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Norwegian books

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a cura di Francesco Forlani

Lo scorso Giugno sono stato a Lillehammer insieme alla Nazionale Scrittori per incontrare, culturalmente e calcisticamente i nostri omologhi norvegesi. I giorni trascorsi insieme mi hanno offerto l’occasione di frequentare autori, traduttori, giocatori davvero eccezionali. Poco dopo essere ritornato in Italia ho mandato a tre di loro un piccolo questionario su come gli scrittori norvegesi avessero elaborato la terribile esperienza dei due attentati dell’anno scorso, a Oslo e sull’isola di Utoya, in cui 77 persone hanno perso la vita. Di ieri la sentenza che ha condannato il loro autore Anders Behring Breivik a 21 anni. Ma anche e soprattutto il loro punto di vista sullo stato generale delle lettere, nel loro paese e nel nostro.

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Effeffe:  Prendendo spunto dai fatti di Utoya dello scorso anno c’è stata secondo voi un’elaborazione di quell’esperienza  da parte degli scrittori? Qual è il vostro punto di vista sia sui fatti accaduti che sull’elaborazione in corso?

Simen Ekern (scrittore e giornalista corrispondente del quotidiano Dagbladet)

SE: I libri pubblicati fino ad oggi sulla tragedia Utøya sono resoconti di saggistica. I primi libri ad essere pubblicati sull’argomento sono state sostanzialmente indagini che descrivevano ogni mossa di Breivik nei mesi, giorni ed ore prima della bomba e della sparatoria. Poi vennero i libri -intervista sulla base di lunghe conversazioni con i sopravvissuti, come il libro di Erik Møller Solheims su Adrian Pracon.

Ora invece cominciano ad essere pubblicati saggi di tipo politico. «Motgift» (Antidoto), è un ambizioso progetto, un libro di 500 pagine che offre la possibilità a studiosi ben noti di rispondere al contenuto del «Manifesto» di Breivik. L’idea di fondo di questo progetto è di dimostrare, attraverso fatti e analisi equilibrate, che l’ideologia di Breivik si basa su presupposti falsi e incorretti. Ho scritto una recensione positiva di questo libro sul giornale per il quale lavoro, anche perché penso che sia impossibile ignorare la dimensione ideologica / politica dei crimini compiuti da Breivik. Breivik potrà anche essere un pazzo, ma le sue idee politiche sono condivise da molti, e devono essere prese sul serio, purtroppo.

Vari autori di narrativa, norvegesi hanno scritto articoli e pezzi d’opinione pubblicati su diversi giornali nazionali e internazionali. Più degni di nota, forse, sono gli scritti di Karl-Ove Knausgård, l’autore più di successo nel nostro paese nell’ultimo quinquennio. Ecco il suo saggio sul New York Times, scritto con un linguaggio riconoscibile ai lettori dei suoi romanzi.

Jon Rognlien (traduttore in norvegese di Saviano, Camilleri, Sciascia, critico letterario ed editorialista norvegese.)

JR: Sono usciti parecchi libri sul massacro: documentari, reportage, testimonianze. Gli autori sono comunque ancora troppo vicini agli avvenimenti per riuscire a rifletterci profondamente. Poi adesso, col processo, le informazioni si sono moltiplicate, e contemporaneamente si è completamente slittati nel discorso sull’eventuale sanità mentale del malfattore. Vera letteratura che mediti sopra ai fatti verificatisi nel luglio del 2011 non credo che ne uscirà prima di un paio di anni.

Astrid Nordang (scrittrice e traduttrice in norvegese delle Poesie in forma di Rosa di Pier Paolo Pasolini )

AN: La cosa che m’interessa di più su Breivik non è se lui fosse mentalmente sano o no, ma il  linguaggio che usa nel suo cosiddetto “manifesto”. Ho solamente letto degli estratti, ma si vede subito che non ha una lingua sua. Il testo è pieno di frasi in inglese e clichés,  una lingua da blog e commenti di tale sorta si trovano sui quotidiani. Il suo rapporto con la lingua sembra assomigliare a quella dei fascisti, dei nazisti; piange davanti alla Corte quando rivede un ritratto di se stesso in uniforme, mentre posa come un cavaliere/crociato. Solamente i simboli lo commuovono. Non gliene frega nulla delle testimonianze e delle vittime. Si può pensare a Freud, al super ego etc, ma questa è una domanda da girare agli psicologi. Proprio oggi si annuncia la conclusione del tribunale sulla condizione mentale di Breivik: è responsabile, sano mentalmente. Un foto mostra il malfattore con un sorriso vago. La sentenza: 21 anni. Come Rognlien già ti ha scritto, l’informazione è dappertutto, ma ci vuole un po’ di tempo per elaborare il misfatto. Personalmente sento la vicinanza – Utoya non è lontana da qui. Incontro ancora gente che era stata lì, che aveva partecipato alla ricerca, in barca, nel lago di Tyrifjorden dopo che tre giovani erano dati come dispersi.

 

Effeffe: In che modo secondo voi la letteratura norvegese contemporanea dialoga con quella europea e qual è il vostro punto di vista sui filtri editoriali (Grandi Gruppi Editoriali, distribuzione, diffusione, critica letteraria, agenzie letterarie) e sulle scelte di questi. Quali sono gli autori italiani che sentite vicini alle vostre poetiche.

 

Simen Ekern : credo che si possa sostenere la tesi secondo cui la letteratura norvegese contemporanea è più influenzata dalla narrativa americana che da quella europea, almeno tra le giovani generazioni di scrittori. In generale credo che sia corretto affermare che la cultura anglo-americana abbia un’influenza più forte in Norvegia della cultura dell’Europa continentale. Vi sono, tuttavia, molti esempi contrari. Houellebecq è (abbastanza) letto, un suo iincontro con Péter Nádas ha riempito la Casa della Letteratura di Oslo di recente, il nuovo libro di Umberto Eco ha innescato lunghe interviste in diversi giornali (ovviamente). Nonostante ciò, l’influenza americana e il dibattito letterario intra-scandinavo sono più seguiti e sentiti che non le discussioni europee. Purtroppo.

Jon Rognlien: purtroppo la letteratura è quasi sempre vista e analizzata paese per paese, raramente si riesce a tracciare un disegno complessivo e internazionale. Gli scrittori norvegesi sono sicuramente più influenzati dagli autori americani che dagli europei. Ho però notato un certo interesse ultimamente per Erri de Luca, ho sentito che sta per uscire un articolo su lui su una rivista importante (Vagant) fra non tanto. Del resto qui non si vede oltre il proprio naso. Saviano è stato letto moltissimo, ma non ho sentito nessuno scrittore citarlo come fonte d’ispirazione. La letteratura è molto più chauvinista che non, per esempio, la musica.

Astrid Nordang : Leggo libri italiani e tedeschi per alcune case editrici. Sono d’accordo con Rognlien e voglio aggiungere che le agenzie purtroppo decidono quale tipo dei libri debba essere pubblicato qui. Un esempio,  Nicola Lecca – mi sembra che non sia molto letto in Italia, ma il suo libro Hotel Borg è stato tradotto in tutta Europa. La letteratura francese e tedesca hanno avuto un grande impatto da noi, ma non dimentichiamo gli svedesi, specialmente per quanto riguarda la poesia. Per esempio Katarina Frostenson e Ann Jäderlund. La poesia scandinava è un campo dove i legami sono stretti grazie anche ai tantissimi festival organizzati. Secondo me il livello è alto e tutti questi “happening” offrono un’ispirazione anche ai romanzieri norvegesi, con la coscienza e l’esplorazione della lingua. Per quanto riguarda la narrativa, la letteratura inglese e americana hanno la maggioranza dei lettori, dato che la posizione dello “story telling” è privilegiata in Norvegia. Umberto Eco è  molto letto, chiaro, ma forse  è più un saggista che un romanziere. Vagant menziona Silvia Avallone (ne abbiamo discusso a Lillehammer) e Erri di Luca. L’interesse per Giorgio Agamben però mi sembra cresciuto ultimamente, è da due-tre anni che i suoi essays sono tradotti su riviste e libri.

 

Effeffe : Se poteste descrivere il lettore tipo norvegese, lo si può definire un lettore “forte” ? Esiste una schizofrenia editoriale come in Italia tra letteratura di qualità e letteratura di mercato?

 

Simen Ekern : I norvegesi comprano molti libri, e le case editrici sono sempre state in grado di pubblicare letteratura di qualità, e sono state disposte a fare uno sforzo per far si che le persone leggessero questo tipo di libri. Gli autori considerati i più importanti negli anni ’80 e ’90, come Dag Solstad e Jan Kjaerstad, sono stati anche dei best-seller a volte. Karl Ove Knausgård, da tempo uno degli autori preferiti dai critici, ha venduto più libri di quanto qualsiasi scrittore di romanzi gialli possa sognare. Nonostante ciò, le librerie iniziano a dare maggiore spazio ai romanzi gialli e alla letteratura di intrattenimento, e le case editrici si lamentano che è difficile trovare spazio sugli scaffali per «la letteratura di nicchia». C’è chiaramente un conflitto qui, e non è sul punto di essere risolto.

Jon Rognlien : Certo che esiste questa dicotomia (non mi piace definirla “schizofrenia”, che sarebbe una malattia, no?). C’è la letteratura della borsa e c’è la letteratura della cattedrale (così si dice qui da noi). Così è sempre stato e così sarà. Si legge comunque molto in Norvegia, specialmente gli scrittori di successo norvegesi, come i giallisti tipo Jo Nesbø (che sta avendo successo anche da voi, no?), ma anche scrittori considerati seri (ma poi, si può discutere su questo) come per esempio Erlend Loe, che ha scritto una decina di libri molto originali, alcuni pubblicati pure in Italia dall’editore Iperborea. C’è ne anche un bel gruppo di scrittrici giovani molto in gamba – Agnes Ravatn, Olaug Nilsen e Linn Ullmann, per citarne solo alcune. Abbiamo un buon livello tra i critici, a mio modesto parere, – tra cui parecchi giovani laureati in letteratura che leggono con attenzione e riescono ad andare giù nei testi, non solo nuotare sulla cresta, in superficie. Certo abbiamo anche i classici critici “giornalistici” che spargono cinismo e noia, ma non contano più molto. La nuova generazione di critici (28-43 anni) sono molto più seri. E i giornali gli danno  la possibilità di scrivere. Bene.

Astrid Nordang : C’è un gran numero di scrittori norvegesi e anche parecchi buoni. Tra i poeti abbiamo donne come Ingrid Storholmen, Monica Aasprong, Tone Hødnebø, tra gli uomini Gunnar Wærness, Terje Dragseth e Øyvind Rimbereid. La situazione oggi è che una manciata di autori domina il panorama, come Dag Solstad (nella tradizione di Thomas Bernhard), Kjartan Fløgstad e Jan Kjærstad,a cui si contrappongono romanzieri storyteller, come Per Petterson e Linn Ullmann o il più sperimentale Thure Erik Lund. Ci sono anche Merethe Lindstrøm, Vigdis Hjorth per menzionare un paio di donne con all’attivo una ventina di libri e che col tempo stanno migliorando. Knausgård è un fenomeno, per esempio.

