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Per l’abolizione della rassegna radiofonica dei giornali

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di Giacomo Sartori

Quando sono in Italia la mattina ascolto la rassegna radiofonica dei quotidiani. Addentando una mela autoctona mi lascio ipnotizzare come moltissime altri italiani dalle frasi monocordi del giornalista di turno che compita il tal articolo del tal giornale. In genere lentamente, come chi non è abituato a leggere in pubblico, e si sforza con più o meno successo di avere una dizione chiara. Come è noto i giornali italiani parlano moltissimo dei politici italiani, anche quelli che non vota quasi nessuno, o che ne hanno combinate di cotte e di crude, quindi nella rassegna stampa è molto questione di dichiarazioni e di ruttini giornalieri di politici italiani. Il giornalista legge le frasi dei colleghi giornalisti che a loro volta citano le frasi e i ruttini quotidiani di politici più o meno presentabili. A tratti la sua respirazione tradisce la riprovazione, l’incredulità, a tratti l’encomio, ma prevale pur sempre il passo rassicurante dell’oggettività, del rispetto per il pluralismo giornalistico. Per scrupolo di pluralismo vengono spulciati anche i deliranti quotidiani finanziati dai partiti politici che non legge proprio nessuno, a parte appunto i giornalisti delle rassegne stampa. I brevi commenti che intramezzano la lettura monocorde sono in genere ponderati, empatici con la grave situazione del paese, pieni di giornalistico buon senso: buon senso di destra se il giornalista lavora in un giornale di destra, buon senso di sinistra se il suo giornale è di sinistra. Nel complesso sorge la netta impressione che i politici cialtroni abbiano gioco facilissimo proprio perché ci sono dei giornalisti che propalano in modo acritico le loro cialtronerie. E nello stesso tempo si ha la riprova di non contare nulla, di essere ineluttabilmente tagliati fuori dal gioco. Io certe volte vorrei spegnere la radio, ma sono avvinto da quella interminabile spirale di autoreferenzialità giornalistica al servizio della cosiddetta politica, come suppongo avvenga a tanti altri italiani. Dopo qualche minuto di pausa, sempre con l’identica pubblicità per un autoctono programma informatico, cominciano le telefonate degli ascoltatori. Finalmente qualcuno che non è giornalista!, mi dico, avvitando la macchinetta del caffè. Con i loro autoctoni accenti regionali la maggior parte degli ascoltatori commentano però anche loro le frasi dei giornalisti commentanti le frasi dei politici, o più spesso tirano fuori ciascuno la propria idea fissa, la propria personale soluzione ai deprimenti malanni del paese. Si vede che hanno le idee un po’ confuse, ma sono pur sempre convinti di avere la soluzione in tasca. Spesso hanno la tendenza a dilungarsi un po’ troppo, e allora il giornalista della rassegna li invita gentilmente ma fermamente a venire al sodo, a formulare la domanda. Il più delle volte il giornalista non sa poi tanto bene come rispondere alla famigerata domanda, ma mette pur sempre lì frasi pregne di giornalistico buon senso di destra o di sinistra. Non si può sapere se l’ascoltatore è pago della risposta, perché la sua voce nel frattempo è stata tagliata, tagliata per sempre. Qualche volta spengo la radio, perché devo uscire, e ne provo sollievo. Poi però in macchina la riaccendo, perché in fondo sono affezionato a quelle voci escluse dal gioco con i loro autoctoni accenti regionali, e io stesso nella mia testa mi invento delle zoppicanti soluzioni ai deprimenti malanni del paese. Un giorno potrei chiamare anch’io, mi dico.

(questo articolo è stato pubblicato sul bimestrale italo-francese “FOCUS IN“, n° 15, mai – juin 2012)

Cronache di Mesagne

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Il convento dei Cappuccini a Mesagne, sede del'ISBEM

di Antonio Sparzani

Ulivi e ulivi e ulivi senza fine corrono sul finestrino del treno che mi porta via da Mesagne e da Brindisi. Sole e ancora sole, benefico e implacabile, che ci schiaccia un po’ tutti verso il basso. Finita è la terza festa indiana, tenuta all’ISBEM di Mesagne e ricca, se non di sterminate masse partecipanti, di contributi di grande livello,

Date

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Di Andrea Inglese

.

Le stagioni quando arrivano, sicure
del loro rinnovato perdurare,
hanno come un potere, sommuovono,
da un fondo oscuro, come se dentro,
nel nostro fragile componimento
di sonni e veglie, ci fosse una risorsa
che l’economia non controlla, senza dati
e prelievi, senza ragioni condivise.

Polemiche letterarie

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Mercoledì 4 Luglio 2012, ore 21.00

Libreria Popolare, via Tadino 18, Milano

Daniele Giglioli, Paolo Giovannetti, Antonio Loreto e Paolo Zublena

presentano:

Polemiche Letterarie. Dai Novissimi ai lit-blog

(Carocci, 2012)

di Gilda Policastro

il novantesimo minuto (senza recupero) di Antonio Rezza

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Oggi su Il Venerdì di Repubblica Gianni Mura ha scritto una bella recensione, il campionato di calcio degli scrittori italiani dedicata al libro curato da Carlo D’Amicis per Manni Editori, C’è un grande prato verde , 40 scrittori raccontano il campionato di calcio 2011-2012. Ho chiesto alla splendida, nel senso di solare, Agnese Manni di pubblicare su Nazione Indiana l’anteprima del racconto di Antonio Rezza. Per tre ragioni. La prima è perché Rezza in napoletano significa Rete. La seconda perché è davvero un racconto bello tosto. La terza è perché con Orsola amiamo molto l’artista, ma questo è un altro discorso. Effeffe


La trentaduesima giornata
di
Antonio Rezza
Aprile, ennesima giornata infrasettimanale di calcio. Il controllo sociale è ormai completo, si spostano negli stadi problemi che fuori sarebbero pericolosi per la viabilità, per la vita civile. Lo stadio finisce per essere un contenitore di gente illusa, frustrata, violenta, falsamente politica, strumentalizzata e superficiale. La protesta nei confronti dello stato si camuffa in passione incondizionata. Chi urla il nome della propria squadra urla la sua disperazione, l’insoddisfazione di uomo represso a sua insaputa. Le città si muovono in attesa dell’evento, le sciarpe al collo dei tifosi sono il cappio del condannato. Impiccati a una passione fasulla si suicidano nel giorno del Signore. Che non li ha mai creati a sua immagine e somiglianza: Dio non ha bandiera, Dio, non esistendo, ha permesso all’uomo di scivolare nell’oblio. Dio non è mai stato dalla parte dell’uomo. Dio non tiferebbe mai per esseri inferiori.

Chievo-Milan
Inter-Siena
Fiorentina-Palermo
Parma-Novara
Napoli-Atalanta
Catania-Lecce
Roma-Udinese
Juventus-Lazio
Genoa-Cesena
Bologna-Cagliari

