il carico di “desiderio e repressione”, è quello della “sessualità interrazziale”.

Il tema scottante della sessualità interrazziale è un problema cruciale, non certo di mero ordine pubblico o morale, ma identitario, ideologico e politico, come si ricava dalle direttive, precedenti al Regio Decreto, del ministro dell’Africa Italiana Lessona al viceré Graziani citate in epigrafe. A colpire non è la certezza della differenza, ma la paura della somiglianza e della confusione tra ‘bianchi’ italiani e ‘neri’ africani. La linea che separa le identità dei due gruppi e definisce i confini dell’identità italiana  è documentata, o meglio percepita, come frontiera permeabile e incerta. A partire dall’Unificazione, poi nei primi esperimenti coloniali, rappresentati come occasione per riscattare l’immagine negativa dell’identità italiana e provarne la bontà razziale, nella svolta impressa dal Fascismo (che smentirà con forza l’ipotesi di un’origine camitica, africana, degli italiani, Cassata 228), nel dopoguerra, e ancora oggi, l’identità italiana si forma e si definisce anche attraverso la categoria di razza. Se, per esempio, nell’opinione di alcuni osservatori contemporanei la sconfitta di Adua (1896) rivela la debolezza razziale italiana, la guerra di Libia (1911-12) offre viceversa un’occasione per mostrare la bontà e la ‘bianchezza’ degli italiani.

Il colonialismo – e ciò che sostengo credo serva ad aggiungere un motivo alle cause della sua rimozione dalla memoria pubblica – fornisce, in altre parole, uno spazio simbolico e un luogo concreto per provare la ‘bianchezza’ degli italiani, ma allo stesso tempo rappresenta una zona liminale e rischiosa, un terreno incerto dove lo status razziale indefinito degli italiani può rivelarsi ‘nero’ (con le sconfitte militari, nonché con i rapporti sessuali tra italiani e africani), o comunque non ‘bianco’. La questione dei rapporti sessuali tra italiani e africani porta infatti con sé quello che il ministro delle Colonia Emilio De Bono definisce, nel 1933, il problema “gravissimo” dei meticci (cit. in De Napoli 4), il possibile inquinamento di una razza incerta su cui grava l’ombra dell’origine africana. La teoria dell’origine camitica degli italiani, già diffusa prima che Sergi la riproponesse nel 1895, assurge a grande fama perché ripresa e ‘tradotta’ negli Stati Uniti agli inizi del Novecento. L’africanizzazione degli immigrati provenienti dal Sud Italia, e poi di tutti gli italiani, avviene sulla base dell’ipotesi sergiana della presenza di sangue africano in alcune comunità insulari italiane. Quell’ipotesi – che in Italia ebbe poca fortuna, fu duramente contestata e non sfociò nell’istituzione di uno stato razziale – incrementa il suo ‘valore’ e muta i suoi significati negli Stati Uniti, dove viene interpretata secondo la one drop rule nata durante la schiavitù. Il sangue africano dei discendenti dei camiti (per Sergi gli italiani e tutti gli europei) viene ‘tradotto’ nella goccia di sangue nero che dopo la sentenza della Corte Suprema del 1896 istituisce una rigida separazione tra ‘bianchi’ e ‘neri’.

Molto si è parlato, negli ultimi decenni, di convergenze atlantiche (di solito in contesto politico-diplomatico o letterario), e certo il 1896 e il 1911 sono date che tracciano nuove linee nei contatti circumatlantici tra Italia, Africa e Stati Uniti. Il 1896, l’anno della sconfitta di Adua, è l’anno di Plesssy vs Ferguson, la sentenza con cui la Corte suprema americana elimina la classificazione razziale precedente, altrettanto razzista ma più sfumata (mulatto; quadroon, quarto di sangue nero; octoroon, ottavo di sangue nero). Il 1911 è l’anno in cui inizia la ‘conquista’ della Libia e l’anno in cui viene pubblicato il Dictionary of Races or People a cura della US Immigration Commission istituita nel 1907 da Theodore Roosevelt, dove gli italiani, via Sergi e Niceforo, e grazia alla propaganda razzista diffusa a livello internazionale a partire da quel documento, esordiscono nella categoria delle ‘razze scure’ (cfr. D’Agostino).

[…]

In occasione della partita di calcio Juventus-Inter giocata allo stadio Olimpico di Torino il 18 aprile 2009, una parte della tifoseria juventina ha rivolto all’indirizzo dell’allora giocatore dell’Inter Mario Balotelli lo slogan “Non esistono negri italiani”. Lo slogan, poi destinato a sparire nel calderone del problema squisitamente settoriale del “razzismo nel calcio”, o peggio, ad essere archiviato con la sostanziale motivazione che è Balotelli, con il suo comportamento ‘eterodosso’ in campo e fuori, a calamitare le reazioni dei tifosi, ha segnato uno scarto e un ritorno che pochi hanno colto. L’impatto di quello slogan risultava potenziato, per me come per altri colleghi americanisti, da una doppia eco. Quelle parole da un lato ricordavano le parole di Du Bois sull’impossibilità, negli Stati Uniti moderni e democratici, di essere americani e neri. Dall’altro lato, quelle parole violente, che parafrasando Faso, “escludono”, riportavano nel presente la “difesa” dell’instabile “razza italiana”, confermando l’intreccio tra la costruzione dell’identità nazionale e le dinamiche di razzializzazione, tra africanizzazione dell’altro e sbiancamento di sé.

Uno dei limiti più forti degli studi sul razzismo oggi consiste nella premessa generale che il razzismo sia un’eccezione, che si manifesti e sia visibile solo nella sua fenomenologia violenta, e infine che dipenda dall’ignoranza. Se l’ignoranza e la rimozione sono certo ingredienti decisivi del problema, non bisogna dimenticare le fiere e ‘dotte’ rivendicazioni – vedi le centinaia di pagine in rete, in italiano, dedicate a topic sulla purezza razziale, sull’ ‘obbrobrio’ della mescolanza razziale, sui rischi di ‘estinzione’, sul fenotipo e il genotipo, o anche le pubbliche celebrazioni, su testate non certo secondarie della stampa nazionale, della legittimità e correttezza del termine ‘negro’.

[…] Lo slogan segna uno scarto rispetto agli slogan razzisti rivolti a giocatori stranieri dalla pelle scura, o africani dalla pelle scura, proprio perché mette in relazione l’identità italiana con la negazione della ‘blackness’ e con una indiretta affermazione di ‘bianchezza’. È uno slogan tutt’altro che ‘idiota’, confuso o generico, anzitutto perché quelle parole spostano l’attenzione dal livello fenomenologico a quello linguistico, rappresentativo e identitario. E poi perché segnano un ritorno, una ‘traduzione’, danno veste simbolica odierna alle dinamiche complesse, relazionali e razzializzanti che costruiscono, nel passato come nel presente, l’identità italiana. L’insulto a Balotelli non costituisce insomma un unicum, ma è una versione contemporanea di una narrazione più antica che non riconosciamo nella sua storicità grazie al mito dell’innocenza razziale degli italiani e per il vizio di relegare nel presente, nel nuovo, nella società globale e multiculturale, lo strano fenomeno dei neri italiani. […]

 

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Estratti da Tatiana Petrovich Njegosh, “Gli italiani sono bianchi? Per una storia culturale della linea del colore in Italia”, in Parlare di razza. La lingua del colore tra Italia e Stati Uniti. A cura di T. P. Njegosh e A. Scacchi, Ombrecorte, Verona, 2012, pp. 20-22, 36-38.