 

Effeffe: Tutti voi avete un legame con l’Italia, sia come scrittori, traduttori, saggisti, oppure per vicende personali. Qual è l’idea che vi siete fatti del “bel paese”?

 

Simen Ekern: Ho scritto due libri sull’Italia. Il primo, pubblicato nel 2006, si initola «l’Italia di Berlusconi», ed è un’inchiesta giornalistica dagli anni di Mani Pulite fino alla vittoria elettorale di Prodi. Ho voluto soffermarmi sui dibattiti di quel periodo, seguirne i personaggi principali, per descrivere l’Italia nell’era Berlusconi come una società contraddittoria, che a volte porta ad un cortocircuito nel dibattito pubblico. Ho cercato di descrivere in maniera onesta le impressioni dei miei viaggi, interviste e reportage, da Milano a Lampedusa durante gli anni di Berlusconi. Il secondo libro, intitolato Roma, è stato pubblicato nel 2011, ed è descritto così dalla casa editrice:

«Roma non è soltanto ricca di storia antica, ma è anche una metropoli moderna con un presente ed un passato recente che è allo stesso tempo sanguinoso, caotico e seducente. L’autore Simen Ekern porta i suoi lettori in un lungo tour a rotta di collo per le strade di Roma, dal dopoguerra ad oggi. Ci ritroviamo nel vicolo dove è stato trovato il corpo del politico assassinato Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault 4. Prendiamo un caffè con un uomo che si rammarica amaramente di aver aderito alle Brigate Rosse. Incontriamo una donna che porta orecchini con l’immagine di Mussolini. Il libro si interessa in particolare dei movimenti militanti di sinistra estrema e nel fascismo che non è mai davvero scomparso. Roma è un racconto originale su una città molto speciale». Credo che i due libri riassumano bene la mia visione dell’Italia.

Jon Rognlien : Ah, serva Italia! Ohimè lasso! Sospiri e lacrimosi laï … e via dicendo: l’Italia di Ratzinger, Licio Gelli e Berlusca o invece l’Italia di Totò, Fellini e Dario Fo? L’Italia di Raffaela Carrà o invece quella di Pino Daniele? Di Emilio Fede o di Alma Megretta? Il “bel” paese è troppo grande e contraddittorio per potersene fare un’idea soltanto. Ce ne vogliono almeno quattro.

Astrid Nordang : Per me l’ Italia è il suo cinema, la letteratura, è Roma, la Sicilia, Napoli, Trieste. Pasolini, Fellini, Fo, Morante e Svevo (ho fatto un mio saggio su Svevo applicando le idee di Benjamin). Ungaretti, Montale. Amo la canzone italiana, Mina, per esempio.

Silvina Ocampo nella sua vecchiaia

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di Davide Orecchio

La scrittrice Silvina Ocampo, compagna di Bioy Casares e amica di Borges (sebbene da lui, a torto, non del tutto stimata), in un giorno della sua vecchiaia prese in mano un libro di racconti e leggendolo se ne innamorò. A un signore che passava di lì, un vecchio amico che Silvina non aveva riconosciuto, proponendo di declamargliene un brano chiese:

Matria, Patria, Dismatria

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di Silvia Contarini
Quest’estate, volendomi dedicare a letture impegnate, invece di Cinquanta sfumature di grigio ho comprato (la versione gratuita non è ancora disponibile online) Timira (sottotitolo “romanzo meticcio”), di Wu Ming 2 e Antar Mohamed. Ho cominciato a leggere con interesse, ho finito con irritazione, non solo per la qualità mediocre, ma anche per il buonismo che trasuda, quello di chi sta dalla parte giusta al momento giusto, magari cavalcando l’onda. Il romanzo ha suo malgrado il merito di sollevare alcune questioni.
Il collettivo Wu Ming ripete da anni di essere un cantastorie di storie di altri che sono storie di tutti perché l’opera è sempre collettiva. Timira è la storia di un’italo-somala, Isabella Marincola, che la sua storia avrebbe voluto scriverla assieme a Wu Ming2, ma gli anni son passati, l’anziana Isabella è morta, e il romanzo meticcio lo hanno scritto il figlio e Wu Ming2, prendendo cura di avvertire il lettore: “questa è una storia vera… comprese le parti che non lo sono”. Destinati al lettore che ancora non avesse chiaro cosa sia una narrazione collettiva sono anche i “titoli di coda”, oltre venti pagine con centinaia di informazioni sugli ignari contribuenti al collettivismo involontario: oltre a qualche maître à penser (Agamben, Virno), molti siti, film, canzoni e libri, e soprattutto – perché la storia vera o inventata che sia va documentata – documenti d’archivio e una nutrita bibliografia su colonialismo, madamato, Somalia. Manca però qualcosa di importante: sono quasi del tutto assenti gli scrittori del postcoloniale italiano, eppur noti a Wu Ming2 che li menziona in un’intervista ma non nel libro; all’unica citata, Shirin Ramanzanali Fazel, andavano aggiunti almeno Igiaba Scego, Gabriella Ghermandi, Cristina Ali Farah, Carla Macoggi, Kaha Mohamed Aden, e andava fatto rimando alla letteratura postcoloniale.
Il riconoscimento del debito, a mio parere essenziale non tanto per l’ispirazione di scene o personaggi ma per il fatto stesso di scrivere oggi questo romanzo, sarebbe stato giusto: con la pubblicazione di Timira, Wu Ming si inserisce volontariamente ed esplicitamente nell’ambito della letteratura migrante e postcoloniale italiana che si sta imponendo all’attenzione di lettori e critici, in Italia e all’estero, proprio grazie agli scrittori di cui sopra e ad altri. Credo si tratti di scelta e non di dimenticanza da parte di Wu Ming. In una scena del romanzo, Isabella Marincola, cittadina italiana, di madre e marito somali, che abita a Mogadiscio ma non parla somalo, incontra Siad Barre e si lancia in una dichiarazione d’amore per la sua matria (in corsivo nel testo e ripetuto più volte), la Somalia, paese della madre, mentre l’Italia, paese del padre, è la patria. Ora, in un bel racconto del 2005, intitolato Dismatria, Igiaba Scego si interroga – in maniera ben più profonda – sul legame che unisce alla terra madre e sull’esilio al femminile.
Il caso vuole che tra le mie letture estive ci fosse un articolo di Carlo Ginzburg sulla microstoria, in cui si accenna alla “matria history” (storia del mondo femminile che ruota attorno alla madre, alla famiglia, al villaggio) elaborata agli inizi degli anni settanta dallo storico messicano Luis Gonzalez. Nella mia immensa ignoranza, credevo che matria fosse un neologismo! Consulto allora internet e scopro, su wikipedia spagnolo, che matria è anche concetto di matrice femminista usato per proporre una lettura nuova di concetti vecchi come identità, razza, lingua, religione, tradizione, sesso (linea della madre, opposta a linea del padre/patriarcato). Anche in italiano, scopro ancora, matria è lungi dall’essere un neologismo, è anzi una nozione tornata in auge di recente, ma in un senso diverso. Nel 1978, uscì un libro di Sergio Salvi a difesa delle lingue minoritarie intitolato Patria e matria. Dalla Catalogna al Friuli, dal Paese Basco alla Sardegna: il principio di nazionalità nell’Europa occidentale contemporanea; sulla scia,  la rubrica “patria e matria” consultabile sul sito www.eleaml.org, a difesa di cultura e lingua del Meridione (versus Italia unita: colonialismo interno…). E Rigoni Stern avrebbe detto: “è patria, cioè terra dei padri, la Nazione; ma la terra più dolce, la terra madre o matria, è quella delle proprie origini”. Infine, le celebrazioni dell’Unità italiana hanno ispirato al filosofo Massimo Cacciari la riflessione seguente: la sua devozione va non alla Patria, ma alla Matria. Gli fa eco Tullio De Mauro, in un’intervista all’Unità intitolata “Dalla Patria alla matria. Ecco perché è la lingua che ci ha fatto italiani” (intervista disponibile sul sito del Partito Democratico).
Insomma, sembrano tutti d’accordo per buttar via la Patria, obsoleto riferimento al padre che trasmetteva la cittadinanza e pericoloso rimando al sentimento nazionalistico, e sostituirvi la Matria, legame alla terra natia e/o alla lingua delle origini.
A me, però, tutto questo entusiasmo per la terra madre e la lingua madre, mi lascia perplessa. Perché la matria addolcisce il concetto (si sa, il femminile è dolce) e sembra renderlo più frequentabile, ma aggira la questione delle radici e dell’appartenenza identitaria, e quasi rinsalda legami ineluttabili piuttosto che favorire la scelta.
Ecco, la lettura di Timira se non altro mi è servita a questo: riflettere sull’interessante nozione di matria. La problematica è assente nel romanzo? L’opera collettiva, ribatterebbe Wu Ming, include la partecipazione del lettore. Faccio parte anch’io della collettività automatica? In tal caso dichiaro di assumere ogni responsabilità solo per parole e fatti a me attribuibili.

Bamboccione voodoo

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(Marco ci regala un estratto del suo nuovo libro, in questo scampolo di fine estate. G.B.)