Iniziano le partite, guardo gli spalti gremiti di gente che si esalta per le imprese altrui. Sui volti di chi tifa con la gola squarciata da un amore assurdo scorre la sofferenza di non essere altrove, l’impossibilità di fuggire dalla gloria riflessa, di non poter correre per dimenticare.
Ognuno vorrebbe essere l’oggetto del suo desiderio, ma l’amore del tifo è dimesso come quello dell’uomo. E in più va pagato. Istigazione alla prostituzione in luogo pubblico, ecco l’idea che ho di chi paga. Si ama senza toccare, si ama con gli occhi velati da una malinconia antica. Si ama con gli occhi così poco accecati. Chi non vede tifa in un altro modo, chi ha perso la vista tifa per sentito dire, chi sente dire, se non sentisse, potrebbe evitare di fare da bastone a chi non vede. Chi ha perso la vista tifa come chi ha perso la parola. Emozioni mozze nella gola di chi non parla e negli occhi di chi non vede. Il tifo ideale: nella sciagura di due uomini senza sensi, l’individualismo trionfa involontario: uno non vede le partite e l’altro non le può raccontare. Ecco cosa sarebbe il tifo superiore, quello nobilitato dalla sventura che rende finalmente l’uomo padrone del suo io incompleto, difettoso, anomalo ma diverso da tutti quelli che usano la vista e la bocca come succursali di un culo ormai affittato all’abominio. Chi gioca deve sperare nella buona salute di chi guarda. Chi gioca tifa la sana e robusta costituzione di chi vede. Un pubblico di ammalati non sarebbe così caloroso, lo spettatore deve scoppiare di salute, gli ammalati non sono graditi poiché la sofferenza li rende sovversivi, hanno il dolore a farli inaffidabili. Ma è chi sta bene che sprofonda nel malessere. Ci si riempie gli occhi di poco e si parla di nulla per un’intera settimana. Forse gli spalti rappresentano l’unico momento di libertà di questo gregge prezzolato che affonda nelle paludi della propria inefficacia. Immagino partite cui assistono solo ciechi e sordi, con sensazioni fuori sincronia perché il cieco non vede l’azione e il sordo può gioire solo con vocali strozzate che fanno però da aiuto al cieco che quando sente il grido soffocato del sordo uscire dalla gola gioisce senza verifica. Una gioia condizionata. Vedendo giovani e vecchi con lo sguardo perso di chi dimentica la propria sconfitta provo grande disgusto verso una massa troppo forme, che ha scelto di non ribellarsi al bavaglio spalmato di miele. La ribellione è solo nell’handicap, solo nella sottrazione di pezzi a questo corpo che conduce sugli spalti a morire lentamente. Deportazioni in pieno stile. Deportazioni moderne, con il sorriso a sostituire l’orrore. Ma per questo l’inquietudine è sovrana: vedere la felicità di chi a poco a poco sta perdendo il libero arbitrio mi sembra un crimine contro l’umanità. Ma c’è la falsa credenza che chi ride è contento, che chi ride ha libertà di scelta. Chi non cammina, chi non vede, chi non sente, ha un modo più civile di gioire, non per virtù ma perché costretto a essere infelice. Nell’infelicità una possibilità di salvezza. Nell’handicap la certezza di sfuggire ai meccanismi del consumo. Intanto mentre una squadra segna vedo occhi drogati di niente morire su facce assopite, segnate da una vita esteriore. Si assomigliano tutti questi neo mentecatti, tollerati dalla società civile perché in grado di produrre profitto, di foraggiare le casse di chi paga il gioco infame. E nelle case lo sterminio continua sul divano, famiglie intere sedute tra odori di cucina e puzza di fumo a gioire per una nuova e duratura debacle. Divani affossati dall’assenza di interessi superiori. Case dove per tutta la settimana si è parlato dei culi dei figli da pulire, case involgarite da problemi familiari vengono ora mortificate dal tifo collettivo, a gestione patriarcale, da un padre che si fa dolce di fronte alla sua squadra che mantiene il risultato. Sguardi segnati da una vita di apparenza e di spensieratezza coatta somministrata a dosi sempre più massicce. Ma non è tanto la gioia che rende stupido il tifoso, la gioia è superficie pura, non scava mai nel profondo, si limita allo stretto necessario, è un sentimento falso perché si regge sulle piccole cose. Non è la gioia per un gol segnato che rende il tifoso miserabile. È la sofferenza per un gol subito che lo fa apparire senza dignità, privo di difese, verme tra i vermi a decomporre le intenzioni. Nella gioia spesso sembriamo tutti uguali, ma è nel pianto e nel dolore che emerge l’arroganza: chi soffre crede sempre di essere dalla parte della ragione. Insomma che la Juve e il Milan lottino per un tricolore origine tra l’altro di un’infermità sociale, non mi interessa proprio. E allora concepisco il pubblico ideale, quello che renderebbe disabile chi corre: un pubblico di affamati, di profughi, di non vedenti, di sordi, di muti, di non deambulanti, di battuti, di ingannati, di poveri, di moribondi. Ecco il pubblico ideale e che sia la sciagura collettiva a nobilitare questa massa che affolla stadi enormi, che riempie divani tristi come la vita, che procede domestica come un cane addestrato. Divani con così poca infelicità, senza una tragedia a nobilitare il velluto consunto da anni di militanza forzata.
Questi i risultati:

Chievo-Milan 0-1
Inter-Siena 2-1
Fiorentina-Palermo 0-0
Parma-Novara 2-0
Napoli-Atalanta 1-3
Catania-Lecce 1-2
Roma-Udinese 3-1
Juventus-Lazio 2-1
Genoa-Cesena 1-1
Bologna-Cagliari 1-0

E questo è il risultato, un popolo senza identità, costretto a cercare la felicità nelle gesta di chi neanche lo vede. Un popolo coglione col sorriso sulle labbra. O con la lacrima che scorre. Mentre scorre la vita di ognuno senza che ognuno abbia veramente mai tifato per se stesso.

Quarta di copertina
C’è un grande prato verde
40 scrittori raccontano il campionato di calcio 2011-2012

Il campionato di calcio è un appassionante romanzo.
E allora perché non scriverlo? Perché non trattare Ibrahimovic, Pirlo e gli altri eroi del pallone come personaggi di una fiction a puntate?
Questa la sfida raccolta da 40 scrittori (tanti quanti sono i turni della serie A, con l’aggiunta della prima giornata di sciopero, e con una coppia), che in questa antologia raccontano, domenica dopo domenica, davanti alla tv o su un seggiolino dello stadio, l’edizione 2011-2012 del rito più amato dagli italiani.
Un rito fatto di gol strepitosi e di eccezionali parate, ma anche di radioline accese, pomeriggi in poltrona, chiacchiere da bar: un libro, quindi, che nel ricostruire l’andamento del campionato attualmente in corso, descrive il rapporto – abitudinario e avventuroso al tempo stesso – che ogni italiano, tifoso o no, intrattiene con il grande circo del pallone.

video arte #4 – santiago sierra

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Santiago Sierra, Person obstructs a line of containers, 2009.

“Labour is a hard job” (e altri problemi di traduzione)

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di Renata Morresi 

Per l’esame della prima sessione quelli del terzo traducono la pubblicità di uno studio legale di Milano, dall’italiano all’inglese. Oggi faccio sorveglianza, all’incirca dieci ore, ho tempo per pensare. Non che mi paghino, ma, si sa, fa parte del lavoro.

L’imperfezione del mistero

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(m’è stato chiesto di parlare di questo – inconsistente – tema alla Milanesiana, il 7 luglio p.v. Tento di accennarne qualcosa qui)

di Gianni Biondillo

Provo una autentica ammirazione, direi persino invidia, per chi riesce a scrivere un bel giallo. Uno di quelli veri, intendo: macchine precise, oliate, congegni complessi eppure logici; belli come possono essere gli astrolabi, scientifici, meccanici e al contempo esteticamente affascinanti, misteriosi. Fernando Pessoa amava i classici del giallo anglosassone, li reputava una delle più alte espressioni della letteratura contemporanea. Lo capisco. Il mystery novel è letteratura pura, esente dalla compromissione con la realtà. Non imita il mondo, lo sublima. È arte per l’arte.

Io non ci riesco. Nei miei romanzi la vita irrompe sempre in modo precipitoso, incontenibile, confusionario. Cerco di organizzare una partita a scacchi col lettore ma la realtà mi muove le pedine, scompiglia la disposizione delle cose, crea il caos là dove io cerco l’ordine. Inutili digressioni, psicologismi, ossessioni linguistiche, citazioni colte, trivialità d’accatto… provo a dipanare la matassa ma il gomitolo s’ingarbuglia, s’annoda, inelegante. I miei sono gialli imperfetti; è che non li so scrivere. Faccio, più banalmente, letteratura, come tanti, come tutti.

