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La dissoluzione familiare

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di Alessandro Chiappanuvoli

 

Enrico Macioci, La dissoluzione familiare, Indiana editrice, 2012

“Dubitare sempre o quasi dalle recensioni degli amici” è una regola aurea. Scrivere, quindi, la recensione, non solo del libro di un caro amico ma anche di un concittadino che ha vissuto sulla sua pelle gli stessi drammatici eventi da me vissuti all’Aquila il 6 aprile 2009 e nei lunghi mesi a seguire, sposta, se possibile, l’ago della bilancia qualche tacca più in là, nella zona ancora più impervia della critica soggettiva, inevitabilmente di parte. È bene che questo Le sia chiaro, lettore, è bene che Lei sappia che l’unica difesa che posso mettere in campo è la mia (presunta) onestà intellettuale. Il libro in questione è La dissoluzione familiare di Enrico Macioci.

Ho avuto il libro in regalo da Enrico in persona lo scorso aprile. Fin dal primo sguardo una bolla di calore mi ha invaso la gola. Ho capito subito che quello che avevo tra le mani non era un semplice volume, ma un’opera, un testo su cui l’Indiana ha deciso di puntare seriamente. Copertina rigida, formato quasi quadrato 20×22 cm per 336 pagine, illustrazioni di Maurizio Rosenzweig, impaginazione certamente particolare per inserire l’enorme quantitativo di note (dichiarata da parte dell’autore l’influenza di Infinite Jest di D. F. Wallace), progetto grafico del design studio 515 creative shop. Non un libro qualsiasi, ma una sfida editoriale, un progetto. Davanti al sorriso timido di Enrico, la bolla di calore è presto esplosa nella mia bocca, ne ho assaggiato il sapore, era invidia, umanissima invidia. C’è gente (Bernardino Sassoli de’ Bianchi e Giulio Mozzi su tutti) che crede in questo aquilano un po’ schivo ma dolce, ho pensato; e di colpo la felicità ha lavato via il sapore cattivo.

Ci sono voluti due mesi perché iniziassi a leggerlo e altri due mesi per concluderlo. So che potrebbe essere una prospettiva non proprio allettante, ma La dissoluzione familiare non è un libro facile, non lo è per un generico lettore, non lo è, a maggior ragione, per un lettore aquilano. La chiave di lettura sarcastica diventa comprensibile solo con l’andare avanti nei capitoli e la “merda” di cui tratta, l’immondo rifiuto organico manipolato da Enrico è ancora troppo “fresco” perché non generi in un terremotato quale io sono un’angosciosa repulsione difensiva. Pian piano però i nodi in gola si sciolgono, l’abitudine e la trama prendono il posto dell’istintivo rigetto e del dolore.

Ne LDF c’è una città squassata da un terribile terremoto. C’è la nascita di un bambino, il piccolo Poppy. C’è l’Ospedale della Sacra Frattura, principale teatro della narrazione, con i suoi degenti e i suoi reparti, metafore dissacranti della nostra società. C’è una famiglia, una famiglia come tante le altre, dilaniata da nuovi e antichi rancori, sempre indissolubilmente legati. C’è il Governo Centrale che deve far fronte alla catastrofe, guidato da un losco mitomane di bassa statura (morale) e dal suo braccio destro, un certo Bert Lassative. C’è il sempiterno ronzio sul fondo della televisione di Stato, giudice incontestabile, guida indiscutibile. Ci sono i vari personaggi che arricchiscono con il loro sapere specifico la trama della vicenda. C’è Don Sisma, un prete colosso che deve portare a compimento il battesimo del piccolo Poppy. C’è Silvanus, enigmatico naturalista che torna alla civiltà per far visita al nascituro. C’è San G., maestro di vita dai poteri sovrannaturali che rimpingua le dissertazioni del protagonista, il Principe Ham Bank, padre del piccolo Poppy, con la sua immensa conoscenza filosofica. C’è Ham Bank, la cui paternità lo spingerà a confrontarsi con l’intrinseca catarsi del miracolo della vita. C’è questa nascita appunto, qualcosa di nuovo dentro qualcosa di rotto, una fragile vita in una città distrutta, un ossimoro che forza tutti i protagonisti al confronto, al ripensare se stessi e la propria esistenza, in un tempo ormai materialmente e culturalmente fin troppo decadente, in un tempo nel quale ognuno di noi, nel proprio piccolo, è ormai costretto ad agire per una ricostruzione necessaria.

Questo libro, come detto, non è un libro facile. Il linguaggio a tratti può essere ostico, si alternano in continuazione lunghissime boccate d’aria descrittive ad asfittiche elucubrazioni mentali, deliranti e filosofiche. Lo spazio di libertà lasciato dall’autore è ridotto. Per il lettore ci sono due possibilità: 1) abbandono totale alla scossa del flusso di coscienza e fiducia incondizionata nelle derive verso cui il testo può far approdare; 2) confronto partecipato, lettura attiva, disponibilità a mettere in discussione prima di tutto se stessi, poi le proprie certezze. Come un terremoto però, proprio come un terremoto, LDF quando arriva ti scuote, ti trascina, ti distrugge, lascia in piedi solo ciò che è realmente costruito a regola d’arte. Che si riesca a resistere o si venga sopraffatti, dopo il colpo, si è costretti, giocoforza, a tirare su le maniche e rimettere in ordine se stessi, sempre che non se ne sia rimasti schiacciati. Anche il complesso di note prevede una scelta da parte del lettore, una partecipazione: «Leggerle o non leggerle? Leggerle durante lo svolgimento della trama principale o attendere il primo capoverso o, ancora, leggerle a fine capitolo?» Io ho adottato una strategia mista, secondo i casi, secondo la curiosità del momento, ma ho deciso di leggerle tutte e posso garantire che ho riso, ho riso tanto. La trama è come se diventasse tridimensionale. LDF, dunque, è un libro solido.

La dissoluzione familiare, in definitiva, è una presa di coscienza. È la decisione lucida di mettersi davanti a uno specchio e la volontà coraggiosa di trascinarci tutta la propria realtà, le certezze, macerie e persone (più o meno care) incluse. Non ingannino i toni onirici e burleschi, LDF è uno sguardo critico e violento sulla pochezza della realtà umana, sulle paure dalle quali ci lasciamo soggiogare e condizionare, sull’egoismo che desertifica le nostre esistenze e che siamo abituati a chiamare “individualismo” solo per redimerci. E dopo la scossa, dopo la distruzione, dopo lo sberleffo, dopo la critica spietata non c’è il silenzio, non l’oblio ma il tentativo riuscito o meno, comunque ammirevole, di fare un passo in avanti, di andare oltre, di trascendere, il tentativo ardito di ricostruire partendo dal poco che resta in piedi, dal poco che rimane, in fondo, dal poco che siamo.

Sono convinto che in questo libro ci sia tutto l’Enrico Macioci, tutto l’essere umano che conosco. Sono sicuro che non si sia risparmiato nella scrittura. Sono certo che, tra la gioia per la nascita di suo figlio e il dolore (condiviso) per la perdita della propria città e quindi della propria identità, Enrico Macioci si sia davvero dissolto.

Manda i tuoi versi a FORNO POESIA

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Siete persone che hanno un enorme buco vuoto domenica pomeriggio?

Siete persone che hanno molto da scrivere senza aver nulla da leggere (a parte i libri dei vostri amici)?

Siete persone che dentro di voi c’è un tesoro inestimabile di emozioni sublimi e pensieri rari?

Partecipate all’iniziativa FORNO POESIA! (Voi mettete la carta, noi mettiamo la legna.)