di Marco Candida

Mathias è l’eredità che Caterina ha ricevuto da sua zia Nivea («come la crema della pelle», rimarcava ogni volta che poteva il padre di Nero) una volta che questa circa sei mesi prima era passata a miglior vita, anche se per Caterina e Nero, da trentaquattro anni in quel di Tortona in provincia di Alessandria, era difficile immaginare una vita migliore da quella trascorsa in una casa di mille metri quadrati a Florianópolis, nello Stato di Santa Catarina nel sud del Brasile. «Da Santa Caterina a Caterina», rimarcava ogni volta il padre di Nero col suo insopportabile autocompiacimento, alludendo probabilmente al fatto che Caterina non fosse proprio una santa e che da Santa Caterina a Caterina ci passasse una differenza, come dire, dalle stelle alle stalle. L’ironia del padre di Nero non si era arrestata neppure davanti alla notizia dell’arrivo di Mathias in qualità di “eredità di Caterina”. «Adesso ne avrai due da coccolare», le aveva detto lasciando intendere che Mathias fosse un bamboccio esattamente come bamboccio era sempre stato, soprattutto da quando aveva cominciato la sua fallimentare carriera universitaria proseguita poi con la sua fallimentare carriera di lavoratore, “Nero”. L’ironia dell’uomo si era però dovuta smorzare quando era saltato fuori che Mathias era un bamboccio del valore economico di trecentomila euro. Sì, la faccenda era andata così.
Un giorno Caterina aveva ricevuto una e-mail da Lauro, il figlio di zia Nivea. Lauro viveva a Rio das Antas nello Stato di Rio Grande Do Sul, faceva l’ingegnere ma non appena sua madre aveva cominciato ad avere i primi problemi e a trovarsi in fin di vita si era trasferito a Florianópolis assieme alla sua famiglia, e la stessa cosa aveva fatto suo fratello Sanchez che abitava invece a Domingos Martins, nello Stato di Espirito Santo, e di mestiere faceva l’avvocato, e tutto questo, come Caterina aveva commentato con Nero, deponeva a vantaggio dell’idea che zia Nivea dovesse essere davvero molto ricca se Lauro e Sanchez avevano potuto piantare i loro studi privati per almeno un paio di settimane, pur per il nobile scopo di soccorrere la madre morente.
Nel messaggio inviato a Caterina, facilmente rintracciata da lui attraverso la rete, Lauro l’avvertiva che la madre era passata a miglior vita e che aveva disposto un lascito proprio nei suoi confronti. Caterina del resto con i suoi trentaquattro anni era la sola sopravvissuta in famiglia, essendo la madre morta di una malattia incurabile quando lei aveva ventisette anni e il padre giusto l’anno prima stroncato da un infarto, lasciandole quella topaia d’appartamento in Via Rinarolo, che peraltro aveva finalmente permesso a lei e a Nero di avviare una “parvenza di vita” insieme. Naturalmente il portafoglio del padre di Nero avrebbe avuto molto da raccontare a questo proposito giacché lo spostamento dalla casa dei genitori alla casa della fidanzata, e ora convivente, aveva visto quel portafoglio protagonista in diverse occasioni ma, dopo trentaquattro anni di vita vissuta assieme ai suoi genitori e gli ultimi sei spesso e volentieri in compagnia anche di Caterina come ospite fissa e ulteriore bocca da sfamare, almeno questa “parvenza di vita” (come la chiamava Nero, con Caterina dietro a far cenno di sì con la testa e a stringersi nelle spalle) era già qualcosa.
Quando Lauro aveva comunicato a Caterina in cosa consisteva il lascito di zia Nivea, manco a farlo apposta il padre di Nero si trovava con loro proprio nella stanza dell’appartamento dove stava il computer (era passato giusto per portare a Caterina un favoloso timballo preparato dalla madre di Nero) e non si era lasciato sfuggire l’occasione per commentare che dove c’è deserto la pioggia non cade mai – una specie di ripensamento al contrario del ben noto detto “piove sempre sul bagnato”. Dopo aver letto l’e-mail Caterina si era afflosciata sulla sedia davanti al computer. Aveva sperato per giorni assieme a Nero che zia Nivea, di cui i genitori le avevano sempre parlato come di una donna assai e assai facoltosa, ora che Lauro e l’altro figlio Sanchez l’avevano contattata per avvisarla del lascito, le avesse regalato una quantità di denaro cospicua, oppure un terreno o una casa in riva al mare. Per giorni Caterina aveva prospettato a Nero la possibilità di recarsi a Florianópolis di persona, come anche secondo Lauro e Sanchez sarebbe stato possibile; anzi da sempre Caterina aveva parlato con i suoi genitori della possibilità di visitare gli zii e i cugini brasiliani, nonostante la cosa sia sempre sembrata solo un sogno perché il biglietto dell’aereo costava troppo, e poi perché il viaggio aereo era troppo lungo, e poi perché sembrava tutto decisamente troppo lontano, complicato, ma a quanto pareva adesso c’era davvero questa possibilità concreta essendo stata contattata da Lauro e Sanchez (sempre questi due nomi, Lauro e Sanchez: Caterina non faceva che ripeterli a Nero). E così si era di nuovo informata sul costo del biglietto aereo e le distanze, e di nuovo aveva dovuto concludere che costava troppo, il viaggio era troppo lungo e tutto sembrava decisamente troppo complicato, lontano e che però questa volta, forse forse, questa volta…
Invece Lauro le aveva dato la notizia che il lascito consisteva in un bambolotto e le speranze di Caterina si erano afflosciate con lei sulla seggiola davanti al testo dell’e-mail proiettato dallo schermo del computer nella stanza. Del resto cosa avrebbe dovuto aspettarsi di meglio? Davvero aveva pensato anche solo per un istante di ricevere dalla sua ricca zia brasiliana una casa in riva al mare, un terreno o una cospicua quantità di denaro? Di sicuro a questo punto non avrebbe avuto senso spendere i soldi del biglietto e sobbarcarsi quel lungo viaggio oltreoceano di circa quindici ore al solo scopo di presentarsi come la beneficiaria di un lascito consistente in un bambolotto. Tanto meglio far passare qualche mese, se non qualche anno, e ripresentarsi ai cugini brasiliani in veste di semplice turista. Ad ogni modo Lauro aveva lasciato intendere a Caterina, forse solo per consolarla, che doveva ritenersi fortunata a ricevere un’eredità come quella perché il bambolotto era molto, molto pregiato, e poi le avrebbe portato tanta fortuna.
Caterina aveva ringraziato Lauro e lo aveva fatto anche Nero che passava gran parte del suo tempo ormai a letto a dormire non avendo nemmeno più la voglia di affrontare la luce del giorno per quanto depresso era a causa del fatto che non trovava lavoro. Dopo aver lasciato l’università a ventiquattro anni e aver lavorato per due anni come addetto alla qualità in un’industria che produceva conglomerato bituminoso, infatti, Nero non aveva più trovato un lavoro vero: campava di questo e di quello. Una volta aveva aiutato un suo zio (né brasiliano né ricco, ma di Bettole, una frazione di Tortona) a fare l’imbianchino, ma Nero, che aveva frequentato il liceo classico e aveva studiato Lettere antiche fino a quando non aveva lasciato, consumandosi la vista non facendo altro che leggere per qualche tempo, era anche diventato nel frattempo piuttosto imbranato. Aveva combinato solo disastri e dopo pochi mesi, d’accordo con il padre, suo zio aveva dovuto chiedergli di starsene a casa. Così Nero s’era convinto di essere veramente un buono a nulla. Usciva poco, stava in casa con Caterina, anche lei un tipicino chiuso, asociale che Nero aveva conosciuto in un centro per anziani dove aiutava e si era ridotta a fare le pulizie, guardava i bambini degli altri, faceva queste cose, e anche lei aveva vissuto a casa dei suoi genitori, come aveva fatto Nero, e poi a casa dei genitori di Nero una volta che aveva conosciuto Nero facendosi sfamare dalla famiglia di Nero, come l’avrebbe in realtà raccontata il padre di Nero. Entrambi se non altro avevano come qualità quella di non spendere troppi soldi e così riuscivano a mettersi qualcosa da parte, con tutto che dopo la morte di sua madre e poi quella di suo padre Caterina aveva preso eredità ben più dignitose di un bambolotto portafortuna di nome Mathias proveniente da Florianópolis, Brasile.
È un po’ strano raccontare la storia di Nero e Caterina perché dopotutto è veramente tutta qui: come passavano le giornate è così, Nero per lo più ormai dormendo, Caterina per lo più raccattando denaro con qualche lavoretto, entrambi restando in casa senza uscire guardando la televisione o stando davanti al computer, senza pensare assolutamente al futuro. Viene quasi da dire, osservando le cose messe giù sulla carta in questo modo, che una storia dove non ci sia tensione verso il futuro, dove non si tenga conto del futuro non solo non è una storia, ma non è nemmeno un frammento credibile di storia. Certo, il portafoglio del padre di Nero racconterebbe forse la storia diversamente limitandosi ad affermare che questa faccenda era stata possibile perché irrorata dal denaro che proprio da lui saltava fuori. Senza quel portafoglio lì probabilmente Nero non avrebbe potuto permettersi di dormire dodici a volte quindici ore al giorno (il padre di Nero aveva saputo da Caterina che suo figlio aveva persino cominciato a tenere un diario dove appuntava i sogni che bello e pacifico si faceva) e neppure Caterina avrebbe potuto concedersi di bere (contro la volontà di Nero) quelle bottiglie che poi allineava in cucina sotto il lavandino, a formare quel che lei chiamava “il cimitero delle bottiglie”. Senza quel portafoglio lì Nero e Caterina avrebbero avuto storie tutte diverse – ad esempio senza computer e connessione internet, tanto per dire, ad esempio senza riscaldamento d’inverno, tanto per dire.
Il padre di Nero si chiamava Vincenzo ed era stato amministratore delegato di un’azienda facente capo a un supergruppo nel settore del conglomerato bituminoso (altrimenti Nero come avrebbe fatto a trovare un impiego proprio in quel settore?) che poi a causa della crisi, poco dopo che Vincenzo andasse in pensione (cosa che lo aveva salvato da ogni disonore), era fallita e aveva chiuso. Vincenzo percepiva una pensione alta, aveva da parte dei risparmi e aveva incamerato anche grazie a sua moglie lasciti veri. Giacché, se dove c’è deserto non piove mai, invece piove sempre sul bagnato e ringraziando Dio e anche la tempra di Vincenzo, che lo aveva portato così in alto col suo solo diploma di geometra, a casa sua c’era sempre stato bagnato a sufficienza, ossia una discreta base di soldi che chiamavano altri soldi: altro che bambolotti.
Disgraziatamente Vincenzo aveva messo al mondo un figlio coglione (ed è difficile a credersi conoscendo lui e sua moglie) che come unico pregio aveva sempre avuto quello di essere piuttosto belloccio e di non essersi mai messo davvero nei guai. Tutto sommato a trentaquattro anni (ma già a venticinque, già a ventotto) avrebbe potuto farlo, eppure non toccava praticamente una goccia d’alcol e ancora meno faceva uso di sostanze stupefacenti: è che Nero era semplicemente coglione. Non aveva voglia di lavorare. Non aveva voglia di lottare. Non gli piacevano le persone che doveva frequentare. Si faceva presto odiare da tutti. Come facesse, accidenti, lo sapeva solo lui! Comunque proprio perché dopotutto non aveva mai fatto nulla di male se non essere totalmente inadeguato a stare al mondo e a vivere nella società civile, dove occorre essere forti e non delle mezze cartucce, Vincenzo lo aveva sempre aiutato economicamente anche perché se non lo avesse fatto avrebbe dovuto vedersela con sua moglie. E poi, suvvia, anche se non lo avrebbe mai confessato espressamente, in un angolo del suo orgoglio Vincenzo si sentiva contento di essere ancora, a sessantanove anni, il faro della famiglia, il pilastro incrollabile sul quale poggiavano i destini di tutti quanti, di essere ancor’oggi il migliore della casa. Per molto tempo s’era sentito schiacciare dalla presenza del padre che aveva fatto la guerra, un generale di ferro che lo aveva sempre trattato come una specie di essere inferiore. Solo che lui, a differenza del figlio che poi avrebbe generato, un coglione non lo era mai stato e nel tempo si era preso tutte le sue rivincite provando il proprio valore al padre, passato a miglior vita a ottantasette anni (e per chi abita a Tortona in provincia di Alessandria in un appartamento sia pure di duecento metri quadrati in zona centralissima questa espressione ha più senso di chi abita a Florianópolis nello Stato di Santa Catarina in Brasile e pure in una casa di mille metri quadrati). Gli aveva lasciato la casa e dei soldi messi da parte che fortunatamente sua madre non aveva sperperato in donne delle pulizie e badanti prima di morire a sua volta all’età di ottantanove anni, sei anni dopo il marito.
In tutti gli anni che Caterina e Nero erano stati insieme non avevano mai parlato di sposarsi né tantomeno di avere dei bambini per il semplice fatto che si sentivano entrambi troppo inadeguati. Certo, Caterina a volte si lasciava sfuggire di volere un bambino e aveva detto a Nero che con un bambino entrambi si sarebbero forse responsabilizzati di più, ma poi subito pensava di non essere adatta ai bambini, che anche se li guardava agli altri lei era troppo distratta e anche Nero lo era, e poi in fondo concordava con Nero che mettere al mondo una creatura, in questi tempi e con la quasi consapevolezza che dopo la morte non ci sia nulla, fosse quasi un atto di cui sentirsi colpevole. Ora che però aveva scoperto che Mathias valeva trecentomila euro Caterina si domandava se la loro vita se non da un bambino sarebbe stata invece messa a posto da un bambolotto.
Lauro e Sanchez le avevano spedito Mathias per posta aerea dentro un cartone solido e ben imballato. A pensarci col senno di poi era stato ben rischioso quello che quei due avevano fatto, considerato il valore altissimo della merce, ma d’altra parte alternative non ce n’erano, a meno di tenere Mathias a Florianópolis o trasportarlo a Rio das Antas o a Domingos Martins o come diavolo si chiamava – e poi nessuno di loro sapeva ancora quale fosse il valore reale di Mathias. Il bambolotto era arrivato dopo qualche giorno. Dopo due giorni che era stata messa nella buca delle lettere la cartolina che l’avvisava di dover andare a ritirare un pacco alle Poste, Caterina anche un po’ controvoglia era andata a prenderlo. Il bambolotto se non altro era molto bello, assomigliava a Nero. Aveva capelli castani, con la riga da una parte, occhi marroni molto grandi, era paffuto come un bambolotto e indossava una camicia, un maglione, un paio di pantaloni e le scarpine di cuoio, proprio tutto come Nero…