Il giallo classico – quello non influenzato dalle pulsioni autolesioniste del noir, quello che non conosce il tanfo metropolitano dell’hard boiled – è il mistero nell’era della democrazia: l’evento arcano, la morte violenta, viene presentata agli occhi di tutti, officianti e semplici spettatori. E tutti – questa la peculiarità – possono investigare, tutti possono, alla fine, risolvere l’enigma, tutti, lettori compresi, possono uscire dal labirinto vincitori, basta averne il talento.

Sono invidioso dei giallisti puri, ripeto, e perciò malizioso. Risolvere l’enigma alla fine, mi dico maligno, significa depotenziare il mistero. Questa è la vera contraddizione del giallo. È un problema eminentemente etimologico: Mysterion, in greco antico, significa “cosa da tacere”, che non può essere detta pubblicamente, perché è riservata agli iniziati, ai sacerdoti. Il mystery novel all’apparenza ci mette in contatto con il taciuto ma nei fatti secolarizza il sacro, lo banalizza. È un mistero imperfetto, proprio perché disvelato.

Sono scuole di pensiero: c’è chi di fronte al prestigiatore passa il suo tempo a cercare di capire il trucco, l’inganno. Io m’incanto della meraviglia, senza darmi spiegazioni. Ci sono cose che noi non sapremo mai. Per quanto ci arrabattiamo, non risolveremo tutti gli enigmi, la realtà non sarà mai così logica, così lineare. Ad una causa non avremo sempre un effetto, la rosa delle possibilità è incommensurabile. Gli uomini sono anche passioni, meschinità, noia, ilarità, emozioni. Psiche.

Questo voler disporre le cose nel mondo è profondamente umano, lo so. Ci aiuta a non cadere nel terrore panico dell’esistenza. La letteratura fa questo, mette ordine, cerca il bandolo, il senso delle cose. Ma lo scrittore, ogni scrittore, nel suo intimo sa che la vita è più grande, più misteriosa. È imperfetta, impossibile da descrivere a tutto tondo, è illogica. Ogni scrittore sa che un romanzo, per quanto cerchi di essere un calco del mondo – se non addirittura un mondo a sé – non riuscirà mai davvero a comprenderlo. Fallire è il destino. Perché è la vita, da sempre, il vero mistero. Noi sacerdoti delle parole rinnoviamo il rito, da millenni. Da millenni inseguiamo la perfezione, la comprensione del tutto. Fallendo. Per ricominciare, di nuovo, dato che non abbiamo altra possibilità che cercare di capire il mistero della realtà col mistero delle parole, consci che nella partita perderemo sempre. Soprattutto quando siamo convinti, puerili, di aver finalmente risolto l’enigma.

(pubblicato su Il Corriere della sera, ieri)

La terza festa di Nazione Indiana è a Mesagne (Brindisi): 30 giugno – 1 luglio 2012

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sabato 30 giugno – domenica 1 luglio

all‘ISBEM

c/o Ex Convento dei Cappuccini – Via Reali di Bulgaria – 72023 Mesagne (BR)

(come arrivare)

Programma della festa

Il diritto all’ozio

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di Paul Lafargue

Un dogma disastroso

«Diamoci all’ozio in ogni cosa, fuorché nell’amore e nel bere, fuorché nell’oziare.»
Lessing

Una strana follia possiede le classi operaie delle nazio­ni in cui domina la civiltà capitalistica.

Debito ergo sum

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Estratto da 
La fabbrica dell’uomo indebitato
edizioni Derive approdi
di
Maurizio Lazzarato
Saggio sulla condizione neoliberista


« La Grèce, c’est le mauvais élève de l’Europe. C’est toute sa qualité. Heureusement qu’il y a des mauvais élèves comme la Grèce qui portent la complexité. Qui portent un refus d’une certaine normalisation germano-française, etc. Alors continuez à être des mauvais élèves et nous resterons de bons amis. »

Felix Guattari, intervista alla televisione greca del 1992

In Europa, alla stregua di altre parti del mondo, la lotta di classe oggi si dispiega e concentra intorno al debito. Con una crisi del debito che arriva a toccare gli Stati Uniti e il mondo anglo-sassone, ovvero i paesi che hanno prodotto, oltre all’ultimo disastro finanziario, soprattutto il neoliberismo.
La relazione creditore-debitore, che sarà al centro della nostra argomentazione, intensifica i meccanismi di sfruttamento e di dominio in forma trasversale, senza fare alcuna distinzione tra occupati e disoccupati, consumatori e produttori, attivi e inattivi, pensionati o beneficiari di sussidi. Di fronte al capitale, che si presenta come il Grande Creditore, il Creditore universale, sono tutti «debitori», colpevoli e responsabili. Una delle principali poste in gioco del neoliberismo resta quella della proprietà – com’è chiaramente dimostrato dalla «crisi» attuale –, poiché la relazione creditore-debitore esprime un rapporto di forza tra proprietari (di capitale) e non proprietari (di capitale).
Attraverso il debito pubblico a indebitarsi è l’intera società, cosa che non impedisce, ma esaspera, «le disuguaglianze», che sarebbe venuto il momento di chiamare «differenze di classe».

Le illusioni economiche e politiche di questi ultimi quarant’anni cadono l’una dopo l’altra, rendendo le politiche neoliberiste ancora più brutali. La new economy, la società dell’informazione, la società della conoscenza sono tutte solubili nell’economia del debito. Nelle democrazie che hanno trionfato sul comunismo pochissime persone (qualche funzionario dell’Fmi, dell’Europa e della Banca centrale europea, insieme a qualche politico) decidono per tutti secondo gli interessi di una minoranza. La grandissima maggioranza degli europei viene tre volte deprivata dall’economia del debito: deprivata del già debole potere politico concesso dalla democrazia rappresentativa; deprivata di una quota sempre maggiore della ricchezza che le lotte trascorse avevano strappato all’accumulazione capitalistica; ma soprattutto, deprivata del futuro, ovvero del tempo, come decisione, scelta, come possibile.

La successione delle crisi finanziarie ha fatto violentemente emergere una figura soggettiva che era già presente, ma che oggi ormai investe l’insieme dello spazio pubblico: la figura dell’«uomo indebitato». Le realizzazioni individuali promesse dal neoliberismo («tutti azionisti, tutti proprietari, tutti imprenditori») ci spingono verso la condizione esistenziale di quest’uomo indebitato, responsabile e colpevole del suo stesso destino. Questo saggio vuole proporre una genealogia e un’esplorazione della fabbrica economica e soggettiva dell’uomo indebitato.
Dopo la precedente crisi finanziaria, scoppiata insieme alla bolla di internet, il capitalismo ha messo da parte le narrazioni epiche elaborate intorno ai «personaggi concettuali» dell’imprenditore, dei creativi, del lavoratore indipendente «orgoglioso di essere il padrone di se stesso», i quali, nel perseguire unicamente i loro privati interessi, lavorano per il bene di tutti. L’investimento, la mobilitazione soggettiva e il lavoro su di sé, predicati dal management fin dagli anni Ottanta, si sono trasformati in un imperativo ad assumere su di sé i costi e i rischi della catastrofe economica e finanziaria. La popolazione deve farsi carico di tutto ciò che le imprese e lo Stato sociale «esternalizzano» verso la società, dunque anzitutto del debito.

Per i padroni, i media, gli uomini politici e gli esperti, le cause della situazione non sono da ricercare nelle politiche monetarie e fiscali che scavano il deficit – operando un massiccio trasferimento di ricchezza verso i più ricchi e le imprese –, né nel susseguirsi delle crisi finanziarie che, dopo essere di fatto scomparse durante i «gloriosi trent’anni», continuano a ripetersi e a estorcere strabilianti somme di denaro alla popolazione, nel tentativo di evitare ciò che viene chiamato «crisi sistemica». Per tutti costoro, colpiti da amnesia, le vere cause di queste crisi incessanti risiederebbero nelle eccessive pretese dei governati (in particolare di quelli dell’Europa del Sud), che vogliono vivere come «cicale», e nella corruzione delle classi dirigenti, che in realtà hanno sempre svolto un ruolo nella divisione internazionale del lavoro e del potere.