Tutti i vostri componimenti saranno accuratamente carbonizzati.

Un ordine della scienza?

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di Antonio Sparzani

(da Alfabeta2, settembre 2012)
«L’ordine era di disporre l’esercito in ordine di battaglia» questa frase mi si è formata nella testa appena ho cominciato a riflettere su quella formula magica foucaultiana dell’ordine del discorso, così che il campo semantico del lemma ordine mi si è presentato immediatamente polimorfo e non rettilineo, a leggerlo con sufficiente apertura e avvertendone quindi la forse voluta e dunque inquietante ambiguità.
L’accezione militaresca del lemma ― ma è Foucault stesso a usare l’espressione “l’armatura del sapere” ― tenta infatti di emergere sommessamente anche nella seconda accezione: l’ordine di battaglia è un modo preciso di disporre le proprie schiere e questo modo è però dettato e imposto da regole precise, che stanno scritte sui manuali di strategia e di tattica e guai a derogare da esse, sarebbe pur sempre disobbedire a un ordine!
Potente strumento interpretativo della realtà, questo sembra essere ovunque il ruolo ricoperto dall’ordine, che dal discorso passa facilmente all’uomo e al cosmo, come ci insegna Giordano Bruno, in queste materie grande e visionario innovatore:

«il vero Chaos di Anassagora è una varietà priva di ordine. Così nella stessa varietà delle cose possiamo individuare un ordine mirabile, il quale, stabilendo la connessione dei supremi con gli infimi e degli infimi con i supremi, fa cospirare tutte le parti dell’universo nella bellissima figura di un unico grande animale (qual è il mondo), poiché una diversità tanto grande richiede un ordine altrettanto grande e un ordine tanto grande richiede una diversità altrettanto grande. Nessun ordine si ritrova infatti, dove non esiste alcuna diversità.»

(De umbris idearum, classici BUR 1997, trad. di Nicoletta Tirinnanzi, p. 70).
Tutta la scienza è nata per scoprire, descrivere, spiegare un ordine della natura, diciamo di più, per definire, inventare, costruire un ordine nella natura e cioè in tutto quanto ci circonda, quanto è esterno a noi. Così che subito il modello del discorso scientifico si propone come modello dell’ordine naturale, come paradigma interpretativo delle nostre percezioni degli accadimenti del mondo e un po’ alla volta diventa la nostra immagine del mondo, e dunque, in ultima istanza, il mondo. È qui la prima fonte di problemi per la comunicazione e il pensare collettivo sulla natura, ed è qui anche la presunta fonte della presunta necessità di uniformare il nostro pensare sulla natura, e dunque di dare un ordine al nostro discorso su di essa.
Una ricostruzione accurata del cammino percorso da questa pervasiva ― ma fortunatamente non sempre coronata da successo ― strategia uniformatrice è compito primario della storia della scienza: sarebbe buona cosa infatti che questa fosse in ogni istante consapevole dei propri strumenti e delle proprie inevitabili deformazioni e soggettività, anche, e soprattutto, per uscire dalle secche della normalizzazione del discorso e per riacquistare la pur mai completamente perduta capacità di sopravvivere in quella compresenza di diverse tradizioni che dovrebbe costituire il contesto più sicuro e propizio per una vera libertà, vitale e produttiva. Fu Stuart Mill nel suo On liberty infatti a sostenere con più forza innovatrice la necessità della contemporanea presenza nella stessa società di differenti tradizioni ― in tutti i campi del sapere ― tra loro indipendenti e contrastanti, al fine di garantire la possibilità per ogni individuo di seguire una propria strada di benessere e felicità, mantenendo il più rigoroso rispetto delle tradizioni diverse. Fu lui insomma ante litteramOn Liberty uscì circa 112 anni prima dell’Ordre du discours ― a chiedere a gran voce la contemporanea presenza di tanti ordini del discorso.
Un grimaldello dell’argomentare di Foucault è la parola del folle, quella parola immediatamente riconoscibile che fa saltare i meccanismi dell’accettabilità e della stabilità del discorso, quella che sta dall’altro lato della partizione, la linea divisoria che separa chiaramente il lecito dall’illecito, la ragione dalla follia, in ultima istanza l’umano dal non umano; partizione mai dimenticata, incalza Foucault, neppure ai giorni nostri:
« Mi si dirà che tutto questo è finito, oggi, o che sta per aver fine; che la parola del folle non è più dall’altra parte della separazione; che non è più resa nulla e senza effetto; che al contrario ci mette in agguato; che vi cerchiamo un senso, o l’abbozzo o le rovine di un’opera; e che siamo riusciti a sorprenderla, questa parola del folle, in ciò che noi stessi articoliamo, nel minuscolo strappo attraverso cui quel che diciamo ci sfugge. Ma tanta attenzione non prova che la vecchia partizione non sia più valida; basta riflettere su tutta l’armatura del sapere attraverso cui decifriamo questa parola; basta pensare a tutta la rete di istituzioni che consente a qualcuno ― medico, psicanalista — di ascoltare questa parola e che consente nello stesso tempo al paziente, di venir a portare, o a trattenere disperatamente, le sue povere parole; basta riflettere su tutto questo per sospettare che la partizione, lungi dall’essere cancellata, agisce altrimenti, secondo linee diverse, attraverso nuove istituzioni, e con effetti che non sono affatto gli stessi. E quand’anche il ruolo del medico non fosse che quello di prestare orecchio a una parola finalmente libera, l’ascolto si esercita pur sempre nel mantenimento di una cesura. Ascolto di un discorso che è investito dal desiderio, e che si crede, per la sua più grande esaltazione e la sua più grande angoscia, carico di terribili poteri. Se occorre veramente il silenzio della ragione per guarire i mostri, basta che il silenzio sia in allarme, ed ecco la partizione mantenuta.» (L’ordine del discorso, trad. di Alessandro Fontana, Einaudi 2004, pp. 6-7).
La storia della scienza è stata ricca di folli, grazie ai quali peraltro la scienza stessa ha spesso potuto compiere passi inaspettati: i nomi che più facilmente vengono in mente sono quelli di Copernico, di Einstein, o di Heisenberg, ma è forse più interessante cercare di scovare episodi meno clamorosi, ma ugualmente rappresentativi di una devianza più o meno sotterranea che percorre sotto traccia cammini alternativi a quelli della scienza standard. La prima caratteristica di questi cammini è quella di essere additati al pubblico ridicolo non appena se ne abbia notizia nel mondo dell’ufficialità scientifica.
Racconta Paul Feyerabend in Contro il metodo di essersi imbattuto, nel corso dei suoi studi universitari di fisica, a Vienna nel 1947, in quel singolare personaggio che fu Felix Ehrenhaft, fisico e viennese anch’egli, coetaneo di Einstein, che coinvolgeva i suoi studenti, tra i quali appunto il ventitreenne Feyerabend, in inusitati esperimenti, tali da far loro toccare con mano fenomeni assolutamente imprevisti dalla ― e talvolta in contraddizione con la ― fisica ufficiale, tipicamente l’elettromagnetismo maxwelliano, una delle meglio confermate e più eleganti teorie di tutta la fisica classica. Gli esperimenti di Ehrenhaft riguardavano la “impossibile” esistenza del monopòlo magnetico: se prendete una calamita, questa, come è abbastanza noto, ha due poli, ben distinguibili: se cercate di accostare tra loro due calamite tenendo i poli in un modo sentite una forte attrazione, ma se invertite i poli che accostate, avvertite un’altrettanto forte resistenza. Si potrebbe pensare che allora, dividendo una calamita a metà si ottengano due poli separati, appunto due monopòli, uno da una parte e l’altro dall’altra; ma non è così: per quanto dividiate ottenete sempre delle calamite, naturalmente più piccole, ma ognuna con i suoi due poli distinti; e questa è una conseguenza chiara e distinta della teoria classica dei magneti permanenti. Ma le esperienze di Ehrenhaft sembravano contraddire tutto ciò. Esulavano proprio dall’ordine del discorso. Ehrenhaft venne isolato e non creduto e dei suoi esperimenti non rimane memoria consolidata.
Un caso del tutto speculare a questo si ebbe invece quando nel 1938 fu assegnato a Enrico Fermi il premio Nobel per la fisica “per la sua dimostrazione dell’esistenza di nuovi elementi radioattivi prodotti da irraggiamento neutronico, e per la relativa scoperta delle reazioni nucleari indotte da neutroni lenti”: niente di più falso! Il Nobel venne assegnato con imperdonabile fretta e disinvoltura: Fermi aveva preso un terribile abbaglio, ben coerente con l’ordine del suo discorso: credeva di avere prodotto quei nuovi elementi chimici più pesanti che andava cercando, e invece aveva, senza accorgersene, scoperto la fissione nucleare, cioè era riuscito a spezzare un nucleo pesante in due o più nuclei più leggeri. La fantomatica “dimostrazione dell’esistenza di nuovi elementi radioattivi prodotti da irraggiamento neutronico”era frutto d’illusione, ma tutto quadrava così bene nell’ordine del discorso scientifico che l’Accademia Svedese delle Scienze conferì il premio (del resto, per leggere qualche altra storia interessante al proposito, basta andare su questo sito).
La scienza fa progressi malgrado se stessa e le sue regole e malgrado il suo ordine interno. Ma quest’ordine mantenuto per periodi più o meno lunghi da quei vincoli che Thomas Kuhn chiamava paradigmi è in realtà una grossolana approssimazione di una dinamica più complessa e sfaccettata: dinamica caratterizzata, in tempi normali, da una tale viscosità da non riuscire a modificare sensibilmente il proprio assetto; ma tale che gli spostamenti insensibili, le piccole incrinature, il pur esiguo esiguo peso dei “folli” al suo interno, si accumulano progressivamente fino ad apparire improvvisamente con sorprendenti metamorfosi. La fisica dei tempi di Copernico non era già più la fisica aristotelica, ancorché ne mantenesse una complessiva impalcatura, perché tutto il Medioevo aveva lavorato a minare a piccole dosi le basi stesse di quella fisica; si direbbe che aveva preparato il terreno per un folle, quello strano canonico polacco nato sulle rive della Vistola e pronto a rovesciare un ordine fissato da millenni.
Eppure questo stesso tema aveva trovato un altro folle, più di sedici secoli prima, un altro cioè che aveva provato a esplorare e a scardinare quasi lo stesso ordine: Ipparco di Nicea, vissuto nel II secolo a. C.: Ipparco ― davvero incredibilmente ― scoprì la precessione degli equinozi essendosi parallelamente formato con ogni probabilità una visione molto avanzata ― ovvero eliocentrica ― dei movimenti dei vari pezzi del sistema solare, pianeti, Luna e Sole. E accanto a lui anche altri: il panorama della scienza ellenistica non mancò di tentativi di uscire dall’ortodossia aristotelica, persino Seneca e Plinio il Vecchio, di area latina, sembra ambissero a respirare un’aria nuova.
E tuttavia una vera restaurazione arrivò chiara e distinta tre secoli dopo Ipparco, quando Claudio Tolomeo, pur servendosi degli stessi dati osservativi di Ipparco, impiantò l’intero Almagesto su una solida base geocentrica, ostinatamente ripristinando le tesi aristoteliche, e chiudendo dunque la strada, per un altro millennio abbondante, a qualsiasi diverso ordine, o comunque a qualsiasi deviazione dall’ordine così ri-costituito.
Per quanto mi riguarda, le suggestioni foucaultiane mi spingono alla fantastica utopia di una scienza diffusa nel corpo vivo dell’umanità che riesca a far convivere idee diverse, modi diversi di avvicinarsi alla realtà, ordini di discorso diversi, che perdano la loro stessa connotazione di ordine, una scienza non globalizzata, ma rispettosa della diversità dei vari miliardi di esseri umani che percorrono il pianeta, una scienza che costituisca un tessuto variopinto e molteplice, ascoltare la quale assomigli all’ascoltare quello che Roland Barthes chiamava Il brusio della lingua, in quel miracoloso frammento di scrittura che appunto così si concludeva:

«Ed io interrogo il fremito del senso ascoltando il brusio del linguaggio – di quel 1inguaggio che è la mia Natura peculiare di uomo moderno.»

Bagnanti#3

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di Renata Morresi

«…spiccava fra i corpi quello di una donna avvolta da una tunica di un fucsia sgargiante…non dimenticheremo mai quel luccichio fucsia diventato per noi un punto-nave per potere dare indicazioni alle motovedette e ripetere dei giri concentrici nella speranza di trovare qualcosa in movimento.»

(Intervista agli elicotteristi Raffaele Signorelli e Daniele Bissanti,
Corriere della Sera, 8 Aprile 2011)

 

caduta nell’acqua sbocciata
aperta d’un tratto rotonda
come una medusa rosa
gola plena di camelia

Per una biografia controfattuale di Ronald Reagan

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Ronald Reagan, da www.imdb.com

di Davide Orecchio

Segnalo dal Dizionario del Se la vita di Ronald Reagan (1911-2009), attore (premio Oscar 1989), regista (Leone d’oro 1991) e uomo politico statunitense, correlata alle voci Le quattro svolte vocazionali (nelle “Intersezioni esistenziali” del compendio) e Trasformismo atlantico (nelle “Intersezioni politiche”).

Discanto: Eugenio Montale

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Eugenio Montale – Cigola la carrucola nel pozzo da “Ossi di Seppia”

Cigola la carrucola del pozzo
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro…
Ah che già stride
la ruota, ti ridona all’atro fondo,
visione, una distanza ci divide.