continua

L’Opera, la Critica, i Lettori

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di Roberto Bolaño

Per un po’ la Critica accompagna l’Opera, poi la Critica svanisce e sono i Lettori ad accompagnarla. Il viaggio può essere lungo o corto. Poi i Lettori muoiono uno per uno e l’Opera va avanti da sola, sebbene un’altra Critica e altri Lettori a poco a poco comincino ad accompagnarla sulla sua rotta. Poi la Critica muore di nuovo e i Lettori muoiono di nuovo e su questa pista di ossa l’Opera continua il suo viaggio verso la solitudine. Avvicinarsi a essa, navigare nella sua scia è segno inequivocabile di morte certa, ma un’altra Critica e altri Lettori le si avvicinano implacabili e instancabili e il tempo e la velocità li divorano. Alla fine l’Opera viaggia irrimediabilmente sola nell’Immensità. E un giorno l’Opera muore, come muoiono tutte le cose, come si estingueranno il sole e la Terra, e il Sistema Solare e la Galassia e la più recondita memoria degli uomini. Tutto quel che inizia come commedia finisce in tragedia.

[da Detective selvaggi, di Roberto Bolaño, Sellerio, p.672. La fotografia è di Cristina Garcia Rodero.]

A me sembra beato come un dio (Saffo, fr. 31 West)

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di Luca Alvino

φαίνεταί μοι κῆνος ἴσος θέοισιν
ἔμμεν’ ὤνηρ ὄττις ἐνάντιός τοι
ἰσδάνει καὶ πλάσιον ἆδυ φωνεί-
σας ὐπακούει,

A gamba tesa: Albert Camus

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da Albert Camus, Actuelles II. Chroniques 1948-1953. (Éditions Gallimard,1953)
(Testo in lingua originale)

Creazione e libertà
La Spagna e la cultura
(30 novembre 1952)
di
Albert Camus
Intervento pronunciato alla Salle Wagram, 30 novembre 1952
traduzione di effeffe

Va celebrata quest’oggi una nuova e confortante vittoria per la democrazia. Ma è una vittoria che ha riportato su se stessa e sui suoi stessi principi. La Spagna di Franco è stata introdotta di nascosto nel tempio ben riscaldato della cultura e dell’educazione mentre la Spagna di Cervantes e Unamuno veniva gettata ancora una volta in mezzo a una strada. Quando sappiamo che a Madrid l’attuale Ministro dell’Informazione, ormai collaboratore diretto dell’ UNESCO, è lo stesso che fece propaganda nazista durante il regno di Hitler, che il governo che ha appena insignito con un’ onorificenza il poeta cattolico Christian Claudel è il medesimo che decorò con la medaglia dell’Ordine Imperiale delle Frecce Rosse Himmler, organizzatore dei forni crematori, è legittimo dire, in fin dei conti, che qui non sono Calderon né tanto meno Lope de Vega a essere accolti dalle democrazie nella loro società di educatori, ma Joseph Goebbels.

A sette anni dalla fine della guerra, questa magnifica ritrattazione dovrebbe valere le nostre congratulazioni al governo di Pinay. Non è tanto a lui, in effetti, che si potrà rimproverare di sentirsi in imbarazzo, di farsi degli scrupoli visto che qui è questione di alta politica. Tutti fin qui pensavano che le sorti della storia dipendessero un pochino dalla lotta degli educatori contro i carnefici. Però non si era pensato, tutto sommato, che bastasse nominare ufficialmente educatori i carnefici. Ebbene il governo Pinay ci ha pensato.

Ovviamente, l’operazione è un po’ fastidiosa e andava fatta in quattro e quattr’otto. Ma diamine, la scuola è una cosa, il mercato è un altro! Questa storia, a dire il vero, fa un po’ mercato di schiavi. Si scambiano le vittime della Falange con i sudditi delle Colonie. Per quanto riguarda la cultura, si vedrà poi.

Del resto non sono affari dei governi. Gli artisti fanno cultura, i governi la controllano a seguire e quando si presenti l’occasione fanno fuori gli artisti per controllarla meglio. Finalmente arriva il giorno in cui una manciata di militari e industriali può dire “noi” parlando di Molière e Voltaire o stampare stravolgendole le opere del poeta salvo averlo dapprima fucilato. Quel giorno, che è lo stesso in cui ci troviamo ora, dovrebbe ispirarci almeno un pensiero di compassione per il povero Hitler. Invece di uccidersi per eccesso di romanticismo, gli sarebbe stato sufficiente imitare il suo amico Franco e aspettare pazientemente. Oggi sarebbe delegato all’ UNESCO all’ educazione della Nigeria, e Mussolini in persona avrebbe contribuito ad elevare il livello culturale di quei piccoli etiopi i cui padri aveva massacrato non molto tempo fa. Così, riconciliati in Europa finalmente, assisteremmo al trionfo definitivo della cultura, in occasione di un’ enorme tavolata composta da generali e marescialli serviti e riveriti da una squadra di ministri, democratici sì, ma decisamente realisti.

La parola disgusto a questo punto è sin troppo debole. Ma mi sembra inutile esprimere ancora una volta la nostra indignazione. Dal momento che i nostri governanti sono abbastanza intelligenti e realisti per fare a meno dell’ onore e della cultura, non cediamo al sentimentalismo e sforziamoci di essere realisti. Dal momento che questa è la considerazione oggettiva della situazione storica che porta Franco all’UNESCO, otto anni dopo il crollo del potere delle dittature tra le macerie di Berlino , cerchiamo di essere obiettivi e ragioniamo con freddezza sugli argomenti che sono stati presentati per giustificare il mantenimento di Franco.

Il primo argomento si rifà al principio fondamentale della non-ingerenza. Lo si può riassumere come segue: gli affari interni di un paese riguardano esclusivamente quel paese. In altre parole, un buon democratico se ne sta a casa sua. Questo principio è inattaccabile. Indubbiamente ha degli inconvenienti. La salita al potere di Hitler riguardava solo la Germania e i primi ad essere rinchiusi nei campi di concentramento, ebrei o comunisti erano tedeschi, in effetti. Ma otto anni dopo Buchenwald, la capitale del dolore era una città europea. Tuttavia, il principio è il principio, il vicino è padrone in casa sua. Diciamoci la verità, e ammettiamo allora che il nostro vicino di pianerottolo potrà picchiare sua moglie e far bere del Calvados ai propri pargoli. C’è nella nostra società un piccolo emendamento. Se il vicino di casa esagera, gli verranno tolti i figli e lo si affida a un lavoro di pubblica utilità. Franco, quanto a lui, può esagerare. Supponiamo allora che il vicino di casa possa permetterselo senza alcun limite . Non potete farci nulla, si è capito. La punizione che merita l’ avete a portata di mano, ma vi mettete le mani in tasca perché tanto non sono affari vostri.

Però, se il vicino è allo stesso tempo un commerciante, non siete certo costretti a comprare da lui. Nulla vi costringe a dargli dei viveri, a prestargli del denaro, nè tanto meno a cenare con lui. Potete insomma, senza intervenire negli affari suoi, voltargli le spalle. E se pure abbastanza persone nel quartiere lo trattano allo stesso modo, quello avrà l’occasione di riflettere, di vedere dove sono i suoi interessi, e una possibilità almeno di cambiare la concezione che ha dell’amore familiare, senza contare il fatto che quella messa in quarantena potrà offrire alla moglie un “buon argomento”.. Sarebbe in questo, non ne dubitiamo, la vera non ingerenza. Ma a partire dal momento in cui con lui ci cenate, a lui prestate dei soldi, allora gli darete i mezzi, e la buona coscienza, necessari per continuare, e praticherete stavolta voi una vera ingerenza, ma a svantaggio delle vittime. E quando in conclusione incollerete surretiziamente l’etichetta “vitamine” sulla bottiglia di Calvados con cui riconforta i suoi pargoli, quando soprattutto deciderete sotto gli occhi di tutti di affidargli l’educazione dei vostri, allora, eccovi più criminali di lui, in conclusione, e due volte criminali visto che incoraggiate il crimine chiamandolo virtù.

Eccoci al secondo argomento che consiste nel dire che si aiuta Franco, nonostante gli inconvenienti della cosa, perchè si oppone al comunismo. Vi si oppone innanzitutto in casa sua. Vi si oppone successivamente fornendo le basi necessarie per la strategia della prossima guerra. Qui, nuovamente, non poniamoci la domanda se si tratti di un ragionamento animato dalla gloria e chiediamoci piuttosto quanto esso sia intelligente.

Notiamo innanzitutto che contraddice assolutamente il ragionamento precedente. Non si può essere per la non-ingerenza e voler impedire a un partito, quale esso sia, di trionfare in un paese che non sia il vostro. Eppure questa contraddizione non spaventa nessuno. Il fatto è che nessuno abbia mai creduto veramente, eccezion fatta forse per Ponzio Pilato, alla non ingerenza in politica estera. Siamo seri allora, sacrosanta che si possa immaginare anche soltanto per un secondo la ragione di allearsi con Franco per conservare le nostre libertà chiediamoci in cosa potrà aiutare gli strateghi atlantici nella loro lotta contro gli strateghi orientali. Si tratta innanzitutto di un’esperienza costante nell’Europa contemporanea l’idea che il mantenimento di un regime totalitario significhi a una più o meno breve scadenza rinforzare il comunismo. Nei paesi in cui la libertà è una pratica nazionale, oltre ad essere una dottrina, il comunismo non vi prospera.