Il blocco di potere neoliberista non può e non vuole «regolare» gli «eccessi» della finanza, perché il suo programma politico è ancora quello rappresentato dalle scelte e dalle decisioni che ci hanno portato all’ultima crisi finanziaria. Con il ricatto del default del debito sovrano, intende invece portare fino in fondo questo programma, di cui fin dagli anni Settanta fantastica la completa applicazione: ridurre i salari a un livello minimo, tagliare i servizi sociali per mettere il Welfare al servizio dei nuovi «assistiti» (le imprese e i ricchi) e privatizzare qualunque cosa.Per analizzare non solo la finanza, ma anche l’economia del debito, che la ingloba e la supera, nonché la sua politica di assoggettamento, siamo privi di strumenti teorici, di concetti, di enunciati.

In questo libro intendiamo tornare all’analisi del rapporto creditore-debitore compiuta dal Deleuze e Guattari con L’anti-Edipo. Pubblicato nel 1972 – e anticipando teoricamente lo spostamento che il Capitale avrebbe successivamente operato – questo testo ci consente, alla luce di una lettura della Genealogia della morale di Nietzsche e della teoria marxiana della moneta, di riattivare due ipotesi. Anzitutto, l’ipotesi secondo la quale il paradigma sociale non è dato dallo scambio (economico e/o simbolico), ma dal credito. Alla base della relazione sociale non c’è l’uguaglianza (dello scambio), ma l’asimmetria del rapporto debito/credito che precede, storicamente e teoricamente, la relazione tra produzione e lavoro salariato. Poi, l’ipotesi che vede nel debito un rapporto economico indissociabile dalla produzione del soggetto debitore e della sua «moralità». L’economia del debito riveste il lavoro, nel senso classico del termine, di un «lavoro sul sé», così da far funzionare in modo congiunto economia ed «etica». Il concetto contemporaneo di «economia» ricopre sia la produzione economica che la produzione di soggettività. Le categorie classiche della sequenza rivoluzionaria dei secoli XIX e XX – lavoro, sociale e politica – vengono attraversate dal debito e in larga parte da questo ridefinite. Occorre dunque avventurarsi in territorio nemico e analizzare l’economia del debito e della produzione dell’uomo indebitato, nel tentativo di costruire armi utili a combattere le battaglie che si annunciano. Poiché la crisi, lungi dal chiudersi, rischia di estendersi

vedi anche qui

Dettes et contradettes (effeffe)

Les usuriers pèchent contre nature en voulant faire engendrer de l’argent par l’argent comme un cheval par un cheval ou un mulet par un mulet. De plus les usuriers sont des voleurs car ils vendent le temps qui ne leur appartient pas, et vendre un bien étranger, malgré son possesseur, c’est du vol. En outre, comme ils ne vendent rien d’autre que l’attente de l’argent, c’est-à-dire le temps, ils vendent les jours et les nuits. Mais le jour c’est le temps de la clarté et la nuit le temps du repos. Par conséquent ils vendent la lumière et le repos. Il n’est donc pas juste qu’ils aient la lumière et le repos éternel.

J. Le Goff, La Bourse ou la vie.

La dolcezza di Giuseppe Bertolucci

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fotografia di Francesco Dal Bosco

(Casarola, 25 giugno 2011)

Resistere, fuori dall’umano

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di Marilena Renda

Si può credere alle schede librai? E alle quarte di copertina? Ma soprattutto, si può credere a un narratore che palesemente si compiace di essere inattendibile e in apertura di romanzo dichiara, chiamando in causa il suo ex-editore, di essersi stancato del sesso omosessuale, dei culturisti e dei loro muscoli, e che finalmente vuole convertirsi al romanzo “tradizionale” e affrontare da una prospettiva diversa (terza persona, narratore onnisciente) i nodi più intricati che agitano questi anni?

Menomale che ho un tumore.

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di Domenico Maione (un cronista napoletano).

La seguente è una storia liberamente ispirata a quella di Carmen Abbazia. Cassintegrata Fiat da tre anni a questa parte, separata, tre figli a carico (di cui due costretti a lasciare gli studi), è una tesserata Fiom e pertanto non è stata ancora reintegrata nell’opificio automobilistico di Pomigliano. I luoghi, i fatti e alcuni dei personaggi sono grossomodo corrispondenti alla realtà. Il finale è (paradossalmente) lieto, ergo inventato.

Celerità ed ordine. Misura e cadenza. Un pezzo qui, uno là, ognuno combacia con l’altro. Uno dopo l’altro, uno sull’altro, uno nell’altro, uno dietro l’altro, uno più un altro. Un’auto. Eppoi un’altra. E un’altra ancora. E ancora, e ancora. Decine, centinaia, migliaia. E ancora, e ancora. Sempre gli stessi movimenti. Reiterati, meccanici, inconsulti, involontari. “Pure gli amanti più affamati, a forza di baciarsi sulle labbra in eterno, si frantumerebbero gli zebedei”. Una risata, fugace. E poi ancora… reiterati, meccanici, inconsulti, involontari. Uno dopo l’altro, uno sull’altro, uno nell’altro, uno dietro l’altro, uno più un altro. Un altro e un altro ancora. I non rumori, i non colori, i non pensieri. Il non. Lo snervamento, la fatica. L’eden.

Antonio Pascale, l’agricoltura biologica, gli OGM

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di Giacomo Sartori

In “Pane e Pace” (Chiarelettere, 7,5 €) Antonio Pascale dipinge gli agricoltori biologici come esaltati che negano il progresso, dei nostalgici del passato. Ebbene, chiunque li frequenti anche solo occasionalmente sa che essi sono invece in genere più preparati, più aperti, più curiosi, dei loro omologhi “convenzionali”. Per il semplice motivo che per fare agricoltura biologica ci vogliono più attenzioni, più cognizioni, più intelligenza, più lavoro. Si usano armi meno “efficaci” (ma meno nocive), per sopravvivere bisogna compensare con il raziocinio e le conoscenze. Per questo l’agricoltura biologica – lo testimoniano i suoi manuali – è per definizione intimamente legata a quei progressi sperimentali, in particolare dell’agrobiologia, che Pascale stesso auspica. Ne fa anzi il suo cavallo di battaglia. Del resto l’agricoltura biologica industriale, da molti criticata (soprattutto per i suoi risvolti sociali), è ormai una realtà in molti paesi del Mediterraneo. E in Italia ci sono esempi di impianti di frutticoltura biologica estremamente automatizzati. Davvero Pascale, che lavora al Ministero della Politiche Agricole, lo ignora?

L’agricoltura biologica ha certo delle pecche (il rame impiegato come fungicida si accumula nel terreno, ci ricorda l’autore), per carità, ma ha gli immensi vantaggi complessivi, questo viene taciuto, di non danneggiare l’ambiente, di utilizzare poca energia fossile, di essere sostenibile nel tempo, di non insidiare la salute umana. Quando purtroppo la maggior parte delle nostre colture, anche purtroppo in Italia, portano a una grave diminuzione della fertilità del suolo, all’inquinamento delle falde (nella metà del territorio francese l’acqua delle falde non è potabile), e sono voraci di energia. Si può non essere d’accordo, si possono enfatizzarne i limiti e i difetti, si può essere ferocemente contrari, ma non si può negare, come fa Pascale, che essa sia una realtà seria, spesso molto interessante anche per le rese quantitative e per i redditi che assicura (essendo i prezzi maggiori). E perché prendersela con tale astio con i suoi sostenitori? Tra loro ci sarà certo qualche infatuato, ma la maggior parte sono persone sensate, che studiano e si informano, che reputano importante impegnarsi di persona. Sappiamo bene che senza l’impegno di tutti la battaglia per l’ambiente è persa.