Nuovi autismi 24 – La mia agente letteraria

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di Giacomo Sartori

Ieri pomeriggio ho ricevuto una mail della mia agente letteraria. Fa sempre piacere trovare una mail dalla propria agente. O almeno fa piacere a uno come me, che nel cosiddetto mondo dell’editoria ha vendemmiato suo malgrado non poche ruggini. Come dire, è segno che le cose avanzano, o che comunque qualcosa bolle in pentola. Quando è calma piatta l’agente non ti scrive, puoi stare sicuro. Scrive ai suoi pupilli, gli scrittori che vendono bene, e a te nemmeno ci pensa. O anche li chiama personalmente, i suoi preziosi pezzi da novanta, e sta tre ore al telefono con ciascuno di loro, magari anche solo sguazzando nelle indiscrezioni della cosiddetta repubblica delle lettere, quei meschini pettegolezzi, per non chiamarle maldicenze, che sono il prezzemolo delle cucine in cui si sfornano i libri. Per quanto ho avuto modo di vedere nove volte su dieci gli agenti letterari adorano i pettegolezzi, proprio come i commercialisti, che proprio nella perversa curiosità per le fragilità più umane, per non dire più basse, dei loro clienti, sembrano trovare un contrappeso all’aridità delle cifre che maneggiano tutto il santo giorno. Ma non è questo quello che volevo dire. Quello che intendevo chiarire è che quando l’agente ti cerca, ti cerca lui, dopo un sacco di tempo che non lo senti,  vuol dire che una casa editrice è interessata all’ultimo tuo manoscritto, o si profila una traduzione in un qualche paese straniero. Una di quelle traduzioni che proprio non ti aspettavi, e come per miracolo si materializza sotto forma di un numero con tre zeri nella colonna dei crediti del tuo estratto conto. Questo è il ragionamento che ha fatto il mio cervello rettiliano. Un po’ alla volta anche in queste cose ci si fa un’esperienza, come in tutte le altre. Non è che le faccende letterarie siano poi così diverse dalle altre, per esempio il mio lavoro scientifico. Anche lì ci sono gli sgomitatori, i millantatori specializzati nel vendere fumo, gli stronzi fatti e finiti, le vedettes che si credono meglio di tutti gli altri, e hanno sete di reiterate conferme, e anche lì ci sono le persone per bene, quelli che hanno diamanti da mostrare e li mostrano. A modo loro, scrivendo. Pochi, pochissimi, ma ci sono. Insomma, sto di nuovo perdendomi per strada: in allegato alla mail dell’agente c’era il resoconto delle vendite del mio ultimo romanzo. Qualcosa dentro di me ha deciso di cominciare da quello. Checché se ne dica fa sempre bene imbattersi in una riprova nero su bianco di un minimo senso – qualcuno preferirebbe forse chiamarlo riconoscimento, o dose minima di gratificazione – dei propri sforzi letterari, mi sono detto. Si ha un bel ripetere che si scrive per se stessi, e che si scriverebbe anche se non si avessero lettori, in realtà l’atto di scrivere è uno struggente appello, una supplica. L’invocazione di un agonizzante, un lancinante urlo di dolore. I manzoniani venticinque lettori sono solo bassa propaganda, la maschera da fraticello indossata dalla montagna di orgoglio allignante nell’autore, lo sanno tutti. Ho aperto quindi il documento allegato al messaggio, e prima ancora che me ne rendessi conto i miei occhi si sono tuffati come avvoltoi verso la riga delle copie vendute. I miei occhi hanno vacillato, increduli della cifra che mettevano a fuoco: centosessantasette. I miei occhi hanno verificato se dopo le tre misere cifre seguisse per caso qualche zero che si leggeva male, ma anche a strizzare come limoni i muscoli degli zigomi non c’era nessun zero: centosessantasette e basta. Centosessantasette è un numero bassissimo. O meglio, ridicolo. Meglio ancora, offensivo. O anche tragico. Ho respirato a fondo, dicendomi che certo i miei occhi avevano preso un abbaglio. Come tante persone che passano la vita a leggere e a scrivere non è che ci veda poi così bene. Ho cinque paia di occhiali, ognuno adeguato a un preciso spettro di condizioni e di esigenze, tanto che ogni volta che vado dall’oculista ci metto mezz’ora a spiegargli perché ne ho appunto cinque paia. Per gli oculisti contemporanei si dovrebbe però avere un solo paio di occhiali, quelle lenti che fanno tutto, e già quando ne hai due paia cominciano a sospirare. Se ne hai tre aggrottano le sopracciglia. Con cinque ti trattano come se fossi pazzo da legare: la calibrazione empirica effettuata da un essere libero di pensare contraddice di netto tutta la loro dottrina, fa a pugni con le loro inflessibili credenze. Per questo nelle mie spiegazioni oftalmiche finisco sempre per ingarbugliarmi: quando ti fissano come se fossi pazzo finisci per sentirti un po’ pazzo tu stesso. Una volta mi sono perfino messo a litigare, con una oculistina che pensava di sapere tutto. Per farla breve, diffidando dei miei occhi ho preso in mano la situazione in prima persona, intenzionato a dipanare l’equivoco che mi aveva inculcato quel funesto spavento. Ho affrontato di nuovo il resoconto della casa editrice, questa volta sotto la vigile supervisione del mio cervello. La dizione precisa, il mio cervello abituato alle analisi approfondite e ai complessi enigmi scientifici sapeva che per fare le cose bene bisognava cominciare da lì, era Copie vendute tramite distributori e privatamene. Il mio medesimo cervello ha poi vegliato che scorrendo verso destra i miei occhi non slittassero di una riga, come può sempre capitare anche agli occhi più allenati. Contro ogni aspettativa la cifra continuava a essere centosessantasette. Ancora centosessantasette. Sempre quel maledetto centosessantasette. Abbinato, non c’era possibilità di sbagliarsi, a quel Copie vendute tramite distributori e privatamente. Più sotto, accanto alla frase un po’ criptica Giacenza nostro magazzino e distributore c’era una cifra che suonava in qualche modo come una conferma: millecentoquarantanove. Millecentoquarantanove è un numero degno di ogni rispetto, accettabilissimo: peccato che avesse pensato bene di schierarsi nel campo avverso. Se millecentoquarantanove esemplari restavano a ammuffire in magazzino, sommando le copie per la stampa e tutto il briciolame delle altre voci, le copie vendute dovevano essere davvero pochissime: i conti tornavano. Era ineluttabile, le copie vendute del mio romanzo erano effettivamente centosessantasette. Solo centosessantasette. Il grande romanzo che mi aveva preso per anni, per il quale avevo dato l’anima, e che consideravo fondamentale nel mio cosiddetto percorso letterario, s’era accasato solo centosessantasette miserissime volte. Io a dire la verità non mi ero mai domandato quante copie fossero state smerciate, ma presupponevo molte di più. Come dire, una cifra non stratosferica ma degna. Per esempio appunto millecentoquarantanove. Certo i miei romanzi precedenti non avevano mai sbaragliato, però nel loro piccolo si erano difesi bene. Ma a quanto pare questa volta le copie acquistate erano centosessantasette, e nemmeno una di più. Il mio cervello a questo punto ha avuto uno scatto di orgoglio, si è concentrato come una micidiale arma di precisione su quello sbifido Copie vendute tramite distributori e privatamente. Sicuro che avrebbe stanato l’indizio ben nascosto ma inequivocabile suscettibile di ribaltare la situazione, traendoci d’impiccio. Io sono un tipo che di fronte alle difficoltà tende a demoralizzarsi, per non dire a deprimersi, se non addirittura a imboccare i vertiginosi sentieri della paranoia, e quindi il mio cervello molto spesso si risolve a indossare i panni del crocerossino. Calcando sugli aspetti positivi mi fa capire che non c’è ragione per vedere tutto in nero, a suon di analisi inconfutabili mi convince a perseverare. Insomma, memore delle esperienze passate il mio cervello si aspettava di tirarmi per l’ennesima volta fuori dalle peste, e io stesso speravo tanto che lo facesse. Non mi restava del resto altra soluzione. E invece senza volerlo questa volta il mio cervellaccio ha aggravato ancora di più le cose, come quei soccorritori maldestri che fanno sprofondare ancora di più nel pozzo scuro e umido il derelitto bimbo gemente, allontanando ancora di più la speranza di tirarlo fuori vivo. Quel privatamente del Copie vendute tramite distributori e privatamente, ha arguito il mio petulante cervello, includeva senza ombra di dubbio anche le copie che avevo comprato io. Quindi la cifra andava rivista al ribasso. E di molto: questa volta avevo acquistato davvero tante copie. Avevo deciso di fare le cose in grande. Mi ero detto che per me questo era un libro importante, per non dire capitale, e quindi era assurdo lesinare sui mezzi che mi sarebbero serviti per promuoverlo. Naturalmente l’ufficio stampa della casa editrice avrebbe fatto il suo lavoro, ma ormai li conoscevo gli uffici stampa, presi per il collo dall’esorbitante numero di libri che devono sostenere, e animati dallo stesso entusiasmo, specie quando l’autore non è tanto noto, di un operaio che sgobba a una catena di montaggio: questa volta dovevo impegnarmi di persona. Certo non avevo tanti contatti, anzi ne avevo proprio pochini, perché ero sempre stato molto isolato, questo nessuno avrebbe potuto negarlo, ma in fondo qualcuno lo conoscevo, qualche pista potevo provare a batterla. Per il romanzo precedente avevo adottato la strategia opposta, e dalla casa editrice, che era un’altra – ogni volta mi epurano e devo ricominciare altrove – ne avevo comprati pochissimi. Nemmeno a certi amici intimi, lo avevo dato, il romanzo precedente, e qualcuno se l’era legata al dito. Questo invece lo avevo distribuito in giro come si lanciano in aria i coriandoli, senza pensare alle fatture che mi sarebbero arrivate da pagare, e che anzi puntualmente arrivavano (se c’è un’attività nella quale le case editrici si mostrano sempre molto efficienti è proprio questo). Ma soprattutto, a parte i conoscenti per così dire privati, lo avevo mandato o fatto avere a un sacco di persone che secondo me avrebbero potuto essere interessate, per non dire avrebbero potuto entusiasmarsi. Avevo passato settimane a trovare i contatti, a cercare di attivarli, a tastare il terreno, a carpire assensi, a mandare pacchetti. Il libro avevo al centro una vicenda storica, e quindi avevo stanato molti storici. Mi ero presentato, avevo riassunto in maniera sobria ma accattivante la vicenda, avevo chiesto se per caso erano interessati a dargli un’occhiata. Specificando naturalmente che non si impegnavano a nulla: se avessero visto che non era nelle loro corde avrebbero potuto buttarlo dalla finestra, o anche da un aereo in volo, o sotto il piede di un mobile traballante, dove volevano loro. Ci tenevo a non apparire insistente, e quindi calcavo sempre molto su questo punto, inventavo sempre nuovi mezzi di distruzione del mio libro. Se c’è una cosa che voglio evitare è proprio assillare gli storici. Molti non mi hanno nemmeno risposto, alcuni invece si sono mostrati disponibili. Tra gli altri uno storico molto famoso, con le quali avevo scambiato diverse cordiali mail. Fatta qualche sporadica eccezione nessuno aveva poi letto il romanzo, nonostante trattasse di un grande personaggio storico che nessuno scrittore aveva mai osato tirare in ballo, e a dispetto dei miei più o meno patetici tentativi di rilanciare la cosa: non avevo avuto quasi nessun riscontro. Nemmeno dallo storico molto famoso che si era mostrato tanto gentile e alla mano. Tutta fatica inutile. Tentativi privi di senso, macchiati da quella stessa indegnità di una madre che si prostituisce per nutrire i suoi figli. Queste cose però le penso adesso, quello che capivo mentre guardavo i conteggi della casa editrice, e che appunto aggrava ulteriormente la situazione, rendendola luttuosa, è che alle centosessantasette copie dovevo sottrarre le molte che avevo comprato io. Il che era come sottrarre il mangiare a chi non ha niente da mangiare. Lì per lì ero troppo confuso per ricordarmi esattamente quanti esemplari mi ero fatto mandare al prezzo di favore stipulato dal contratto, ma dovevano essere almeno un’ottantina, se non di più. Quindi le copie vendute in libreria scendevano, al meglio, a ottantasette. Nemmeno cento. Nemmeno novanta. Comprendendo naturalmente anche le librerie online. Tutti quegli sforzi durati anni, quelle ricerche, quelle letture, quelle cattedrali mentali, quelle abissali riflessioni, quell’accanimento sulla lingua, quelle infinite revisioni, quelle interminabili limature finali, quelle battaglie con l’ottuso editor della casa editrice, e poi appunto quelle mail, quelle telefonate, quell’attenzione a giornalisti insipienti, quelle interviste radiofoniche con conduttori che non avevano letto il testo, quel vano darsi da fare, quell’umiliarsi – perché di questo si trattava, di umiliazione – per spacciare non venticinque copie, il che nella disdetta avrebbe pur sempre rappresentato un traguardo onorevole, ma ottanta. Perfino la tenzone con il famoso critico che sosteneva che il mio libro fosse scritto malissimo, e non vedeva che proprio nel discostamento da quella che lui considerava una bella scrittura erano annidati i segreti più preziosi del testo, prendeva una luce sinistra, alla luce di quel benedetto centosessantasette. Ero proprio abbattuto, non posso negarlo. Io sono una persona che si scoraggia facilmente, l’ho già detto, ma questo non era dei soliti inghippi che la mia indole saturnina ingigantisce e ingrigisce a suo piacimento: era una vera e propria mazzata a tradimento. Una cannonata sparata nelle spalle, un colpo mortale. Il mio cervello non mi diceva più niente, non pensava più niente: era anche lui spezzato, annientato, esattamente come me. È in questo stato di spirito che mi sono ricordato del messaggio dell’agente, che non avevo ancora letto. Certo qualche frase di conforto mi tirerà su un po’ il morale, mi sono detto. Le cose sono andate come sono andare, ma il tuo romanzo è magnifico, mi aspettavo di leggere. L’importante è che tu non ti demoralizzi, perché nonostante tutto sei davvero bravo, molto più in gamba di tanti nomi che sono sulla bocca di tutti. Verrà il momento in cui i tuoi testi verranno apprezzati, puoi starne certo. O insomma qualcosa del genere. E invece l’agente mi comunicava che nel corso degli ultimi mesi aveva riflettuto sul nostro rapporto di lavoro, testuali parole, e le pareva che in fondo questo non si fosse rivelato molto soddisfacente per nessuna delle due parti, testuali parole.  Pertanto le pareva più corretto che la nostra collaborazione, parole testuali, cessasse a partire da quel giorno stesso, cioè ieri. Mi ringraziava per la fiducia che le avevo accordato in quel periodo e mi faceva, testuali parole, i suoi più sinceri auguri. Quindi da oggi sono anche senza agente.