Nulla gli è più facile al contrario, e l’esempio dei paesi dell’Europa orientale ce lo sta a provare, che mettere i propri passi sulle orme del fascismo. Certamente è in Spagna che il comunismo ha minori possibilità dal momento che ha davanti a sè una vera sinistra popolare e libertaria per non parlare dello stesso carattere spagnolo in tutta la sua peculiarità . Alle ultime elezioni libere in Spagna nel 1936, i comunisti ottennero soltanto 15 seggi su 443 alle Cortès. Ed è senz’altro vero che ci voglia ben altro dalla cospirazione internazionale della stupidità per fare di uno spagnolo un marxista. Ma se pure ipotizzassimo, il che è assurdo, che il regime di Franco sia l’unico baluardo contro il comunismo, e visto che siamo al realismo, che dire di una politica, che volendo indebolire il comunismo su un certo punto, lo rafforzerebbe in altri dieci? Perché nulla potrà mai impedire a milioni di persone in Europa, di pensare che il caso Spagna, come l’antisemitismo, i campi di concentramento o i processi farsa basati su confessioni estorte, sia un test per giudicare la veridicità di un sistema politico democratico.

E il mantenimento sistematico di Franco impedirà ogni volta a questi uomini di credere nella sincerità dei governi democratici quando pretendono di rappresentare la libertà e la giustizia. Questi uomini non acconsentiranno mai a difendere la libertà con al proprio fianco assassini della libertà. Una politica che metta in un tale vicolo cieco così tanti uomini liberi si può chiamare una politica realista? E solo una politica criminale, che consolida il crimine, portando alla disperazione tutti, spagnoli o altri che rifiutino il crimine, da qualunque parte esso provenga.

Per quanto riguarda l’importanza puramente strategica della Spagna, non sono tra i più qualificati a parlarne, da eterno principiante quale sono nelle arti militari. Ma credo che l’altopiano iberico non varrà molto il giorno in cui i parlamenti francesi e italiani conteranno centinaia di nuovi deputati comunisti. Per cercare di fermare il comunismo in Spagna con mezzi indegni, si darà una seria possibilità alla comunistizzazione dell’Europa, e se dovesse compiersi, la Spagna sarà comunistizzata a prescindere dai patti e allora, da quell’altipiano strategico, verranno fuori argomenti che convinceranno finalmente i pensatori di Washington. “Faremo dunque la guerra”, diranno questi ultimi. Senza alcun dubbio, e può darsi pure che la vinceranno. Ma penso a Goya e ai suoi cadaveri mutilati. Sapete cosa dice? « Grande hazana, con muertos », “Grande prodezza, in cambio di morti.”

Eppure questi sono i miserabili argomenti che giustificano lo scandalo che ci ha fatti incontrare quest’oggi. Non ho voluto far finta di credere, in effetti, che si trattasse di considerazioni culturali. Si tratta soltanto di una contrattazione dietro al paravento della cultura. Ma anche in tanto che affare, non può essere giustificata. Forse arricchirà qualche venditore di frutta e verdura, ma non servirà nessun paese e nessuna causa, se non alcune di quelle ragioni che gli uomini dell’Europa possono ancora avere da combattere. Ecco perché non sapranno esserci per un intellettuale due posizioni quando Franco sarà ricevuto all’U.N.E.S.C.O. E non basta dire che rifiuteremo ogni collaborazione con una organizzazione che ha accettato di coprire una simile operazione. Tutti, ognuno al suo posto, da ora in poi, la combatteremo a viso aperto, e con fermezza, affinchè si riveli quanto prima come il non essere quella che pretende di essere, ovvero un luogo d’incontro di intellettuali dedicati alla cultura, ma un’associazione di governi al servizio di qualsiasi politica.

Sì, nel momento in cui Franco è entrato all’UNESCO, l’UNESCO è uscita dalla cultura universale, ed è questo che noi abbiamo da dire. Ci è stato obiettato che l’ U. N.E.S.C.O. è utile. Ci sarebbe molto da dire circa i rapporti tra uffici e cultura, ma di una cosa almeno possiamo essere sicuri ed è che nulla può essere utile quando perpetua la menzogna in cui viviamo. Se l’ U. N.E.S.C.O. non è stata in grado di mantenere la propria indipendenza tanto vale che sparisca. Dopo tutto, le società della cultura passano e la cultura rimane. Di una cosa almeno possiamo esserne certi ed è che essa non scomparirà perché un’alta organizzazione politica sarà mostrata per quella che è. La vera cultura vive di verità e muore di menzogna. Vive sempre, del resto, lontano dai palazzi e dagli ascensori dell’UNESCO, lontano dalle prigioni di Madrid, sulle strade dell’esilio. Ha sempre la sua società, l’unica che io riconosca, quella dei creatori e degli uomini liberi che, contro la crudeltà dei totalitarismi e la codardia delle democrazie borghesi, contro i processi di Praga e le esecuzioni di Barcellona riconosce tutte le patrie servendone una sola: la libertà. Ed è in questa società che riceveremo, noi, la Spagna della libertà. Non facendola entrare dal retrobottega evitando così il dibattito, ma apertamente, solennemente, con il rispetto e l’affetto che gli dobbiamo, l’ammirazione che proviamo per le sue opere e per la sua anima, e in conclusione con il sentimento di gratitudine che nutriamo per il grande paese che ci ha offerto e ancora ci offre le nostre più alte lezioni.

Quello che siamo… Quello che vogliamo…

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di Evelina Santangelo

Quello che siamo…Quello che vogliamo…Quello che siamo…Quello che vogliamo…Quello che siamo…Quello che vogliamo…Quello che siamo…Quello che vogliamo…Quello che siamo…Quello che vogliamo…Quello che siamo…Quello che vogliamo…

Games with frontiers : Saamiya Yusuf Omar

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Mo e Saamiya, le due facce della Somalia »
di
Igiaba Scego
articolo pubblicato qui

Mo Farah, arrivato da rifugiato in Uk, ora è l’eroe nazionale: dopo aver vinto 10′ooo e 5’000 metri è stato ricevuto anche da Cameron. Saamiya, invece, che aveva corso i 200 metri alle Olimpiadi

Franco Buffoni: poesie 1975-2012

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Di Andrea Inglese

L’Oscar Mondadori dedicato a Franco Buffoni antologizza 37 anni di attività poetica. Lo cura e introduce Massimo Gezzi, che nelle prime righe del suo saggio ricorda l’esordio relativamente tardo di Buffoni rispetto ad altri poeti della stessa generazione, come De Angelis e Magrelli. Io completerei l’osservazione di Gezzi, aggiungendo che Buffoni non solo ha esordito tardi, ma il suo stesso lavoro poetico giunge a maturazione dopo un lungo itinerario. Destino per certi versi opposto a quello di De Angelis e Magrelli, che esordiscono giovani e con libri importanti, di riconosciuto talento.

God listens all sprayers – Grecia per immagini

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di Giuseppe Zucco

[Le immagini sono tratte dai siti ekosystem e fatcap – i graffiti sono rispettivamente di Anastasakos Kretsis Crew (1), Absent (2,3,13), Bleeps (4,5,6,7,8), Achilles (9), Snrs (10), Blu (11,12)]

Dittico di Ferragosto (Bill Viola & George Lucas)

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[Se soffrite il caldo, pensate a chi sta peggio. hj]

Trains de vie : Anna Giuba

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La stazione

di

Anna Giuba

– Questa mattina ho litigato con Carlo, a colazione. Mi dispiace. Avevo torto marcio, e non me ne rendevo conto. Chissà quanto c’è stato male, lui. Sono uscita di casa senza neanche dargli un bacio…

Attraverso la strada. Tengo in braccio Angiolina. Ha un vestito verdino come il mio. Dio, che caldo. Logico, la nonna ci ha fatto due vestiti uguali, della stessa stoffa. Madreefiglia. Il cielo si direbbe di stoppa, e non sono ancora le dieci. Quasi quasi, cerco una cabina. Giusto così, per dirgli ciao. Ciao amore, mi dispiace tanto. E poi gli dirò un sacco di parole, e anche che lo amo, ti amo, Carlo. Lui non saprà resistere, magari si arrabbierà un po’, farà il maschietto ferito nell’orgoglio, ma poi tutto si aggiusta. Già, tra di noi è sempre andata così, tutto si è sempre aggiustato. Stringo Angiolina e le tengo una mano sulla nuca per proteggerle la testa dal mio passo spedito.
– Perché piangi, Angela? Non è niente!

La bambina singhiozza e con le mani a pugno si copre la faccia. Per un attimo mi sembra più piccola dei suoi tre anni. Piange un pianto cantilenante, un salmodiare in sordina. Va e viene. Va e viene. Va e viene. Attraverso l’atrio con la bambina che piange in braccio. Le cabine della stazione sono tutte occupate. Accidenti. Allora è meglio se ci sediamo un attimo, non sento più le caviglie. Laggiù ci sono due posti, tanto manca mezz’ora alla partenza, abbiamo tutto il tempo per comprare il giornale e cercare un telefono. Sbuffo e sistemo Angiolina nella poltroncina accanto alla mia.
– E magari compriamo una bambolina dal tabaccaio, eh, Angela?
– Bamboa. Angela mi guarda e interrompe improvvisamente il pianto. I bambini.
Getto uno sguardo rapido al’orologio, sono appena le dieci meno cinque.

il rapido delle nove e cinquantacinque proveniente da Roma e diretto

Anche se di solito viaggio poco, le stazioni mi sono sempre piaciute, e questa folla che mi passa accanto di fretta, che sembra sospesa in un altro tempo e in un altro spazio. Questo odore di catrame e linoleum. Anche se stamattina, non so, deve essere stato il litigio che mi ha lasciata con l’amaro in bocca. Va a finire che si dicono parole che uno non vorrebbe mai dire. È così che succede, quando uno non ce la fa più dice un sacco di cattiverie. Che magari non sente. L’amore si eclissa come un sole e viene a galla il rancore cattivo. Si vede soltanto più quello.
Tra tutte queste facce, ne sto cercando una sola. So che non può esserci. Ma quanto vorrei averlo qui, di fronte a me, per dirgli tutto quello che sento. Stringo la mano di Angiolina e la guardo e le aggiusto i capelli che sono fini e che fanno una nuvola. È così paffuta che non si vede il naso, di profilo.
Scusate, siete in partenza?

La voce viene dalla bocca di un vecchio, dev’essere un barbone che vive qui di notte e di giorno. Ha due sacchetti di plastica pieni di stracci scuri nelle mani ed emette barbagli di un odore forte e sgradevole. I piedi nei sandali sono neri di sporco che sembra fuliggine. Come sono sempre indifesi, i piedi. Guardo quelli di Angiolina che sono così piccoli e quelli storpiati del vecchio che ha le unghie nerenere e un alluce valgo.

Una moneta!