Secondo Pascale, questa è la sua seconda filippica, l’agricoltura italiana sarebbe frenata da una posizione oscurantista, a suo dire dovuta alla sinistra (lui stesso però ci dice che anche i ministri di destra hanno avuto le stesse posizioni), nei confronti degli organismi geneticamente modificati. Secondo lui, fa molti esempi, i singoli gravi problemi che incontrano tante colture italiane, potrebbero essere risolti utilizzando piante modificate, se non ci fosse appunto questa medioevale opposizione. Sembra ignorare che le magagne che esemplifica sono purtroppo una costante delle attuali forme superintensive di coltivazione in frutticoltura e orticoltura (come anche nell’allevamento): risoltane una con moltissima fatica (e spesa), ne salta subito fuori un’altra, in genere più grave. E certo sarebbe bello poter venircene fuori solo con l’ingegneria genetica. Ma è un mito. Nella maggior parte dei casi le piante geneticamente modificate hanno dimostrato di parare parzialmente il problema per il quale sono state concepite, poi in genere gli svantaggi cominciano a superare i vantaggi. In molti casi lo scacco è stato totale. Questi sono i fatti ad oggi, anche se certo in futuro ci saranno dei risultati migliori, che tutti noi auspichiamo. E il loro impiego implica rischi di vario tipo e gravità, che purtroppo non sono ubbie della sinistra italiana (ma quale?), sono purtroppo realissimi, come dimostrano tanti studi. Non per niente l’Unione Europea, che Pascale non cita mai, e che condiziona le nostre scelte, ha optato una linea molto prudente, il cosiddetto “principio di precauzione”.

A dispetto del condivisibilissimo appello alla ragione contenuto nel capitoletto conclusivo, il testo di Pascale è un concentrato di pregiudizi, imprecisioni (spesso imbarazzanti), storture e omissioni. Certo, nell’introduzione mette le mani davanti, ci avvisa che lui non è uno specialista, parla da scrittore. Ma appunto questa sua posizione distanziata dovrebbe permettergli di aprirci a prospettive più ampie e più profonde. E invece le sue argomentazioni si servono della retorica stucchevole di chi solo contro tutti declama il vero, e sfruttano l’analoga emotiva parzialità, la stessa tendenziosità, che depreca nei suoi avversari. Conscio forse della propria debolezza, lancia a più riprese un appello a fidarsi “di chi ne sa più di me”. L’impresentabile bibliografia, composta di sette misere e disparate voci, non rappresenta certo un aiuto per chi volesse approfondire l’argomento.

[questo testo è apparso – in forma decurtata – su “Alias” del 10.06.2012]

video arte #3 – philippe parreno

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Philippe Parreno, No More Reality (The Demonstration), 1991.

 

Cacciatori allegri: Francesco Pecoraro

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La preziosa edizione del libro di Francesco Pecoraro, Primordio Vertebrale, delle Edizioni Ponte Sisto, per la sobria veste grafica mi ha richiamato alla mente o forse è stato un amico a suggerirmelo, quelle altrettanto eleganti della Quodlibet o della Pequod. Pequod, come molti sanno, è il nome della più famosa baleniera del mondo. L’immenso Melville ne immagina a bordo tre ramponieri, Queequeg cannibale del Pacifico, Daggoo l’africano e Tashtego un indiano originario del “Capo Allegro”. « Chiamatemi Tashtego. » Così ha scritto di sé Francesco Pecoraro ai primordi della rete e con il nickname Tash lo conoscono i naviganti. Francesco Pecoraro, se dovessi definirlo a parole mie, è un cacciatore allegro. Il suo è un cabaret filosofico, però, dove senso tragico dell’esistere incrocia il proprio cammino con quello comico del vivere. Vivere è una cosa, esistere la stessa però vista da molto in basso. In Tashtego/Pecoraro l’unico elemento metafisico è lo spazio e infatti la sua “visione del mondo” è laica come davvero poche in circolazione, secondo me. Che scrivesse poesie potevamo immaginarlo, dalle prose poetiche con cui ha raccontato in questi anni ogni possibile variazione dello spazio, sia nei suoi elementi costitutivi, diciamo naturali, che in quelli artificiali, ora un cavalcavia alla deriva di una periferia, ora una semplice piazza. Che scrivesse delle belle poesie l’ho scoperto con questo libro. A seguire, degli estratti che rispettano la successione delle sezioni secondo una mia selezione assolutamente arbitraria e soggettiva. effeffe

da Prime notti

Sarà fatale l’inverno di quest’anno,
giungendovi così,
come fuggendo
da una macchia in fiamme.
Il fiato grosso,
il corpo solo esteriormente
intatto.

*

Migrano uccelli,
appunto migratori,
le penne remiganti
aperte all’aria
e pensieri leggeri
evanescenti in testa.

*

 

Ed ecco l’aeroporto,
immobile, sospeso
tra l’aria respirabile
e quella adatta al volo.
Bisogna attraversarlo
in senso trasversale.
L’iter procedurale
che mi sospinge avanti
mi toglie ad una ad una
le ragioni del viaggio.
Il pavido trasogno
nella sala d’imbarco,
da dove s’intravede
un grande trapezio
sagomato
un cilindro imbutito
un’apice ogivale rivettato.
Ecco l’era del fuoco,
le tracce degli eccessi
di potenza aeronautica.
Porzioni di velivolo
tenute su con viti a testa piatta
sporche di bave d’olio
brunite da selvagge combustioni.
Da umano,
ridotto a passeggero,
coinvolto in un decollo,
trascinato in cielo.

da Madre acqua

Creste marine in movimento.
Lucide scaglie d’acqua.
Dorsi di leviatani in emersione.
Schiaffi di duri refoli ritorti,
come corde d’aria.
Strati concentrici di rocce,
come sezioni
di tonni giganteschi.
E cuspidi di mare
intorno ai promontori,
dove s’avvolge la corrente.
Questi i residui estremi
dei giorni miei
scaduti nell’Egeo

 

*

L’acqua la vedo gelida
e sento i sassi caldi.
La luce è inaccettabile
anche per gli occhi chiusi.
Il corpo mi si arrossa
e indolenzisce presto
dove tra pietre e ossa
non c’è che pelle e tela.
E pelle sente a brividi
i brividi dell’aria.
Il mondo non è fatto
per essere abitato

da Ultime notti

Quando stavo bene
dormivo pancia–sotto
restando a collo torto
per una notte intera.
Quando stavo bene
(in quell’aria inaudita)
sedevo su una sedia
di plastica, fissavo
l’orizzonte come
un’idea assoluta.
Quando stavo bene
spandevo nello spazio
fumo dalle labbra,
credevo si potesse
parlare all’infinito.
Quando stavo bene
mi amavo come corpo
mi carezzavo il petto
d’estate, i muscoli
plastici, contratti.

Quando stavo bene
leggevo ancora Conrad,
mi arredavo un futuro
che adesso se lo cerco
non lo trovo.
Quando stavo bene
non era come adesso.
Anche adesso sto bene
ma di meno.

da Sette rebus

Rebus sette

Mano a schermo sulla fronte.
Sole a scaglie all’orizzonte.
Il calore e questa luce
L’ombra (piano) si riduce
Una donna nuota a dorso
Sulla pèsca vedo un morso.
Sdraio poste sulla riva
La medusa ancora viva.
Tra le labbra c’è un capello.
Muore il granchio nel secchiello.
L’aria è piena di richiami.
Poi ti guardo: forse m’ami.