[l’immagine: Louis Soutter]

È in edicola e in libreria il numero di settembre di “alfabeta2”

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Il numero 22 di «alfabeta2» è in arrivo nelle edicole e nelle librerie ai primi di settembre.

I tre nodi che aprono la rivista – La nefasta utopia del neoliberismo (interventi di Alberto De Nicola, Francesca Coin, Giuseppe Caliceti); L’immigrante linguistico (Paolo Mossetti, Enrico Donaggio, Jacopo Galimberti, Charles Melman in dialogo con Ilaria Bussoni); Anarchia 2.0(Carlo Formenti, Marco Rovelli, Federico Campagna, David Graeber) – sottolineano in diversi ambiti la necessità di osservare i processi in corso da prospettive nuove se, come osserva Graeber nel suo scritto, «il senso comune è diventato il terreno di scontro preferito del capitale».

Per una biografia controfattuale di Charlton Heston (voce incompleta)

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di Davide Orecchio

Uomo politico, presidente degli Stati Uniti (1981-1988), attore, premio Oscar (1960). Nasce nel………………

La traduzione dei libri è un’azione politica

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di Giuseppe Zucco

Così Jonathan Safran Foer, oggi:

I suoi libri più letti si basano sulla ricerca di qualcosa che manca: una persona, la soluzione di un mistero, la verità. Che cosa manca all’America di oggi?