Il barbone tende la mano e ride con la dentatura irregolare. Le finestrelle sono molte. Uno più, uno meno, c’avrà sì e no due denti. Brutta storia. Per me, che sono dentista, è quasi naturale guardare la bocca delle persone. Per un attimo rabbrividisco pensando di mettere la mano nella bocca sdentata del vecchio, ecco, preferirei quella di questa signora bionda che sta facendo le parole crociate nella poltroncina accanto alla mia. Sicuramente lei ha un bel sorriso. Tasto nelle tasche, trovo una moneta da cinquecento lire. Angiolina guarda il vecchio serissima. Ha un dito in bocca e lo guarda seria, con occhi profondi e giudicanti come sanno essere giudicanti solo gli occhi dei bambini.
È una buona mancia, per uno che fa soltanto la fatica di augurarti buon viaggio, penso tra me e me.
Il vecchio prende la moneta e la tasta. È buona! dico ridendo.
Allora si mette a ridere anche lui, di quel suo riso che è una lisca di pesce.
Anche Angiolina ride, quando vede la mamma ridere ride anche lei, poi si arriccia una
ciocca di capelli intorno ad un dito e poi lo punta verso la tabaccheria.
– Bamboa.
– Sì, è vero, la bambola. Spicciati, Angela, vieni, sennò non facciamo in tempo. Mi guardo intorno, ma i telefoni continuano ad essere occupati. Accidenti.

Regionale delle dieci e tredici proveniente da Milano

Non ce la farò a salutare Carlo, non ce la farò. Eppure lui continua a riempirmi i pensieri. Un viaggio è sempre un viaggio, significa aprire una distanza tra sé e la persona amata, non voglio partire senza sentirlo. Lo amo. Lo amo quanto e forse più di me stessa. Quanto sono stata stupida. Voglio dirgli Carlo non è vero non lo pensavo sono tutte sciocchezze, so che ti ho ferito.
Tutte le donne sono stupide, in fatto d’amore. Forse sogniamo troppo. Forse. Poi, fare i conti con la vita di tutti i giorni non è facile. La routine, l’amore che separa e uccide, questa benedetta realtà. I pensieri si accavallano come ondine su una battigia.
Bamboa. ripete Angiolina.
– Massì, che te la compro, questa bambola! Adesso però lasciami telefonare a papà…
– Bamboa! e Angela ricomincia a piangere in uno strillo acutissimo e insopportabile.
– Va bene, a papà telefoniamo quando arriviamo, eh? Così lo saluti anche tu. Hai ragione, Angiolina, ti avevo promesso una bambola. E lo sai, che mamma mantiene sempre le sue promesse, no? Dài, che perdiamo il treno… Ci avviciniamo alla tabaccheria, vendono anche souvenir. Ci sono anche due Barbie vestite di bianco e rosa in vetrina, nella vetrinetta vicina al binario.
– Babbi… mormora Angiolina con il dito puntato verso la diva di plastica.
– Sì, è Barbie, è quella, che vuoi? Dài, Angiolina, su, dimmelo ché perdiamo il treno.
– Sì… Entro, compro e pago. La tabaccaia ha un aspetto liquido e sudaticcio, in questo calore. Prendo Angiolina in braccio e cammino veloce verso il binario. Sono sicura che il binario sia questo? Proprio questo?

Maria, vittima della strage di Bologna, 2 agosto 1980

La lingua mi si annodò e non seppi dirgli altro – Quando un giovane Saverio Strati conobbe Corrado Alvaro

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di Domenico Talia

Oggi, 16 agosto, Saverio Strati compie ottantotto anni. La sua opera letteraria pubblicata finora è stata vasta e importante, ma ancora tanti suoi lavori attendono di essere pubblicati. La ricorrenza del suo compleanno è un’utile occasione per riflettere sulla letteratura di Strati e sul suo percorso di uomo e di scrittore che non è stato facile negli anni dei suoi inizi e, purtroppo, ha incontrato difficoltà anche nei più recenti anni dell’età matura, nonostante le storie forti e di grande impegno civile che la sua penna ha saputo narrare. Romanzi e racconti pubblicati in Italia e all’estero e premi importanti che hanno riconosciuto il suo talento letterario e la sua continua testimonianza a favore degli umili e della sua terra. Solo tre anni fa “Il Quotidiano” si è fatto promotore della campagna per far riconoscere allo scrittore di Sant’Agata del Bianco i benefici della legge Bacchelli. Benefici concessi nel dicembre 2009 per meriti letterari.

Un breve scritto di Strati pubblicato nel 1960 su “Comunità”, il mensile culturale fondato da Adriano Olivetti, è un ottimo spunto per riflettere sul suo percorso di vita e di scrittore. In quel contributo, Saverio Strati racconta un momento molto particolare dei suoi inizi di scrittore: l’incontro con Corrado Alvaro avvenuto nell’estate del 1953 a Caraffa del Bianco dove lo scrittore di San Luca era andato per far visita alla madre che viveva con suo fratello Massimo, prete del paese aspromontano.

Due scrittori nati a pochi chilometri di distanza, figli della stessa terra ed eredi di un mondo che si andava trasformando irrimediabilmente, si incontravano in un momento in cui uno di loro, Strati, era molto giovane – 29 anni – e si avviava con molte speranze verso una lunga carriera, allora neanche iniziata, di romanziere. Corrado Alvaro, aveva esattamente il doppio degli anni di Strati – 58 anni – ed era ormai un affermato scrittore e un famoso giornalista che aveva lavorato nei maggiori giornali italiani e aveva conosciuto il mondo nei suoi continui viaggi.

Il racconto che Strati fa del suo incontro con Alvaro a Caraffa è pieno di sensazioni, di atmosfere e di timidezze personali. Tuttavia, assieme a questi aspetti umani molto rilevanti, il loro colloquio è anche pieno di riflessioni letterarie, di scambi di opinioni su autori, su stili di scrittura e visioni della vita che Alvaro e Strati hanno condiviso con diretta sincerità e altrettanto rispetto e attenzione che, se era naturale attendersi nel giovane Strati, vanno ancor più apprezzati in Alvaro scrittore maturo, affermato e stimato in Italia e all’estero.

Strati allora era studente universitario a Messina e racconta: «Sapevo che Alvaro era a Caraffa, che è un paese attaccato al mio. Desideravo molto conoscere il famoso scrittore. …  Partii e andai al paese per presentarmi allo scrittore.» Egli non aveva ancora pubblicato nulla ma certamente aveva grandi speranze: «Avevo già scritto molti racconti, a quel tempo, ma ancora non avevo pubblicato nemmeno una parola.»

Il loro primo incontro avvenne per strada mentre Corrado Alvaro insieme al fratello Massimo faceva una passeggiata in una serata estiva: «… si andò lungo la rotabile polverosa e piena di breccia fino alla Torre…». Il carattere riservato e timido di Strati si accentuò davanti ad Alvaro che lo invitò ad unirsi a loro nella passeggiata e che subito si offrì di leggere i suoi racconti, quelli che avrebbero fatto parte della raccolta “La marchesina”. «La lingua mi si annodò e non seppi dirgli altro, al primo momento, che: molte grazie! … Non ero abituato a vivere tra famosi scrittori e non sapevo che titolo bisognava dare ad un uomo celebre.»

Strati descrive l’ambiente intorno a loro: «Ci sedemmo sui sedili di pietra. Il sole stava tramontando e il paesaggio era veramente incantevole, … lo Jonio era di un azzurro-rosso laggiù … Alvaro osservava tutto in silenzio». La vista che avevano di fronte andava da Capo Bruzzano fino al Castello di Roccella, oltre quaranta chilometri di costa jonica. «È proprio bello questo paesaggio, disse Alvaro. Si girò subito verso il fratello e gli disse: Verso lì dovrebbe essere San Luca.» In questo passaggio il fratello dello scrittore spiega ad Alvaro che da una collina vicina si vede il loro paese e Alvaro gli chiede di salire su quella collina prima che lui parta per Roma. Il colloquio che ne seguì spiega bene perché Corrado Alvaro aveva scelto di non visitare più San Luca dopo la morte del padre: «Ho un bel ricordo di quel paese, e non mi piace sciuparlo. Lì sono stato felice durante la mia fanciullezza, e desidero conservare per sempre questo ricordo.» Questa frase è l’occasione per Strati di riflettere sul rapporto che lui stesso ha con il paese in cui è nato: «Io ho sempre sofferto al mio paese… eppure ci torno sempre con piacere.» Un rapporto che appare diverso da quello di Alvaro e che comunque esprime uno scarto tra il desiderio e l’esperienza reale che nel tempo non si è mai risolto.

Alcuni contadini che ritornando dalla campagna passano davanti a loro sono lo spunto per discutere del rapporto tra antica e nuova civiltà. Alvaro fa notare a Strati la gentilezza e la bontà della “nostra” gente e allo stesso tempo esprime la necessità del superamento della vecchia civiltà per far attecchire nella metà del novecento anche nella terra calabrese la civiltà europea che Alvaro conosceva bene: «Sono i residui di una vecchia civiltà. … quella vecchia civiltà della Magna Grecia ancora dura a morire… Ed è bene che muoia.» All’invocazione di Alvaro di una necessaria trasformazione culturale, Strati che aveva letto le opere di Alvaro, aggiunge con le stesse parole dello scrittore: «È bene che muoia, ma bisogna trarre il maggior numero di memorie da essa, come lei dice in “Gente in Aspromonte”.» E in questo compito il giovane e il maturo scrittore, uno di fronte all’altro seduti di fronte al mare Jonio, sembrano condividere non soltanto un’opinione ma anche un destino letterario che, anche se si è realizzato con stili e forme narrative differenti, ha sempre mirato alla rappresentazione e alla elaborazione delle memorie di un popolo di cui loro sono stati parte consapevole.

Nel ricordo di Strati di quell’incontro e del colloquio con Alvaro, ci sono alcuni passi in cui il giovane scrittore confessa le difficoltà della sua vita da ragazzo, come quando racconta del suo unico paio di scarpe: «Desideravo che arrivasse la primavera per potermi togliere le scarpe … lo facevo anche per risparmiare l’unico paio di scarpe per il prossimo inverno … Infatti provavo un grande piacere quando le rimettevo alle prime acque.» Oppure, quando rispondendo ad Alvaro che gli chiede: «Lei conosce bene i nostri lavoratori?», racconta della sua vita di giovane muratore: «Sono stato e sono ancora uno di loro … mi sento più operaio che studente universitario … Sino a vent’anni ho lavorato: ho fatto il muratore.»

In altri momenti di quell’incontro raccontati da Strati, diventa esplicito il lirismo di Alvaro, che evidentemente in lui non era soltanto letterario, ma costituiva anche una visione del mondo. Strati descrive come lo scrittore di San Luca si era fermato ad osservare una giovane donna, figlia di un pastore, seduta davanti alla casa dove abitava don Massimo: «Alvaro si fermò e la guardò con ammirazione. La ragazza divenne porpora in viso, per qualche istante si lasciò osservare, ma presto si alzò e rientrò. Ha visto? – mi disse Alvaro – Ha visto che segni di nobiltà ci sono nel volto di quella giovane? … Altro che miss Italia  … si è lasciata guardare come un bel quadro e come se si fosse detta: guarda, ma non troppo.»