Correre lungo il bordo del precipizio: Bolaño selvaggio

9

di Enrico Macioci

È uscito per Senzapatria editore Bolaño selvaggio, a cura di Edmundo Paz Soldàn e Gustavo Faveròn Patriau e tradotto egregiamente da Marino Magliani e Giovanni Agnoloni. Si tratta d’una raccolta di venticinque saggi suddivisi in quattro sezioni (la percezione del mondo, la politica, l’estetica, le genealogie letterarie del cileno), più un’introduzione e due interviste inedite. È un libro che definirei necessario, perché mette a fuoco un narratore complesso e cruciale della contemporaneità, in Italia non ancora studiato a dovere.

La decifrazione di Roberto Bolaño si rivela ardua per almeno due motivi: 1) egli giunge a una pubblicazione costante e visibile tardivamente, intorno ai quarant’anni, ma da allora in avanti pubblica un libro l’anno, lasciando deflagrare l’energia letteraria accumulata nel tempo e accorciando le fasi d’un ordinario sviluppo; 2) si situa, da un punto di vista stilistico e formale, in un territorio di confine, a metà fra poesia e prosa e fra racconto e romanzo.

Il volume di Senzapatria, attraverso un caleidoscopio di voci che suonano però armoniche e coerenti, mette ordine all’interno dell’abbondante produzione di Bolaño, sgranando i nodi estetici che essa impone a ogni lettore accorto. Per esempio appare chiaro che certi libri sono emblematici della parabola di Bolaño, e si susseguono con regolarità passandosi il testimone d’una ispirazione in costante ascesa; sono La letteratura nazista in America (1996), I detective selvaggi (1998), Amuleto (1999), Stella distante (2000) e 2666 (2003, postumo, il capolavoro assoluto e la summa poetica). Come sottolinea Ignacio Echevarrìa nel magnifico pezzo dal titolo Bolaño extraterritoriale, le opere del cileno posseggono quella che, appoggiandoci alle nozioni della fisica, potremmo definire frattalità; sono cioè, a prescindere dalle dimensioni, schegge appartenenti allo stesso meteorite, parti d’un insieme enorme riprodotto ogni volta più o meno in piccolo ma con eguale efficacia e pregnanza; sono insomma opere sia autonome sia funzionali a un grandioso progetto collettivo – e in ciò Bolaño somiglia a tanti autori davvero padroni del proprio cosmo immaginativo, autori che lavorano sempre al medesimo progetto, che hanno una “missione”. Così Stella distante si riallaccia – riprendendo l’inquietante figura del poeta/aviatore/torturatore Carlos Wieder – all’ultima parte de La letteratura nazista in America, mentre Amuleto amplia un episodio de I detective selvaggi e lo stesso I detective selvaggi riecheggia in 2666, specie per quanto concerne i luoghi decisivi (in entrambi i casi il lembo oscuro del Messico dove sorge la città dei femminicidi Ciudad Juarez, nella finzione bolañana Santa Teresa).

Ma il volume di Senzapatria è esaustivo pure nell’analisi dell’originalità strutturale introdotta da Bolaño. Grande scrittore di racconti, romanzi brevi e romanzi-fiume, Bolaño giunge a mescolare i generi e le forme fino ad abolirne i confini e disperderne le tracce, creando un’ambiguità fertilissima, inedita e avvincente, e traversando un territorio dai molti angoli inesplorati. In tale audace procedere è aiutato dai trascorsi di poeta; per lui ciò che davvero conta è un ritmo interiore, una lingua che risuona nella lingua, nascosta eppure luminosa, irresistibile e rivelatrice; e la sua abilità tecnica non gl’impedisce mai di mollare le briglie, la sua scaltrezza non diventa mai una gabbia, la sua sterminata cultura è sempre al servizio dell’ispirazione – un’ispirazione capace di mantenersi fresca per centinaia di pagine.

Un altro punto/chiave di Bolaño selvaggio è la centralità di 2666, l’immenso romanzo postumo; un romanzo che getta sulla produzione antecedente, pur già vasta e profonda, una luce nuova ed enigmatica, come una torcia d’un tratto accesa in un crepaccio, fissando in via definitiva i temi che ossessionarono lo scrittore: la figura (esistenziale prim’ancora che letteraria) del poeta, la nozione di fuga o rinuncia o sparizione (non dimentichiamo che Bolaño ama e ammira Rimbaud, il primo grande autore “assente” della modernità), l’amore, l’esilio, la violenza, il Male puro (incarnato nel romanziere invisibile Benno Von Arcimboldi, che in gioventù partecipa alla seconda guerra mondiale e in vecchiaia risiede nella città maledetta di Santa Teresa, costituendo un trait d’union fra nazismo e femminicidio, i due buchi neri della vicenda, il doppio satanico, il doppio 666 del titolo, c’è da supporre).

Segnalo infine, oltre a quello già citato di Echevarrìa, alcuni saggi davvero brillanti (ma tutti hanno qualcosa da dire): quello di Peter Elmore, che analizza la componente escatologica e quasi mistica presente in 2666; quello di Rodrigo Fresàn che sottolinea l’approccio “eroico” e mai patetico di Bolaño nei confronti dell’arte – o dolce condanna – di scrivere; quello di Ròdenas che istituisce un parallelo fra le due opere-mostro di Bolaño,  e cioè I detective selvaggi e 2666; oppure quello di Carmen Boullosa che con splendida, malinconica poesia rievoca gli anni settanta di Bolaño e degli infrarealisti a Città del Messico, in un clima culturale eccezionalmente fertile, fra Octavio Paz e Efraìn Huerta, Garcìa Ponce ed Elizondo, De la Colina e Verònica Volkow, Tomàs Segovia e molti altri ancora.

Vorrei concludere citando le parole che Bolaño pronunciò in occasione del discorso di Caracas, dove ritirò il premio Ròmulo Gallegos, riportato all’inizio del volume. Egli, scrittore senza fissa dimora per eccellenza, nomade per necessità e vocazione, sradicato, esule e vagabondo dall’infanzia alla maturità, sta parlando della patria dello scrittore finché sterza e afferma brusco: “Le patrie possono essere tante, ma il passaporto può essere uno solo, e quel passaporto è evidentemente la qualità della scrittura. Il che non significa scrivere bene, perché chiunque può farlo, ma scrivere meravigliosamente bene, e nemmeno quello, perché chiunque può scrivere anche meravigliosamente bene. Cos’è, allora, la scrittura di qualità? Be’, quello che è sempre stata: saper infilare la testa nel buio, saper saltare nel vuoto, sapere che la letteratura è fondamentalmente un mestiere pericoloso. Correre lungo il bordo del precipizio: da una parte l’abisso senza fondo e dall’altra i volti amati, i volti amati sorridenti, e i libri, e gli amici, e il cibo.” Ecco, Roberto Bolaño è tutto qua – specie nell’accenno agli amici e al cibo; il resto è letteratura.

Incontinental jazz : Franco Bergoglio

4

Lamento per l’Emilia colpita: Capannoneide.
di
Franco Bergoglio

Due parole. Il testo Capannoneide, ode a una fabbrica vuota è stato scritto nel gennaio di quest’anno e recitato il 29 marzo scorso, in occasione dello spettacolo della Enten Eller Orchestra E(x)stinzione . L’anniversario dei 25 anni di attività di Enten Eller, uno dei più importanti ensemble dell’avanguardia italiana, è servito per tracciare un bilancio del nostro tempo non esclusivamente musicale.

LEGGI QUI ARTICOLI, FOTOGRAFIE E VIDEO TRATTI DA “E(X)STINZIONE

Sono passati meno di due mesi da quella serata di musica e riflessione collettiva e il drammatico presente con il terremoto in Emilia Romagna, i crolli di strutture semi-nuove che dovrebbero ALMENO ospitare in sicurezza chi lavora e non solamente violentare l’ambiente del nostro martoriato paese..segnano il ritorno alla realtà. Alcuni si riempiono la bocca col termine industria, ma qui abbiamo contenitori di una produzione che ricatta e spesso fugge dalle responsabilità sociali per inseguire la massimizzazione di un profitto senza regole. Non voglio che Capannoneide diventi un testo tristemente profetico. Lo desidero utile a cambiare le regole e le cose. Migliorare -come peggiorare, del resto- è nella natura umana. Sta a noi fare qualche passo in una direzione o nell’altra.