Certamente stiamo ripudiando la nostra missione originale. Gli stati Uniti sono un Paese fondato dagli “altri” ed è stato sempre aperto agli “altri”. Questo nostro spirito ci ha contraddistinto nel mondo e ha alimentato la nostra idea di “essere eccezionali”, termine che non amo ma che a volte ha davvero rispecchiato la realtà. Oggi, però, vedo che stiamo tristemente scivolando verso un patriottismo che somiglia alla xenofobia. Si pensi alla letteratura, per esempio: oggi i titoli stranieri tradotti in America rappresentano solo il 3 per cento dei libri pubblicati. In Europa, invece, vengono tradotti molti più libri, dal 30 al 45 per cento del totale. Insomma, l’America sta rinunciando al “dialogo col mondo”.

[da un’intervista di Antonello Guerrera a Jonathan Safran Foer pubblicata su La Repubblica del 5/9/2012]

da “L’amore vince sempre (e non fa prigionieri)”

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di Luigi Socci

L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio
Silvio Berlusconi

Ragazzo si innamora di una ragazza
Alfred Hitchcock

È tutta qui
questa famosa alba
e hai messo anche la sveglia per vederla.

Su Alessandra Carnaroli, Femminimondo. Cronache di strade, scalini e verande, ed. Polìmata, Roma, 2011

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di Silvia De March

Il titolo può dissuadere. La pubblicizzazione, firmata dall’Associazione Erinna (donne contro la violenza alle donne), pure. La scarsa o nulla distribuzione delle edizioni Polìmata incentiva a desistere.

È improprio circoscrivere l’impegno letterario dell’autrice alla denuncia sociale. La raffinatezza della scrittura colloca la raccolta tra le letture più piacevoli e sorprendenti in una stagione di produzione poetica piatta.

La dedica (a chi ho preso la parola / alle loro figlie) svela un’operazione di ascolto che s’inscrive in un orizzonte propriamente di verità. Una realtà più autentica si svolge in queste Cronache tratte da strade, scalini e verande, ovvero interni, esterni e interstizi intermedi. I componimenti si susseguono in Sfilate come indica una seconda intestazione alla raccolta: i fatti a sinistra, sintetizzati da rastremate coordinate del luogo e del modo del misfatto, disposte in suggestiva dinamica col vuoto; le colpe a destra, in una pagina dedicata alle testimonianze raccolte in vero e propri testi poetici.

Bagnanti #2

4

di Renata Morresi

 

le vite dicembre

sulle isole Pelagie

 

furono dei pirati

dei Tomasi

 

feste lente

lingue di lava

 

pause lunghe un Pleistocene

 

La luna e i calanchi

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ANTONIA POZZI [1912 – 1938]

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IN SOGNO
Silenzio – grotte
di bianco cristallo

scavo
alle fiabe –
sul pianto il cuore trascorre –
sul lago celeste
con occhi grandi – cigliati
di glicine –

 
 
 
 

Nel nome dello Zio

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(Giovedì prossimo è in uscita per Guanda Nel nome dello Zio, il nuovo romanzo di Stefano Piedimonte, il quale gentilmente ci regala l’anteprima, qui di seguito, del quinto capitolo. G.B.)