Un altro esempio di visione lirica della vita e del mondo si ha quando, nel giorno successivo al loro primo incontro, Strati, invitato da Alvaro, ritorna a casa di don Massimo. Insieme ad Alvaro osservano dall’alto di un balcone una contadina che con una piccola cesta in testa porta nei campi il mangiare agli uomini impegnati nella mietitura. Alvaro osservava tutto con molto interesse: «Con quale cura aggiustano quella roba nella cesta … Tutto, se guarda bene, ha un’aria di rito … E faranno due ore di strada con questo caldo, per raggiungere i loro uomini … Ricordo d’averle viste, queste donne, già quando ero ragazzo, a San Luca … impastare il pane, infornarlo, al forno pubblico, e tutto veniva eseguito con una religiosità inesprimibile.»

Per Strati, quella fu anche l’occasione per conoscere Antonia Giampaolo, l’anziana madre dello scrittore che viveva con don Massimo. Brevemente la descrive: «Era una donna avanzata negli anni i cui tratti del viso erano totalmente uguali a quelli del figlio: il labbro superiore largo e forte, gli occhi acuti … Mi ricordai, guardandola, della madre di “Cata Dorme”, la bellissima novella di “Gente in Aspromonte”, della madre dell’ ”Età Breve”.»

Il racconto che Strati fa dell’incontro è anche pieno di riferimenti letterari. Nella loro discussione entrano i paralleli con i racconti sui contadini di Tolstoj, il frammentismo di Cechov, la Calabria di Cesare Pavese, il meridione raccontato da Verga, lo stile di Boccaccio e quello di Manzoni. Strati vuole far sapere ad Alvaro che ha letto le sue opere «con la speranza che lui si mettesse a parlarmi del suo lavoro.» Di “Gente di Aspromonte” lo scrittore di S.Agata dice che è come l’opera che « … mi parla più direttamente e mi tocca molto», ed in risposta Alvaro fa quasi una confidenza: «Doveva essere un romanzo, ma ho dovuto tagliare.» Nel seguito della discussione precisa anche le motivazioni dei tagli sulla sua opera più nota pubblicata nel 1930: «Se lei rileggerà “Gente in Aspromonte” si accorgerà che come quello è un romanzo interrotto. Mentre lo scrivevo, mi accorsi che mi venivano molti problemi fuori, dei problemi forti, scottanti della nostra terra. Erano anni difficili e certamente non mi avrebbero stampato il libro. Tagliai. Comunque molte cose sono lì dentro… È molto triste vivere e soprattutto scrivere sotto le dittature.»

Oltre a discutere delle sue opere, Alvaro è curioso di sapere cosa ha scritto il giovane Strati e quando gli chiede: «Ha scritto molti racconti?» lui risponde quasi con entusiasmo: «Tutto un libro di racconti.» Si trattava della raccolta di dodici racconti che sarebbe stata pubblicata qualche anno dopo da Mondadori con il titolo “La marchesina”. Racconti che contengono tutti gli elementi nodali della narrazione e del mondo di Strati.

La discussione che seguì questo scambio di battute, a leggerla oggi, assume un incredibile significato profetico, soprattutto alla luce del cammino di scrittore di Saverio Strati che, dopo decine di testi tradotti in tante lingue e premi letterari importanti, ha vissuto momenti di difficoltà, abbandonato dal suo storico editore, e in pratica senza possibilità di pubblicare le sue opere.

Sentendo che Strati aveva completato un volume di racconti, Alvaro gli fa i complimenti, ma allo stesso tempo lo ammonisce: «Ha lavorato! … Però le dico che è un brutto mestiere quello dello scrittore. Non si vive scrivendo racconti o romanzi, sa … Specialmente in un paese come il nostro dove nessuno legge…» Le sagge parole di Alvaro colpirono Strati che sulla soglia dei trent’anni non poteva certo immaginare che quella premonizione sarebbe valsa anche per lui in tarda età! Strati impressionato da quelle considerazioni commenta: «Mi assalì, ricordo, molta tristezza a sentire questo discorso. Fino a quel momento avevo ritenuto che colui che può pubblicare i suoi scritti e diventa, per giunta, famoso, fosse molto felice. Invece da quel discorso capivo che non si è per niente felici e che i problemi dello scrittore diventano sempre più pesanti e duri, a mano a mano che egli va avanti nel suo lavoro.» Pensieri che sono tuttora attuali e che, nel caso specifico di Strati, si sarebbero dimostrati di estrema verità molti anni dopo.

Il loro primo incontro finì con l’invito di Alvaro a Strati di passare a trovarlo a Roma nella sua casa in Piazza di Spagna: «Mi fa sempre piacere conversare con un calabrese che vuol farsi avanti, che ama studiare … mi venga a trovare.»

Quell’invito fu raccolto da Strati negli anni successivi. I due, infatti, si incontrarono altre due volte proprio nella casa davanti alla fontana della Barcaccia. La prima volta un anno dopo, nel 1954, e l’incontro lo racconta Walter Pedullà che, amico e compagno di università di Strati, insieme a lui viaggiava alla scoperta dell’Italia. «Alvaro fu molto cordiale. Provò a metterci a nostro agio, ma nessuno di noi era particolarmente facondo. Strati era taciturno, mentre io ero ammutolito dall’emozione di parlare con Alvaro.» In quell’incontro Strati ed Alvaro parlarono ancora della Calabria («Sempre più piccola in un mondo sempre più grande.»), e dei racconti di Strati che ormai stavano per essere pubblicati.

L’ultimo incontro è del 1955 e Strati racconta: «Fu più cordiale e più alla mano di prima. Mi parlò a lungo dei problemi della Calabria.» Alvaro era molto interessato alla situazione calabrese ed era intenzionato a fondare un mensile scritto da calabresi che parlasse dei problemi della Calabria: «Il titolo doveva essere, se ricordo bene: “La Tribuna dei Calabresi”. Fece con me, quel giorno stesso, un preventivo delle copie che si sarebbero potute vendere. … Mi chiese chi avrebbe potuto, secondo me, collaborare di calabresi che conoscessero e sapessero parlare dei nostri problemi, della nostra terra con buoni articoli. Laggiù la dovrebbero smettere di scrivere certe rivistine piene di poesie d’amore. Questo petrarchismo fuori luogo … dà molta noia …»

Alvaro chiese a Strati di collaborare a quella sua iniziativa: «Se mi riuscirà d’incominciare lei naturalmente potrà mandarmi qualche articolo … Ho letto il suo racconto su “Nuovi Argomenti” … Lavori, lavori!». Strati salutò Alvaro sulla porta di casa con l’intenzione di rincontrarsi presto e di iniziare con lui una collaborazione. Purtroppo la malattia che colpì Alvaro soltanto un anno dopo il loro ultimo incontro, gli impedì di proseguire la sua avventura editoriale e non permise a Saverio Strati di stabilire un rapporto con Alvaro che certamente sarebbe stato molto importante per lui.

Nel ’56 Alvaro morì e nello stesso anno, Mondadori pubblicò “La marchesina”. L’opera dell’esordio letterario di Saverio Strati va in stampa nello stesso anno in cui viene a mancare Corrado Alvaro. Un’inimmaginabile coincidenza per due scrittori che soltanto tre anni prima si erano conosciuti passeggiando per una strada sterrata della loro terra, con l’Aspromonte alle spalle e il mare Jonio davanti. Una coincidenza che realizzò un simbolico passaggio di testimone tra due scrittori che hanno saputo narrare la gente di cui si sono sentiti parte e la terra che li ha visti crescere ed andare via. Un mondo che trova memoria viva nelle pagine della narrativa di Strati e di Alvaro. Nella loro scrittura, diversa per forma espressiva ma uguale nel saper rappresentare in maniera magistrale la carne e l’anima, i destini e i desideri degli uomini e delle donne calabresi. Una narrazione fatta con gli occhi di chi ha conosciuto il mondo e che con quegli stessi occhi ha saputo guardare alle vite, ai problemi e alle speranze della propria gente.

[Questo articolo è stato pubblicato, con una leggera variazione, su Il Quotidiano di Calabria il 12/8/2012]

Svetozar Gligorić (2.2.1923-14.08.2012)

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1. d4 Cf6 2. c4 c5 3. d5 e6 4. Cc3 exd5 5. cxd5 d6 6. e4 g6 7. Cf3 Ag7 8. Ae2 O-O 9. O-O Te8 10. Cd2 Ca6 11. f3 Cc7 12. a4 Cd7 13. Rh1 f5 14. exf5 gxf5 15. Cc4 Ce5 16. Cxe5 Axe5 17. f4 Ag7 18. Ah5 Tf8 19. Tf3 Ce8 20. Axe8 Dxe8 21. Tg3 Ad7 22. Ad2 Tf6 23. Db3 Tg6 24. Te1 Dd8 25. Cb5 Ae8 26. Tge3 Af7 27. Te7 a6 28. Cc7 Tb8 29. Dh3 Tg4 30. Dd3 Af6 31. Dxf5 Tg6 32. Td7

Vedi la partita qui.

La foto è presa da questo sito.

Dopo il miracolo

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di Gianni Biondillo

Alessandro Zaccuri, Dopo il miracolo, 259 pag., Mondadori, 2012

Il seminario della Vrezza si trova in un’immaginaria valle appenninica del piacentino, simbolo perfetto di una metaforica, immutabile, provincia italiana. Siamo negli anni del riflusso, con un nuovo papa sopravvissuto (miracolosamente?) ad un attentato. Il contado viene travolto da una successione di avvenimenti che distruggono l’apparente pacifica immobilità del luogo. Dapprima il suicidio di Beniamino, il più giovane rampollo di una devotissima famiglia che ha in Attilio Defanti – mezzadro arricchito – un patriarca giusto e paziente, infine l’irrompere di un chiassoso pellegrinaggio di fedeli fanatici che, quasi mettendo in assedio il seminario, chiedono a gran voce l’intercessione di un santo guaritore.

Il problema che il santo, Don Alberto, santo non si sente affatto. È un teologo raffinato, inquieto, razionale, un prete scettico che non crede ai miracoli. Ma anni addietro, per una concomitanza di eventi, sicuramente tutti spiegabili dalla scienza, un suo gesto di pietà ha fatto “risorgere” da morte certa una bambina. E ora la madre, Maria Sole, ex sessantottina irrisolta, professa una fede cieca nei confronti dei poteri taumaturgici del sacerdote.

Zaccuri, come già dimostrano le sue prove precedenti, ha il dono della narrazione corale: Dopo il miracolo è un romanzo affastellato di personaggi, alcuni appena tratteggiati, altri sbalzati al cesello. Si permette di parlare di temi profondi, entrare nel cuore del mistero, con coraggio: il dubbio della ragione, l’oscurità della fede, la meraviglia dell’esistenza, l’incomprensibilità la morte. Ma lo fa con metafore mai grevi, spesso attraverso le parole dei suoi personaggi, più che con le sue. Zaccuri ha una scrittura elegante che sa manipolare impercettibilmente di capitolo in capitolo. Fa il verso a stili, suggestioni letterarie, autori. Una tonalità personale e autentica, però, per quanto camuffata, ammanta l’intero romanzo: l’ironia affettuosa, mai crudele. Comica. Di chi ha fede per davvero, senza mai prendersi sul serio.