CAPANNONEIDE. ODE ALLA FABBRICA VUOTA

Gli egizi avevano le piramidi, i greci i templi. I romani -che erano pragmatici- ponti e acquedotti.

E noi cosa lasciamo? Falli di vetrocemento, monumenti al valore per metro quadro e capannoni vuoti. Pericolanti quinte teatrali di siderurgia urbana, vecchie tigri dalle viscere rugginose, ciminiere di denti rotti.

Una volta c’erano le industrie: tronfie della ricchezza che producevano. Grandi macchine, grandi numeri; capacità manuali e intellettuali.

Oggi abbiamo i capannoni. Poveracci. Il capannone è un grasso incapace, figlio di un Brambilla minore che abita con la famiglia nella villetta adiacente, sperando che la Guardia di Finanza non arrivi o addio nero. Capannoni abbandonati, che non possono delocalizzarsi, emigrare dove si pagano meno tasse, cercare paesi con tanti operai e nessun sindacalista.

Capannoni innamorati di un padrone che non ricambia e li tradisce in Corea, Tunisia, Messico, Polonia, Cina.

Cuori crepati di cemento e spine in attesa di un nuovo piano regolatore. In coda per diventare centri fitness o supermercati. Loft per architetti. Covi per spacciatori, casa per clandestini disperati. Scheletri spolpati di macchinari emigrati a Oriente in cerca di fortuna, location per musei.

Pavimenti impregnati di oli esausti, orchi di fuliggine, pance di scorie, muri cotti dagli altiforni, nervi elettrici saltati.

Capannoni ex tutto, suolo sterile di frigorifero vuoto.

Diventano mercatini dell’usato, mobilifici, spazi per stoccaggio di merci, magazzini per la frutta e verdura. Altri, fortunati, si trasformano in cinema multisala. Dalla catena di montaggio alla macchina per il pop corn! Se proprio va male si spiana tutto e si fa un parcheggio.

Nei labirinti di autostrade si intravedono gli outlet: oasi di capannoni addirittura belli, miraggi per viandanti consumisti. Fruscio di vestiti, tazzine, tasti, telefoni, cassiere sorridenti, carte di credito svolazzanti, sottofondo musicale. La gente vi compie sacrifici costosi, nel nome del prodotto interno lordo.

E a nessun bambino viene spiegato che stiamo imparando a vivere respirando veleni e che la terra è finita, prima dell’ossigeno.

Autori e parassiti: il videogioco oltre le major

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di Paolo Pedercini

Ripubblico l’intervento che Paolo Pedercini di Molleindustria ha tenuto il 29/4/2012 a Game Bang! Gamerz Talk, una due giorni di dibattiti sulla cultura videoludica alla Triennale di Milano. L’originale è qui. JR

Oggi voglio parlare di una duplice tendenza, di una biforcazione che sta avvenendo nel mondo dei videogiochi.

Ci siamo abituati a considerare quella dei videogiochi come un industria culturale. Un’industria che negli ultimi 10-15 anni si è consolidata con un modello simile ad hollywood: poche compagnie di produzione, budget sempre più elevati e tematiche e generi abbastanza prevedibili.

Ma questo compatto blocco industriale è da qualche tempo eroso da due versanti, o meglio, dilaniato da forze diametralmente opposte che in mancanza di termini migliori chiamo Autori e Parassiti.

Gli Autori (o Artigiani se il termine è troppo pretenzioso) è il fronte degli sviluppatori indipendenti. E’ in corso un’emorragia di menti creative, di persone che decidono di non scendere a patti col suddetto modello industriale e preferiscono mettersi in proprio.

Gli Autori tendono a considerare il videogioco come una forma culturale e non un mero oggetto tecnologico; adottano un modello dell’impresa di tipo artigianale e considerano il game design come una forma d’arte badate bene, parlo di design, non di semplice sviluppo.

Ciò che muove l’autore è il desiderio di espressione personale, il desiderio di raccontare una storia o un sistema, di creare un mondo attraverso una forma giocabile. (Questi sono i presupposti del mio progetto Molleindustria che racconterò il 22 Maggio, quando sarò a Milano di persona).

L’altro fronte di trasformazione è quello che per comodità chiamo i Parassiti.

Mi riferisco agli sviluppatori di Social games come Zynga, i creatori di Farmville e dei giochi su facebook più popolari.

In soli quattro anni, Zynga è diventata una delle compagnie più quotate nell’industria, con qualcosa tipo 200 milioni di utenti attivi (almeno così dicono) e col pressochè monopolio del gaming su Facebook.

Ora voglio chiarire subito che non uso il termine parassita nel senso più comune, come ad indicare qualcuno che non lavora, che sta a carico di qualcun altro eccetera.

La mia metafora è più vicina alla realtà biologica del parassitismo. I parassiti sono specie estremamente dinamiche che co-evolvono assieme agli organismi ospite. La relazione fra parassita e ospite è una continua competizione fatta di sotterfugi e manovre difensive.
Inoltre i parassiti sono maestri nel condizionamento dei comportamenti.

Prendete ad esempio questa specie di verme chiamato Leucochloridium paradoxum che vive nelle feci di animali. Certe specie di lumaca si nutrono delle feci e ingeriscono il parassita, il quale si espande al loro interno provocando il rigonfiamento delle antenne che vedete. Le antenne diventano queste estremità pulsanti molto visibili che assomigliano a bruchi o a larve che sono le prede favorite degli uccelli. Come se non bastasse, il verme in qualche modo riesce a controllare il comportamento della lumaca spingendola ad arrampicarsi sulla sommità delle piante dove diventa facile preda degli uccelli.

Nel caso non fosse chiaro, l’organismo ospite principale è proprio l’uccello, dove il parassita cresce e si riproduce e la lumaca è solo un intermediario. E’ un strategia di sopravvivenza geniale, ed è il frutto di evoluzione più o meno graduale e più o meno automatica, senza libero arbitrio, senza intenzionalità.

Tornando a noi, è con questa forma di perversa ammirazione che mi permetto di definire Zynga un parassita.

Zynga è la cosa più diametralmente opposta alla concezione autoriale ed artigianale del gioco a cui ho accennato prima. Il suo modello di businness è più simile alle startup della silicon valley – e finanziato dagli stessi capitali. Dipende in buona parte sui media sociali come Facebook (questo è il primo livello di parassitismo).

Il design di questi prodotti è incentrato sull’analisi e la manipolazione del comportamento dei giocatori è un processo scientifico che rimuove l’intenzionalità autoriale a favore della metrica.

Ogni interazione all’interno di questi giochi viene misurata e ciò che funziona, ciò che cattura l’utente viene espanso, potenziato e generalizzato.
E’ un modello iterativo di sviluppo, flessibile come le piattaforme di web 2.0. I giochi vengono raffinati in continuazione, non sono mai completi.

E’ un modello che rifiuta l’innovazione e l’originalità. Il C.E.O. di Zynga è negli annali per aver dichiarato “I don’t fucking want innovation” (non voglio la fottuta innovazione). Infatti più o meno tutti i giochi di Zynga sono copiati da altre compagnie. E questo è un altro livello di parassitismo.

Ma il successo commerciale di Zynga non è solo una questione di misurazione, flessibilità e mancanza di scrupoli. Alla base del social games c’è un modo relativamente nuovo di concepire l’attività ludica in generale.

Fin dalla notte dei tempi gli ingredienti principali del gioco competitivo sono due:

Il primo è la fortuna (o il caso, o il caos). I giochi di dadi, il gioco dell’oca o la slot machine sono giochi di pura fortuna.