di Stefano Piedimonte

Lo Zio era seduto al « tavolino reale » del bar Magna Grecia, una struttura imponente costruita sul litorale di Varcaturo imitando le linee (e la grandezza) del Partenone, sorta da un giorno all’altro in un’area destinata a uso agricolo in spregio a tutte le leggi. Non solo a quelle urbanistiche, che sarebbe stato il danno minore, ma soprattutto a quelle del buon gusto e della decenza.
Il Magna Grecia era un’idea venuta al commercialista del clan Mallardo per riciclare una parte del denaro proveniente dalle estorsioni e dal traffico di droga. Alla fine i risultati avevano superato le aspettative: la gente amava mangiare una sfogliatella passeggiando fra una colonna e l’altra del Partenone.
Per lo Zio, era semplicemente una « base », un punto di ritrovo coi colleghi delle famiglie radicate fra Napoli e il Casertano. Il tavolino reale si trovava su un piano leggermente rialzato dell’immenso salone, spostato verso l’interno e circondato da una recinzione di acquari alti una trentina di centimetri. La coerenza stilistica, in un posto del genere, era un’idea da abbandonare ancor prima di varcare la soglia.
Accanto allo Zio, seduto con le spalle verso il fondo del locale, c’erano alla sua sinistra Gigino Tagliaferri, detto ’o Cavallaro, esperto di corse clandestine e finissimo talent scout di quadrupedi da dopare. Alla sua destra, Salvatore Scudiero, detto Totore Telecòm, fine conoscitore dei sistemi per frodare la pay tv e organizzatore di proiezioni clandestine dei match calcistici.
Anche su quello c’era da lucrare parecchio: una partita del Napoli proiettata in un sottoscala, con duecento spettatori stipati come sardine a quattro euro l’uno, significava ottocento euro esentasse guadagnati praticamente senza muovere un dito. In periodo di campionato, lo scherzetto tornava buono per distribuire qualche soldino alle famiglie degli affiliati detenuti. Salvatore aveva appena finito di illustrare allo Zio i suoi sfavillanti progetti per la ripresa del campionato – una sala proiezioni da allestire nella vecchia scuola materna abbandonata, di proprietà del Comune, in grado di ospitare almeno trecento persone – quando il Cavallaro batté due volte il cucchiaino sulla tazza del caffè richiamando col tintinnio l’attenzione dei colleghi.
« Eccoli, ci sono tutti e tre. »
«Addirittura… » esclamò lo Zio piegando leggermente la testa e sgranando gli occhi in una posa caricaturale. «Ma allora siamo importanti » considerò , offrendo un sorriso compiaciuto e sarcastico prima a Gigino e poi a Salvatore.
Dalle colonne del Partenone sbucarono tre individui simili in tutto e per tutto alla combriccola dello Zio: in due indossavano giubbino di jeans, scarpe da ginnastica e occhiali da sole con lenti a goccia. Quello al centro, invece, portava pantaloni neri classici, mocassini in tinta e una camicia che offendeva quasi tutte le tonalità del rosa, del giallo e dell’arancione. Sbottonata in cima, mostrava un petto villoso e una catena d’oro con Gesù suppliziato ben due volte: la prima per via della crocifissione, la seconda perché sommerso dalla peluria incolta di Antonio Maltradotto, assessore alla viabilità nella giunta comunale.
L’assessore, la camicia preferiva portarla fuori dai pantaloni, per occultare – nelle intenzioni, almeno – il pancione che debordava dalla cintola.
I tre avevano percorso circa metà della distanza che li separava dal tavolino reale quando, a passo spedito, si avvicinò un cameriere in divisa rossa marcata Magna Grecia sul petto e sul cappello. Il giovane fece un brusco dietrofront appena riconosciuti i personaggi, quasi come a scusarsi per l’intenzione di consigliare loro un tavolino diverso da quello dove erano naturalmente diretti.
Tornato dietro il bancone si beccò uno scappellotto dal cassiere. Probabilmente, se non avesse fatto cenno di avvicinarsi agli ospiti di riguardo se lo sarebbe beccato lo stesso. Un collega anziano, che aveva notato la scena, prese con la pinza un micro-babà dalla vetrina e glielo porse in segno di solidarietà . Il cassiere non disse nulla: sfilò da sotto il registratore di cassa un foglietto bianco con alcuni numeri annotati, e con la bic nera scrisse « –1,20 euro » accanto al nome « Tony ».
« Buongiorno, assessore » disse poi con voce sufficiente a raggiungere il centro della sala. Il politico rispose con un semplice cenno del capo e proseguì la camminata verso il tavolino degli «uomini di rispetto». A lui piaceva essere salutato cosı`, platealmente, soprattutto quando ad attenderlo c’erano pezzi da novanta della criminalità partenopea.
Il tavolino reale aveva sedie reali. Soffici, di legno dorato e foderate in rosso. L’imbottitura di un’unica sedia sarebbe bastata per un intero divano compreso di penisola. I Mallardo non badavano a spese, specie quando i soldi erano quelli estorti a commercianti e imprenditori edili.
Quando Maltradotto e i suoi sodali si sedettero di fronte alla compagine dello Zio, le sedie emisero tre sbuffi d’aria sfasati fra loro di qualche nanosecondo. « Ogni volta sembra che hai fatto una loffa» disse lo Zio, ed era il modo più elegante che fosse riuscito a trovare per rompere il ghiaccio.
« Non ti preoccupare, Zio, quando io faccio una loffa te ne accorgi » disse l’assessore esuberante sfilandosi i Ray-Ban e sporgendosi col busto sul tavolo. Il boss non rispose per evitare che si innescasse una gara poco dignitosa per entrambi. Alzò invece una mano per richiamare l’attenzione del cameriere. Stavolta si mosse quello anziano.
Maltradotto fece cenno a uno dei suoi di passargli qualcosa. Il tizio sfilò dalla tasca del giubbino un taccuino e una penna e glieli porse. Prima di prenderli, l’assessore sollevò dal petto il ciondolo a forma di crocifisso e se lo portò alle labbra. Solo a quel punto raccolse carta e penna e fissò lo sguardo sullo Zio.
Il boss, che ben conosceva il personaggio, non rimase affatto sorpreso. Prima di ogni incontro con gli uomini di rispetto, l’assessore chiedeva al Signore di vegliare sui suoi traffici e far sì che tutto andasse bene.
Maltradotto sfogliò rapidamente la gran parte del blocchetto, quindi segnò sulla prima pagina bianca la data e il luogo dell’incontro. Appena sotto scrisse « Zio », poi poggiò la penna sul blocco accentuando il gesto e sollevando lo sguardo sul boss dei Quartieri Spagnoli.
La trattativa poteva cominciare.
Alle 12.45 di un giorno feriale, il cameriere venne liquidato con un ordine di tre Jack Daniel’s. Prese la parola lo Zio. « Allora, assessore, come ti ha anticipato il mio collaboratore abbiamo un piccolo problema. Ma è proprio piccolo, quindi ci metteremo d’accordo sicuramente» Maltradotto fece oscillare il testone avanti e indietro, favorevole a prescindere. « Il problema è che tu hai messo un senso unico proprio davanti alla casa del Traditore, solo che l’hai messo nel verso sbagliato. » Il Traditore era un capo-piazza locale che aveva scalato posizioni all’interno del clan dopo aver tradito i suoi precedenti colleghi e aver consegnato nelle mani dei Mallardo tutti i segreti della famiglia rivale.
Per qualche miracolo spiegabile solo con un’attenta analisi dei sottilissimi equilibri camorristici, era ancora vivo.
« Cioè » proseguì lo Zio, « hai sbagliato a segnare il verso del senso unico sulle carte del Comune, e ora il Traditore per arrivare sotto casa deve fare il giro dell’isolato.
Ha provato pure a farsi il controsenso, ma gli arrivano sempre le altre macchine di fronte… e mica può litigare ogni giorno con dieci automobilisti. Il Traditore è una persona tranquilla. »
Mentre lo Zio parlava, Maltradotto aveva cominciato a muoversi sulla sedia e a rigirarsi fra le mani le stanghette degli occhiali. Sotto il tavolo, la gamba destra faceva su e giù . Ora il boss aspettava una sua risposta. « Zio, così mi metti in difficoltà » esordì. Lo Zio inclinò la testa e aggrottò le sopracciglia, incredulo. « No, Zio, veramente » continuò l’assessore, « così mi metti in grosse difficoltà . Quel piano traffico l’ho disegnato insieme ai colleghi della giunta comunale. Ora che gli dico? Che il Traditore vuole farsi un’ordinanza personalizzata? Come faccio… »
« Eh, come fai… Ma che ci vuole! » esclamò lo Zio sbattendo il pugno sul tavolo. « Tu vai là e gli dici come ti ho detto io: ridatemi un attimo il foglio col disegnino, ché ho sbagliato a segnare un senso unico.»
« E secondo te è così facile » sospirò l’assessore, che ora giocherellava anche col crocifisso d’oro appeso al petto. Nella sala del Magna Grecia, affollata perlopiù da perdigiorno, studenti filonari e delinquentelli da due soldi, la tensione cominciava a percepirsi. Nessuno aveva l’ardire di mettersi a osservare il tavolino reale, ma molti erano i clienti che gettavano l’occhio fra una chiacchiera e l’altra.
Lo Zio tacque per un minuto buono. Poi stringendo gli occhi fece: «Mi sembri Gaucho».
« Chi? » chiese l’assessore, e i suoi sgherri si guardarono fra loro. « Gaucho » ripeté lo Zio come fosse la cosa più naturale del mondo, « Gaucho del gieffe. » Maltradotto guardò a destra e a sinistra: accettava suggerimenti.
I suoi, però , non furono in grado di dargliene. Lo Zio gli schioccò le dita davanti al naso: « Oh! Il gieffe, il Grande Fratello. Gaucho del Grande Fratello. Mi sembri lui: Gaucho del Grande Fratello».
Solo a quel punto i sodali del boss si scambiarono uno sguardo di estasiata complicità : loro sapevano, erano addestrati, e il fatto che i due sgherri « avversari » brancolassero nel buio li riempiva di autentico orgoglio.
« Quando Gaucho entrò nella Casa » prese a spiegare il boss solennemente, « Tania lo prese subito di mira. In senso buono, eh. Era sempre gentile, premurosa, carina. Dovunque Gaucho andasse, se la trovava di fronte. Qualunque cosa Gaucho facesse, Tania si prendeva cura di lui. Anche di nascosto, senza farglielo capire. Addirittura lo spiava. Lui non lo sapeva, ma io sì, perché sulla pay tivù potevo guardare da tutte le telecamere. »
Maltradotto prese un tovagliolino dal dispenser e lo usò per tamponare le gocce di sudore che cominciavano a rigargli le tempie. Prima quella destra, poi quella sinistra, con calma, cercando di non tradire un nervosismo peraltro già evidentissimo.
«Un giorno Tania, dopo aver lavorato un mese pazientemente dietro le quinte, amando Gaucho con tutta se stessa, gli chiese un piccolo gesto d’attenzione. Andò da lui e gli disse: ’Gaucho, io non voglio niente da te, niente di serio. Vorrei solo che tu mi dicessi che almeno una volta, durante la giornata, pensi a me’. Sai cosa rispose Gaucho? » Maltradotto scosse la testa, ipnotizzato.
« Rispose: ’Non posso, mi dispiace’. E sai perché rispose così?» Maltradotto scosse di nuovo la testa. « Perche ´ altrimenti avrebbe dovuto spiegarlo alla sua fidanzata che lo guardava in tivù , avrebbe dovuto spiegarlo alla sua famiglia, alla famiglia di lei, e a chissà quante altre persone. Ma Gaucho non aveva capito una cosa: tutte quelle persone, tutti quelli che lo guardavano in tivù , per lui non avevano mai fatto un cazzo. Tania, invece, per lui aveva fatto molte cose. Ora, assessore, ti do un aiutino: stiamo parlando dell’edizione 2009 del gieffe. Sai che fine fece Gaucho? »
L’assessore alla viabilità scosse la testa per la terza volta.
« Venne eliminato. »