(pubblicato su Cooperazione n. 21 del 22 maggio 2012)

video [sull’]arte #7 – andy warhol

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Andy Warhol su Jasper Johns, anni ’60.

Su alcuni fotogrammi di Chris Marker. A partire da Lo sguardo e l’evento di Marco Dinoi

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pubblicato il 31 luglio 2012 in ⇨ www.lavoroculturale.org

Come riprendere le donne di Bissau? Apparentemente, la funzione magica dell’occhio laggiù era contro di me.

Le convergenze parallele

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di Giuseppe Zucco

Il Console le prese la mano. Si stavano abbracciando, o così quasi sembrava, appassionatamente: chi sa dove, dall’alto del cielo, un cigno, trafitto, piombò sulla terra. Malcolm Lowry, Sotto il vulcano.

 

Guardava la Jacuzzi schiumare bolle intorno alla gamba. E come dal nulla un uccello era improvvisamente caduto nella Jacuzzi. Con un piatto, prosaico, plop. Dal nulla. Dal grande cielo vuoto. Non c’era niente sopra la Jacuzzi se non il cielo. L’uccello sembrava avere appena avuto un infarto in volo o qualcosa del genere ed era morto e caduto dal cielo vuoto e ammarato morto stecchito nella Jacuzzi, proprio vicino alla gamba. Orin abbassò gli occhiali sul naso e lo guardò.David Foster Wallace, Infinite Jest.

 

[ Il graffito è di Losdelaefe, Mexico: http://www.ekosystem.org/tag/losdelaefe ]

 

Hrabal in maschera

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Il manuale di un apprendista sbruffone (1970)
di
Bohumil Hrabal
Traduzione di Annalisa Cosentino
Testo pubblicato in rete qui

Sono un estimatore del sole nei ristoranti all’aperto, un bevitore della luna che si specchia nel selciato bagnato, cammino eretto e diritto, mentre mia moglie, a casa, benché sobria, fa atti mancati e barcolla, una descrizione piena di humour dell’eraclitiano panta rei mi scorre alla gola e tutti i ristori del mondo sono come un gruppo di cervi agganciati per le corna dei discordi, la grande scritta Memento mori che alita dalle cose e dai destini umani è un motivo per bere sub specie aeternitatis, il cimitero di Olšny, la prigione di Pankrác e via Bartoloméjská altrettanto, sono perciò un dogmatico dell’allergia allo stato fluido, la teoria del giunco e della quercia per me è una forza motrice, sono un urlo umano atterrito, che si dissolve in un fiocco di neve, vado continuamente in fretta, per poter sognare due o tre ore al giorno inattivamente attivo, perché so bene che la vita umana è breve e passa mentre si mescolano le carte, che forse sarebbe meglio se fossi lavato via, buttato via dentro un fazzolettino, talvolta mi atteggio come se stessi fiutando un milione, anche se so bene che alla fine vincerò una merda che ride, che la festa è cominciata con una stilla di seme e finirà nel crepitio del fuoco, da inizi così belli così belle conclusioni, dietro un visetto grazioso si può amare l’allegra madrina Morte, annaffio le piante quando piove, nel luglio afoso mi tiro dietro lo slittino di dicembre, nei caldi giorni estivi, per rinfrescarmi, mi bevo i soldi destinati al carbone per scaldarti d’inverno, tremo continuamente di paura perché la gente non trema di paura per quanto la vita è breve, è così poco il tempo, finché ce n’è abbastanza, per le follie e l’ubriachezza, vivo i mattutini postumi di sbronze come campioni nient’affatto privi di valore, anzi, come valore assoluto di un trauma poetico con un accenno di insania, che va assaporata come una santa colica epatica, sono un albero frondoso pieno di occhi attenti e sorridenti, occhi sempre in stato di grazia e come assi appaiati di accidenti e incidenti, che gioia, su un vecchio fusto giovani ramoscelli, che godimento il riso delle foglie appena nate sui giovani rami, il mio clima è il tempo variabile di aprile, una tovaglia sbrodolata è la mia bandiera, nella cui ombra ondulata provo non solo allegra euforia, ma anche slittamento e resurrezione, quel dolore sordo alla nuca, quell’orribile tremito della mano, con i denti mi tiro via dalle zampe piccole schegge di vetro e i residui dell’esuberante notte precedente, ogni mattina mi stupisco di non essere ancora morto, sono sempre in una condizione di morosità, potrei crepare prima di aver fatto follie a mio piacimento, non mi considero un rosario, ma un anello della catena spezzata del riso, il più fragile grano determina la forza della mia immaginazione dissipatrice, è qualcosa in me di castrato, qualcosa che è e allo stesso tempo indietreggia verso il passato, per essere catapultato nel futuro compiendo un arco, nel futuro che poi mi distoglie completamente da labbra ed occhi bramosi, tanto che divento strabico, vedo doppio come attraverso la calcite islandese, oggi è ieri e l’altroieri è dopodomani, perciò sono un produttore di affrettati giudizi sintetici, assaggiatore e sommelier di uno spazio adulterato, considero la sclerosi e la demenza e il balbettio infantile come l’inizio di possibili scoperte, con la giocosità e il gioco trasformo la valle di lacrime in riso, scongiuro la realtà e lei non sempre mi dà un segno, sono un timido capriolo nella radura di un’aspettativa sfacciata, sono la solida campana dell’imbecillità incrinata dal fulmine della conoscenza, l’oggettività in me assurge alla soggettività estrema, che considero un’aggiunta alla natura e anche alle scienze sociali, sono un genio negativo, un bracconiere nelle riserve della lingua, sono il guardaboschi dell’ispirazione piena di humour, una guardia giurata sui campi delle barzellette anonime, l’assassino delle buone idee, il guardiano dei dubbi vivai della spontaneità, eterno amatore e dilettante dell’idiozia e della pornografia, eroe dell’insensatezza pensante, precipitoso crocifero di parallele anticipate, che vuol mangiare una fetta di pane spalmata sul burro dell’infinito, che vuol bere da un boccale la panna dell’eternità subito, ora, e ora e mai più, quindi mai, reputo la spiegazione sbagliata delle parole di Cristo il fascino dei testi apostolici, una trina di Bruxelles inzuppata nelle bave di un epilettico, frantumi di ghiaccio sulle sponde di un torrente invernale sono il mio ornamento, contro il quale ci si può ferire, io sono depressione e spleen e prostrazione, i preparativi al salto di testa contro il muro sono la prova, continuamente rimandata, che si può vivere diversamente da come ho vissuto finora, sono un nevrotico che gode di ottima salute, un insonne che si addormenta profondamente solo sui tram e si lascia così portare fino al capolinea, sono una grande presenza di piccole aspettative e di attesi grandi crack e fiaschi, su un orizzonte grottesco vedo altri orizzonti di minuscole provocazioni e di scandali in miniatura, perciò sono un clown, un animatore, un narratore e un istitutore, proprio come un grande detrattore e delatore di me stesso, redattore di lettere minatorie senza firma, considero le notizie prive di valore un possibile preambolo alla mia costituzione, che cambio di continuo, che non posso mai aver finito, nel progetto di un ombra tracciata lievemente scorgo una costruzione gigantesca, anche se è una piccola tomba di bambino sprofondata da tempo, sono un signore incinto di giovinezza che invecchia già, la mimica e la lingua sono la grammatica in movimento di un gergo interiore, una fetta di polpettone caldo e un bicchiere di birra fredda in mezz’ora riescono a transustanziarmi la materia in buon umore, che metamorfosi a buon mercato, e il primo miracolo è venuto al mondo, una mano posata su una spalla amica è per me la maniglia che apre la porta della beatitudine, dove ogni oggetto amato è il centro del paradiso terrestre, il cuore della natura è lo stato accessibile del bodhi, in cui nel pensiero si può amare una vagina riluttante e ostinata, avvolta per di più nelle più belle curve di carne, verbum caro factum est, il cannibalismo raggiunto a secco, senza prete e senza diploma di maturità, tristi occhi di mucca che si sollevano curiosi sopra le sponde dei camion, sono i miei occhi, una giovenca minorenne attesa da macellai con coltelli luccicanti, sono io, una cinciallegra con le ali rovesciate svuotata in una sera gelata in un secchio d’acqua fredda, sono io, la fiamma a cui ritornano vespe fedeli, per morire bruciate insieme alle altre nel nido che arde, questo è l’abbozzo di un’idea abbastanza precisa di favi che bruciano pieni di un miele preparato solo e soltanto per me, sono dunque un membro corrispondente dell’Accademia della sbruffoneria, un allievo della cattedra di euforia, il mio dio è Dioniso, un leggiadro giovane ubriaco, l’allegria che si è fatta uomo, il mio padre della chiesa è l’ironico Socrate, che con pazienza attacca discorso con chiunque, per portarlo con la lingua e per la lingua fino alla soglia stessa del non sapere, il figlio primogenito è Jaroslav Hašek, inventore da storielle da osteria e geniale viveur e scrivano, che con l’afrore dell’uomo ha reso umani i cieli prosaici e ha lasciato la scrittura agli altri, con gli occhi sbarrati fisso le pupille blu di questa Santa Trinità, senza aver raggiunto il culmine del vuoto, l’ebbrezza senza alcol, l’istruzione senza il sapere, inter urinas etfaeces nascimur ed è come se le nostre madri ci avessero partorito a cavalcioni direttamente nei forni crematori, o in tombe ricoperte di erbetta, sono un toro dissanguato dal riso, al quale qualcuno con un cucchiaino mangia il cervello come un gelato.
Cameriere, ci sarebbe un’altra porzioncina di gulasch?

P.S. Quando analizzo questo testo, che dovrebbe fare da postfazione a questo libro, un testo che ho scritto in cinque ore in pause irregolari mentre spaccavo la legna e tagliavo l’erba, un testo che ha il battito rallentato della scure verticale e la melodia della linea orizzontale di una falce austriaca, devo distinguere tra le frasi defluite come somma di esperienza interiore e quella che ho ricavato dalla lettura. Devo elencare le frasi di autori che, dal momento in cui le lessi, mi affascinano al punto che mi dispiace non averle inventate io stesso. “Non mi considero un rosario, ma l’anello di una catena spezzata” è una variazione rovesciata del nietzschiano “non sono l’anello di una catena, ma la catena stessa”. “Ogni oggetto amato è il centro del paradiso terrestre” è esattamente Novalis. “Verbum carofactum est” è S. Giovanni, “la Parola fu fatta carne”. “Dioniso, l’allegria che si è fatta uomo” è Herder. “Inter urinas et faeces nascimur” dovrebbe essere S. Agostino, “nasciamo tra feci e urine”. E malgrado ciò siamo bellissimi. “Le nostre madri ci partoriscono a cavalcioni in tombe aperte” è uno scolastico spagnolo, di cui ho dimenticato il nome. Eppure siamo magnifici e, dunque, qui. Questo è tutto.


Traduzione di Annalisa Cosentino, MicroMega n. 3/95, pp. 95-98