L’altro è l’abilità, la destrezza (lo skill). I giochi di strategia come gli scacchi sono puramente basati sull’abilità.

Il primo trattato sui giochi, Libro de los Juegos (1283), si occupava proprio di questa tensione fra caso e abilità esaminando scacchi e una variante del backgammon.

Ancora oggi nella maggior parte dei giochi di carte, dei giochi in scatola e dei giochi elettronici queste componenti sono presenti in varie misure. In certi casi come negli sport, la componente aleatoria è meno formalizzata e consiste nell’imprevedibilità del campo di gioco, il rimbalzo della palla eccetera.

I social games come Farmville sono incentrati su un’altra componente che è il tempo, o il denaro, investiti nel gioco.
Tempo e denaro sono di solito sono presentati come quantità intercambiabili – come del resto lo sono nella vita di tutti i giorni sotto il dominio capitalistico.

Ovvero sei un giocatore migliore non se acquisisci una superiore abilità e padronanza del sistema, non sei sei più fortunato, ma semplicemente se investi più tempo o denaro nell’attività ludica.

Non è una cosa del tutto originale.

Anche nei giochi di carte collezionabili come Magic sei più potente se acquisti più carte. Non è l’unico fattore, ovviamente, ma è cruciale. è un hobby costoso.

Anche nei giochi online come World of Warcraft acquisisci un vantaggio se spendi più tempo a migliorare il tuo personaggio, a uccidere più mostri o ad eseguire altre attività triviali.

Come sappiamo queste meccaniche basate sul tempo hanno creato distorsioni come i gold farmer cinesi.

Certi giocatori benestanti occidentali non hanno tempo o voglia di spendere ore a “migliorarsi” e quindi pagano altre persone, che si prestano a fare questi attività poco entusiasmanti. La transazione avviene acquistanto denaro virtuale o oggeti virtuali guadagnati da questi lavoratori a basso costo. E’ uno scambio di denaro per tempo: lo stesso principio della donna delle pulizie.

In World of Warcraft è una pratica illegale ed è malvista dalla maggior parte dei giocatori e dalla Blizzard, la proprietaria di WoW.

Ora, l’intuizione di Zynga, o quantomeno l’intuizione copiata e perfezionata da Zynga è quella di sfruttare questa dinamica come modello di business.

Prima viene creato un sistema che premia esclusivamente l’investimento di tempo in attività triviali. Poi vengono fornite scorciatoie attraverso il pagamento di denaro.

In parole povere, se vuoi comprare un granaio virtuale, puoi lavorare il campo o spendere soldi veri. E il granaio non è altro che un’immaginetta associata al tuo utente. è una merce virtuale che a Zynga non costa praticamente nulla.

I giochi “sociali” sono estremamente accessibili, di solito basati sull’accumulazione, e forniscono ricompense sicure, deterministiche: lavori un tot, guadagni un tot.

Ora, per un giocatore competitivo non è una prospettiva particolarmente allettante, ma il sistema di gioco è attraente per un utente in cerca di un passatempo e soddisfazioni facili, in cerca di una giustizia, di sicurezza, di una fantasia di consumo che non non può inverarsi nel mondo reale.

A questo punto il game design consiste nell’analizzare questo principio del piacere, massimizzare la dipendenza del giocatore ed imparare ad indirizzare i comportamenti del giocatore verso il consumo di merci senza alcun valore d’uso. Così come in natura i parassiti più avanzati hanno imparato a controllare le menti degli organismi ospiti e spingerli a comportamenti autodistruttivi.

"An Indian Ball-Play" by George Catlin, circa 1846-1850.

La componente “sociale” di questi social games, ha poco a che vedere con la socialità e la ritualità dei giochi folkloristici o delle attività sportive che sono legate ad un’idea di condivisione e di festività.

Al contrario, le relazioni umane sono mercificate su vari livelli.

Chiaramente anche i social network come Facebook estraggono profitto dalle relazioni e sono una forma di parassitismo che si nutre di relazioni reali; ma quantomeno facilitano o creano nuove forme di socialità. Il tipo di legami deboli che avvengono attraverso Twitter non sarebbero possibile senza Twitter.

Ma i social games (quelli contemporanei quantomeno) non creano nuove relazioni e non rinforzano quelle esistenti, piuttosto le costringono in una logica di scambio, spingendo il giocatore a considerare amici e altri utenti come risorse.

Creando meccanismi di interdipendenza fra giocatori.

Utilizzando i legami sociali esistenti per far circolare il prodotto ed espandere l’utenza.

O, ancora, sfruttando il desiderio di validazione reciproca.

Questo è un tipico esempio creatività ed espressione all’interno di Farmville. Ogni tile, ogni pixel che compone questa immagine è il residuo di una certa quantità di tempo o denaro assorbita da Zynga.

In altri casi i social games trasferiscono attività ludiche esistenti in una sfera digitale controllata dalla queste compagnie. Il Poker online per esempio e il gioco più popolare fra quelli offerti su Facebook.

O nel caso di Draw Something, che altro non è che una versione di Pictionary, per gente che non ha tempo o voglia di spendere una serata con amici dal vivo.

In Draw Something per essere un buon giocatore e rendere i tuoi disegni più riconoscibili devi acquistare pennarelli virtuali, pagando con una moneta virtuale che si ottiene vincendo un match o pagando denaro reale. è un altro esempio di manipolazione tramite validazione sociale, i designer ti mettono in una posizione di imbarazzo di default e ti danno la possibilità di redimerti attraverso il consumo.

Questa scienza della dipendenza e del controllo dei comportamenti sta riscuotendo tanto successo che in tanti stanno cercando di applicarla in ambiti non ludici. è ciò che viene chiamata gamification.

Nel marketing altro non è che una forma più avanzata e sistematica di strategie di fidelizzazione come le raccolte di punti o le carte di fedeltà.

Ma sistemi di incentivi, di interdipendenza e validazione sociale, possono in teoria essere applicati ad altri obbiettivi come smettere di fumare, fare esercizio fisico, o fare buone azioni.

La promessa è quella di estendere il dominio di quello che è quantificabile e controllabile tramite algoritmo. Prendere questa abbondanza di dati dell’era digitale, e “metterla a sistema”, attraverso sistemi calati dall’alto, progettati da direttori del marketing o da esperti di socialità online.

Ed è precisamente questo aspetto di essere progettati dall’alto ad essere problematico.

Gli apparati di controllo ideologico si aggiornano continuamente.

La generazione del dopoguerra era portata a credere che la televisione fosse una finestra sul mondo
e tutto quanto accadesse sullo schermo fosse vero perchè c’era un flusso di immagini a dimostrarlo.

La generazione precedente era ipnotizzata da cinegiornali e dalla nuova tecnologia del tempo, la radio, che in sia in Italia che in Germania era uno strumento chiave della propaganda di regime.

Abbiamo dovuto sviluppare degli anticorpi per disinnescare questi flussi di parole ed immagini. Abbiamo dovuto alfabetizzazarci per decostruire questi linguaggi, per leggerci gli intenti potere.

Abbiamo imparato a farlo attraverso immagini e parole altre.

C’è la possibilità che i giochi o che questi sistemi di condizionamento derivati dai giochi diventino la nuova radio, la nuova televisione, la nuova propaganda di regime o il nuovo modo per venderci quello di cui non abbiamo bisogno.

La maggior parte di noi non è pronta perchè non pensa in termini di sistemi complessi, non progetta meccanismi di incentivi, di penalità o rischio. Giochiamo perchè ci da piacere e non sappiamo esattamente perchè.

Per questo ora piu che mai è importante creare altri tipi di sistemi e fare in modo che più gente possibile abbia gli strumenti tecnici e concettuali per creare i propri giochi e per demistificare quelli altrui.

04/29/12 | | #