*
Stefano Piedimonte è nato nel 1980 a Napoli e si è laureato all’università «L’Orientale». Dal 2006 lavora per il «Corriere del Mezzogiorno», prima come cronista di nera e poi come redattore web della testata.

b t w b h / 15 poesie da Nel malintendere (2009-2012)

14

di Fabio Teti

[...]


con espiantati, non espiati, così che possano, che passino,
fatto un silenzio degli organi, nel fitto

del rumore degli organi – e «è complicato».


lui poi a che pro chiede se senza
lavoro un link gli scorta
il morto nella casa, nel video non montato
è in piedi poi sdraiato e sangue in terra, gli scorta
il foro nella testa e fra i cappotti lì nel tram
su viale libia, a dita sopra schermi –
come fosse poi diverso      
come questo fosse altro
da scortargli i predicati 
– scortargli

ai nervi e già disposta la cosa

ah e pazzesca la tripletta
contro il lecce di boateng

video arte #8 – mike figgis

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http://www.youtube.com/watch?v=6vCIIRBBK1U

Mike Figgis, About time 2, 2002.

Scrittori performer

3

di Cristiano de Majo

 

Gabriela Wiener ci regala con queste 13 divertenti
crónicas uno spaccato sui lati più oscuri e meno
esplorati della nostra società.
(Dalla quarta di copertina)

Mi rendo conto che la definizione di scrittore-performer è ambigua e imprecisa, ma non riesco a trovarne una migliore. È ambigua e imprecisa perché la prima cosa che fa venire in mente è lo scrittore bravo a leggere, il letterato con voce e corpo, per il quale sarebbe da proporre la definizione alternativa di scrittore-interprete. La categoria che cerco di inquadrare, invece, svolge la performance come atto preliminare e propedeutico alla scrittura, che ha come oggetto la sua stessa performance. Per fare qualche esempio noto: David Wallace che va in crociera; Hunter Thompson che passa il suo tempo con gli Hell’s Angels; praticamente tutto quello che ha scritto Vollmann ha origine da una performance, spesso estrema; più in generale ogni testo che può essere compreso nella categoria del gonzo journalism, ma anche un filone di ascendenza più europea (Noteboom e Sebald) del reportage narrativo.

Lo scrittore-performer, affamato di realtà, ha bisogno di provare un’esperienza per fare fruttare le sue doti narrative. In alcuni casi quest’esperienza dev’essere qualcosa che lo metta a dura prova, o comunque a cui offrire il proprio corpo in sacrificio. Come il reporter di guerra, lo scrittore-performer cerca il rischio e la difficoltà e aspetta in trincea che l’esperienza lo attraversi e lo cambi. Il punto di vista profondamente soggettivo che informa la sua scrittura non serve tanto a mostrare la realtà da un punto di vista estremamente soggettivo, ma a rappresentare il cambiamento che egli stesso, in quanto protagonista della performance, affronta. Difatti, anche se ha molto a che fare con la realtà, la scrittura-performance non ha alcun tipo di obiettivo informativo, è piuttosto un rito di passaggio.

In questa sua natura psico-emotiva la scrittura-performance si allontana dal giornalismo, da cui è ispirata, e si avvicina alla letteratura, finendo per entrare nella categoria, che alcuni vorrebbero riservata ai soli romanzi, dalla porta di servizio e rimanendo comunque un oggetto di non chiarissima definizione. Leggo per esempio un libro di Gabriela Wiener, da poco pubblicato per La Nuova frontiera in una bella veste grafica, Corpo a corpo, e presentato tra copertina e quarta come “il lato freak del giornalismo letterario”, il “giornalismo gonzo più estremo”, “il nuovo giornalismo sudamericano”, e infine un esempio di “giornalismo narrativo”; tutte definizioni che fanno venire più di qualche dubbio su che tipo di libro sia – giornalismo o letteratura? – e che in fondo, continuando il dubbio a sussistere anche a fine lettura, sono caratterizzate da un’ambiguità pertinente.

Dalla raccolta di articoli si capisce che Gabriela Wiener è andata in cerca, a tratti in modo goffo – i pezzi più vecchi – di esperienze: ha dormito a casa di un poligamo, ha passato una giornata in un carcere di massima sicurezza, ha fatto scambio di coppia, ha conosciuto ben due mistress, ha provato l’ayahuasca, ha seguito una trans durante un turno di lavoro al Bois de Boulogne, ha donato un ovocito, eccetera, eccetera. Lo ha fatto in un modo il più delle volte leggero, funzionalmente ingenuo, riversando poi l’esperienza in una scrittura divertente, rapida, di facile lettura, in alcuni casi brillante.

Il problema della distinzione giornalismo/letteratura, in casi come questo, non ha soltanto una ragione classificatoria, ma è legata alla cornice etica dentro cui la scrittura può muoversi. Io la vedo così: la letteratura non ha praticamente limiti etici; se il passaggio da racconto soggettivo della realtà (esperienza individuale) a parabola sulla natura umana (esperienza universale) funziona, tutto è concesso. Vollmann va a puttane in Thailandia e non viene mai il dubbio che il suo tour de force sia uno sfizio inutile o peggio un inno allo sfruttamento dei corpi altrui. Ma se il passaggio non funziona, se l’esperienza individuale non riesce a cogliere una verità profonda, tutto diventa più paludoso ed eticamente discutibile. Il testo finisce per essere inghiottito nella categoria giornalismo, che è un campo con molti limiti etici, il primo e più importante è che l’indagine su quel determinato spicchio di realtà debba trovare una giustificazione nello scopo informativo del lavoro. Da un pezzo in cui l’autrice decide di sottoporsi alla donazione di un ovocito (Addio, piccolo Ovocito, addio), si rimane molto delusi a fronte del risultato: un articolo di cinque cartelle in stile magazine femminile che curiosa nella realtà. Per carità, tutto si può fare, ma è facile che una performance non seguita da una messa in gioco totale del narratore diventi eticamente discutibile. E qui viene fuori il problema di molte scritture basate sulla performance, e la loro tendenza a cercare le cose più strane da raccontare  che non è poi così vero che siano i “lati più oscuri e meno esplorati della nostra società”, ma proprio in quanto “lati più oscuri e meno esplorati” finiscono per essere i più chiari e i meno nascosti. L’ulteriore problema è che il giudizio etico su questi testi può essere dato solo a posteriori, cioè solo sulla base del risultato letterario e non sulla base delle intenzioni.

La cosa interessante che si nota nel libro della Wiener e che lo rende un caso scuola per ragionare in generale è che quanto più i testi affondano nella sfera emotiva e psichica della protagonista (come nel bel diario della gravidanza While you were sleeping), quanto più cioè si avvicinano al territorio letterario, tanto più il giudizio etico è costretto a fermarsi; quanto più vi si allontanano, invece, e tanto più viene voglia di criticarli come appropriazioni indebite della libertà d’espressione. Vengono cioè alla luce con grande evidenza le licenze concesse alla letteratura e al tempo stesso i rischi, estremamente insidiosi, che la letteratura (o per lo meno l’intenzione di fare letteratura) può correre muovendosi nella realtà.

[Questo testo fa parte di Maledette bandelle, una rubrica pubblicata su Studio]

Bagnanti #1

6

di Renata Morresi

 

 

ci sono dappertutto bagnanti felici

(A. Porta)

 

 

essere molti e saline

vive e più mobili

del mare, abitanti

confusi a risalire

all’indietro, ad uno

stile nobile, le antiche

genealogie anfibie